Back Forward

Seduta dell'11/3/2004


Pag. 37


...
Esame testimoniale dell'avvocato Antonio Moriconi.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'esame testimoniale dell'avvocato Antonio Moriconi, che è stato citato - e per questa ragione lo abbiamo disturbato - dall'avvocato Duale, che ha insistito affinché fosse ascoltato su alcune circostanze.
Avvocato Moriconi, le faccio presente che la Commissione parlamentare d'inchiesta la esamina con le forme della testimonianza e quindi con le responsabilità che ne conseguono, a norma dell'articolo 372 del codice penale, che le rammento solo per forma e non, ovviamente, per sostanza, essendo lei un ottimo collega, che conosco da moltissimi anni.
Le rivolgeremo alcune domande rispetto alle quali ci avvertirà laddove dovesse opporre il segreto professionale, affinché noi possiamo valutare se sia o meno opponibile.
In primo luogo, le chiedo di fornirci le sue generalità.

ANTONIO MORICONI. Sono l'avvocato Antonio Moriconi, nato a Fiuggi il 6 maggio 1950; iscritto all'albo degli avvocati del foro di Roma.

PRESIDENTE. Dove è residente o domiciliato?

ANTONIO MORICONI. Sono domiciliato in via Ugo De Carolis, n. 87.

PRESIDENTE. Avvocato Moriconi, lei è stato codifensore, con l'avvocato Duale, di Hassan, il giovane condannato dalla corte d'assise d'appello di Roma, dopo il passaggio per la Corte di cassazione, a 24 o 26 anni di reclusione.

ANTONIO MORICONI. 24 anni.

PRESIDENTE. Lei è stato il codifensore?

ANTONIO MORICONI. Sì.

PRESIDENTE. Da quando?

ANTONIO MORICONI. Dal dibattimento.

PRESIDENTE. Quindi, delle indagini preliminari non si è mai interessato.

ANTONIO MORICONI. No. Mi sono interessato del processo, di tutta la vicenda processuale per quanto riguarda sia il processo celebrato dinanzi alla seconda corte di assise di Roma, concluso con l'assoluzione dell'imputato, sia quello della


Pag. 38

corte d'assise d'appello, che ha condannato l'imputato all'ergastolo. La sentenza poi è stata parzialmente annullata sotto il profilo della premeditazione e della mancata concessione delle generiche e quindi, in sede di rinvio, c'è stata la condanna a 24 anni, che è definitiva.

PRESIDENTE. Quindi lei, di tutto quello che è accaduto durante le indagini preliminari non può dire nulla, intendo dei vari passaggi che si sono verificati, a meno che non li abbia approfonditi per altro motivo. In particolare, mi riferisco al primo periodo nel quale l'indagine fu condotta dal dottor De Gasperis, al secondo in cui al dottor De Gasperis fu affiancato il dottor Pititto (sostanzialmente era solo quest'ultimo che operava), al terzo periodo nel quale entrambi furono sostituiti dal dottor Ionta, il quale per uno stralcio ha ancora in carico il procedimento.
Rispetto a queste cose, lei ha conoscenza di qualche particolare che può interessare la Commissione dall'angolo visuale delle anomalie che possono aver caratterizzato lo svolgimento e la conduzione dell'inchiesta?

ANTONIO MORICONI. Ne ho tante ed una conclusiva: posso dichiarare - assumendone la responsabilità morale e penale - che la sentenza di condanna di Hashi è inquietante, perché in grado di appello sono successe delle cose che io ritengo molto gravi e che segnalerò, essendo tutto documentato per tabulas. Non parlo di errore giudiziario perché, avendo 27 anni di esperienza, so valutare ciò che è successo, anche se non ne conosco il motivo. Comunque, parlerò documentalmente.
Conosco benissimo il processo, perché l'ho vissuto a livello personale (è stato una grande esperienza di corte d'assise), dal primo atto, quando De Gasperis non fece l'autopsia e incaricò il professor Sacchetti soltanto di effettuare un'ispezione esterna del cadavere di Ilaria quando è arrivato in Italia, a tutti i passaggi successivi. Ho trovato delle cose molto inquietanti processualmente. Inoltre, parlerò in particolare della sentenza di condanna in appello.

PRESIDENTE. Lei ha mai parlato con il dottor Sacchetti?

ANTONIO MORICONI. Sì, l'ho sentito in sede di controesame.

PRESIDENTE. Ha avuto la possibilità di un confronto? Si tratta di persona che noi conosciamo molto bene e che gode di stima come perito e consulente del pubblico ministero; è quasi sempre consulente degli uffici e mai delle parti private. Lei ha avuto modo, al di là dei fatti processuali, di avere un colloquio, di approfondire questa storia? Ciò sulla base della seguente osservazione: in questa vicenda non si poteva sbagliare, perché il foro d'entrata di un colpo sparato a contatto lo conosce anche un ragazzino di 10 anni. Allora, o il dottor Sacchetti, quando fece la rilevazione, disse una cosa non corrispondente a verità e quindi qualcuno ci deve dire perché lo abbia fatto, o chi glielo abbia fatto fare, oppure è l'inverso, cioè l'anomalia, per le medesime ragioni, deve riguardare i periti - che siano 10 non importa - che hanno fatto l'ultima perizia.

ANTONIO MORICONI. Su questo posso essere chiarissimo, perché penso di conoscere bene il processo.

PRESIDENTE. Le ha parlato...

ANTONIO MORICONI. Sì, ho parlato con Sacchetti. Tenete presente che le considerazioni che fa Sacchetti soltanto con la ricognizione esterna furono poi consacrate anche dal professor Umani Ronchi in sede di consulenza collegiale disposta dalla procura. Le due conclusioni circa il colpo sparato a contatto combaciavano.
Conosco benissimo la superconsulenza e soprattutto la perizia data in dibattimento. Il problema di fondo di questo processo è stato sempre uno, quello cioè di capire se Ilaria Alpi fosse stata uccisa da un colpo...

PRESIDENTE. Questo è un leit motiv. La mia domanda è la seguente: che cosa le ha mai detto Sacchetti nei colloqui privati


Pag. 39

rispetto alla diagnosi che ha fatto? Ha subito pressioni? Qual è la ragione per la quale ha fatto quel tipo di rilevazione, che poi sarebbe stata clamorosamente smentita nel dibattimento?

ANTONIO MORICONI. L'ha fatta con la scienza e la coscienza del grande professionista qual è. Quando gli ho riferito le conclusioni diverse alle quali si era giunti incidentalmente con la perizia data in dibattimento, è rimasto stupefatto e mi ha detto: «È impossibile che un medico legale» - parliamo del professor Torre - «possa arrivare a quelle conclusioni». Del resto, come dicevo, anche Umani Ronchi, che interviene successivamente con i quattro consulenti chiamati dalla procura della Repubblica, era arrivato alle stesse conclusioni di Sacchetti. Fu al professor Torre, incaricato dalla corte d'assise di fare soltanto la perizia (era l'esperto in armi da fuoco, sui residui da sparo), che, in quella sede, il presidente pose delle domande al di fuori della perizia per farsi dire se secondo lui si trattasse di un colpo a contatto o meno. Il problema è nato per accertare se il colpo fosse stato sparato dall'esterno o a contatto: ciò doveva rientrare nella valutazione dell'attendibilità dell'unico teste che riferiva le modalità del fatto. Infatti, il processo sulle modalità del fatto, prevalentemente se non esclusivamente, è collegato all'autista Abdì, quello che successivamente è morto.

PRESIDENTE. Pare che non sia morto.

ANTONIO MORICONI. Su questo parlerò, perché riguarda un punto inquietante della sentenza della corte d'appello.
Come dicevo, era sorta questa necessità anche perché per la consulenza collegiale la procura aveva nominato un esperto delle forze di polizia che doveva fare le indagini sui residui di polvere da sparo, non solo sotto il profilo del tipo di lesione riportata dalla Alpi. Nel processo, quindi, c'era questa consulenza collegiale, firmata da tutti ed anche da un ingegnere chimico esperto in metalli, la cui conclusione era che Ilaria Alpi fosse stata attinta da un colpo sparato a breve distanza da un'arma non a canna lunga (non poteva essere quindi né un kalashnikov, né un M16, ma presumibilmente una 765 o una calibro 9 parabellum).

PRESIDENTE. Quindi, a canna corta.

ANTONIO MORICONI. Sì. Dinanzi alla corte d'assise tutti hanno ripetuto questo e l'esperto sui residui di polveri da sparo scientificamente ha spiegato che le particelle rinvenute erano residui di bruciatura della polvere da sparo.
La corte decise di far fare una perizia e affidò l'incarico a Benedetti e Torre, che in quel momento erano molto in voga perché si erano interessati del processo di Marta Russo. Benedetti fece la perizia balistica e Torre quella sui residui di polveri da sparo. Benedetti fu sentito - lo troverete negli atti, dove ci sono anche la consulenza e il controesame che è fondamentale (sono andato a fondo perché tante cose non mi convincevano) -, fece una perizia e in dibattimento disse che la conclusione era che Ilaria Alpi era stata attinta da un colpo sparato da un kalashnikov che, nell'attraversare il parabrezza, si era scamiciato, il nucleo si era inserito nello schienale del sedile di fronte in cui si trovava Hrovatin, nella sua corsa si era fuso e si era portato via un pezzo di ferro, quello rinvenuto nel cranio di Ilaria Alpi.

PRESIDENTE. C'era anche un pezzetto di stoffa.

ANTONIO MORICONI. Tutti sapevamo che l'ingegnere era arrivato alla conclusione che il frammento rinvenuto era composto da ferro, piombo e antimonio; il ferro doveva essere la camicia del proiettile e il residuo di piombo e di antimonio era il corpo interno. A specifica domanda, lui disse che lo aveva esaminato al microscopio ed era arrivato alla conclusione (anche se lui non era un esperto in armi da fuoco) che si trattava di un residuo di pallottola. Ciò perché quando si fabbricano i proiettili i due metalli si fondono ad altissime temperature. Quel pezzo di ferro,


Pag. 40

con una forma un po' particolare per cui poteva essere la camicia di una pallottola, con all'interno i residui di piombo e antimonio, era sicuramente un prodotto fuso ad altissime temperature, per cui era un corpo unico, presumibilmente la parte di un proiettile di un'arma corta che, nel momento del contatto, si era rotto e un parte era entrata nell'emisfero sinistro di Ilaria Alpi e si era fermato all'altezza del collo. Concludeva dicendo che doveva essere per forza una pallottola perché il ferro e il contenuto erano sicuramente fatti come quelli dei proiettili, che vengono fusi ad altissime temperature per ottenere l'adesione.
Benedetti si presentò e disse che aveva fatto la perizia non dal punto di vista scientifico ma da quello riproduttivo, nel senso che aveva riprodotto lo svolgersi dei fatti, arrivando ad una conclusione aberrante, cioè che sicuramente il frammento di metallo rinvenuto in Ilaria Alpi era una parte del nucleo di una pallottola di un kalashnikov che prende il parabrezza, si scamicia, il nucleo di piombo entra nel sedile, si porta dietro il pezzo di ferro e si fonde. Al che gli ho chiesto quale fosse il suo punto di vista scientifico e lui disse che non aveva un punto di vista scientifico e che era un perito industriale. Quando osservai che l'ingegnere dei metalli aveva detto che questo era impossibile perché non potevano essersi fusi, non poteva essere un corpo unico perché nel fabbricare i proiettili si procede con la fusione ad altissime temperature (circa 300 gradi), lui rispose che riteneva che fosse successo come indicava e che solo in quel modo poteva dare una spiegazione. Da lì è nata la modifica, per cui si è detto in sentenza in primo grado - e si è esaltato nella sentenza d'appello - che il colpo non era a contatto.

PRESIDENTE. Se fosse stato un colpo a contatto di un'arma corta, ci sarebbe stato un foro d'uscita, oltre a quello d'entrata.

ANTONIO MORICONI. Questo aspetto è stato spiegato dai consulenti. La consulenza collegiale fu affidata ad esperti (medici legali, periti balistici) che hanno spiegato come mai si fosse trovato solo un frammento: quando c'è stato il primo contatto - Ilaria Alpi era china con le mani che coprivano la testa -, con lo spessore della testa ed anche con la mano (il colpo ha portato via la falange), il proiettile può essersi aperto e una parte è entrata e si è fermata all'altezza del collo (per questo non poteva essere una pallottola sparata da un fucile kalashnikov).
D'altro canto, il tipo di proiettile, avendo una camicia di ferro e piombo all'interno, era vecchissimo (attualmente non si fanno più in questo modo: dagli anni quaranta in poi le camicie sono state fatte tutte in rame). Quindi, presumibilmente era una pallottola calibro 9 vecchissima. Ecco il motivo per cui si è presunto che si fosse rotta al contatto e che comunque si trattasse di un'arma a canna corta.
In appello, quindi, c'è stato questo stravolgimento.

PRESIDENTE. In appello non avete fatto perizie?

ANTONIO MORICONI. Le abbiamo fatte solo in primo grado.

PRESIDENTE. Il risultato che lei riferisce è quello relativo all'ultima perizia fatta in dibattimento?

ANTONIO MORICONI. Nel dibattimento in primo grado.

PRESIDENTE. E fino a quel momento c'era solo la consulenza?

ANTONIO MORICONI. La consulenza dei cinque, la superconsulenza, che tutti hanno firmato.

PRESIDENTE. Come avevano concluso?

ANTONIO MORICONI. Affermando che era stato sparato un colpo a contatto presumibilmente da un'arma corta, una 765 o una calibro 9.


Pag. 41

La nota inquietante di questa situazione è che la perizia collegiale viene depositata a novembre del 1997; a luglio dello stesso anno per la prima volta viene portato in Italia Abdì, l'autista, colui che ha sempre affermato che la povera Ilaria, quando era tornata da Bosaso, era arrivata in albergo, lui era andato a prenderla e lei gli aveva chiesto di andare all'hotel Hamana per vedersi con un giornalista.

PRESIDENTE. Benni.

ANTONIO MORICONI. Sì, Benni. Lui le disse che Benni era partito e stava a Nairobi. Al che lei volle andare lo stesso e lui la portò. Arrivati, trovarono il pick up con sei persone a bordo tutte dotate di un FAL M16 americano, secondo quanto affermano lui ed anche la guardia del corpo. Racconta che nessuno si è avvicinato mai e nessuno ha potuto sparare un colpo a contatto; erano a distanza e due si erano posti di fronte al pick up con i FAL. Siamo a luglio del 1997: questo è fondamentale, perché è uno dei punti inquietanti emersi nel processo.
Lui non era in grado di riconoscere nessuno. Poi fu sentita la guardia del corpo che aveva partecipato anche al conflitto a fuoco ed era in possesso di un kalashnikov, e che parlò di M16, precisando che i due che si posero di fronte e spararono avevano gli M16 «tant'è che io ho sparato e, ad un certo punto, l'autista è sceso ed ha sparato dei colpi». A quel punto il pubblico ministero decide di fare un confronto tra l'autista e la guardia del corpo, perché l'autista non aveva detto che era armato (ancora non c'era la superconsulenza, ma c'era solo la consulenza di Farnedi che parlava di un colpo di kalashnikov che aveva attinto Ilaria). Alla fine l'autista ammette che era armato.
Ottobre 1997: arriva il falso testimone Gelle, quello che si era presentato all'ambasciatore Cassini dicendo che era in grado di fornire elementi sull'omicidio, ed è il primo che fa il nome di Hashi. Viene portato a Roma, dove racconta i fatti come non si sono verificati; infatti, non era presente e sbaglia tutti i movimenti che c'erano stati. Però, sia lui sia l'autista dicono una menzogna clamorosa, dicono cioè che sarebbero intervenute le forze di polizia italiane e che li avrebbero scortati fino al posto in cui avevano portato i cadaveri con Marocchino. Entrambi citano questo elemento che è falso, come verrà verificato dopo. C'era stata una lettera di Fiore alla famiglia di Ilaria Alpi, in cui questi asseriva che le forze italiane erano intervenute nell'immediatezza del fatto. Invece, le riprese della televisione svizzera l'avevano smentito, tant'è che c'è stata anche una causa, con sentenza passata in giudicato, nella quale si è accertato che non erano mai comparsi e che quindi Fiore aveva scritto quella lettera mentendo.
Nel novembre 1997, viene depositata la perizia collegiale nella quale si parla di colpo a contatto sparato da una calibro 9. Allora, se erano vere le modalità raccontate dall'autista, l'unico che poteva sparare era proprio l'autista, perché non si era avvicinato nessuno.

PRESIDENTE. Quale perizia collegiale?

ANTONIO MORICONI. La consulenza collegiale, depositata nel novembre 1997, dopo che erano stati sentiti Abdì l'autista, e Gelle.

PRESIDENTE. Non abbiamo detto che l'ultima perizia della corte d'assise d'appello conclude con il colpo sparato a distanza?

ANTONIO MORICONI. Sì, ma voglio farle capire una cosa inquietante emersa nel processo. I primi di gennaio 1998 (da qualche mese era stata depositata la perizia che parlava di arma a canna corta), Hashi, con uno stratagemma, viene invitato per essere sentito dalla commissione Gallo, per il risarcimento dei danni ai somali che erano stati maltrattati. Sullo stesso aereo viene posto l'autista, quello che aveva dichiarato che non era in grado di riconoscere gli aggressori. Arrivano a Roma e vengono sentiti dalla commissione.


Pag. 42

Il giorno dopo - stato di fermo per Hashi - viene sentito l'autista, che racconta di nuovo i fatti, adeguandoli, attraverso modifiche, alle risultanze della perizia. Aveva sempre detto che le armi in possesso degli aggressori erano tutti FAL; aveva asserito - confortato dalle dichiarazioni della guardia del corpo che aveva un kalashnikov - dinanzi al pubblico ministero che chi ha sparato aveva un FAL; quando arrestano Hashi e lo mettono in stato di fermo...

PRESIDENTE. Dice che erano kalashnikov.

ANTONIO MORICONI. No, dice che quello a sinistra aveva un FAL e quello a destra, che ha sparato e che avrebbe ucciso Hrovatin, aveva un kalashnikov. Quindi, modifica ed adegua tale modifica alle risultanze che non poteva conoscere. Avrebbe potuto insistere nel dire che non conosceva le armi, ma lui, nel modificare la precedente dichiarazione, indica l'arma che ha causato la morte di Hrovatin come un kalashnikov. Come fa a saperlo?
Ma c'è un fatto ancora più inquietante: da come ha descritto i fatti, lui non poteva vedere il colpo che ha attinto Ilaria Alpi, ma in una dichiarazione rilasciata dopo che era stato sentito - c'è anche un'intervista riportata in atti - comincia a sostenere la tesi del colpo sparato dal kalashnikov che, di rimbalzo, avrebbe ucciso Ilaria. Comincia lì a nascere questa tesi, che sarà sposata in dibattimento.

PRESIDENTE. Da chi?

ANTONIO MORICONI. Da Benedetti e Torre.

PRESIDENTE. Quindi, dopo i fatti che lei sta raccontando dell'autista sentito che fa queste modificazioni di tiro, eccetera, viene fatta un'altra perizia?

ANTONIO MORICONI. No, non viene fatto niente; arrestano Hashi.

PRESIDENTE. Ma come si passa dall'arma corta all'arma lunga?

ANTONIO MORICONI. Succede solo col dibattimento e con la perizia.

PRESIDENTE. La perizia che aveva concluso che si trattava di un'arma corta e di un colpo sparato a contatto...

ANTONIO MORICONI. La superconsulenza.

PRESIDENTE. Quella fatta nelle indagini preliminari?

ANTONIO MORICONI. Esatto.

PRESIDENTE. Dopo di che, in dibattimento ci sono queste precisazioni e viene fatta un'altra perizia?

ANTONIO MORICONI. E viene fatta la perizia.

PRESIDENTE. La quale parla di arma lunga.

ANTONIO MORICONI. Sì. Nella realtà, quando ci siamo trovati in dibattimento, si è scoperta un'altra cosa. In dibattimento siamo fermi con la consulenza che parla di un colpo a contatto, presumibilmente sparato da una calibro 9 parabellum.

PRESIDENTE. Prima che arrivi l'autista e cambi la versione?

ANTONIO MORICONI. La cambia dopo che è stata depositata.

PRESIDENTE. È stata depositata che cosa?

ANTONIO MORICONI. La consulenza.

PRESIDENTE. Ma non faceva già parte degli atti del procedimento?

ANTONIO MORICONI. Sì. Per farle capire, i tempi sono i seguenti: lui viene sentito a luglio 1997 e parla di FAL; a novem


Pag. 43

bre dello stesso anno viene depositata la superconsulenza che parla di colpo a contatto, presumibilmente una calibro 9...

PRESIDENTE. La superconsulenza fatta nelle indagini preliminari?

ANTONIO MORICONI. Esatto. Poi viene risentito e modifica.

PRESIDENTE. Quindi, vi accordate, accusa e difesa, per depositare tutte quelle carte.

ANTONIO MORICONI. No, vengono sentiti.

PRESIDENTE. Allora i passaggi sono questi: vengono sentiti i consulenti; all'esito dell'audizione dei consulenti, vengono depositate le consulenze tecniche fatte in indagini preliminari; dopo questi incombenti, si passa all'esame dell'autista e alle precisazioni che abbiamo detto e poi si dispone una perizia che, sulla base delle ulteriori emergenze dibattimentali, conclude in conformità.

ANTONIO MORICONI. No, non conclude in conformità. Conclude all'inverso.

PRESIDENTE. In conformità rispetto alla versione dell'autista.

ANTONIO MORICONI. Sì.

PRESIDENTE. Passa quindi dalla corta alla lunga.

ANTONIO MORICONI. Prima ancora che venga fatta la perizia, faccio il controesame ad Alberizzi, il giornalista. Siccome lui aveva presentato l'autista ad Ilaria Alpi, gli pongo una domanda (ancora non c'è la perizia del tribunale; siamo fermi alla consulenza): «Lei ha avuto per tanto tempo quell'autista: sa se fosse armato?». Lui risponde: «Avvocato, gliel'ho regalata io una pistola calibro 9 che ho comprato lì in Somalia». Scopriamo così che l'autista era armato con una calibro 9 e che la consulenza diceva che Ilaria era stata uccisa con una calibro 9.

PRESIDENTE. Abbiamo capito. Ma rispetto agli accadimenti che lei ci ha descritto molto bene e che tra l'altro sono documentati, al di là dei documenti che certificano quanto lei ha riferito, quali sono le cose che possono essere realmente accadute, nel senso di fare in modo che la perizia disposta in dibattimento desse il risultato che lei ci ha ricordato?

ANTONIO MORICONI. Non posso fare affermazioni sul perché, ma una cosa che scientificamente non poteva accadere come descritta da Benedetti nella perizia del tribunale è che il nucleo si fondesse con il ferro. Questo è un dato scientifico che smentisce quanto afferma lui, che ha fatto solo una ripetizione.
Posso solo aggiungere un punto, del quale assumo la responsabilità morale e penale. Il fatto più inquietante del processo che ha portato alla condanna di Hashi è stato lo svolgimento del processo in appello. Quello che io vi dico è tutto documentato e nasce dall'esperienza.
Quando Hashi viene assolto ai sensi dell'articolo 530, capoverso (insufficienza di prove), io mi acquieto perché va bene comunque. Il PM e il procuratore generale fanno impugnazione. A quel punto, decido di fare un appello incidentale, lo propongo (il teste falso era Gelle, un teste prezzolato: non lo dico io, ma lo diceva l'accompagnatore che lo ha portato da Cassini la prima volta che si sono visti) e chiedo di fare una rinnovazione del dibattimento per fare un atto.
Gelle è il primo che fa il nome di Hashi e in sentenza si era detto che il commissario capo Giannini, nel visionare le varie riprese delle televisioni, aveva visto Gelle nel momento in cui si faceva il trasporto dei cadaveri. Non veniva valutato tutto, ma sostanzialmente si diceva che Gelle era presente, ma non era vero. Nell'appello incidentale chiedo la rinnovazione del dibattimento per mostrare a Giannini ed all'autista Abdì, che era in Italia sotto


Pag. 44

protezione, il filmato per verificare se quella persona fosse o meno Gelle. Dovevo anche prepararmi ad un'opposizione feroce, perché per il 530 non si potrebbe fare l'impugnazione, però mi ero preparato. Mi presento in corte d'assise - come facciamo di solito - vado nella cancelleria per vedere che cosa avesse deciso il presidente (un'udienza o due) per regolarmi. Il cancelliere mi disse che il presidente aveva disposto cinque udienze: in corte d'assise d'appello, questo presuppone una rinnovazione del dibattimento. Eravamo due difensori e una parte civile!
Mi chiama il presidente ed io gli dico che ero venuto per accertarmi del processo. Lui mi dice che ha predisposto una serie di udienze nell'eventualità in cui si fosse acceduto alla mia richiesta.
Il 20 ottobre 2000 inizia il processo e il presidente lo avvia dicendo «prima di parlare del processo, parliamo della richiesta di rinnovazione del dibattimento avanzata dal difensore»

PRESIDENTE. Era Plotino?

ANTONIO MORICONI. Sì. Mi alzo - col 530 sarebbe preclusa l'impugnazione, ma nessuno mi fa questioni procedurali - e insisto dicendo che era fondamentale perché il teste era il primo che aveva parlato di Hashi ed era falso, in quanto non raccontava le cose come una persona che si trovava sul posto ed era chiaro che non era presente. Vanno in camera di consiglio ed escono con l'ordinanza di rinnovazione del dibattimento (la leggerete, perché è in atti). Io avevo chiesto di far visionare il filmato ai due testi, il commissario capo Giannini e l'autista Abdì. Esce l'ordinanza in cui si afferma che è necessario rinnovare il dibattimento, che viene riaperto, e viene disposta la proiezione del filmato per farlo visionare a Giannini. Scompare Abdì: non ne parlano né in positivo né in negativo. Poi continua disponendo la citazione di un ispettore di polizia, che non era stato mai sentito in dibattimento e di cui non si poteva conoscere l'annotazione di servizio contenuta nel fascicolo del PM: non poteva saperlo nessuno, perché la corte decide con gli atti del processo e l'ispettore non era in lista testi. Quindi non potevano conoscere l'esistenza di questo signore. Nel provvedimento si parla di colui che ha fatto l'annullamento del riconoscimento di Gelle nella fotografia. Al che io sono rimasto interdetto, perché sapevo che questo signore non era mai stato sentito. In più viene disposto di acquisire, attraverso il commissario Giannini, le fotografie di Gelle (che non è mai venuto in dibattimento) per fare una perizia tra queste e il fotogramma riprodotto dalla televisione svizzera. Normalmente, fatto questo, si rinvia per citare i testimoni. Mi stavo alzando quando ho sentito «Fate entrare i testi» (è tutto documentato in atti) e si è presentato il commissario capo Giannini. Stavano fuori: non c'è citazione in atti (che è obbligatoria), ma i due testi stavano fuori.
Arriva Giannini, il quale riferisce: «Effettivamente c'è stato un errore nella sentenza di primo grado della corte d'assise, perché non è che l'ho visto io, ma è il Gelle che si è riconosciuto in un fotogramma e ha fatto un'annotazione di servizio l'ispettore», di cui parlava l'ordinanza. Quindi la corte lo viene a sapere dopo che ha sentito; prima, non poteva saperlo. In più, il presidente gli chiede: «Ha per caso delle fotografie di Gelle». «Sì, guardi»: apre la borsa, aveva le fotografie che aveva fatto la questura quando Gelle era venuto in Italia a testimoniare e produce le fotografie di Gelle.

PRESIDENTE. Che non era Gelle.

ANTONIO MORICONI. No, era Gelle. Sono 27 anni che faccio questa professione, processi in assise ne ho fatti tantissimi, ma sono rimasto sconcertato. Sconcertato, perché la corte non poteva sapere di quell'annotazione di servizio fatta da quell'ispettore e perché dovevano essere citati. Chi gliel'ha detto a Giannini di portare le fotografie? Il presidente aveva parlato di fotografie due minuti prima; quindi, il presidente sapeva dell'esistenza di queste foto e Giannini, senza


Pag. 45

la citazione, stava già fuori con le foto. Si fa una perizia, si dà l'incarico a un maresciallo dei carabinieri: una perizia inquietante; e si afferma che il soggetto riprodotto nel fotogramma del filmato...

PRESIDENTE. Non è Gelle.

ANTONIO MORICONI. È Gelle. Se leggerete e vedrete quell'esame, vedrete che è sconvolgente, perché non è lui. Prima di tutto, quello aveva la barba e Gelle non l'aveva e questo riconosce, secondo lui, dalla formazione del mento; l'orecchio era tagliato e dice «no, quella è la fotografia...»: proprio due persone diverse. In sentenza hanno dato l'ergastolo, assumendo che anche se i fatti che Gelle raccontava non erano gli accadimenti veri, quindi era tutto sbagliato, per il fatto che fosse presente era attendibile quando individuava in Hashi uno degli occupanti la macchina. E c'è stato l'ergastolo. Allora, la domanda che io mi pongo è questa: è errore giudiziario o è sentenza precostituita?

PRESIDENTE. Fermiamoci ai fatti.
Lei ha fatto ulteriori accertamenti per capire qualche altra cosa attorno alle modalità e alle ragioni per le quali si è arrivati a queste cose, che, se fossero vere, sarebbero non solo decisive, ma, prima di tutto, sconcertanti?

ANTONIO MORICONI. Io le posso dire solo una cosa, che sul mio appello, sulla richiesta che avevo fatto... Siccome la sentenza su questo Gelle - che è quello che fa il nome di Hashi la prima volta - era proprio debolissima ed è passata in Cassazione (in Cassazione il corpo l'hanno lasciato, hanno annullato solo sulla premeditazione e sulla mancanza delle generiche) a questo punto non posso parlare di errore giudiziario. Questo era l'aspetto più importante che volevo sottolineare, perché mi stava a cuore moltissimo questa situazione.

PRESIDENTE. Molto importante.
Do ora la parola ai colleghi che intendono formulare domande. Il primo iscritto a parlare è l'onorevole Schmidt. Ne ha facoltà.

GIULIO SCHMIDT. Avvocato, lei ricorda esattamente una circostanza ed io vorrei avere il suo parere: quando entrò a far parte, all'ultimo momento, della delegazione di somali che arrivarono in Italia su intervento del diplomatico Cassini, l'autista partì addirittura senza bagaglio, appunto perché fu imbarcato all'ultimo momento; arrivò in Italia e venne interrogato nello stesso giorno in cui Hashi era stato fermato dalla procura. Hashi viene arrestato, se non sbaglio, nella tarda mattinata o nel primissimo pomeriggio.

ANTONIO MORICONI. Era già in stato di fermo.

GIULIO SCHMIDT. Era già in stato di fermo. Inizia l'interrogatorio dell'autista e questi nega ripetutamente di conoscere gli attentatori. Durante l'interrogatorio viene fatta una pausa dalle ore 20 alle 22,30; quando si ripresenta, l'autista chiede di modificare le sue dichiarazioni e afferma: «Sì, uno lo conosco» e la descrizione corrisponde a quella di Hashi. A suo avviso, per quale motivo cambia deposizione proprio nel momento in cui viene arrestato?

ANTONIO MORICONI. Le spiego questo: quando ho fatto l'esame e il controesame di questo teste (lei lo troverà) gli ho chiesto come mai si trovasse sull'aereo in cui era anche Hashi, che era stato convocato dalla commissione Gallo, e lui ha risposto di essere stato invitato dall'ambasciatore Cassini a passare qualche giorno in Italia. Sentito sul punto - sempre su mia domanda in sede di controesame -, Cassini dice: «Questo è falso, perché lui sapeva da molti giorni che doveva venire in Italia e doveva venire con quell'aereo». Quindi c'è già questa diversità di verità sul motivo per cui viene in Italia. E adesso le spiego l'altro, che lei capirà leggendo la sentenza di primo


Pag. 46

grado, quella che assolve Hashi e che è durissima nei confronti degli inquirenti, del pubblico ministero e di Cassini. Infatti, durante l'interruzione dell'interrogatorio, il commissario capo Giannini e altri si recano a casa di Cassini, gli fanno fare delle altre dichiarazioni e poi, a seguito di queste dichiarazioni, riaprono l'interrogatorio del teste Abdi e questo modifica la sua versione, accusando Hashi. E la sentenza di primo grado è emessa dal presidente Fabbri - che il presidente conosce e a proposito del quale vi racconterò poi un episodio significativo -, il quale nello scrivere la sentenza di assoluzione fa una critica feroce nei confronti degli inquirenti, durissima, più di quella sulla ricostruzione dei fatti.
Quando vi parlo di Fabbri, che ha sentito duecento testimoni...

PRESIDENTE. Attuale presidente della prima sezione della Cassazione.

ANTONIO MORICONI. Succede questo: quando si celebra l'appello, Fabbri va in Cassazione, appunto come presidente della prima sezione; interviene la sentenza di condanna, arrestano Hashi in udienza con un'ordinanza di custodia cautelare, perché c'è pericolo di fuga. Faccio istanza di riesame al tribunale della libertà, perché è obbligatorio; viene confermato il provvedimento sconvolgente della corte d'assise d'appello: ricorso per Cassazione. Fissano l'udienza e, guarda caso, Fabbri fa parte del collegio che avrebbe dovuto decidere solo sulla custodia cautelare. Il presidente Fabbri si alza e detta a verbale la sua astensione, dovuta al fatto che, avendo egli giudicato l'imputato, era in condizione di astenersi. Viene ripreso dal presidente, il quale gli dice: «Rammento al collega che qui non andiamo nel merito, ma parliamo solo di status di libertà, per cui non c'è nessuna incompatibilità». Si alza Fabbri e detta a verbale: «A questo punto, dichiaro di astenermi perché non posso restare insensibile alla condanna dell'imputato»; e se ne va. Vi devo dire altro per spiegare chi è questo presidente?

PRESIDENTE. Magistrato di Magistratura democratica.

ANTONIO MORICONI. Di una correttezza che tutti conosciamo! Leggete la sentenza di primo grado e scoprirete che con riferimento al passaggio che lei ha evidenziato - quello della raccolta di questa prova, del fermo e dell'ordinanza di custodia cautelare contestuale al fermo - praticamente «uccide» gli inquirenti, il pubblico ministero e Cassini.

GIULIO SCHMIDT. Di questa visita improvvisa, dalle 20 alle 22,30, a casa di Cassini per raccogliere ulteriori deposizioni non ho trovato traccia in nessuna ricostruzione. È nella sentenza?

ANTONIO MORICONI. C'è, c'è. Nella sentenza si parla di questo... negli atti del PM trovate...

GIULIO SCHMIDT. Che cosa fu chiesto a Cassini? Per quale motivo andarono da Cassini?

ANTONIO MORICONI. Andarono da Cassini a raccogliere le informazioni, così fu riferito.

GIULIO SCHMIDT. Quali informazioni?

ANTONIO MORICONI. Sulle modalità del fatto, su come avesse saputo chi era Hashi Faudo, l'autore dell'omicidio. Riconfermò quello che gli aveva detto Gelle...

GIULIO SCHMIDT. Ma già Cassini aveva informato la procura che era stato Gelle ad indicargli, attraverso Washington, che si trattava di Hashi.

ANTONIO MORICONI. Lei immagini una cosa: quello che non troverà negli atti è chi ha delegato il commissario capo a recarsi da Cassini e a sospendere l'interrogatorio. Sembrerebbe un atto fatto direttamente dal commissario capo, perché quando succedono queste cose si scrive «giusta delega del pubblico ministero, ci


Pag. 47

rechiamo a...». Giannini sospende, va a casa di Cassini, raccoglie le dichiarazioni di Cassini; quelle al PM ce le avete, perché quelle non vanno in dibattimento: si fa l'esame e il controesame in dibattimento sul punto, ma le dichiarazioni raccolte a mano, di sera, le troverete lì e vedrete che si vanno a incastrare nelle due ore e mezza di sospensione dell'interrogatorio. Poi si riprende l'interrogatorio, modifica e accusa Hashi, e Hashi, già in stato di fermo, viene arrestato.

GIULIO SCHMIDT. Le risulta che Cassini abbia dato la sua disponibilità alla conoscenza di una persona in grado di riconoscere uno degli attentatori non tanto direttamente alla procura di Roma, quanto sull'aereo di ritorno della commissione Gallo, su cui era presente il procuratore militare Intellisano?

ANTONIO MORICONI. Questo di preciso non glielo so dire. Una cosa è certa: quando mettono Abdi sull'aereo con cui Hashi viene invitato a venire in Italia alla Commissione Gallo, viene fatto apposta. Questo è fuori di dubbio. C'è solo il fatto che quello racconta che Cassini lo avrebbe invitato a trascorrere una settimana di vacanza in Italia all'ultimo momento, mentre Cassini dice durante il suo esame (perché non l'aveva detto mai), su mia sollecita domanda, che Abdi sapeva da diversi giorni che sarebbe dovuto venire in Italia per esser sentito dalla commissione Gallo, che infatti poi lo ha anche sentito. Quindi era tutto congegnato.

GIULIO SCHMIDT. Per quale motivo, esistendo già una superperizia (non a caso così chiamata), la corte chiese due consulenze, una balistica e una di un esperto di residui di armi da fuoco? Qual era il dubbio?

ANTONIO MORICONI. Il dubbio non lo so. Le dico solo che una nuova perizia non fu sollecitata da nessuno. Autonomamente, com'è nei poteri previsti dal codice, fu la corte a decidere di fare questo. Tutto il problema, forse, era nato dal fatto che durante l'esame dei cinque superconsulenti su questo benedetto problema... Era lì il processo: il pubblico ministero cercava di sminuire con le sue domande l'affermazione che la parte di metallo rinvenuta nel cranio di Ilaria Alpi fosse di una calibro 9 sparata a contatto, poiché questo comportava necessariamente l'arresto dell'autista (infatti, l'autista aveva detto che nessuno aveva sparato, lui aveva una calibro 9: chi poteva essere stato?). Quindi, vedendo che l'ingegnere dei metalli faceva affermazioni circa la possibilità che quella fosse effettivamente una parte di camicia in ferro, con dentro il piombo, quindi concava, fatta in una maniera particolare, forse la corte, per tagliare la testa al toro e per capire con certezza se dovessero arrestare Abdi o no, si è indotta a dare la perizia.

GIULIO SCHMIDT. Sia l'autista sia la guardia del corpo sia, se non sbaglio, Gelle dichiarano che gli attentatori erano dotati di armi FAL; la perizia fatta sul corpo di Hrovatin afferma che il proiettile è stato sparato da un kalashnikov; la superperizia parla di un piccolo proiettile sparato da pistola, anche se poi, successivamente, nella perizia dibattimentale viene fuori il kalashnikov: viene fuori il kalashnikov o viene fuori il FAL?

ANTONIO MORICONI. Kalashnikov, indubbiamente.

GIULIO SCHMIDT. Come spiega il fatto che non ci sia su nessuno dei due corpi un proiettile che appartenga alle armi riconosciute in mano agli attentatori, che sono dei FAL e non dei kalashnikov?

ANTONIO MORICONI. Perché mentono tutti. E le spiego perché: Gelle non c'era; quello che racconta lo sa dal suo compare, che è Abdi, che inizia a raccontare che era un FAL. E la cosa grave, che io avrei considerato sconvolgente se fossi stato inquirente, è che l'autista conosce tutte le armi, perché lì le armi le hanno tutte, e soprattutto conosce i kalashnikov, perché le sue guardie del corpo, di cui una


Pag. 48

scompare misteriosamente quando arriva Ilaria Alpi, sono dotate di kalashnikov; altra cosa grave è che la guardia del corpo, conoscendo bene il kalashnikov che ha in mano, come anche lui dichiara, pone i due aggressori (all'inizio, poi scompare) armati di FAL, non parla di kalashnikov. Parla poi Abdi; quando viene sentito in quella sede in cui modifica adeguando alle risultanze, dice che quello di destra aveva un kalashnikov. Quello di destra è quello che ha sparato e la risultanza della consulenza è che era un kalashnikov; quindi, lui modifica, stranamente, adeguandosi alla risultanza scientifica. Come poteva saperlo? Hanno sempre parlato di FAL, sempre parlato di FAL.

GIULIO SCHMIDT. Poiché risulta dalle testimonianze sia dell'autista sia della guardia del corpo che due degli attentatori sono scesi dalla macchina e si sono diretti verso l'automobile, che in quel momento, tra l'altro, per dichiarazione dell'autista, stava facendo una retromarcia...

ANTONIO MORICONI. Dopo fa la retromarcia, quando viene aggredito. Fa la retromarcia per scappare.

GIULIO SCHMIDT. Esatto. Hanno sparato dei colpi. Si è trovato sul luogo del delitto traccia di bossoli riferiti ai FAL e non ai kalashnikov?

ANTONIO MORICONI. No, perché era impossibile.

GIULIO SCHMIDT. La macchina ha dei fori di penetrazione di altre armi rispetto...

ANTONIO MORICONI. Nella sentenza se ne dovrebbe parlare, ma siccome il pick up su cui era Ilaria è stato successivamente fotografato dai colleghi che sono andati sul posto, è sorto il dubbio. Sul pick up che è stato fotografato c'era un foro di pallottola, come raccontava l'autista, però è stato avanzato il dubbio, che non è stato mai risolto, che non fosse quello il pick up originale, perché era stato riverniciato, o qualcosa del genere. Insomma, sembrerebbe che sia stato mostrato ai giornalisti e soprattutto a quello che ha fatto le foto un pick up diverso, non quello su cui stava Ilaria. È un dubbio che non è stato mai fugato.

GIULIO SCHMIDT. Anche l'avvocato Duale ha sottolineato il comportamento di Hashi, dicendo che quando fu fatto il processo d'appello egli si trovava in Olanda. L'avvocato Duale ha fatto anche capire che avrebbe sconsigliato ad Hashi di tornare in Italia, affermando, se non sbaglio «non si sa mai come va a finire con la giustizia italiana».

ANTONIO MORICONI. È colpa mia. Poi le dirò.

GIULIO SCHMIDT. Per quale motivo Hashi tornò?

ANTONIO MORICONI. Le spiego: Hashi era andato via dalla Somalia e viveva in Europa; viveva stabilmente in Olanda, dove lavorava. Voleva tornare, perché si sentiva innocente e voleva che la sua innocenza fosse riconosciuta. Per la mia esperienza e per la mia fiducia nel sistema giudiziario (che poi è stata incrinata da questa sentenza), conoscendo gli atti e sapendo quello che era successo, era del tutto imprevedibile che la sentenza di primo grado potesse essere modificata, tant'è che fummo costretti, poiché lui non poteva entrare in Italia, non avendo il permesso di soggiorno, a chiedere un'autorizzazione al presidente della corte d'appello affinché autorizzasse la questura a dare ad Hashi il permesso per rientrare in Italia. Il presidente acconsentì (lo ringrazio per il «pacchettino» che m'ha fatto) e Hashi poté entrare in Italia.
Le dirò di più. Dopo quell'inquietante ordinanza e quello che era successo, alla luce della esperienza mia, che non è poca, la tentazione era di farlo fuggire, lo dico sinceramente, perché avevo capito che c'era qualcosa che non andava, perché la giustizia non si può amministrare con quella ordinanza. Nonostante ciò, fino al


Pag. 49

l'ultimo ho avuto fiducia nella giustizia italiana; fin quando non l'hanno arrestato in aula. Io lo sapevo dalla mattina che l'avrebbero arrestato e le spiego perché. Quando doveva uscire la sentenza - che è uscita a novembre, per cui tra ottobre e novembre ci sono state quelle quattro udienze - stranamente (due ora prima eravamo lì che aspettavamo l'esito della sentenza) c'era tutta la DIGOS, con Giannini, fuori. Erano stati convocati perché dovevano arrestare Hashi in udienza. C'erano sei uomini della DIGOS con Giannini. E le dirò di più: la certezza che l'avrebbero arrestato l'ho avuta perché, passeggiando fuori, in attesa della sentenza, parlavo con questo ragazzo e mi allontanavo dall'aula: siccome non sono l'ultimo arrivato, mi guardavo dietro e mi rendevo conto che, sostanzialmente, venivo seguito da tutti gli uomini della DIGOS. Poi, se accompagnavo Hashi di fronte all'aula e mi allontanavo da solo, no c'era nessuno che mi seguisse. Riprendevo Hashi e andavo (lo facevo apposta) verso i bagni e mi seguivano tutti.

GIULIO SCHMIDT. Questo secondo lei vuol dire che erano al corrente di quella che sarebbe stata la sentenza?

ANTONIO MORICONI. Sì, altrimenti non si spiega. E la cosa grave è che erano lì dalla mattina alle 9, quando la corte è entrata in camera di consiglio. Quando sono arrivati lì, erano già tutti allertati. Normalmente - l'esperienza me lo insegna, perché ho fatto tanti processi - quando accadeva che dovessero arrestare in aula un imputato, le forze dell'ordine venivano chiamate un'ora o mezz'ora prima e arrivavano all'ultimo momento; ma lì alle 9, prima di entrare in camera di consiglio, c'era lo spiegamento di tutta la DIGOS.

GIULIO SCHMIDT. La ringrazio.

PRESIDENTE. La parola all'onorevole De Brasi.

RAFFAELLO DE BRASI. Penso che l'avvocato si renda conto della pesantezza delle affermazioni che ha fatto rispetto al processo, avendo egli detto e ripetuto che si è trattato di una sentenza precostituita. Praticamente, i magistrati avrebbero organizzato, insieme a Giannini e a qualcun altro...

ANTONIO MORICONI. Io, io...

RAFFAELLO DE BRASI. Lei ha detto questo. Ha detto una cosa molto pesante, molto grave, ma questo rientra completamente nella sua responsabilità.

ANTONIO MORICONI. L'ho premesso questo.

RAFFAELLO DE BRASI. Perfetto. Io volevo, invece, fare un ragionamento molto breve, per dirle come noi siamo arrivati alla decisione di fare un nuova perizia. Lei sarà anche sicurissimo a proposito delle perizie, però le debbo dire che, leggendole, in verità ci siamo trovati di fronte ad un balletto. Ad esempio, lei fa molto affidamento sul dottor Sacchetti, ma nel gennaio del 1995 noi abbiamo due pareri diversi: Martino Farnetti e Sacchetti dicono due cose diverse.

ANTONIO MORICONI. Ma sulla balistica, perché gli danno un doppio incarico.

RAFFAELLO DE BRASI. Sì, ma dicono due cose diverse. Uno parla di un colpo a bruciapelo, un colpo a contatto, e l'altro dice, invece, che si tratta di un colpo a canna lunga. Poi c'è il magistrato Pititto, che fa riesumare il corpo; c'è l'autopsia ed entrambi (perché l'incarico è stato dato a Sacchetti e a Farnetti) ad un certo punto dicono che non si è trattato di un colpo di pistola, bensì di un colpo di AK 47. Questo dice Farnetti e lo firma. Lei si rende conto che noi ci siamo trovati in una situazione in cui la stessa persona firma due cose completamente diverse e dunque, in questo balletto di perizie, siamo stati costretti a chiederne una nuova, sperando che riesca finalmente a fare chiarezza.
Lei ha continuato a dire che la questione centrale del processo era legata,


Pag. 50

appunto, alle modalità dell'uccisione; però per il suo cliente la questione fondamentale consiste, secondo me, nel riconoscimento da parte di Gelle.

ANTONIO MORICONI. Gelle e l'autista. Sono due.

RAFFAELLO DE BRASI. Sì, ma prima Gelle. Poi l'autista lo fa in una maniera un po' strana, sinceramente.

ANTONIO MORICONI. Però lo fa e lo fa arrestare.

RAFFAELLO DE BRASI. Lo fa anche l'autista; però diciamo che il primo è Gelle. Infatti, noi abbiamo sempre trovato una certa riluttanza ad accettare la condanna del suo cliente sulla base di questo riconoscimento. L'avvocato Duale ha detto che ci farà avere le fotografie (per l'esattezza la foto di Gelle e il fotogramma riguardante la zona dell'omicidio) e noi cercheremo di confrontarle, cioè cercheremo di capire come sia stato possibile questo errore, questa manipolazione.

ANTONIO MORICONI. Se può aiutare, le dico che quando avrete tutte le copie degli atti della corte d'assise, avrete anche quella perizia, data in dibattimento in corte d'assise d'appello, con tutte le fotografie e le spiegazioni. Quella vi potrà pure essere utile, ma quando avrete la copia completa - ho visto stamattina che stavano facendo le copie, perché è voluminosa - avrete la consulenza, perché è stata acquisita successivamente all'esame del maresciallo a cui era stato dato l'incarico di fare questa individuazione.
Tenga presente che quello che ha fatto l'annotazione, quello che è comparso stranamente in appello, quando gli è stato detto: ma lei lo aveva al fianco (quello aveva il fotogramma davanti; lo capisce meglio di me, si vede), dice: non l'ho riconosciuto, è lui che si è riconosciuto.
Sgomento, no? Ce l'hai al fianco, vedi un fotogramma lì davanti, ingrandito, e dici: lui si riconosce, mica l'ho riconosciuto io. Poteva avere una vaga somiglianza.

RAFFAELLO DE BRASI. È chiaro che noi invece cercheremo di vedere se lo riconosciamo noi, ovviamente.

ANTONIO MORICONI. Io ho fatto le domande stringenti ...

RAFFAELLO DE BRASI. Anche per il fatto che anche l'alibi che il suo cliente aveva non è stato assolutamente preso in considerazione, né indagato.

ANTONIO MORICONI. Le spiego perché e le dico questo da un punto di vista processuale. Quando viene posto in stato di fermo - e vedrete i verbali di interrogatorio in sede di convalida - Hashi fornisce l'alibi, immediatamente. Hashi non sa che lo arrestano, non sa che è accusato di quell'omicidio, quindi non può precostituirsi un alibi. Racconta come si è verificato. Dice: io non ero presente quando è stata uccisa, l'ho appreso dalla radio, perché mi ero recato presso mio nonno che stava male, in un villaggio, tant'è vero che quando sono andato lì mi ha accompagnato la mia datrice di lavoro e mi è venuta a prendere di nuovo. Quindi, l'alibi lo fornisce subito - questo è fondamentale, vero, professore? Lo sa meglio di me -, in un momento in cui non sa quello che succede, fornisce l'alibi.
Riusciamo, a spese nostre, a fare arrivare la datrice di lavoro, la quale conferma l'alibi. Dice: il giorno in cui fu uccisa la Alpi non c'era, lo avevo accompagnato io a prendere il pullman e poi ero andata a riprenderlo, ma quando venne uccisa lui stava fuori.
Sa che mi si dice in sentenza di appello? Che l'alibi non è provato. È vero che ha detto così, ma chi ci dice che dice la verità, era la datrice di lavoro? Del resto - lo leggerete ed è passato in Cassazione, che è gravissimo - l'imputato poteva fornirci un certificato medico del nonno, che era malato. Sconvolgente! È passata in Cassazione con la motivazione.


Pag. 51

Dopo sette anni, fornisce un certificato, in uno stato di guerra! Ma se pure lo avesse fornito, per assurdo, si poteva dire: non lo possiamo verificare, è falso. È tutto scritto, in quello che dico, onorevole, non c'è nulla che aggiungo, è quello che è scritto nelle carte.

PRESIDENTE. Prego, onorevole Cannella.

PIETRO CANNELLA. Avvocato, le rivolgo alcune domande su sue opinioni. Lei che opinione si è fatto dell'ambasciatore Cassini, che fa l'ambasciatore Cassini, chi è? È un autorevole personaggio che emerge e che è protagonista, ma abbiamo riscontrato una diversità di opinioni sulla reale attività e sui reali interessi dell'ambasciatore.

ANTONIO MORICONI. Le dico questo per farle capire come nascono i dolori del povero Hashi. Quando i genitori di Ilaria Alpi - non so se li avete sentiti - scoprono tante cose che non quadrano, iniziano questa battaglia per scoprire le cose, perché tengono nascoste delle cose, scompaiono tutti gli appunti della figlia, le riprese di Bosaso, non li mandano a fare il riconoscimento del cadavere dicendo di non andare a vederlo perché è tutta ... Poi invece vedono il fotogramma e cominciano ad insospettirsi e comincia questa grande battaglia.
Il Vicepresidente del Consiglio, Veltroni, chiama Cassini, perché laggiù non esisteva un Governo, non esisteva niente, e gli dà l'incarico di fare degli accertamenti in loco - parliamo del 1996 - sulla possibilità di individuare gli autori di questo reato. Ed è tutto documentato, perché ci sono delle dichiarazioni dei testimoni, che sono stati sentiti ma non sono tornati per il dibattimento. Va giù e tira fuori la voce della possibilità di trovare dei testimoni riguardo all'omicidio. Testimoni non se ne trovano, però si sparge la voce ed esce fuori questo Gelle, che si fa raccomandare, anzi si lamentava - vedete le dichiarazioni degli altri - che, nonostante avesse mandato a dire a Cassini che lui - era l'unico che lo ha detto - poteva individuare chi era stato, perché conosceva uno degli autori, Cassini non lo chiamava.
Poi Cassini lo convoca e questo si fa accompagnare da un soggetto di cui non ricordo il nome, che è stato sentito in Italia, ma non è venuto in dibattimento; quindi, questi atti li troverete nel fascicolo del pubblico ministero. Lo accompagna da Cassini, lui resta fuori. Lui va da Cassini e parla con lui di questo fatto. Esce fuori, sale in macchina con questo signore e gli dice: Cassini mi ha detto - è scritto lì, perché poi nessuno glielo ha puntualizzato - che testimoniando non dovrò più preoccuparmi per il resto dei miei giorni.

PIETRO CANNELLA. Questo è gravissimo.

ANTONIO MORICONI. Se vuole, le leggo la pagina relativa ad un teste, che è stato sentito. Questo signore si chiama Abdesalam Ahmed Hassan ed è stato sentito il 5 febbraio 1998, negli uffici della Digos.
Non ci sono le domande, ma solo le risposte. La prima è questa: sì, conosco Ahmed Ali Rage, conosciuto anche con il soprannome di Gelle, dal 1994, in quanto abitavamo a Mogadiscio nello stesso quartiere. Circa un mese prima che Gelle partisse per l'Italia - quindi, quando viene sentito ad ottobre del 1997 - lui stesso ha chiesto di essere presentato all'ambasciatore Cassini perché era a conoscenza di informazioni sull'omicidio dei giornalisti italiani Alpi e Hrovatin. Non conoscendo personalmente detto ambasciatore, ho presentato il Gelle a mio cugino Ahamed Washington - quello che Cassini definisce persona affidabile - rappresentante dell'Unione europea a Mogadiscio, il quale, conoscendo l'ambasciatore Cassini, glielo avrebbe potuto presentare. È stato Gelle spontaneamente a chiedermi di essere presentato all'ambasciatore Cassini e io, quindi, mentre mi trovavo con Gelle, ho chiamato per telefono mio cugino Ahamed Washington e gli ho detto che c'era un mio amico che voleva parlare con l'ambasciatore italiano perché sapeva fatti sull'omicidio


Pag. 52

di Ilaria Alpi. Mio cugino mi ha detto che avrebbe parlato con Cassini e avrei dovuto richiamare dopo un'ora circa. Io ho fatto questo e mio cugino mi ha detto di andare subito con Gelle all'ufficio della Comunità europea dove c'era anche Cassini. Gelle non ha raccontato quanto a sua conoscenza sull'omicidio dei giornalisti davanti a me, perché sono entrati in una stanza mio cugino Ahamed Washington, Cassini e Gelle (questo è l'accompagnatore). Gelle non mi ha raccontato quello che sapeva dell'omicidio, ma mi ha chiesto di farlo parlare con Cassini perché il giorno della morte dei giornalisti lui era presente sul posto dell'omicidio. Gelle è andato spontaneamente da Cassini e mi ha detto che l'unica esortazione che gli era stata rivolta era quella di dire tutto ciò che aveva visto, solamente quello a cui aveva assistito, senza inventare nulla. Se avesse detto la verità, non avrebbe dovuto avere preoccupazioni per la sua incolumità. Testualmente Gelle mi riferì che Cassini gli aveva detto che, se avesse detto la verità, sarebbe stato garantito per il futuro.
La domanda successiva era: che cosa voleva dire «garantito»?, ma non gliela fanno.
Conosco Hashi, detto Faudo, ma non so se si chiami ... e poi tutto il resto

PIETRO CANNELLA. A proposito di documenti, prove o comunque elementi utili negati, sono state richieste foto o riprese dal satellite del luogo dell'omicidio, che lei sappia, dalla difesa?

ANTONIO MORICONI. No.

PIETRO CANNELLA. Sa che fine ha fatto l'autista?

ANTONIO MORICONI. L'autista è rimasto per un lungo periodo, anche quando si è celebrato l'appello - non lo hanno chiamato e non hanno spiegato il perché -, a disposizione dell'autorità italiana. Se non vado errato, addirittura fino al processo di annullamento; dopo che è stato annullato, si è rifatto il processo e si è modificata solo la pena. Era ancora in Italia, poi - dalle informazioni che abbiamo avuto con l'avvocato Duale, che ha dei contatti giù - sembrerebbe fosse rientrato in Somalia e poi ...

PRESIDENTE. È stato ucciso.

ANTONIO MORICONI. Ucciso o comunque morto.

PRESIDENTE. Adesso Duale ha detto che forse non è morto.

ANTONIO MORICONI. Questo per descrivere anche il clima che si respira laggiù, avere quelle certezze che hanno portato alla condanna di Hashi, sono quelle cose proprio sconvolgenti. Addirittura non si è saputo mai se il pick-up fotografato fosse quello vero o uno finto che hanno fatto vedere. Cose sconvolgenti.

PIETRO CANNELLA. Un'ultima cosa, a proposito di perizia balistica e necroscopica: giudica compatibili le ferite sulle mani di Ilaria, la ferita sul capo e il colpo a bruciapelo?

ANTONIO MORICONI. Io vi posso rimandare - e poi vi spiego - soprattutto alla perizia ed all'esame del professor Umani Ronchi.

PRESIDENTE. L'abbiamo.

ANTONIO MORICONI. Il professore lo conoscete: si può dubitare della sua capacità professionale? Lui spiega tutto. È sufficiente rileggere quella per capire, perché è stata fondamentale.

PRESIDENTE. Che è poi la consulenza tecnica pilastro, perché, come diceva giustamente l'onorevole De Brasi, ve ne sono alcune altre nelle quali ci sono diversità, ma sono diversità non sempre significative. Questa è la perizia di Cartoni, Di Francesco, D'Uffizi, Lombardi, Pierucci e Umani Ronchi. Lo stesso Torre, tutto sommato, non è che smentisca, perché lui si ferma soltanto sull'analisi dei materiali.


Pag. 53


Avvocato Moriconi, la ringraziamo. È stato molto utile poterla ascoltare. Se dovesse avere qualche ulteriore evenienza, la Commissione è sempre disponibile ad ascoltarla e a raccogliere le sue indicazioni.
Ringrazio i colleghi intervenuti e dichiaro concluso l'esame testimoniale.

Back Forward