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Questa nuova edizione della mostra di Gaspare Landi, in Palazzo Montecitorio a Roma, dopo la prima in Palazzo Galli a Piacenza, si presenta con un catalogo che si avvia a essere, attraverso nuove acquisizioni, e fotografie di opere disperse, una monografia completa sul trascurato artista.
I ritrovamenti di opere inedite e sconosciute arricchiscono la mostra, mentre la visione diretta delle opere esposte nella precedente edizione ha consentito la puntualizzazione della cronologia con la miglior lettura di firme e date, alcune mai o male lette, e la ricusazione di opere spurie o infondatamente attribuite.
Così, ripulito e riorganizzato cronologicamente, il percorso dell'artista appare coerente e limpido, con un ventennio (1790-1810) di fervida e crescente elaborazione di idee nei soggetti storici, mitologici e religiosi; e di trepida, calda verità nei ritratti. La pubblicazione della fitta e interessantissima corrispondenza con Giampaolo Maggi e con il marchese Giambattista Landi, nel volume La vita a Roma nelle lettere di Gaspare Landi (1781- 1817), a cura di Ferdinando Arisi, consente ora di conoscere, con perfetta precisione, il momento e i tempi di esecuzione di molte opere non datate, concatenandole in una evoluzione stilistica coerente; e anche il raddrizzamento di alcune tentate indicazioni sulla sola base dell'analisi formale.
Così la ricostruzione dell'attività del Landi inizia subito con un dubbio. Saranno veramente tutte sue le sei tele ovate della Madonna di Campagna? L'attribuzione si fonda sulla testimonianza diretta dell'artista nella Vita pittorica del cavaliere Gaspare Landi scritta dal conte Federico Scotti della Scala, nel 1829, "sotto le istruzioni della viva voce dell'autore e dei carteggi seguiti fra l'autore e lo scrittore". Di lì a poco, il Landi, vecchio e malandato, sarebbe morto, e il suo ricordo si riferisce a un lavoro di cinquant'anni prima. Troppi (se si rammentano gli equivoci e le imprecisioni di Tiziano nel raccontare al Vasari la vita di Giorgione), per non consentirci qualche riserva. Nessun dubbio sulle due sante Chiara e Caterina che potrebbero andare persino d'accordo con le due "nuove" (1997) proposte di Federico Zeri (tele ovali, di identico diametro, 67 cm), una delle quali sembra coincidere con quella indicata nel prospetto dei quadri del Landi noti allo Scarabelli nel 1843: "Una giovinetta con una colomba pel chiarissimo abate Giampaolo Maggi" (a onore dello studioso cui questo riferimento non era noto). È in questo momento che il Landi sembra guardare agli esiti migliori di Ignazio Stern, di cui un'opera capitale è proprio in Santa Maria di Campagna. E così si intende anche l'interpretazione lirica del San Francesco. Più difficile riconoscere il Landi nel San Bernardino (ma lo sfondo con la cupola della chiesa, in dissolvenza fra le nebbie, è una soluzione magistrale), e soprattutto nel goffo e greve San Pietro d'Alcantara. Mentre Landi emerge tutto nel San Giacomo della Marca dove, per la prima volta, il pittore esibisce il suo speciale e veloce virtuosismo nella resa di stoffe, nastri e finiture d'oro con tocchi veloci e strisciati. Subito dopo, e già dotato di una mano così felice, il Landi parte per Roma dove, nel gennaio del 1781, lo sappiamo presso Rossane Landi, donna di ingegno e cultura, sorella di Giambattista, amico e protettore del pittore. La donna, letterata (aveva tradotto Anacreonte, Platone, Epitteto) e studiosa di storia, arte e architettura (aveva disegnato I cinque ordini architettonici), affida il giovane piacentino a Pompeo Batoni - e se ne ha un immediato riscontro, non tanto nel goffo Prometeo, ora a Monza, quanto nella Via del Vizio e della Virtù, veri e propri esercizi, quando non ripetizioni, sul modello del Batoni. Ed è proprio da quest'ultimo che il Landi deriva la considerazione per l'imitazione. Al Maggi, nel 1781, scrive: "Il signore Battoni mi favori- 11 Vittorio Sgarbi Per un catalogo delle opere di Gaspare Landi sce delle sue accademie, ed io le copio come posso e come so". Puramente batoniano è infatti l'Ulisse e Diomede rubano il Palladio, con cui Landi vince il primo premio dell'Accademia di Parma nel 1783. L'opera si allinea con la nuova sensibilità che, sempre a Roma, proclama J.L. David, dipingendo Il giuramento degli Orazi nel 1784, manifesto della "poetica della statua", incipit della pittura neoclassica. Nel 1785 Gaspare Landi dipinge un capolavoro di sorprendente modernità, fuori dai modelli classici, pur con il riferimento implicito alla nuova sensibilità archeologica, nel Ritratto di Don Sigismondo Chigi della Rovere a cavallo nella sua tenuta di Castel Fusano. Accompagnato da un altro cavaliere, Don Sigismondo si imbatte in alcuni reperti di antichità romane verso i quali ostenta un'immotivata indifferenza, mentre il sensibile compagno di gita freme di stupore e curiosità. È un'anticipazione del dialogo nel doppio ritratto dell'artista con il marchese Giambattista Landi, prototipo dello stesso gruppo del grande ritratto di famiglia di qualche anno dopo.
Tra il 1785 e il 1790 non ci resta, per via stilistica, che Il pianto di Venere su Adone (nel quale si cela il ritratto della contessa Pallavicini di Tabiano); mentre datata 1790 è la Vestizione di Ottaviano da San Severino da parte del beato Paolo Burali, in Santa Maria in Torricella di Piacenza. Troviamo la data 1790 anche nel Ritratto di Ranuzio Anguissola da Grazzano, dei Musei di Piacenza, e nella Ebe della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, primo capolavoro dell'artista in una compiuta equivalenza pittorica della scultura del Canova. Essa, osserva il Mellini, "nel suo splendore, esprime la felicità del nuovo approdo, apparendo, almeno finora, la prima realizzazione superstite pienamente neoclassica del Landi". È proprio questo testo così esplicito delle qualità pittoriche del Landi a farci escludere la suggestiva ipotesi del Mellini di attribuirgli l'Amore e Psiche del Museo Correr di Venezia, di fattura molto più stentata, e tipica del Canova, cui era sempre stato correttamente riferito. Allo stesso modo, il bel ritratto a mezza figura di Corona Scotti di Fombio impone di espungere, come già avevamo adombrato, la coppia di ritratti, a tre quarti di figura, di Federico Scotti della Scala e di Corona Scotti di Fombio, di esecuzione troppo scadente e corsiva. La data 1791 troviamo nell'Arianna della Galleria di Parma che sembra andare di concerto con la Lucrezia dell'Istituto Gazzola, da segnalare per i singolari effetti luministici sull'impugnatura e sulla lama del coltello, secondo un gusto dello scintillio e dei riflessi dei metalli che troveremo spesso nel Landi. Ancora 1791 leggiamo nel Matrimonio di Sara, tra le più belle composizioni di gruppo del pittore. Firma e data sono evidenti, sulla manica di Sara, e verificate nell'ultima ricognizione. Singolare che il Fiori e il Mellini insistano nel ritenerla dell'anno successivo: "Porta la data sicura del 1792", scrive il Mellini; mentre il Fiori la pone, assieme all'Arianna (anch'essa datata 1791), dopo, anziché prima, il soggiorno milanese del Landi, iniziato alla fine del 1791 e durato dieci mesi. Firmata e datata 1792 è, invece, la pala della chiesa parrocchiale di Casalbellotto di Casalmaggiore, riconosciuta ultimamente da Ulisse Bocchi (in una pubblicazione di limitata circolazione), e fin qui ignota agli studi sul Landi. Molto "romano" l'impianto monumentale con i due vescovi dagli abiti sontuosi.
Il 1793 è l'anno in cui il marchese Ranuzio Anguissola da Grazzano (da lui ritratto tre anni prima) commissiona al pittore due quadri di soggetto omerico, l'Incontro di Ettore con Andromaca e Astianatte, ed Ettore che rimprovera Paride, aulici e solenni esempi di "poetica della statua" con soluzioni compiaciute e d'effetto, come i riflessi di luci rosse sui fregi dorati dell'armatura di Ettore. A intenderne lo straordinario rilievo nella vita artistica piacentina e nella definizione del gusto neoclassico può essere utile ricordare il verso di Ippolito Pindemonte indirizzato al Landi: "Val la cetra d'Omero il tuo Pennello".
S'allineano nello stesso tempo, e nello stesso gusto, tra il 1794 e il 1795, il Paride e l'Ebe dei Musei Civici di Pavia. E questo momento di classicismo paradigmatico - come in un manifesto di poetica - culmina nel 1795 nella Pittura che piange sull'urna di Raffaello della Pinacoteca Ambrosiana e in Giacobbe chiede in sposa Rachele a Labano, della Galleria d'Arte Moderna di Milano, solennemente e sapientemente retorico, e ingiustamente denigrato dal Mellini. Sullo scorcio degli anni novanta non mancano numerosi ritratti tra i quali Il conte Giacomo Rota con il suo cane, siglato e datato 1798 (personaggio ricorrente nelle lettere per i ritardi nel pagamento), e la serie di piccoli ovati, ora in casa Schippisi, con il marchese e la marchesa Casati, il marchese Ferdinando Landi e la sorella, la marchesa Girolama. Di questo tempo sono anche l'affresco con Amore e Imeneo in Palazzo Scotti della Scala e una Madonna con il bambino, sofisticata reinterpretazione della Madonna della seggiola, da me rinvenuta nello stesso Palazzo Scotti della Scala, e di cui si rilevano lo stesso formato e la stessa cornice della serie Schippisi. Inoltre, il volto della Madonna appare ispirato da quello della marchesa Girolama Landi, addolcita e idealizzata in immagine della Vergine. In casa Landi si ricorda un Crocifisso del 1799, mentre nelle lettere del pittore seguiamo i tempi di esecuzione del San Giorgio e del San Giuseppe, commissionati dall'abate conte Nicolò Mandelli, attraverso il giovane marchese Ferdinando Landi, per la Chiesa delle Mose, che risultano terminati il quindici novembre 1800. L'undici marzo 1801 il pittore annota: "... per i due quadri Mandelli mi sono mangiati almeno cento zecchini del mio. Il cavallo (del San Giorgio) ch'io non avevo calcolato parlandomi in astratto di una figura per quadro ne è la causa!". È nella stessa lettera a Giambattista Landi che il pittore ci fa sapere di essere stato cooptato dall'Accademia di San Luca: "Questo grand'onore è tale ch'io non merito, ma (tra noi) non me n'importa niente, ed importano moltissimo trenta scudi che si pagano: un qualche quadro ed il proprio ritratto. Il mio Cav. Boni che è ancora qui e che è Accademico come architetto, dice che queste cose non vanno ne' cercate ne' rifiutate, ma io poi penso che il pane è caro. In ogni modo sarà difficile lo schermirsene onestamente, e senza traccia d'orgoglioso, non avendo ognuno alcuna ragione per esserlo, ed io meno di tutti gli altri. E' questa una verità che la sento ogni giorno più. Il Canova lo è pure, lo è di fresco il Benvenuti". Del Cav. Boni, di cui si parla, proprio nel 1801 il Landi fece il ritratto per l'Accademia di San Luca.
Non abbiamo ricordo del pittore per l'Antioco e Stratonice, scoperto dal Mellini, che mi pare affine (ma non è stata consentita una visione comparativa delle opere) alle Storie di Giuseppe, certamente dipinte tra il 1800 e il 1801 e consegnate al committente, Pietro Ghizzoni, entro quest'ultimo anno. E qui conta ripetere il giudizio dello studioso: "Se l'Antioco e Stratonice può ben dirsi un dipinto linguisticamente canoviano, dal punto di vista qualitativo esso sembra essere tuttavia superiore a quanto ci è noto del Canova pittore...
Al Canova non poteva sfuggire ciò che non sfugge a noi, cioè essere il piacentino in questi anni un pittore eccellente... Certo lo scultore non ha mai dipinto una figura dalla dolcezza trasognata quale la Ebe Tosio... né ha eseguito una storia sospesa e complessa, come quella di Stratonice". Ancora più singolare che, in tutto l'epistolario con il marchese Landi, abbiamo soltanto, in data dieci aprile 1801, un solo breve riferimento, ma utilissimo per sciogliere dubbi sulla data certa di esecuzione del gruppo di famiglia Landi con il pittore, a conferma del leggero appesantimento dei tratti di Ferdinando e Girolama Landi, rispetto a come si vedono nei due piccoli ovati, ora in casa Schippisi, certificati rispettivamente del 1797 e del 1799 dallo Scarabelli. E, benché il gesto confidenziale del braccio sulla spalla del pittore induca a riconoscere nel marchese in piedi Giambattista, non sarà inutile ricordare che, nella "Strenna Piacentina" del 1923, Giambattista è identificato con il marchese più anziano seduto, comunemente ritenuto Cristoforo. Nel 1802 il Landi ricorda di aver "lavorato un ritratto in mezza figura per la celebre Pellegrini, la più brava dilettante di canto di Roma, ed à molto piaciuto". Il dipinto è riapparso nella esposizione piacentina. Al tempo della sua esecuzione fu accompagnato da una lettera di riconoscenza, con una canzone della figlia della cantante: "Al merito sublime del signor Sig. Cav. Gaspare Landi che con incomparabile arte ha ritratta in tela la celebre Sig. Angela Maria Pellegrini, madre di Isabella, che in segno di gratitudine gli umilia la presente anacreontica". Forti sono le affinità di questo ritratto con quello della contessa Valeria Per un catalogo delle opere di Gaspare Landi 13 Tarnowska, reso noto dal Mellini, così come dell'Achille e Pentesilea (da me non conosciuto direttamente) con i grandi dipinti per il Duomo di Piacenza (1801-1804) di cui abbiamo bastantemente ricostruito le vicende nell'altro saggio. Tra le novità rilevanti di questa "revisione" vi è la diversa cronologia dell'Autoritratto della Galleria Borghese, dove il Landi, pur nei lineamenti evidentemente giovanili, sembra volersi divertire invecchiandosi (in un travestimento protodechirichiano), con una parrucca di sottili capelli bianchi; tanto da indurre la critica alla datazione avanzata 1825 circa. Inequivocabilmente il dipinto è invece firmato e datato: "Gaspare Landi dipinse se stesso in Roma nel 1806", nel gusto e nello spirito dei coevi ritratti di Antonio Canova della Borghese e dell'Accademia Carrara. A esso si accorda un'altra fortunata scoperta: il Ritratto del principe Ruspoli, fratello spirituale del Poupart (ritratto dal Landi nel 1804), e dipinto certamente a Roma in questi anni. In esso, in basso a sinistra, ho trovato la firma: "G. LANDI". Un altro dipinto inedito di questo momento, di grande qualità, è riemerso dalle stanze del castello del Cereto: è il Ritratto della contessa Antonietta Giacometti Gazzola di Settima, nell'elegantissimo vestito, con la cintura sotto il seno come la poetessa Bandellotti e la cantante Pellegrini, ma più ricco e elaborato, come si conviene al censo del personaggio. Prova tra le più intense della verità ritrattistica del Landi, Antonietta appare fragile e turbata, pur nella compostezza dell'"abito" neoclassico. A giudicare dal giovane aspetto della donna (morta nel 1831 all'età di 43 anni), il dipinto dovrebbe cadere tra il 1808 e il 1809.
È il tempo dei grandi temi di figura, mitologici e religiosi, la Morte di Camilla per Palazzo Gabrielli a Roma e la Salita al Calvario per la Chiesa di San Giovanni in Canale a Piacenza, nel pieno dell'intelligenza con il Camuccini, con il quale condivide anche l'impegno piacentino. Tra le altre novità si segnalano il riapparso Conte Ferrante Anguissola d'Altoè, che era stato esposto nella sala della Biennale di Venezia nel 1926, e la fin qui ignota presenza del Landi nel Museo di Roma, in Palazzo Braschi, con due opere di cui non v'è memoria nelle lettere del pittore, né negli studi del Mellini e dell'Arisi: un Ritratto femminile, firmato, databile verso il 1810-1815, e il Ritratto di Giovanni Battista Marsuzzi, probabilmente di un tempo più avanzato, verso il 1820. Su di essi, esposti ora a fianco delle altre opere del Landi, sarà opportuno approfondire la ricerca, e tentare una più precisa determinazione cronologica. Intanto, alla verifica della visione diretta, escono dal catalogo delle opere sicure il Ritratto della contessa de Haro Waldstein e il Ritratto di Madame de Monterey, generose attribuzioni del Mellini (benché sul retro della seconda si leggano la firma e la data 1810). Per la prima volta, infine, si pubblica un'immagine della Immacolata Concezione, per il Tempio di San Francesco di Paola a Napoli, commissionata da Ferdinando di Borbone nel 1824, iniziata a Roma e quasi compiuta nel 1827, per essere terminata, dopo cinque mesi di soggiorno a Napoli, nel 1828. Ancora, si propongono due dipinti, una Donna con cane e una Bambina con colomba, accompagnati da perizie di Federico Zeri. In effetti, essi potrebbero utilmente colmare il momento, povero di opere conosciute, tra il primo soggiorno romano, a partire dal 1781, e il ritorno a Piacenza nel 1787, anche con il conforto, come si è detto, dell'indicazione di un dipinto di soggetto corrispondente a uno dei due, tra i "quadri di Landi noti al biografo", Luciano Scarabelli. Omaggi al Landi, poi, sono la fedele riproduzione dell'Autoritratto, compiuta da Francesco Podesti per l'Accademia di San Luca nel 1877, derivandola, a suo dire, da un "mediocre" originale: l'Autoritratto del 1807, ora alla Pinacoteca comunale di Faenza; e una impettita reinterpretazione del nobile Joseffo Fioruzzi, del pittore piacentino Paolo Bozzini, datata 1850. Morto da molti anni, il Landi è dunque ancora vivo nella memoria dei pittori che ne hanno riconosciuto gli elevati pensieri sull'uomo e sulla storia.
Vittorio Sgarbi