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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'esame testimoniale di Alberto Chiara, giornalista, autore dell'inchiesta su Ilaria
Alpi pubblicata su Famiglia Cristiana il 29 novembre 1998. Faccio presente al signor Chiara che egli è ascoltato nella qualità di testimone, quindi con le conseguenze di legge, nel senso che si applicano le disposizioni del codice penale sulla falsa testimonianza e sulla testimonianza reticente. Naturalmente è un avvertimento formale cui sono tenuto per ragioni del mio ufficio, ben sapendo che non ve ne è alcun bisogno.
Vorrei pregarla di declinare le sue generalità.
ALBERTO CHIARA. Mi chiamo Alberto Maria Chiara, nato a Torino il 6 dicembre 1961, residente a Torino, via Camillo Riccio 66. Sono giornalista professionista e lavoro come inviato speciale a Famiglia Cristiana, per l'appunto. Dal 1998 insieme con due colleghi, Luciano Scalettari e Barbara Carazzolo, ci occupiamo del caso del duplice omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e, più in generale, del contesto, quindi di traffici di armi, di rifiuti tossico-nocivi, di scorie nucleari e nel corso di questi sei anni abbiamo pubblicato diverse inchieste, non solo quella cui lei si è riferito, signor presidente, nonché un libro per Baldini&Castoldi.
PRESIDENTE. Sì, conosco questi fatti. La prego di invitare Famiglia Cristiana, se possibile, a cessare gli attacchi nei miei confronti, anche se vi sono abituato, non c'è problema; comunque, se lei ha la possibilità di interloquire e di intercedere, lo faccia.
ALBERTO CHIARA. Va bene, ne prendo debita nota.
PRESIDENTE. Sono abituato agli attacchi, sia a quelli ragionevoli sia a quelli irragionevoli; non ho collocato quelli di Famiglia Cristiana né nell'una né nell'altra categoria. Siccome sono una persona onesta, penso sia giusto che si rifletta al riguardo.
Allora, ci dica cosa è successo quel giorno.
ALBERTO CHIARA. Posso, per onestà, dire come noi ci siamo mossi attorno a quel giorno.
PRESIDENTE. Le chiedo scusa, eventualmente mi farà attaccare, non c'è problema, ma noi vorremmo sapere innanzitutto ciò che lei ha visto il 20 marzo 1994.
ALBERTO CHIARA. Personalmente, null'altro che le immagini trasmesse dalla TV e le notizie arrivate in agenzia, se lei mi chiede cosa ho visto il 20 marzo 1994.
PRESIDENTE. Lei è stato in Somalia?
ALBERTO CHIARA. Sono stato in Somalia nel 1998, per l'esattezza nell'ottobre 1998, insieme con il collega Luciano Scalettari, con altri colleghi della TV svizzera italiana e di Radio popolare, divisi in due squadre (mi si passi il termine): tre - tra cui Luciano Scalettari - a Bosaso e Merca, mentre io andai a Mogadiscio e Chisimaio; ovviamente per andare e venire facemmo base a Nairobi. Ci siamo mossi partendo soprattutto da piste di traffici di rifiuti con notizie, indizi ed evidenze abbastanza rilevanti, segnatamente da una serie di rapporti medici, da una serie di fonti nostre - organismi non governativi, mondo missionario - che denunciavano casi non compatibili con l'Africa, non ebola, non febbre gialla, non malaria ma dal 1994, segnatamente a Merca, cancri tiroidei, malformazioni neonatali, sanguinamenti non spiegabili con la situazione africana, ovvero ancora nel 1997 misteriose esplosioni - il 5 ed il 7 dicembre - su cui indagava lo UNEP, l'ente ONU preposto alla difesa ambientale. Ancora, sempre per rimanere agli input medici che avevamo raccolto e che volevamo verificare in loco, morti registrate nel gennaio e febbraio 1998 per febbri emorragiche non spiegabili, la red fever insomma, nel basso Scebeli, verso sud. Ci siamo mossi anche con una serie di segnalazioni raccolte da varie fonti: ricordo a Londra un etiope che militava nell'opposizione a Menghistu e che aveva lavorato in Somalia tra il 1985 ed il 1992, il quale aveva già fornito alla
procura di Asti - so che avete sentito il PM titolare dell'inchiesta - una serie di indicazioni. Noi rintracciammo questa fonte che ci diede alcune indicazioni molto interessanti, tra cui Bosaso; quindi, se permette, citerei il passaggio che riguarda Bosaso, perché partimmo dall'Italia per la Somalia con questa dritta. La fonte raccontava di traffici di armi di provenienza sia dai paesi del Patto di Varsavia, isola di Socotra e poi commercializzate in Somalia, sia dalla zona NATO. Per quanto riguarda i rifiuti, indicò la regione di Merca dove erano scaricati molti fusti provenienti dal nord Italia sotterrati nella strada tra Shalamboi e Merca. Questo etiope, le cui generalità sono nelle carte di Asti, diciamo che come area di appartenenza era riconducibile all'opposizione, ai servizi di intelligence. Per quanto riguarda Bosaso ci colpì perché i documenti che aveva esibito, tradotti dal linguaggio originale, dicevano «in nessun caso si desidera che giornalisti italiani raggiungano Bosaso. Se in questo territorio dovesse essere individuato un qualsiasi giornalista italiano gli sarebbe inflitta una pena severa».
La stessa fonte - parlo dell'etiope da noi incontrato a Londra nel 1998, prima del nostro viaggio datato ottobre 1998 - ci parlò di Obbia (un po' a sud rispetto a Bosaso) come un posto da investigare, perché li nei pressi - e ci segnalò le coordinate geografiche: dieci chilometri direzione nord di Obbia, cinque dalla costa -, a suo dire, «esisteva ed esiste un deposito di rifiuti altamente tossici, probabilmente radioattivi». Noi incrociammo, per quanto può fare un giornalista investigativo, queste informazioni, segnatamente Obbia, e trovammo una conferma qua a Roma da una serie di fonti che segnalarono nella Penisola del Sale la presenza di uno di questi depositi. Andammo a Nairobi, chiedemmo ad un pilota italiano emigrato in Kenya di poter sorvolare quella zona. Quando precisammo le coordinate e spiegammo che non ci interessava tanto atterrare ad Obbia quanto sorvolare questa zona, il pilota, molto più anziano rispetto a noi ci disse «Ragazzi, vi tirano giù. So per esperienza diretta, perché ho portato lì delle cose, che è una zona interdetta. Non è possibile volare e non è nemmeno consigliabile tenersi fuori dalla portata di kalashnikov, perché è protetta con sistemi più invasivi, sistemi di missili spalleggiati». Non volle sentire ragione, non era una questione di prezzo; questo, lo ripeto, accade nell'ottobre 1998 a Nairobi.
A Nairobi ulteriormente trovammo un rapporto UNEP abbastanza interessante e, non sappiamo per quale motivo, consegnato a fatica dallo UNEP stesso, che rendeva ragione di un'inchiesta fatta da esperti dell'ONU - chimici e fisici, ma soprattutto chimici - su una parte (non tutta ovviamente) della costa somala: sono 3.300 chilometri, loro ne esaminarono nel 1997 una porzione, documentando una serie di spiaggiamenti, di ritrovamenti di rifiuti tossico-nocivi ed anche la morte di un pescatore nella zona vicina alla città di Brava. Forti di tutte queste informazioni, andammo in Somalia. Io, personalmente, mi recai a Mogadiscio; fui ospite di Marocchino, anche perché in quel momento non c'era altra possibilità, visto che per la perdurante situazione di guerra civile e il deterioramento del tessuto sociale non c'era nessun albergo; intervistai Marocchino, cui opposi tutta una serie di rilievi che (siamo nel 1998, a quattro anni dall'omicidio) già venivano fatti o da fonti di giurisprudenza, di inchieste penali, o da illazioni giornalistiche; lui oppose tutta una serie di sue verità. Per quanto riguarda i traffici di rifiuti, sostenne che ne aveva sentito parlare; semmai, indicò la zona di Alula come possibile zona di interramento; in ogni caso, sostenne che, a suo dire, era più probabile il dumping marittimo, cioè il gettare bidoni o, comunque, roba piccola nel golfo di Aden. Per quanto riguarda i rapporti con i servizi, ironizzò dicendo che, sì, ne aveva tanti, ma nel senso che consegnava nafta al nucleo di sicurezza dell'ambasciata, quando c'era, quindi aveva rapporti con agenti ma solo in questa veste, non in veste di informatore.
PRESIDENTE. Parlaste anche della costruzione della strada?
ALBERTO CHIARA. Esattamente, sì. Gli posi la domanda direttamente e lui disse che aveva partecipato alla costruzione, certo, perché è dal 1984 che è in Somalia e si è sempre occupato di macchine movimento terra e di trasporti. Quindi, non negò il fatto, ma assolutamente non fece nessun tipo di ammissione. E disse anche di non saper nulla al riguardo. Disse di più; disse «Non conosci la Somalia. La Somalia è una nazione in cui se fai un buco dopo un minuto hai dieci somali, dopo un'ora ne hai cento e se cerchi di nascondere qualcosa quella stessa cosa nottetempo viene tirata fuori e smembrata tra tutti». Come dire, irrideva quasi l'ipotesi, ritenendola assolutamente non veritiera.
PRESIDENTE. Ma le disse di questo interramento di fusti sotto il manto stradale?
ALBERTO CHIARA. Negò decisamente. Disse «Io non li ho fatti e io non li ho visti. In più, reputo assolutamente impossibile che possa essere avvenuto...
PRESIDENTE. Per questa ragione.
ALBERTO CHIARA. Per questa ragione.
PRESIDENTE. Che persona era, che faceva? Ufficialmente qual era la sua attività?
ALBERTO CHIARA. Io l'ho visto, l'ho conosciuto fisicamente nell'ottobre 1998, mentre presiedeva lo scarico di una nave: governava una gru e tirava su da una chiatta dei sacchi di aiuti alimentari. Il mio primo impatto è stato questo. Era ed è proprietario di una parte del porto di El Maan, una trentina di chilometri a nord di Mogadiscio. Quindi, diciamo, che l'attività è ancora nel campo dei trasporti, del carico e scarico di merci, tenendo conto che può farlo soltanto a spalle, cioè ha dei camalli e, se mai, ha una chiatta, non ha più la possibilità di avere delle gru e movimentare container, questo no; non mi risulta che nel frattempo sia stato possibile dotarsi di queste strutture. Ancora, mi raccontò di aver in animo di costruire una salina - non so se poi l'abbia fatto - e di attivarsi nell'ambito dell'industria farmaceutica, assieme ad alcuni soci. So per cento che aveva poi aperto, anni dopo, la Star Somaly Line, una linea di collegamento Italia-Somalia.
PRESIDENTE. Marocchino le ha mai parlato di suoi rapporti con i servizi segreti italiani?
ALBERTO CHIARA. Gli feci la domanda nel 1998. Gliela rifacemmo l'anno successivo, quando venne in Italia e lo intervistammo. In realtà, è una domanda che costantemente gli si fa. Ci sono stati due tipi di risposte: una a Mogadiscio, nel 1998, dove rispose con il tono, la cifra dell'ironia - cioè «sì, ho avuto dei rapporti ma in quanto consegnavo il gasolio» -; nell'intervista successiva, pubblicata nel 1999 da Famiglia Cristiana fu molto più serio, dichiarò di aver conosciuto l'allora colonnello, oggi generale in pensione, Luca Rajola Pescarini, disse di avergli parlato più volte, raccontò a registratore aperto (abbiamo ancora le bobine) che l'aveva anche invitato a pranzo una volta, poi non se ne fece nulla, e che era un rapporto del tipo che, sentendosi cittadino italiano, come ad altri lui raccontava, se richiesto, la situazione. Parlò poi di un incontro successivo (e noi pubblicammo nell'intervista) all'omicidio di Ilaria e di Miran e al ritiro del contingente, quando uno, non precisò chi, degli agenti rimasti a Mogadiscio...
ALBERTO CHIARA. Sì, dichiaratamente italiani. Si avvicinò a lui e gli disse «Lascia perdere, pensa ad altro, tanto questa è una storia che tra qualche giorno verrà dimenticata». Disse queste cose, noi pubblicammo l'intervista, lui la rilesse e la
controfirmò; non disse nulla dopo, quindi ne deduco che non ebbe a ridire di quanto pubblicato. Diciamo che è l'ultima versione che ci ha dato, come Famiglia Cristiana, sulla vicenda servizi.
PRESIDENTE. E di rapporti con servizi somali?
ALBERTO CHIARA. Con servizi somali non investigammo molto. Disse di aver avuto buoni rapporti sia con coloro che governavano a sud della green line sia a nord. Disse che per rapporti suoi personali, per sua indole, per il matrimonio che aveva contratto con la signora Faduma, era in buoni rapporti sia con il clan Aidid sia con il clan Ali Mahdi; e non era un millantato credito, io stesso ho avuto la possibilità di atterrare a nord e di ripartire a sud e sono stato «ceduto» dai miliziani, diciamo dalle guardie del corpo di Marocchino ad altri e tutto è filato liscio, quindi gli accordi sapeva prenderli e con chi prenderli, aveva i canali giusti.
PRESIDENTE. Cioè lui era in grado di tenere in buona armonia il nord con il sud?
ALBERTO CHIARA. Più precisamente, clan Ali Mahdi e clan Aidid, all'interno degli Habarghbir le due famiglie che si contrapponevano.
PRESIDENTE. È vero che gestiva il servizio delle scorte per i giornalisti?
ALBERTO CHIARA. Ho un'esperienza limitata al 1998, quando di giornalisti eravamo solo noi, non c'era il grande flusso.
PRESIDENTE. Le scorte ve le dava lui?
ALBERTO CHIARA. Sono stato scortato da suoi uomini, sì, sì.
PRESIDENTE. E di Ilaria Alpi le ha mai parlato?
ALBERTO CHIARA. Di Ilaria Alpi mi ha parlato in termini molto affettuosi, di ricordo affettuoso, come una che era stata ospite a casa sua, una che sapeva l'arabo, si sapeva muovere molto bene - quindi un apprezzamento professionale -, una per la cui morte ha pianto. E circa la famosa frase che il collega Francesco Chiesa filmò e il collega Lenzi registrò, cioè «sono morti perché hanno messo il naso là dove non dovevano», disse che era stata una frase detta d'impeto, di getto, che aveva detto senza avere precisi elementi e propendeva più per il rapimento finito male o la rapina fallita. E così disse di aver scritto e testimoniato al dottor Lamberto Giannini, funzionario DIGOS Roma che gli aveva richiesto testimonianza in proposito.
PRESIDENTE. Le disse che era intervenuto subito dopo l'attentato?
ALBERTO CHIARA. Sì. Questa, peraltro, era cosa nota, presidente, e cercai di andare oltre le cose note.
PRESIDENTE. Se aveva recuperato materiali, qualcosa?
ALBERTO CHIARA. No, questo no.
PRESIDENTE. Quindi, in buona sostanza, per il tramite di Marocchino o di altri, quali notizie avete avuto intorno alle cause e alle modalità dell'uccisione di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin?
ALBERTO CHIARA. Solo per Marocchino direi poco o nulla, nel senso che egli in un'intervista rilasciata nel 1999, poco prima di andare a deporre nell'aula bunker di Rebibbia - quindi ha ripetuto quasi tutto a verbale, nulla di nuovo sotto il sole -, disse di aver conosciuto personalmente uno dei killer; disse che non poteva farne il nome per problemi suoi di sopravvivenza in Somalia e disse che eravamo nell'ambito della casualità, non della causalità, e quindi propendeva per rapina finita male o rapimento fallito.
Altro il discorso per ciò che anni di investigazione ci hanno portato su Marocchino.
Ad esempio, l'ingegner Brofferio - è una testimonianza uscita pochissimo tempo fa -, che ha lavorato sulla Garoe-Bosaso negli anni 1988-89, ha dichiarato (e l'ha ripetuto anche al dottor Tarditi, probabilmente vi è già stato detto) che era stato avvicinato da Marocchino e gli era stato chiesto esplicitamente se poteva interrare dei container a patto di non romperne i sigilli. Brofferio, in accordo con la catena comando della sua azienda declinò l'invito e non se ne fece nulla. Ovviamente, Brofferio ci ha detto che non sapeva cosa i container contenessero, quindi siamo nell'ambito di una cosa un po' strana, diciamo. E - notizia attinta da poco, perché ne abbiamo avuto contezza da qualche mese appena - abbiamo saputo come è proceduta l'inchiesta penale sul suo conto quando è stato espulso dalla Somalia. Sapete che è stato arrestato dal contingente americano di Unosom nel settembre 1993; il 2 ottobre è stato aperto un fascicolo a suo carico...
PRESIDENTE. Nel 1993 lei non sapeva nemmeno dove fosse la Somalia!
ALBERTO CHIARA. Sapevo dove fosse la Somalia, ma non mi occupavo di Somalia, se è quello che voleva sapere.
PRESIDENTE. Sì. Perché volevo sapere se le risulti, magari per altro tramite, se all'epoca in cui Marocchino fu arrestato Rajola stava in Somalia.
ALBERTO CHIARA. Io, nel 1993, non occupandomi di Somalia, non sapevo nemmeno chi fosse l'allora colonnello Luca Rajola Pescarini. Successivamente, nelle carte della procura di Torre Annunziata - anche questa cosa probabilmente è a voi nota, perché avete sentito a lungo il maresciallo Vacchiano - risulta che il CESIS, rispondendo a una richiesta di questa procura, diede la scaletta di marcia di Luca Rajola Pescarini. E per quello che il CESIS trasmise al PM Paolo Fortuna, Rajola sembrava esser ancora a Mogadiscio il 20 marzo 1994.
PRESIDENTE. Questo è sicuro. Magari si era allontanato per bisogni corporali, non so...
ALBERTO CHIARA. La cosa è controversa, nel senso che Rajola poi, alla fine, diede altre versioni.
PRESIDENTE. Nel 1993 lei sa se stesse in Somalia?
ALBERTO CHIARA. No, non so rispondere a questa domanda.
PRESIDENTE. Ma il contingente italiano stava in Somalia.
ALBERTO CHIARA. Il contingente italiano stava in Somalia e Rajola diverse volte andò giù. Lo si evince dalla testimonianza resa, in primo luogo, davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla cooperazione, dove disse che, giustamente, per dovere di servizio, lui c'era. Però, quando adesso non saprei dirglielo.
PRESIDENTE. E come giustificava e motivava Marocchino il fatto che l'uccisione di Ilaria Alpi fosse una casualità? Faceva un ragionamento o aveva degli elementi? Esprimeva un'opinione o aveva dei dati concreti?
ALBERTO CHIARA. Entrambe le cose, perché, come le ho detto, egli asseriva di aver conosciuto il killer, di aver fatto delle investigazioni proprio per togliersi di dosso...
PRESIDENTE. Un killer occasionale, insomma.
ALBERTO CHIARA. Killer occasionale mosso dal desiderio di prendere il materiale...
ALBERTO CHIARA. ...che non avevano, ovvero di sequestrare a scopo di riscatto i due giornalisti italiani.
PRESIDENTE. Le faccio una domanda d'ambiente, poiché mi torna alla mente una cosa che ci è stata detta. Secondo la mentalità somala le aggressioni come quella di cui stiamo parlando non vengono perpetrate nei confronti di donne: le risulta questa particolarità, che ci è stata riferita in specie dall'avvocato Duale, che è l'avvocato del giovane che è stato condannato a 26 anni di reclusione?
ALBERTO CHIARA. L'avvocato Duale, essendo somalo, ha più conoscenza della mentalità somala di quanta ne abbia io.
ALBERTO CHIARA. Io non ho elementi né per confermare né per smentire, presidente.
ALBERTO CHIARA. Sì, Vincenzo Li Causi.
PRESIDENTE. Certo. Non liberissima, perché...
ALBERTO CHIARA. Bene, lei mi fermi quando lo ritiene opportuno. Posso partire da quello che credo le interessi di più: noi crediamo che si conoscessero.
PRESIDENTE. Chi, Li Causi e Ilaria?
ALBERTO CHIARA. Sì, Li Causi e la collega Ilaria Alpi.
ALBERTO CHIARA. Li Causi e Marocchino? Non so dire. Se posso dettagliare l'affermazione che ho fatto prima...
ALBERTO CHIARA. È probabile - ovviamente non ne abbiamo la certezza - che già ci fosse una conoscenza pregressa a Tunisi - parliamo di anni e anni prima - laddove Ilaria andò studentessa o poco più a perfezionare l'arabo e dove, peraltro, Vincenzo Li Causi era in missione. Abbiamo avuto persone che ci hanno detto con certezza che si conoscevano. Allora: Francesco Aloi, maresciallo dei carabinieri, e Giuseppe Attanasio, ufficiale dell'esercito italiano che era giù con il contingente Ibis. Ora non ricordo esattamente chi dei tanti, ma almeno un operatore disse che aveva avuto modo di vedere Ilaria parlare con uno e poi seppe che questo era uomo dei servizi. Mi rendo conto di essere vago, però è una terza pista. Sicuramente, Marocchino ci disse, a registratore aperto, che Ilaria gli aveva detto di poter verificare, confrontare le notizie che man mano acquisiva con persone, tra cui anche gente dei servizi, SISMI segnatamente.
PRESIDENTE. Non disse di altri tipi di rapporti della Alpi con Li Causi oltre questi?
ALBERTO CHIARA. No, no. Questi sono significativi perché, come tutti voi saprete, Li Causi muore in circostanza, anche queste, da chiarire. Nel novembre 1993 - quindi siamo qualche mese prima - avrebbe dovuto tornare in Italia per deporre circa una cosa di Gladio ed era sicuramente innervosito dal fatto che la partenza gli fosse stata posticipata (per carità, tutte coincidenze). Li Causi morì in un conflitto a fuoco, quando era fuori con Giulivo (detto Ivo) Conti, uomo del SISMI, e con tre militari dell'esercito italiano appartenenti al contingente; noi abbiamo avuto modo, come Famiglia Cristiana, di parlare a lungo con tre, uno dei quali è già in congedo e, effettivamente, le versioni divergono un po'. Quindi, ci sarebbe probabilmente materiale per andare avanti; ci risulta che l'inchiesta sia ancora aperta e ce l'abbia il dottor Ionta.
PRESIDENTE. Con la vicenda Rostagno avete fatto qualche accostamento?
ALBERTO CHIARA. Abbiamo fatto qualche accostamento, ma di nostro nulla. Abbiamo ripreso le affermazioni che vennero fatte all'epoca, vale a dire si racconta che Rostagno ebbe modo di vedere in un aeroporto dismesso vicino a Trapani, ovvero occasionalmente, partire degli Hercules che venivano svuotati degli aiuti umanitari e caricati di armi. Perché? Perché fonti nostre, ovvero fonti messe a verbale dal maresciallo Vacchiano e dal PM Paolo Fortuna, sostenevano la stessa identica cosa, vanno in quella direzione lì. Marco Zaganelli, sentito da Vacchiano a Torre Annunziata, asserisce di aver visto per un periodo di tempo, attorno agli anni novanta, arrivi settimanali di aerei Hercules senza insegne. Guido Garelli, persona tutta da scoprire ma comunque sentita da Maurizio Romanelli e da Luciano Tarditi, in alcune lettere ci disse che, effettivamente, gli Hercules potevano atterrare benissimo anche a Bosaso e il protocollo firmato da Guido Garelli, Ezio Scaglione e Giancarlo Marocchino a Nairobi nel giugno 1992, che dava seguito al progetto Urano (non vi tedio con la spiegazione di tale progetto, dando per acquisito che sappiate tutti cos'è) tutti hanno candidamente ammesso che conteneva una parte di aiuti umanitari ma la frase un po' criptica «e si dà poi atto di continuare per le parti note il progetto Urano anche in Somalia» si riferiva all'invio di rifiuti, ed era previsto anche l'arrivo di aerei Hercules, che potevano atterrare benissimo a Bosaso. Peraltro certi rifiuti, parlo di scorie radioattive, non hanno un ingombro molto ampio. Segnalo questo perché Guido Garelli ce lo ha detto diverse volte, e lo abbiamo anche potuto scrivere, ed anche perché riscontrato incrociando con altre fonti.
PRESIDENTE. Marocchino le ha detto perché Ilaria sarebbe dovuta partire con un giorno di ritardo rispetto alla previsione?
ALBERTO CHIARA. No, no. Con lui parlammo, avendo opinioni diverse, sulla scelta di Bosaso, ma non di date di partenza.
PRESIDENTE. Ma quando Marocchino le diceva che si era trattato di un omicidio occasionale, dovuto, come lei ha detto, o a rapina o a sequestro - anche se di rapina sembrerebbe, oggettivamente, non doversi parlare, a meno che qualcuno abbia portato via le cose che stavano lì, ma pare di no, e di sequestro vedremo -, lei era in grado di addurre argomenti, cioè circostanze di fatto, capaci di smentire questa ricostruzione? E se sì, l'ha fatto?
ALBERTO CHIARA. Sì ad entrambe le cose. Nel senso che Ilaria - e rientriamo tra le cose note quasi da subito - partì con piste ben chiare sulla mala cooperazione e a Bosaso investigò anche su eventuali...
PRESIDENTE. Questo lei lo sa perché glielo ha detto qualcuno?
ALBERTO CHIARA. Nel 1998 a me e agli altri colleghi era noto perché era già emerso dalla Commissione parlamentare sulla mala cooperazione, dal libro dei genitori e di Maurizi Torrealta questo aspetto dei taccuini di Ilaria. In più...
ALBERTO CHIARA. Lo conoscevo e opposi a Marocchino...
PRESIDENTE. Se io prendessi - faccio una battuta - subito per buono quello che lei mi dice, questo diventerebbe un atto della Commissione; un altro giornalista, bravo come lei, potrebbe prendere l'atto della Commissione e dire di averlo appreso, appunto, dalla Commissione: è una cosa assolutamente corretta. Io le domando: al di là degli atti che lei ha citato, questa circostanza l'ha appresa da altri, perché altri gliel'hanno detta, a cominciare da Marocchino, o no?
ALBERTO CHIARA. Quando abbiamo iniziato il rapporto di conoscenza, nel 1998, no; ci basammo sulle cose edite e note.
ALBERTO CHIARA. Adesso possiamo tranquillamente dire che gli indizi, le ipotesi sono più robuste, perché circa Bosaso si sono moltiplicate le fonti che indicano la città e la zona circostante come terminali di traffici di armi e di rifiuti. Cito Marcello Giannoni, il primo che mi viene in mente...
PRESIDENTE. Su questo non abbiamo dubbi.
ALBERTO CHIARA. Mi ha fatto una domanda e cerco di rispondere al meglio.
PRESIDENTE. Così non mi risponde. La domanda è un'altra: è se lei abbia saputo da altri che effettivamente Ilaria Alpi era partita con l'idea di fare l'inchiesta sulla cooperazione o su qualsiasi altra cosa.
ALBERTO CHIARA. Provo a rispondere come so. In prosieguo di tempo, sicuramente segnalo come importante - l'ascoltammo e ci colpì parecchio - la testimonianza resa in processo di primo grado da Faduma Mohammed Mamud, figlia di uno dei sindaci di Mogadiscio, la quale, il 16 giugno 1999 - ricordo bene la data perché venni a mia volta ascoltato e poi partii per Sana'a per andare ad intervistare Said Mugne - disse che Ilaria le parlò segnatamente di rifiuti. In più, Famiglia Cristiana intervistò il colonnello Franco Carlini, il quale disse di aver incontrato tre volte Ilaria Alpi: in una di queste, nel 1993, sotto il gazebo dell'ambasciata italiana (posso produrre l'intervista, signor presidente) Ilaria gli parlò di traffici, addirittura anteponendo, come importanza, quelli di rifiuti a quelli di armi; Carlini le ribatté che aveva visto troppi film, che egli non ne aveva mai sentito parlare, ma lei gli disse di avere delle informazioni. Così riferisce Carlini nell'intervista, quindi è una seconda fonte. Poi, sto facendo mente locale...
PRESIDENTE. Cerco di aiutarla. Questo riguarderebbe l'aspetto relativo a ciò di cui sarebbe venuta a conoscenza Ilaria, ma la mia domanda è un'altra.
ALBERTO CHIARA. Se partiva con...
ALBERTO CHIARA. Se lei mi chiede se sia partita da Roma, nel marzo 1994, andando a colpo sicuro sui rifiuti...
PRESIDENTE. Non dico a colpo sicuro! Le sto chiedendo se è partita per andare a fare un'inchiesta sui rifiuti, sulle armi, sulla cooperazione o su tutti e tre. Se a lei risulti direttamente o indirettamente.
ALBERTO CHIARA. Sulla cooperazione, penso che volesse investigare...
ALBERTO CHIARA. Gli appunti che sono stati ritrovati a Saxa Rubra lasciano pensare che una delle piste di investigazione fosse segnatamente la cooperazione.
PRESIDENTE. Questo lo sappiamo.
PRESIDENTE. Mi scusi, «direttamente o indirettamente» significa che lei sa per averlo saputo personalmente, e questo non è possibile, in quanto nel 1994 Ilaria Alpi non la conosceva..
ALBERTO CHIARA. Non l'ho mai conosciuta.
PRESIDENTE. Quindi è possibile solo «indirettamente»: dal 20 marzo 1994 ad oggi, indirettamente, attraverso altre persone, lei ha saputo se Ilaria Alpi avesse detto a qualcuno oppure se si sapeva obiettivamente che partiva per la Somalia per fare un'inchiesta: a) sulle armi, b) sulla cooperazione, c) sui rifiuti, oppure su a), b) e c)?
ALBERTO CHIARA. In Somalia investigò, chiese informazioni e ne parlò con
una figlia di un sindaco e con un colonnello dell'esercito italiano, Franco Carlini e Faduma Mohammed Mamud.
PRESIDENTE. Parlò di quello che aveva scoperto lì.
ALBERTO CHIARA. Sicuro. Questo sì.
PRESIDENTE. Questa è una cosa diversa. Quindi, non sa rispondere alla domanda.
ALBERTO CHIARA. È un signore della guerra, una delle fazioni in lotta all'epoca.
PRESIDENTE. Lei sa niente di una centrale di cogenerazione a Mogadiscio?
ALBERTO CHIARA. So, perché è emerso dalle indagini di Asti, che a un certo punto, credo nel 1996, è stato firmato un accordo che prevedeva la costruzione di una centrale di cogenerazione, con l'autorizzazione di Ali Mahdi, che si autoproclamava presidente ad interim della Somalia intera, e coinvolgeva il console onorario della Somalia in Italia, Ezio Scaglione, e, in qualche modo, Giancarlo Marocchino, perché da intercettazioni fatte dalla polizia giudiziaria di Asti risulta che questi chiese l'invio di rifiuti (cinquemila fusti, mi pare).
PRESIDENTE. Con questi traffici Marocchino non aveva niente da spartire: rifiuti tossici, marmi, niente?
ALBERTO CHIARA. Lui nega. Sappiamo che ci sono ipotesi...
ALBERTO CHIARA. Io, Alberto Chiara, e i colleghi abbiamo dato ragione di inchieste penali che avevano idee diverse in proposito. Poi sono state archiviate, ma...
PRESIDENTE. Per me va bene. Do la parlo ai colleghi che hanno chiesto di formulare domande: il primo iscritto a parlare è l'onorevole Schmidt.
GIULIO SCHMIDT. So benissimo, signor Chiara, che lei non può rivelare le fonti, ma le chiedo: in tutto il vostro lavoro, quante sono state le fonti originali che nessun altro ha ascoltato, o in inchieste o in altre situazioni? E, andando oltre: al di là di quanto è scritto nel libro - che, ovviamente, ho letto con molta attenzione -, c'è oggi la possibilità per la Commissione di ascoltare una o due di queste fonti, perché possono essere rivelate, oppure no?
PRESIDENTE. Mi permetto di inserirmi per dirle che lei ha fatto un grande lavoro, da grande giornalista, però sono dieci anni che non veniamo a capo di niente, a forza di fonti non rivelate. Lo Stato non rivela, i testimoni non rivelano, i servizi non rivelano, la Digos non rivela, chi viene qui non rivela, vogliano cominciare a rivelare o no?
ALBERTO CHIARA. Non pigliatevela tutti con noi!
PRESIDENTE. Siccome chi fa queste cose non può che farle con una sensibilità particolare, che è quella stessa per la quale stiamo noi prescindendo dalla diversità delle nostre opinioni politiche, che non vengono mai evidenziate e che, anzi, soffochiamo ogni volta, ritengo che ci vuole pure qualcuno che aiuti un organismo istituzionale ad accertare la verità. Questo è un discorso che per la prima volta viene fuori in Commissione e che faccio a lei, appellandomi alla sua sensibilità di cittadino. Quando verranno, poi, in questa sede personalità dello Stato, delle istituzioni, di servizi o non servizi, sapremo trattarli in maniera diversa, perché sappiamo già da adesso che non ci possiamo affidare alla loro sensibilità. Qui, invece, noi ci affidiamo alla sua sensibilità.
ALBERTO CHIARA. Sì, comincio dalla prima domanda. Diciamo che o perché
prima avevano già parlato con l'autorità giudiziaria, o perché in seguito alla pubblicazione di articoli nostri sono diventati - come dire - oggetto di attenzione da parte dell'autorità giudiziaria, se devo dare una risposta netta, la risposta è no, nel senso che tutte le nostre fonti, o prima o dopo, sono diventate a loro volta fonti di indagini.
GIULIO SCHMIDT. Quelle che sono state fatte dopo?
ALBERTO CHIARA. Ad esempio, l'ingegner Brofferio è successivo, lo stesso Carlini è successivo (parlo del colonnello Franco Carlini), Guido Garelli per alcune affermazioni...
PRESIDENTE. Voglio segretare questa domanda. Non essendovi obiezioni, dispongo, pertanto, la disattivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.
(La Commissione procede in seduta segreta).
PRESIDENTE. Riprendiamo i lavori in seduta pubblica. Dispongo la riattivazione del circuito audiovisivo interno.
Prego, continui.
ALBERTO CHIARA. Per quanto riguarda fonti coperte dall'anonimato, noi ne abbiamo una che è stata a sua volta, e mi risulta essere, fonte coperta di un corpo investigativo. Le informazioni di tale fonte sono servite per delineare uno scenario, nel senso che raccontava partenze da Spezia, carichi, società che movimentano le merci, aziende di provenienza, quindi, eventualmente, posso chiedere alla fonte se gradisce... È ovvio che in questo momento preciso vale il rapporto fiduciario giornalista-fonte.
GIULIO SCHMIDT. È, comunque, una fonte che ci può portare direttamente...
ALBERTO CHIARA. Ad Ilaria, direi di no...
GIULIO SCHMIDT. È il nostro compito.
ALBERTO CHIARA. ... perché a noi è servita per corroborare con le sue informazioni tutte le notizie di contorno, di scenario, cioè che effettivamente in quegli anni, cioè da 1990 al 1994, continuano alcune cose. Avvenivano e avvengono spedizioni non sempre legali, spesso non legali, di armi, piuttosto che di rifiuti, partendo da porti non sempre di diritto, perché c'è Spezia, ma c'era Ravenna, c'è Chioggia, c'è Savona, c'è Livorno. Allora, in quest'ambito, signor commissario, può essere molto utile, perché parla anche talvolta essendo non tanto distante per conoscenza diretta.
GIULIO SCHMIDT. Mi scuso per essermi assentato brevemente, ma sono andato in biblioteca a prendere dei libri. Per quanto riguarda Mugne, innanzitutto quali sono gli elementi fondamentali di convinzione che voi vi siete fatti, nell'ambito dell'intervista, e gli elementi che, invece, avete capito che erano devianti?
ALBERTO CHIARA. Premesso che Mugne, dal punto di vista giornalistico, va da sé, è personaggio abbondantemente scavato quando noi ci mettiamo in moto, non abbiamo approfondito; abbiamo cercato di battere altre piste, altre vie, con i risultati che possiamo mostrare; quindi, tutto da discutere, tutto da verificare. In ogni caso, noi siamo arrivati a Mugne dopo aver letto con attenzione, una volta sdoganate, con il deposito di atti, tutte le informative che aveva acquisito la procura di Torre Annunziata: lì Shifco è citata un bel po' di volte, in maniera bella rotonda, sia dal SISDE che dal SISMI. Si tratta di una serie di informative che datano 1993-94, le ultime ancora 1995: sulla base di quelle carte, che ci sembravano nuove, perché nessuno ancora le aveva tirate fuori, noi andammo a Sana'a ad intervistare l'ingegner Mugne, il quale si difese dicendo che non c'entrava nulla, minacciando querele, insomma con forza e mostrando a sua discolpa un passaporto pieno di timbri, che noi potemmo fotografare. Obiettammo
che timbri in Somalia in quel momento tutti e nessuno potevano metterne e, mancando un'autorità statuale, mancando una polizia di frontiera, era difficile prendere per buona una serie di timbri di uscita e di entrata. Obiettammo tutta una serie di cose che trovammo e valutammo originali rispetto a quanto i colleghi di RAITRE, i commissari della Commissione parlamentare sulla mala cooperazione avevano tirato fuori e pubblicammo, poi, la verità di Mugne, che negava tutto. Negò di aver conosciuto Samuel Cumings, altra cosa che, invece, emerge dagli atti di Vacchiano (inchiesta che non finirà mai di riservare interessati sorprese); negò di aver avuto mai a che fare con il notaio di Lugano presso il quale lavorò Elmo (non ripeto cose che avrà detto poco fa Vacchiano); negò tutta una serie di circostanze e ad avvalorare la sua tesi mostrò il passaporto con vari timbri: per Gibuti, vivaddio c'è un'autorità statale, per cui si può presumere che i timbri fossero veri, ma quando venivano mostrati timbri della Somalia, lasciavano un po' a desiderare e glielo facemmo presente. Pubblicammo perché, ovviamente, eravamo lì per sapere la sua verità. Poi, montammo le due versioni. Però, in sei anni, Mugne non è stato al centro della nostra attenzione, proprio perché era un personaggio già abbondantemente scavato.
GIULIO SCHMIDT. Secondo lei perché nell'appunto trovato successivamente sulla scrivania di Ilaria c'erano quelle tre parole chiave, di cui una, appunto, era Mugne? Quale consapevolezza Ilaria può aver avuto?
ALBERTO CHIARA. Mi chiede di riferire una sensazione, che riferisco come tale. Se io annoto una cosa sul taccuino è perché la reputo degna di essere approfondita e mi sembra del tutto evidente che chi aveva segnalato la cosa, l'aveva segnalata come una anomalia. So - non so se lo sapesse Ilaria, ma temporalmente quadra - che c'era già un esposto di Ugolini, della cooperazione, che segnalava una serie di irregolarità. Mi pare di ricordare che Ugolini presentò il suo esposto-denuncia alla magistratura nel 1992, fece una serie di lettere pubbliche di denuncia ad Andreatta, ministro degli esteri nel 1993; posso presumere che Ilaria lo sapesse, occupandosi di questo, e lì Shifco e Mugne costituivano uno dei punti su cui invocare l'attenzione.
GIULIO SCHMIDT. Non ricordo bene: fu mai indagato Mugne?
PRESIDENTE. Sì, a Torre Annunziata.
ALBERTO CHIARA. Forse anche a Roma.
GIULIO SCHMIDT. Mentre non fu iscritto nel registro degli indagati da Pititto: iscrisse il sultano ma non Mugne. Bene, rientriamo nel contesto Li Causi-Franco Oliva: mi sembra particolarmente interessante Franco Oliva, perché è vero che oggi può dire di essere vivo, ma è anche vero che potrebbe esserlo solo per una circostanza fortunata e potrebbe essere, invece, nel novero dei delitti precedenti quello di Ilaria. E c'è questo filo strettissimo Li Causi-Franco Oliva-Ilaria. Voi lo avete sentito Franco Oliva?
ALBERTO CHIARA. Sì, sì. L'abbiamo più volte sentito. L'intervista vera e propria fu una, ma abbiamo avuto modo di conoscerlo.
GIULIO SCHMIDT. Vi confermò di aver indagato sul contenuto e di aver fatto ispezioni ai capannoni di Marocchino?
ALBERTO CHIARA. Confermò, sì. Più che sul contenuto, da quello che lui ci ha raccontato, ed emerge anche dalle carte del Ministero degli affari esteri, lui era nell'unità di controllo economico-amministrativa e doveva verificare la congruità di certi pagamenti, ovvero l'effettiva prestazione a monte di quei pagamenti. Indagò sui magazzini in cui venivano stipati e fece dei rilievi a Marocchino, che, se non vado errato, in quel periodo di tempo era allontanato dalla Somalia, parlo dell'espulsione
dalla Somalia, successiva al 2 settembre 1993; e prima che fosse riammesso in Somalia trattò con la moglie di Marocchino. Poi avvenne l'episodio che lei ha citato.
Io chiesi conto a Marocchino e devo dire che, a mia memoria, fu l'unico episodio che proprio me lo scatenò contro; disse «Vuoi anche accusarmi di un tentato omicidio?». Disse «Sì, ho avuto un contenzioso, ma l'abbiamo risolto».
GIULIO SCHMIDT. Per quanto riguarda l'attentato di cui è stato vittima, Franco Oliva le ha detto chiaramente che fu una tentata esecuzione?
ALBERTO CHIARA. Lui ha questa sensazione, sì, sì.
GIULIO SCHMIDT. Molto chiaramente.
GIULIO SCHMIDT. Per quanto riguarda la meccanica dell'attentato ad Ilaria, a noi risulta, per una dichiarazione fatta dall'avvocato Duale, che l'autista di Ilaria sia morto. Risulta anche a voi?
ALBERTO CHIARA. Sì, da un giornale somalo.
GIULIO SCHMIDT. Vi risulta da un giornale somalo.
ALBERTO CHIARA. Sì, decliniamo subito le fonti.
GIULIO SCHMIDT. Risulta che la guardia del corpo sia ancora rintracciabile?
ALBERTO CHIARA. A questa domanda non so rispondere.
GIULIO SCHMIDT. Voi non l'avete sentito.
ALBERTO CHIARA. Noi non l'abbiamo sentito.
GIULIO SCHMIDT. Giustamente, nel libro voi avete sottolineato una circostanza che anche in Commissione abbiamo sollevato; io, personalmente, ne sono fortemente convinto, però vorrei sapere da quali elementi avete tratto questa convinzione. Dunque, voi affermate che sei cassette girate sono pochissimo rispetto ad una dotazione che un operatore professionista serio come Miran avrebbe dovuto avere; quindi, Miran deve necessariamente essere partito con più cassette. Avete chiesto alla Videoest di avere l'elenco delle cassette con cui Miran partì?
ALBERTO CHIARA. No, questo no. Posso invece dire...
GIULIO SCHMIDT. Noi l'abbiamo chiesto.
ALBERTO CHIARA. Posso sapere se hanno risposto?
GIULIO SCHMIDT. Stiamo aspettando.
ALBERTO CHIARA. Perfetto. Viceversa, quando eravamo a Sana'a, quindi nel giugno 1999, una fonte ci disse che alcune cassette potevano essere state trafugate e giunte in Yemen. Tra il serio e il faceto, sapendo che giocavamo non in campo favorevole, provammo a chiedere a Mugne, che ovviamente negò, e anche altre piste che cercammo di battere nella comunità somala nella capitale dello Yemen non portarono alcunché. Provammo ad attivarci perché una delle voci le dava nello Yemen, parliamo del 1999.
GIULIO SCHMIDT. Per quale motivo, secondo lei, Ilaria intervistò il sultano e non Mugne?
ALBERTO CHIARA. Secondo quello che dice Mugne, perché lui non c'era. È altra questione controversa, una delle domande che facemmo a Mugne, perché alcune fonti dicono che Mugne c'era, mentre lui dice: «Io non c'ero. Ebbi de relato la notizia che Ilaria si interessava di me, ma io ero fuori» e, come ho già detto,
pensò di provarlo con i timbri sul passaporto. Quindi, dobbiamo prendere per buona questa versione: la mancanza di possibilità di intervistare Mugne giacché questi era assente dalla Somalia.
GIULIO SCHMIDT. Grazie, ho concluso.
PRESIDENTE. La parola all'onorevole Deiana.
ELETTRA DEIANA. Io vorrei per prima cosa sapere, maresciallo, se possibile, attraverso quale percorso lei e i suoi colleghi siate arrivati a questa fonte etiope che avete incontrato a Londra, come è scritto nel vostro libro, chi ve l'abbia segnalata, la dinamica del costituirsi di questa fonte.
Vorrei, poi, aprire un altro fronte: vorrei, cioè, capire se, nel corso della vostra indagine, abbiate pensato di verificare il curriculum professionale di Horvatin e tutto quello egli ha fatto nella ex Jugoslavia. La collaborazione professionale fra Alpi e Hrovatin da tutto quello che fino adesso è emerso appare un po' casuale, ma potrebbe non essere tale, poiché Ilaria Alpi era stata nella ex Jugoslavia poco prima, Horvatin aveva una grossa esperienza come operatore di zona di guerra e la ex Jugoslavia è uno dei punti, per la triangolazione o per filoni autonomi, del traffico di armi. Insomma, chi è questo Hrovatin? Non si sa nulla, non avete aperto nessuna indagine?
ALBERTO CHIARA. Non in maniera sistematica. Anche noi abbiamo appreso con stupore...
PRESIDENTE. C'era prima la domanda sulla fonte etiope.
ALBERTO CHIARA. Circa l'etiope, fonti di opposizione, le stesse che segnalarono, poi, alla procura di Asti...
PRESIDENTE. Ma è raggiungibile questo etiope?
ALBERTO CHIARA. Io ritengo ancora di sì. Sì.
PRESIDENTE. Perché nessuno lo cerca?
ALBERTO CHIARA. Allora posso impegnarmi, sì. L'identità, comunque, è ormai nota, nel senso che è nelle carte di Asti, quindi parliamo di una persona con un nome e un cognome. Come ha detto, ci fu segnalato da fonti di opposizione.
Circa Hrovatin: no, non abbiamo chiesto un curriculum, non abbiamo investigato sul suo passato professionale. Abbiamo appreso con stupore, come tutti gli spettatori del film, l'episodio raccontato dal Orniani, il quale dice di averlo attinto da colleghi dell'agenzia Albatros, che era l'agenzia di Miran Hrovatin. L'unico aspetto che segnalo, perché l'abbiamo appreso direttamente con le nostre orecchie, è che Guido Garelli, questo ufficiale della Autorità Territoriale del Sahara, come si presenta, sicuramente dotato di pass che gli permettevano di entrare e uscire da Camp Derby piuttosto che da Ederle, quindi figura interessante per alcuni profili, ha detto che Ilaria aveva avvicinato suoi colleghi di intelligence di questa Autorità Territoriale del Sahara in Jugoslavia prima di andare giù. Mi rendo conto che c'è un labile contatto, ma è l'unico che possiamo addurre di nuovo e di nostro rispetto a quanto, ad esempio, il film ha portato a conoscenza. È vero che Miran non era l'operatore abituale; sappiamo che era andato giù perché era quello che costava meno, alla fine della fiera; teneva bassi i costi di trasferta, era così.
Circa l'etiope, d'accordo. Ci proviamo.
PRESIDENTE. Onorevole De Brasi, a lei la parola.
RAFFAELLO DE BRASI. Noi abbiamo letto il vostro libro, che abbiamo apprezzato, ed abbiamo tra i nostri consulenti due giornalisti di Famiglia Cristiana, che hanno lavorato e porteranno il loro patrimonio di conoscenze, quindi conosciamo il vostro lavoro e ci rendiamo
conto che è difficile andare oltre quello che già si conosce. Mi limito, dunque, a rivolgerle una domanda specifica, maresciallo: parlando dell'intervista con Marocchino, lei ha detto che questi le avrebbe rivelato di conoscere uno dei killer ma di non poterlo dire, poiché questo lo avrebbe messo in una luce negativa se non addirittura in pericolo rispetto al suo ruolo, al suo lavoro in Somalia; poiché nel contesto di un'altra audizione noi abbiamo appreso che uno dei sospetti fondamentali di Marocchino, che non so se abbia un qualche riscontro, fosse che l'autista di Ilaria Alpi avesse un ruolo di primo piano nell'omicidio, le chiedo se abbia fatto con lei un qualche accenno a questo proposito.
RAFFAELLO DE BRASI. Su questo è stato di una riservatezza assoluta.
ALBERTO CHIARA. Granitica. E devo dire che, con mio stupore, anche in aula non è stato incalzato sul punto. Io, da giornalista, non ho tanto potere: posso chiedere, chiedere e chiedere ancora, posso stremare una persona, ma quella si alza e se ne va, e lì finisce tutto. Anche giorni dopo, nell'aula bunker di Rebibbia si è ripetuta l'affermazione, cioè Giancarlo Marocchino ha ripetuto esattamente le stesse cose che aveva detto a noi nell'intervista previa.
RAFFAELLO DE BRASI. Cioè disse che conosceva uno dei killer?
ALBERTO CHIARA. Che lo conosceva. Il presidente gli chiese se potesse dire il nome ed egli rispose di no, che non poteva dirlo per una garanzia sua personale, e si passò oltre, con mio stupore; è nei verbali, quindi non dico nulla di trascendentale. Francamente ci stupimmo, perché l'autorità giudiziaria ha un proprio di potere, come giustamente ricordava anche il presidente Taormina. Dunque, rispondendo sul punto non fece mai alcun tipo di illazione né, tanto meno, di discorso argomentato sull'autista.
RAFFAELLO DE BRASI. Per quanto riguarda le ipotesi che non sia possibile disgiungere un ruolo attivo dell'autista nell'omicidio e l'ipotesi che Ilaria Alpi sia stata uccisa per quello che conosceva, sulla scorta di tutto il lavoro che avete svolto, lei ha maturato un'idea coerente? Immagino tutte le ipotesi che avrà ascoltato e sulle quali avrà lavorato; le chiedo, quindi, un suo parere, visto che ai riscontri toccherà poi a noi lavorare.
ALBERTO CHIARA. Mi ritrovo con l'arringa del sostituto procuratore generale Cantaro nel primo processo d'appello, secondo cui Ilaria è stata uccisa per il timore da parte di un comitato d'affari italo-somalo delle conseguenze internazionali del lavoro che stava accingendosi a rendere noto. Non sono parole mie, ma di Salvatore Cantaro. Perché? Perché (sto esprimendo un parere, come lei mi ha chiesto) sulla base di indizi, frammenti, piccoli tasselli, è una possibilità logica, coerente. In quegli anni in Somalia arrivavano armi: l'ha dichiarato Carmine Fiore in interrogatorio sempre a Torre Annunziata ed anche in un'intervista a Famiglia Cristiana; parlava di Obbia come porto d'arrivo e Carmine Fiore era generale comandante del contingente italiano (cito il verbale del 3 dicembre 1997, giusto per agevolarvi l'eventuale lettura delle carte). Fior di testimoni oculari ovvero di persone coinvolte, a loro insaputa ascoltate, parlano di container («mandami giù cinquemila fusti»). Quindi, in quel periodo la Somalia era o terminale o punto di transito, perlomeno per le armi pesanti (non dimentichiamo che dal golfo di Aden si risale e si va nel golfo Persico, quindi niente di trascendentale che fosse anche solo passaggio per materiale d'armamento pesante). Ilaria, essendo brava, avendo anche modo e non avendo timori reverenziali, Franco Carlini l'ha punzecchiato e ce l'ha messo. Attanasio è un altro colonnello del contingente, mi pare, che ha conosciuto e che ha punzecchiato. Abbiamo avuto almeno due persone che hanno detto che avesse una conoscenza con Vincenzo Li Causi, uomo del SISMI, esperto
di queste cose. Quindi c'è un quadro logico che porta a dire che è un'ipotesi da prendere seriamente in considerazione. Tralascerei gli aspetti casuali e insisterei su questo nesso causale; anche perché ho sentito e letto il generale Loi dichiarare inesistente la pista di ostilità anti-italiana ovvero di prove tecniche di terrorismo islamico, che è un'altra delle piste suggerite come ipotesi di partenza. Mi sembrano ipotesi caduche. Mi sembra che l'aver scientificamente o inconsciamente... talvolta, noi giornalisti non ci rendiamo neanche bene conto di aver toccato chissà quale ganglio e chi fa certe cose ha timore che sappiamo più di quanto sappiamo in realtà. Ma era andata a Bosaso, che sappiamo per certo, perché ci sono testimonianze precise, essere porto e aeroporto in cui arrivavano determinate cose (Marcello Giannoni parla di rifiuti industriali ovvero di rifiuti ospedalieri); Obbia è poco sotto e ci sono diverse fonti che parlano di un fortilizio protetto da RPG, da missili spalleggiati; abbiamo chiesto di sorvolare (chiedetelo voi, magari avrete più fortuna) ma ci è stato detto «no, vi tirano giù»: insomma, ci sono più indizi che portano a dire che Ilaria e Miran possono aver toccato dei gangli importanti, perché per uccidere, posto che siamo nell'ambito del nesso causa-effetto, la mala cooperazione è una pista debole, nel 1994 «mani pulite» era già piuttosto avanti. Altro il discorso di avere individuato quel punto di raccordo tra traffici di rifiuti e traffici di armi che spesso (lo dicono le inchieste, non lo diciamo noi) hanno porti di partenza uguali, perché partivano da Ravenna, piuttosto che da Spezia, piuttosto che da Livorno, piuttosto che da Chioggia; che avevano banche di riferimento uguali; avevano società a Dublino; che avevano Samuel Camings... hai visto mai... Comunque, mi ha chiesto un parere e un parere riferisco.
PRESIDENTE. La parola all'onorevole Ranieli.
MICHELE RANIELI. Lei ha avuto conoscenza del rapporto della Digos di Udine?
MICHELE RANIELI. C'è una nota secondo la quale una fonte riservata ha reso noti i nomi dei mandanti e degli esecutori dell'omicidio di Ilaria e di Miran?
MICHELE RANIELI. Un giornalista che indaga, che fa bene il suo lavoro e che ha avuto la possibilità di essere in Somalia e di parlare con alcuni protagonisti della vicenda, di fronte alla prospettazione da parte di Marocchino dell'omicidio come conseguenza di una rapina o di un tentativo di sequestro, non ha avanzato un'ipotesi alternativa, che è, poi, quella che anche oggi lei sostiene, quale causa dell'omicidio? Non ha citato quella nota informativa della Digos?
Marocchino è personaggio di grande spessore, che si muove a 360 gradi; io non ho letto il suo libro, però ho dedotto dalla sua deposizione che è stato reticente o, quanto meno, lei non ha voluto riferire alcuni particolari del suo colloquio con Marocchino; altrimenti non mi spiego come chi è a conoscenza di una fonte riservata, che indica nomi e cognomi dei mandanti e degli esecutori, discutendo con un personaggio-chiave nella vicenda, di fronte alla prospettazione di un'ipotesi che nel corso del processo è andata via via perdendo consistenza, non abbia contrapposto la sua ipotesi, che è la nostra e che è ormai diffusa, cioè che la causa dell'omicidio non è una tentata rapina o un tentato sequestro. Mi vuole rispondere, per cortesia?
ALBERTO CHIARA. Ben volentieri. Sono talmente prono, talmente arrendevole nei confronti di Marocchino, che Marocchino mi ha querelato, insieme ai colleghi, perché le cose che abbiamo sostenuto le abbiamo anche scritte. Le cose che man mano venivano fuori, perché la dottoressa Motta veniva ascoltato in pubblica udienza o veniva ascoltata dalle commissioni, quindi si potevano scrivere certe cose, le abbiamo scritte; e, alla fine, ci
ritroviamo querelati per diffamazione da parte di Giancarlo Marocchino. Quindi, accetto, ovviamente, la sua opinione, signor commissario, ma non credo di essere stato così arrendevole nei confronti del signor Giancarlo Marocchino, al quale nel 1999, facendo l'intervista, abbiamo sottoposto esplicitamente, citando le cose che allora erano note, la tesi che fosse direttamente coinvolto nell'omicidio. «È tutto falso e calunnioso» ci risponde Marocchino. «Conoscevo Ilaria. L'ultima volta che la sentii fu quando, tra la fine del 1993 e i primi del 1994, gli americani mi arrestarono, mi espulsero dalla Somalia. Giunto a Roma seppi che la giornalista RAI mi aveva cercato; telefonai ad Ilaria e lei mi disse di stare attento a certi miei presunti amici, che tali non erano, giacché l'ambasciata italiana e il SISMI sapevano che gli americani mi avrebbero arrestato, facendo di me un capro espiatorio, già tre giorni prima. Il tono era cordiale, però poi la rividi agonizzante dentro quella maledetta Toyota». Noi domandiamo a Giancarlo Marocchino: «La si accusa di aver agito in complicità con Omar Said Mugne, della flotta Shifco». «Prima della caduta di Siad Barre» risponde Marocchino «Mugne era uno dei più potenti uomini della Somalia, grazie anche agli affari che intratteneva con l'Italia e la sua diretta conoscenza di Craxi e Pillitteri. Un uomo inavvicinabile per un autista di camion qual ero io all'epoca. Qualche settimana fa, quando il suo e il mio nome sono usciti sui giornali accomunati dall'accusa di essere mandanti dell'omicidio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, mi ha telefonato a Mogadiscio il suo avvocato chiedendo come intendevo difendermi. Qualche giorno dopo ho deciso di venire in Italia per sporgere denuncia contro i miei calunniatori. Sono davvero stanco per i depistaggi e le strumentali demonizzazioni che fanno a mio danno profittando del fatto che vivo lontano dall'Italia, manco fossi io il »grande vecchio« della Somalia. La mala cooperazione e gli errori politico-militari fatti nel Corno d'Africa hanno ben altri responsabili, dovete cercare qui in Italia». Questa è l'intervista che abbiamo fatto: come vede, non mi sembra molto prona; ma valuti lei.
MICHELE RANIELI. Le chiedo una sua valutazione. Lei ha descritto Marocchino in modo diverso, per alcuni aspetti, da come è descritto da molti altri testi; ormai è noto che Marocchino è totalmente dentro al sistema servizi e che è l'uomo-chiave nell'ambito di tutti traffici, ma addirittura, è stato descritto come uno dispiaciuto per la morte di Ilaria e che con i servizi non aveva niente a che fare, se non fornire nafta e gasolio. Lei lo ritiene così o lo ritiene, invece, un personaggio centrale della politica e dei traffici in Somalia?
ALBERTO CHIARA. Mi perdoni, onorevole Ranieli, ma probabilmente è stato un attimo disattento, perché so di essere stato abbastanza preciso nel riferire due versioni di Marocchino, e quando riferisco le tesi di altri cerco di essere molto corretto, così come quando da giornalista mi toccherà di riferire, eventualmente, la sua. C'è stata una prima versione, 1998, in cui Marocchino ironizza. C'è stata, poi, una seconda versione, 1999, in cui invece, seriamente, Marocchino dice: Luca Rajola Pescarini io lo conosco, l'ho visto due o tre volte. Se vuole, posso leggere testualmente, altrimenti provo a sintetizzare, per cui potrei essere un po' impreciso; comunque, sostanzialmente Marocchino afferma che nel 1992 lui ha procacciato l'incontro decisivo tra l'allora capo di SISMI (generale Pucci o Bucci, adesso non ricordo) e il generale Aidid, che permise l'arrivo del contingente italiano senza ostilità. Quindi, così come prima dava di se stesso una versione minimalista (usiamo questo termine), poi ne dà un'altra. Questa è la storia delle interviste. Se vuole conoscerla, la mia impressione è che nel 1998 non c'era ancora stata la deposizione ufficiale di Luca Rajola Pescarini in primo grado a Roma. Nel 1999, invece, Marocchino ben conosce la deposizione di Rajola, in cui questi nega di conoscere Marocchino e dice, anzi, di aver impartito l'ordine di non frequentare Marocchino, considerato un
poco di buono. Metto insieme elementi storici, sono date. Quindi, l'intervista del 1999 è di tutt'altro tenore (possiamo produrla agli atti): dà di se stesso un ruolo diverso, non soltanto di fornitore di nafta, ma di fornitore di notizie, di facilitatore di rapporti in Somalia, e parla anche di questo incontro con un agente successivo alla morte di Ilaria.
PRESIDENTE. Non essendoci altri iscritti a parlare la ringraziamo, maresciallo, per tutte le notizie che ci ha dato. Le faccio ancora solo una domanda: dopo l'arresto da parte degli americani Marocchino fu espulso; chi lo espulse?
ALBERTO CHIARA. L'ammiraglio Howe, che era il comandante militare americano del contingente ONU.
PRESIDENTE. Quindi non furono i somali ad espellerlo?
ALBERTO CHIARA. No, no, gli americani, l'ammiraglio Howe, che era il comandante delle truppe. Segnalo che dal punto di vista penale italiano il fascicolo venne aperto il 2 ottobre 1993, PM Saviotti, venne archiviato il 14 aprile 1994 e custodisce una busta con sopra un bel timbretto «atti a divulgazione vietata». Noi, ovviamente, non abbiamo titolo di aprirla; lei, che è autorità giudiziaria, potrebbe averne titolo.
ALBERTO CHIARA. Posso dire a verbale ancora una cosa, signor presidente?
ALBERTO CHIARA. Siccome il PM Ionta ha avuto modo di aprirla, ha fatto un rapporto e poi ha dovuto richiuderla, proprio perché atti di divulgazione vietata, sappiamo che ci sono dei memorandum, dei testi che arrivano dalla Farnesina e dalla Difesa, in cui ovviamente si parla di Marocchino, perché l'indagine penale era su Giancarlo Marocchino. Ne deduciamo che ci sia un certo qual interesse a capire come mai sia stata archiviata pur dicendo il PM Saviotti che ci sono rilievi di tutta evidenza.
PRESIDENTE. Grazie. Anche questa, come tutte le altre, è una notizia utile.
Dichiaro conclusa l'audizione.
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