XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 5022
Onorevoli Colleghi! - La necessità di una definizione
dell'impresa agricola di allevamento che corrisponda alla
evoluzione tecnologica e produttiva è particolarmente evidente
nel settore zootecnico, ove la stessa struttura aziendale ha
subìto trasformazioni profonde per l'impatto delle nuove
tecnologie, anche su sollecitazione di una domanda
qualitativamente e quantitativamente più consistente dei
prodotti degli allevamenti.
La fondamentale esigenza di comprimere al massimo i costi
di produzione mediante la rigorosa applicazione di calibrati
metodi di alimentazione ha indotto gli allevatori ad avanzare
su strade totalmente nuove, oggi praticate su larga scala,
soprattutto in alcuni Paesi dell'area comunitaria.
In termini strettamente economici questa evoluzione ha
comportato, quale suo aspetto più rilevante, la sostituzione
di terra e lavoro con beni capitali che incorporassero le
nuove tecnologie. La prima conseguenza è stata la rottura, sul
piano organizzativo, della stretta connessione tradizionale
dell'economia della produzione vegetale con quella della
produzione animale che caratterizzava l'ordinamento colturale
delle aziende zootecniche, dove il fabbisogno alimentare era
assicurato in gran parte dalla produzione foraggera
aziendale.
L'allevamento tradizionale tende dunque oggi ad essere
sostituito da nuove forme di allevamento intensive, nelle
quali la produzione zootecnica è svincolata dal nesso fisico
con le risorse del fondo.
Dal raffronto con la legislazione straniera emerge
peraltro come, in Paesi dove l'agricoltura ha da tempo
raggiunto posizioni di avanguardia, il legislatore abbia preso
atto di una nozione comune di agricoltura nella quale
rientrano allevamenti assai moderni nei metodi ma di antica
tradizione. Anche il Trattato di Roma, che certamente ha
ricavato la nozione di agricoltura, valida per la Comunità
europea, da quelle adottate dai Paesi membri più avanzati nel
settore agricolo, considera agricoli i prodotti di tutti gli
allevamenti.
Peraltro, nonostante tutti gli elementi di evoluzione
emersi sia nell'ambito della dottrina giuridica, sia della
legislazione speciale, sia della normativa comunitaria in
merito alla nozione di allevamento, per lungo tempo non si è
potuta individuare un'univoca qualificazione delle attività
zootecniche. Ciò si è risolto in una difficoltà interpretativa
e applicativa di non poco conto poiché qualsiasi attività che
si qualifichi come imprenditoriale, creatrice cioè di risorse
e di occupazione in una logica di accrescimento della
ricchezza nazionale, necessita, pena la svalutazione del
proprio ruolo, di un preciso quadro normativo di riferimento,
che consenta al soggetto imprenditore di orientare le proprie
scelte in base ai criteri della massima economicità.
Nel nostro ordinamento è il processo di modernizzazione
dell'agricoltura che ha svincolato la nozione di attività
agricola dai retaggi del passato, adeguandola alle novità
della tecnica e della scienza nonché delle nuove esigenze e
frontiere offerte dal mercato.
Al riguardo, il decreto legislativo n. 228 del 2001 ha
riformulato l'articolo 2135 del codice civile consentendo il
superamento della nozione di attività agricola dallo stretto
collegamento funzionale, sotto il profilo economico, con il
fondo, per identificarla nello svolgimento del ciclo
biologico. L'allevamento invece ha visto sostituire il termine
"bestiame" con quello più generale di "animali",
indipendentemente da un rapporto di necessaria inerenza
funzionale alla coltivazione del fondo.
Importanti sono state poi le novità apportate alle
cosiddette "attività connesse", svincolando queste dal
parametro dell'"esercizio normale dell'agricoltura", che aveva
determinato copiosa giurisprudenza restrittiva
nell'individuazione delle nuove forme di attività agricole.
Nel processo evolutivo, novità rilevanti, sul piano
oggettivo, sono state apportate recentemente dalla legge
finanziaria per il 2004 (legge n. 350 del 2003) e dal decreto
legislativo n. 99 del 2004. La prima, all'articolo 2, ha
continuato l'opera di raccordo fra l'ordinamento civilistico e
quello fiscale, prima esistente solo ai fini dell'imposta sul
valore aggiunto e ha ampliato ancora la sfera delle attività
connesse, individuandole anche nella valorizzazione e nella
commercializzazione del prodotto ottenuto dall'attività di
coltivazione o di allevamento.
Infine, con il decreto legislativo n. 99 del 2004 il
legislatore è intervenuto sul piano soggettivo, introducendo
la qualifica di imprenditore agricolo professionale,
caratterizzata, sul piano individuale e societario, da
requisiti meno rigorosi rispetto alla precedente qualifica di
imprenditore agricolo a titolo principale.
Tale evoluzione legislativa è stata sommariamente
ricordata per sostenere quanto meno un atteggiamento critico
verso la giurisprudenza della Suprema Corte di cassazione che,
fino a pochi anni fa, limitava l'accesso nel mondo agricolo a
quelle nuove forme di agricoltura che man mano si affacciavano
sul mercato.
Si pensi, a tale riguardo, alle interpretazioni
sostanzialmente restrittive fino agli anni sessanta del citato
articolo 2135 del codice civile, in cui la Suprema Corte
affermava che l'allevatore fosse da considerare imprenditore
agricolo, ove l'attività di allevamento si trovasse in intima
connessione con la coltivazione del fondo: il bestiame veniva
così considerato, alla stregua della normativa antecedente al
1942, nulla di più che una scorta viva in dotazione del fondo
rustico.
Peraltro già dal 1966 vi sono stati interventi innovativi
della giurisprudenza di legittimità, nel senso che la
giurisprudenza della Corte di cassazione ha fatto registrare
una nuova evoluzione considerando l'allevamento come attività
essenzialmente agricola, indipendentemente dalla connessione
con la coltivazione del fondo.
Siffatta evoluzione giurisprudenziale non è stata,
peraltro, del tutto lineare; non sono mancati, infatti, indugi
e ripensamenti da parte dello stesso Supremo Collegio: in
principio la Cassazione ha escluso che l'allevamento dei
cavalli da corsa potesse considerarsi attività agricola (così
Cassazione 10 ottobre 1955, n. 2951; Cassazione 27 settembre
1967, n. 2211). Si sosteneva che l'attività di allevamento dei
cavalli da corsa avesse uno "scopo industriale" (Cassazione n.
2951 del 1955) e che essa non potesse "inquadrarsi nel sistema
della impresa agraria, non avendo carattere complementare
rispetto a questa, nemmeno quando all'affittuario fosse
consentito di servirsi del terreno per il pascolo degli
animali in allevamento" (Cassazione n. 2211 del 1967).
La Corte di cassazione, con sentenza 12 febbraio 1981, n.
857, ha poi escluso che l'allevamento dei cavalli da corsa
possa considerarsi attività agricola, non rientrando nel
normale esercizio dell'agricoltura secondo la "tecnica che lo
governa", essendo tale attività il risultato dell'impiego di
tecniche e di procedimenti del tutto estranei all'agricoltura,
perseguito per finalità ad essa estranee (Cassazione 3 luglio
1981, n. 4346).
Tuttavia, con sentenza 24 settembre 1990, n. 9687, la
Corte di cassazione si è pronunciata in modo sensibilmente più
aperto verso tale forma di allevamento.
Nella sentenza si legge che: "premesso che ai sensi
dell'articolo 2135 del codice civile il concetto di
allevamento deve ravvisarsi nel complesso delle attività
dirette all'alimentazione, alla cura, alla riproduzione e allo
sviluppo del bestiame (...), ricorre impresa agricola di
allevamento del bestiame quando questa ha base su di un
appezzamento di terreno e quindi se il bene terra rientri in
combinazione con la forza lavoro quale fattore per lo
svolgimento dell'attività zootecnica, anche con riferimento
all'allevamento e all'addestramento dei cavalli da corsa".
Sono stati tratti elementi di conforto in tale senso anche
dall'articolo 10 della legge n. 11 del 1971, che, tra le
iniziative di organizzazione e di gestione dell'affittuario,
prevede la "razionale coltivazione del fondo" ovvero gli
"allevamenti di animali" e non più solo l'allevamento del
"bestiame" che figurava nell'articolo 2135 del codice civile,
e dall'articolo 7 della legge n. 203 del 1982, che equipara ai
coltivatori diretti, tra gli altri, i laureati in veterinaria
per le aziende a prevalente indirizzo zootecnico.
La citata sentenza della Corte di cassazione ha
determinato un contrasto giurisprudenziale circa la
qualificabilità o meno dell'attività di allevamento di cavalli
da corsa come attività agricola.
Sono, pertanto, intervenute le Sezioni unite civili della
Cassazione che, con sentenza n. 11648 del 16 luglio 1993 si
sono pronunciate nel senso che l'allevamento dei cavalli da
corsa non può essere qualificato attività agricola ai sensi
dell'articolo 2135 del codice civile, in quanto richiede "un
complesso di conoscenze tecniche in un settore particolare,
che esula del tutto da quello propriamente agricolo e non
rientra nell'esercizio normale dell'agricoltura" anche a
prescindere dalla mancanza di un qualsiasi collegamento con il
fondo.
Pertanto, a seguito delle innovazioni normative
intervenute in questi anni, si rende necessario dettare una
norma precisa che non lasci dubbi sulla qualificazione
dell'attività di allevamento e addestramento di cavalli
destinati alle competizioni, facendo riferimento anche a
quanto stabilito dal legislatore comunitario: in proposito si
ricorda che nell'emanare la direttiva 90/428/CE del Consiglio,
del 26 giugno 1990, relativa agli scambi di equini destinati a
concorsi e alla fissazione delle condizioni di partecipazione
a tali concorsi, il Consiglio ha considerato che
"l'allevamento dei cavalli, e in particolare dei cavalli da
corsa, rientra generalmente nell'ambito delle attività
agricole" e che "esso costituisce una fonte di reddito per una
parte della popolazione agricola".
Con l'articolo 1 della presente proposta di legge si
definisce agricola l'attività diretta all'allevamento di
cavalli e al loro addestramento per la competizione
sportiva.
Con l'articolo 2 si dettano le conseguenti disposizioni
fiscali.