XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 4578
Onorevoli Deputati! - L'insoddisfazione circa lo stato
della giurisdizione civile è generale ed è, seppur con diversi
accenti, di continuo manifestata: nonostante i ripetuti
interventi del legislatore, accentuatisi negli ultimi anni, a
problemi antichi e irrisolti, si sono aggiunti problemi nuovi,
mentre nodi organizzativi si intersecano continuamente con
problemi di rito. L'opportunità di intervenire è certa, ma in
questo contesto la strada di ulteriori aggiustamenti appare
non più praticabile.
La consapevolezza che buona parte dei problemi - con in
testa quello della patologica durata delle procedure - dipende
da problemi di struttura, non impedisce però di esprimere un
giudizio critico su congruenza, adeguatezza e razionalità
dell'attuale disciplina processuale. In questa direzione, si
impongono interventi diretti sul codice di procedura civile,
ma con chiara visione del loro scopo e dei loro limiti. Essi
debbono essere organici, significativi e coraggiosi, ma
esigono anche di non travalicare lo sforzo di riordino e di
razionalizzazione: in altre parole, non possono certo esser
tali da condurre allo stravolgimento del codice e, quindi,
alla rifondazione del diritto processuale. Occorre, infatti,
tener fermo che i princìpi-base sono comuni a tutti i sistemi
europei e sarebbe inconcepibile voler "inventare" un sistema
processuale del tutto avulso dalla storia. Anzi, le linee
guida dell'intervento poggiano sui postulati che Chiovenda ha
consegnato alla dottrina italiana e la stessa Corte
costituzionale ha più volte utilizzato, ma che non sempre sono
attuati nella normativa in vigore: che "il processo
deve dare quello, tutto quello e solo quello che spetta
secondo il diritto sostanziale"; che "la durata del processo
non deve pregiudicare la parte che ha ragione"; che "il
processo deve tendere alla decisione di merito e quindi i vizi
del rito - ovviamente se sanabili - debbono poter essere
emendati, senza dar luogo ad una "absolutio ab
instantia". Il momento appare maturo per un'operazione
generale di riordino globale del "corpus" normativo, che
risente in maniera accentuata di interventi ripetuti nel tempo
e spesso privi di coordinamento, anche a causa della
confliggente ispirazione di taluni di essi.
Il codice di procedura civile del 1942: le ragioni di una
ristrutturazione complessiva.
V'è un "cahier des doléances" la cui notorietà
trascende il mondo degli addetti ai lavori: la lunghezza dei
tempi è universalmente considerata eccessiva; parimenti
eccessivo appare il carico di formalismo; l'effettività delle
pronunce è investita da scetticismo; il funzionamento delle
procedure esecutive è considerato insoddisfacente.
Lo stato di deterioramento del sistema processuale
delineato dal codice, anche a seguito di molteplici interventi
legislativi che si sono stratificati sul corpus
originario, è fotografato da un dato, particolarmente
significativo per gli operatori, indicatore del disordine in
cui versa il codice:
a) nel testo attuale ben 68 articoli sono vacanti
(articoli 2; 3; 4; 8; 16; 55; 56; 74; 76; 172; 173; 248; 284;
312; 314; 315; 349; 364; 381; 448; 449; 450; 451; 452; 453;
454; 455; 456; 457; 458; 459; 460; 461; 462; 463; 464; 465;
466; 467; 468; 469; 470; 471; 472; 473; 651; 672; 673; 674;
680; 681; 682; 683; 689; 690; 701; 702; 796; 797; 798; 799;
800; 801; 802; 803; 804; 805; 824);
b) nel testo attuale ben 48 articoli hanno
numerazione ripetuta (30-bis; 50-bis;
50-ter; 50-quater; 163-bis; 168-bis;
184-bis; 186-bis; 186-ter; 186-quater;
281-bis; 281-ter; 281-quater;
281-quinquies; 281-sexies; 281-septies;
281-octies; 281-nonies; 371-bis;
391-bis; 410-bis; 412-bis; 412-ter;
412-quater; 417-bis; 447-bis; 534-bis;
534-ter; 591-bis; 591-ter; 618-bis;
669-bis; 669-ter; 669-quater;
669-quinquies; 669-sexies; 669-septies;
669-octies; 669-novies; 669-decies;
669-undecies; 669-duodecies; 669-terdecies;
669-quaterdecies; 736-bis; 742-bis;
819-bis; 819-ter);
c) numerosi istituti sono oggi regolati "in
condominio" tra normativa codicistica e normativa speciale
(valgano per tutti le paradossali scissioni delle regole di
funzionamento del processo del lavoro tra articoli del codice
ed articoli - ristrutturati e rinumerati molte volte - di vari
decreti legislativi esterni al codice, nonché delle norme
sulla giurisdizione nazionale, scomposte tra articoli del
codice e legge n. 218 del 1995).
L'esigenza di una razionalizzazione, anche formale, del
testo normativo non è, pertanto, più rinviabile. Si è voluto e
dovuto affrontare questo problema, seguendo l'ordine
dell'attuale codice e intervenendo laddove ritenuto opportuno
per modificare la disciplina vigente.
Le proposte riguardano la maggioranza degli istituti, sia
pure in misura considerevolmente diversa l'uno dall'altro.
Esse nascono essenzialmente dallo stato della prassi
giudiziaria, desunto dall'esperienza tratta dalla quotidiana
pratica nelle aule giudiziarie.
Si è ritenuto essenziale riesaminare non certamente il
ruolo in sé del giudice nel processo civile, bensì il modo in
cui tale ruolo è stato attuato dal vigente codice ed in quale
modo, viceversa, esso possa essere più efficacemente
realizzato per farne il perno effettivo e centrale del
processo.
L'attuale disciplina è caratterizzata da una eccessiva
utilizzazione del giudice per il compimento di attività
sostanzialmente estranee - e comunque superflue - rispetto a
quella sua tipica; attività che non solo sottraggono tempo al
giudice, ma dilatano i tempi del processo, in quanto la
necessità di udienze non strettamente funzionali al
"giudicare" impone lunghi intervalli tra di esse.
La riforma propone, pertanto, di "liberare" il giudice da
incombenti meramente ordinatori, che rendono il processo
rigido ed insensibile alle peculiarità delle singole
controversie, così restituendo all'udienza - fissata su
istanza di una delle parti - la funzione di effettiva ed orale
sede del contraddittorio ed al giudice il ruolo di chi la
prepara, individuandone i "temi" nel relativo decreto di
fissazione e la gestisce con pienezza di poteri.
Attraverso questa tecnica, peraltro, è attribuita alle
parti la possibilità di dare alla trattazione della causa
l'ampiezza ritenuta necessaria, attraverso un meccanismo
idoneo a stroncare sul nascere ogni intento dilatorio: sicché
risulta esaltato il ruolo del difensore, ma anche accentuata
la sua responsabilità, in quanto questi sarà chiamato a
valutare autonomamente la sufficienza della trattazione
svolta, cioè l'esaustività delle allegazioni e delle prove
offerte per pervenire ad una decisione favorevole, valutazione
che presuppone elevata professionalità e responsabilità: si
dimostra, in tale modo, che anche modifiche del rito - si
pensi, ancora, alle prove assunte con forme processuali ma
fuori del processo e prima di esso, per prevenirne la nascita,
ovvero dell'istituto del référé - possono risolversi in
maggior efficienza delle strutture giudiziarie.
Gli interventi relativi alla parte generale.
Un sintetico sguardo alle principali novità fa emergere
innanzitutto revisioni riguardanti la disciplina della
giurisdizione e della competenza:
a) quanto alla giurisdizione - oltre
all'armonizzazione, secondo i criteri dei regolamenti
comunitari e della legge n. 218 del 1995 - si è ritenuto
necessario sia rivedere l'insoddisfacente stato dei rapporti
tra giudice ordinario e giudici speciali - rapporti che
vengono rimodellati su quelli propri della competenza,
prevedendo la continuazione del giudizio proposto dinanzi al
giudice carente di giurisdizione di fronte a quello che ne sia
provvisto - sia consentire la proposizione del regolamento
anche successivamente alla pronuncia della sentenza, sul
modello del regolamento di competenza;
b) quanto alla competenza, si è mirato, da un
lato, ad una radicale semplificazione dei criteri di
distribuzione territoriale, con tendenziale eliminazione dei
fori speciali, dall'altro ad ulteriori restrizioni della
proponibilità dell'eccezione di incompetenza. In chiave di
semplificazione, la pronuncia sulla competenza assume la forma
dell'ordinanza. Importanti modifiche investono, poi,
l'istituto del regolamento di competenza: vengono eliminati il
regolamento facoltativo ed il regolamento d'ufficio e - al
fine di ridurre eventuali manovre dilatorie - la sospensione
del giudizio viene subordinata alla verifica di non manifesta
infondatezza o inammissibilità da parte del giudice a
quo. Altri elementi di semplificazione e razionalizzazione
sono introdotti nella disciplina della connessione e della
litispendenza interna, modellata - per garantire il diritto
alla decisione senza inutili andirivieni della causa da un
giudice all'altro - su quella internazionale e comunitaria;
c) le "invecchiate" discipline dell'astensione e
della ricusazione vengono ritoccate ed aggiornate in vario
modo, anche in ossequio al sopravvenuto rafforzamento
costituzionale della garanzia di imparzialità del giudice;
d) il regime della procura alle liti - lamentata
fonte di formalismi e speculazioni - è semplificato, non solo
facilitando la possibilità di ratifica e generalizzando la
retroattività di questa, ma anche invertendo l'attuale
presunzione di limitazione temporale della procura;
e) fermi restando i princìpi generali regolatori
delle rispettive materie, si è intervenuti sulla disciplina
degli atti processuali e dei termini, ancora una volta mirando
ad adeguare la disciplina a criteri più moderni, eliminando
taluni formalismi e rigidità. In particolare, con riguardo al
sistema delle comunicazioni e delle notificazioni,
è prevista, a titolo esemplificativo:
l'opportunità che l'intero sistema delle comunicazioni
ai difensori e tra i difensori delle parti possa fondarsi su
mezzi moderni, quali la posta elettronica ed il fax, con il
compito per il legislatore delegato di individuare le modalità
tecniche che diano certezza della ricezione;
la possibilità che la disciplina delle varie forme di
notificazione subisca una riorganizzazione razionalizzatrice,
soprattutto per garantire la realizzazione dei diritti di
difesa e di azione e l'adeguamento ai princìpi comunitari - in
particolare va segnalata la semplificazione della
"notificazione per pubblici proclami", data l'inefficacia e la
vetustà dell'attuale procedura;
l'opportunità che la defatigante notifica ad
associazioni, enti e persone giuridiche sia equiparata il più
possibile alle modalità previste per le persone fisiche e, in
particolare, che la notifica al rappresentante legale valga
come notifica all'ente rappresentato;
f) il regime delle spese processuali, sempre
ispirato al principio della soccombenza, vede l'attribuzione
al giudice del correttivo consistente nell'esercizio di un
motivato potere di porre, in parte o in tutto, i costi a
carico della parte formalmente vittoriosa che abbia, tuttavia,
causato o mantenuto in vita la lite, eventualmente rifiutando
ragionevoli proposte conciliative;
g) quanto all'intervento volontario, se ne è
limitata temporalmente l'esperibilità quando il terzo
introduce nel processo una domanda la cui trattazione -
possibile in altro giudizio - ritarderebbe la definizione del
giudizio tra le parti originarie, mentre tale limitazione è
stata esclusa quando il terzo - cosiddetto "interventore
adesivo dipendente" - non introduce alcuna novità di oggetto
ma si limita a sostenere, attraverso la difesa del diritto di
una delle parti originarie, un proprio interesse: sicché gli è
stato riconosciuto un autonomo potere di impugnazione della
sentenza e si è previsto che la mancata litis
denuntiatio, se ordinata dal giudice e rimasta inattuata,
determini l'estinzione del giudizio che, in ipotesi di
prosecuzione, darebbe luogo ad una sentenza di merito
fortemente esposta al rischio di essere impugnata con
l'opposizione di terzo revocatoria.
Gli interventi relativi al processo di cognizione.
Significativi appaiono gli interventi sul processo
ordinario di cognizione, tutti ispirati ad eliminare dallo
svolgimento del rito le rigidità, le farraginosità e le
ingiustizie unanimemente lamentate.
La fase introduttiva del procedimento di primo grado
subisce le principali modifiche; il sistema vigente contempla
una struttura processuale rigida, in cui i tempi sono scanditi
in maniera unitaria per tutti i tipi di controversia e non è
possibile alla parte che vi abbia interesse imprimere
un'accelerazione alla procedura. Dopo la notifica della
citazione ad udienza fissa, la normale scansione è quella di
una prima udienza di comparizione con termine obbligato per
memoria integrativa delle eccezioni; di un'udienza di
trattazione con concessione di termini per precisazioni; della
successiva udienza ai sensi dell'articolo 184 del codice di
procedura civile, con concessione di doppio termine per
memorie sulla ammissibilità delle prove; della udienza di
ammissione delle prove.
La costruzione è "barocca" e su di essa l'eventuale
volontà della parte di imporre al giudice di entrare "in
medias res" si scontra con la rigidità del sistema.
Le scelte qui effettuate vanno in senso opposto. L'atto
introduttivo conserva la struttura di "vocatio in jus",
propria dell'atto di citazione, ma perde l'elemento della
prefissazione dell'udienza: alla notifica della citazione,
l'attore deve far seguire la propria costituzione in giudizio
- tramite iscrizione a ruolo, con deposito dei documenti in
cancelleria - ma il processo non prende automaticamente la via
dell'udienza.
Presupposto di tale scelta è il riconoscimento che la
fissazione di un'udienza, che apre la sequela di udienze a cui
oggi si assiste, non è il modo ottimale per permettere il più
celere ed efficace svolgimento della trattazione della
controversia. In tal senso, si è scelto di far sì che la
determinazione della materia del contendere avvenga fuori dal
meccanismo delle udienze attraverso fissazione di un termine
al convenuto per difendersi, depositando i documenti ritenuti
rilevanti, con successive - ed eventuali - repliche
dell'attore e successive - ed eventuali - contro-repliche del
convenuto.
Alla parte convinta che la causa sia matura per una
effettiva trattazione, ovvero per la decisione, spetterà
depositare un'istanza per la fissazione dell'udienza,
contenente le conclusioni di rito e di merito; l'udienza sarà
a sua volta fissata dal giudice con un decreto, contenente
obbligatoriamente l'indicazione delle questioni, di rito e di
merito, rilevabili d'ufficio e una pronuncia, succintamente
motivata, sull'ammissibilità e la rilevanza delle prove,
disponibili d'ufficio o su istanza di parte.
Il processo si presenta al giudice in condizione di essere
trattato efficacemente: il giudice potrà, infatti, valutarne
il grado di maturità per la decisione, ovvero provvedere
all'assunzione delle prove.
In breve: come nel vigente processo del lavoro, attraverso
rigidissime preclusioni, si arriva all'udienza con una causa
integralmente trattata, così nel sistema delineato -
attraverso un sistema alternativo alle preclusioni - l'udienza
non è più luogo di mero smistamento della causa durante la
trattazione, ma quello cui la causa perviene dopo essere stata
compiutamente trattata dalle parti; laddove la completezza
della trattazione - attesa la varietà delle controversie
civili e la diversa complessità - non è affidata a rigide e
prestabilite preclusioni - concepibili per controversie
sostanzialmente tipizzate, come quelle di lavoro - ma alla
valutazione che ciascuna parte fa della idoneità della
trattazione, in relazione al proprio interesse.
Si tratta, in sostanza, di un meccanismo che fa leva sulla
responsabile valutazione dei difensori e che stimola alla
completezza degli scritti difensivi - senza rigidamente
imporla ab externo, come le attuali preclusioni - nella
dialettica tra le parti: così tutelando l'interesse ad una
sollecita decisione e impedendo che la parte a ciò interessata
possa far prevalere il suo intento dilatorio.
D'altra parte, il ruolo del giudice viene potenziato,
sottraendogli incombenti meramente "routinari" ed affidandogli
quello di "impostare" l'udienza con il decreto di fissazione e
di gestirla con pienezza di poteri.
Altro intervento degno di particolare menzione è la
previsione che, in caso di contumacia del convenuto, il
giudice, a seguito di valutazione di concludenza della
domanda, ritenga ammessi i fatti costitutivi ed emetta
immediatamente un'ordinanza di condanna esecutiva. L'attuale
condizione del contumace è, per giudizio generale, troppo
sbilanciata in danno dell'attore, ed è parso opportuno che
l'attore non resti onerato di una istruttoria, verosimilmente
lunga e costosa, di fronte alla volontà del convenuto di
disinteressarsi dell'esito del processo.
A garanzia del convenuto contumace viene concesso un
potere di appello pieno avverso l'ordinanza che accolga la
domanda.
Numerosi altri interventi riguardano gli istituti regolati
dal secondo libro del codice: sempre in vista della ottimale
attuazione del principio del giusto processo e del suo
bilanciamento con i princìpi della durata ragionevole e
di effettività della tutela, sono state formulate
proposte riformatrici, in vario senso riguardanti l'assunzione
delle prove, la sospensione, l'interruzione e l'estinzione. In
particolare, quanto a quest'ultima, meritano di essere
segnalate:
la previsione che l'estinzione per inattività cosiddetta
"qualificata" - cioè nella ipotesi in cui sia impossibile
emettere una decisione di merito per un vizio non sanato del
procedimento - possa essere rilevata anche d'ufficio;
la previsione che all'estinzione sopravvivano gli
effetti anche delle pronunce di rito;
la previsione che gli effetti sostanziali della domanda
si conservino, se quest'ultima è riproposta entro un congruo
termine dalla dichiarazione di estinzione.
Ricevono consistenti revisioni le discipline dell'appello
e del giudizio di cassazione, in qualche misura interagenti
tra loro.
Quanto al primo:
viene fissato un principio di normale appellabilità
delle sentenze (generalizzazione del doppio grado di giudizio,
a cui sfuggono solo le sentenze in unico grado della corte di
appello);
viene ripristinato il cosiddetto "appello aperto"
(ritenendosi ingiustificato il divieto di nuove eccezioni
sancito dalla riforma del 1990), fermo restando il divieto di
domande nuove;
viene eliminato il meccanismo dell'annullamento con
rinvio al giudice di primo grado;
viene prevista la non appellabilità immediata delle
sentenze che decidono questioni insorte senza definire il
giudizio - cosiddette "non definitive" - e l'appellabilità
immediata delle sentenze che decidono parzialmente il merito -
cosiddette "parzialmente definitive" - con conseguente
esclusione della riserva di appello avverso le prime e
possibilità di riserva di appello avverso le seconde.
Quanto al giudizio di cassazione, dominante è stata la
preoccupazione di recuperare la dimensione nomofilattica alla
Corte Suprema, attualmente schiacciata da un carico di ricorsi
eccessivo, e su questa linea va valutata, innanzitutto, la
forte riduzione del novero delle sentenze inappellabili e,
quindi, immediatamente ricorribili per cassazione. In tale
senso depongono le modifiche che prevedono:
l'identità dei motivi di ricorso ordinario e
straordinario, ai sensi dell'articolo 111 della
Costituzione;
la previsione che il vizio di motivazione debba
riguardare un fatto controverso;
l'obbligo che il motivo di ricorso si chiuda, a pena di
inammissibilità dello stesso, con la chiara enunciazione di un
quesito di diritto;
l'estensione del sindacato diretto della Corte
sull'interpretazione e applicazione dei contratti collettivi
nazionali di diritto comune;
la non ricorribilità immediata delle sentenze non
definitive e la ricorribilità immediata delle sentenze
parzialmente definitive;
il vincolo delle sezioni semplici al precedente delle
sezioni unite, stabilendo che, ove la sezione semplice non
intenda aderire, debba reinvestire le sezioni unite;
l'estensione delle ipotesi di decisione nel merito,
possibile anche nel caso di violazione di norme
processuali;
l'enunciazione del principio di diritto, vuoi in caso di
accoglimento, vuoi in caso di rigetto dell'impugnazione e con
riferimento a tutti i motivi di ricorso;
l'investitura del legislatore delegato del compito di
forgiare meccanismi idonei - ad esempio modellati sull'attuale
articolo 363 del codice di procedura civile - a garantire
comunque l'esercitabilità della funzione nomofilattica della
Corte di cassazione nei casi di non ricorribilità del
provvedimento ai sensi dell'articolo 111 della
Costituzione.
Viene affrontato, inoltre, in maniera organica il
difficile tema della previsione di forme di risoluzione
consensuale delle controversie favorite dall'intervento di un
mediatore. Sono state scartate le opzioni a favore
dell'obbligatorietà del tentativo di conciliazione, scegliendo
uno schema che prevede che il giudice possa sospendere - se
nessuna delle parti si oppone - il
processo per breve periodo ed invitare le parti ad esperire
il tentativo di conciliazione. Di notevole rilievo è la
previsione che l'istanza di conciliazione produce gli stessi
effetti della domanda giudiziale in ordine alla maturazione
dei termini di prescrizione e di decadenza; il verbale di
conciliazione costituisce, inoltre, titolo esecutivo anche per
gli obblighi specifici.
Il processo del lavoro, infine, pur mantenendo le sue
attuali linee generali, vede in qualche misura smussata la
rigida chiusura dell'appello alla novità, in coerenza con la
disciplina generale. Viene inserita nel codice la disciplina -
oggi frammentata - del processo del lavoro vertente su
rapporti nei confronti di una pubblica amministrazione e, a
fronte delle incertezze della prassi, è prevista
l'eseguibilità nelle forme dell'esecuzione civile dei titoli
esecutivi e dei provvedimenti cautelari aventi ad oggetto
obblighi di fare o non fare nei confronti dei soggetti
pubblici. E' segnalata, infine, la necessità di ripensare la
materia dell'arbitrato in materia di lavoro.
Gli interventi relativi al processo esecutivo.
L'attuale disciplina del processo esecutivo subisce
modifiche di vario tipo.
Si comincia dal titolo esecutivo: resta la tassatività
delle figure ma, in chiave di razionalizzazione ed
attualizzazione, da un lato viene considerata anacronistica la
limitazione dell'efficacia dei titoli stragiudiziali alle sole
obbligazioni di somme di danaro, dall'altro viene eliminato il
divieto di spedizione di più copie in forme esecutive.
La figura del giudice dell'esecuzione viene generalizzata,
in nome sia di esigenze di garanzia che di esigenze di
efficienza. Altrettanto accade per la formazione del fascicolo
d'ufficio, che diviene obbligatoria per ogni esecuzione. Viene
semplificata la disciplina delle comunicazioni e viene
prevista la liquidazione delle spese da parte del giudice
dell'esecuzione, in sintonia con la regola generale
dell'articolo 91 del codice di procedura civile.
A fini di fruttuosità si è introdotta la possibilità di
espropriazione unitaria dell'azienda o di un suo ramo: si
tratta di una possibilità auspicata da tempo, ma oggi non
realizzabile per l'impossibilità di sottoporre a pignoramento
unitario una "universitas" composta di beni soggetti a
regimi differenziati.
Attengono all'incremento dell'efficienza le prescrizioni
volte a favorire l'individuazione dei beni pignorabili e la
collocazione spaziale dei beni mobili, mentre attiene alla
garanzia del giusto processo la proposta di disciplina
uniforme dell'eccesso nell'espropriazione, attraverso il
controllo del giudice dell'esecuzione con apposita
ordinanza.
Di grande rilievo appaiono le modifiche della disciplina
dell'espropriazione immobiliare, che possono sinteticamente ed
essenzialmente ricondursi:
alla trascrizione del pignoramento prima della sua
notificazione al debitore;
alla semplificazione della fase di autorizzazione alla
vendita;
alla introduzione di adeguate forme di pubblicità
dell'avviso di vendita o di assegnazione, anche mediante mezzi
informatici;
alla attribuzione della custodia dei beni pignorati ad
un terzo, con previsione che il provvedimento di nomina di
questi sia titolo esecutivo per il rilascio;
alla introduzione, accanto alle altre forme, della
vendita tramite commissionario;
alla previsione dell'estinzione del processo esecutivo
nel caso di esito infruttuoso della vendita per un prezzo pari
alla metà di quello stimato, se i creditori non chiedono il
bene in assegnazione per tale prezzo;
alla possibilità, per l'acquirente dei beni pignorati,
di ricorrere al credito mediante
garanzia sul bene oggetto della vendita;
alla possibilità di delegare al notaio anche la vendita
senza incanto;
alla possibilità - a certe condizioni - di delegare al
notaio la pronuncia del decreto di trasferimento e della
distribuzione.
Una rilevante innovazione è costituita dalla previsione di
forme di esecuzione indiretta per la tutela del diritto alla
soddisfazione di obblighi infungibili - cosiddette
"astreintes"- largamente praticate in ordinamenti
omogenei al nostro. E' prevista, infatti, la fissazione
dell'obbligo di pagare una somma di danaro per ogni frazione
di tempo nel ritardo all'adempimento dell'obbligo, con
l'apprestamento di un procedimento sommario per l'accertamento
dell'inadempimento. Le somme raccolte sono destinate a
risarcire l'avente diritto del danno prodotto
dall'inadempimento, con incameramento del residuo da parte
dello Stato.
Vengono, infine, razionalizzate le figure di opposizione
che, pur restando scandite secondo gli attuali quattro modelli
fondamentali, vedono ridisegnati gli ambiti di controversia
compresi nell'opposizione all'esecuzione e nell'opposizione
agli atti esecutivi.
Gli interventi relativi ai procedimenti speciali.
E' innanzitutto valorizzata la tecnica del procedimento
monitorio, strumento di sperimentata efficienza, eppure
migliorabile. L'ingiustificata diversità di disciplina tra
procedimento ingiuntivo e procedimento di convalida impone una
riscrittura mirante ad uno schema generale, rispettoso delle
esigenze di contraddittorio.
Vengono, poi, fatte proprie le esigenze che sorreggono
l'istituto del "réferé" francese - in questo
generalizzando un modello già anticipato nella riforma del
diritto societario. Si prevede un procedimento sommario, ma
non cautelare, celere e rispettoso del contraddittorio, volto
ad un provvedimento esecutivo reclamabile, tendenzialmente
risolutore della controversia, ma privo di efficacia di
giudicato in senso proprio. Questo procedimento dovrebbe avere
cittadinanza tutte le volte in cui l'esigenza di procurarsi un
titolo esecutivo sia prevalente rispetto all'esigenza di
giungere ad un accertamento definitivo.
Le linee fondamentali del sistema del procedimento
cautelare disegnate dalla riforma del 1990 vengono mantenute,
ma con opportuni adattamenti razionalizzatori - soprattutto in
relazione all'esigenza di completare il regime dell'efficacia
del provvedimento nel tempo, della previsione delle ipotesi
nelle quali non è indispensabile un successivo giudizio di
merito e della disciplina del sistema dei rimedi esperibili in
sede di attuazione. Viene migliorata l'efficienza della
disciplina di singoli tipi di cautela, rispetto alla quale
l'esperienza ha rivelato difetti o lacune; valgano, a titolo
di esempio, la concedibilità di sequestro conservativo di
azienda; la riformulazione della disciplina della conversione
del sequestro conservativo in pignoramento, al fine di
garantire correttamente la prosecuzione dell'espropriazione
forzata sui beni sequestrati; la riformulazione della nozione
di "pericolo nel ritardo", ai fini della concessione del
provvedimento d'urgenza; la revisione della disciplina del
concorso di quest'ultimo con altre misure sommarie
anticipatorie.
Infine, è sottoposta a rivisitazione la materia dei
procedimenti in camera di consiglio oggetto, negli ultimi
anni, di svariati interventi legislativi e dibattiti
dottrinali. In particolare, muovendo dalla considerazione
della necessità di adattare ai princìpi costituzionali della
tutela giurisdizionale istituti originariamente concepiti per
attività non propriamente contenziose, si è proposto che il
legislatore delegato delinei le caratteristiche comuni a tutti
i procedimenti in camera di consiglio, prevedendo le
caratteristiche dei procedimenti destinati a terminare con
provvedimento non suscettibile di giudicato sostanziale,
distinguendole da quelle dei procedimenti intesi a produrre
tale giudicato.
Esigenze generali di razionalizzazione della disciplina,
che coniughino principio del contraddittorio e rispetto dei
peculiari interessi coinvolti, sono state fatte proprie per
quanto riguarda altre specifiche controversie, quali le
controversie in materia di sanzioni amministrative, le
controversie in materia di separazione e divorzio ed i giudizi
ad esse collegate.
Gli interventi relativi all'arbitrato.
Nella prospettiva della ricerca di praticabili alternative
al ricorso alla giurisdizione statuale, l'arbitrato occupa un
posto privilegiato. Nonostante la materia sia stata più volte
"rivisitata" dal legislatore, essa è apparsa ancora bisognosa
di interventi.
Le principali innovazioni riguardano la disciplina della
compromettibilità, la pluralità di parti nel compromesso e nel
giudizio arbitrale - fenomeni totalmente ignorati dalla
vigente normativa - l'indipendenza e l'imparzialità degli
arbitri, la responsabilità di questi, l'assistenza giudiziaria
all'istruzione probatoria esperita nel giudizio arbitrale,
l'efficacia del lodo non omologato, il giudizio di
impugnazione per nullità, la disciplina dei rapporti tra
arbitrato e giurisdizione e il regime dell'arbitrato
"amministrato".
Merita, infine, autonomo richiamo la proposta di una norma
di chiusura, a soluzione della cruciale questione del
cosiddetto "arbitrato irrituale", fonte perpetua di equivoci e
problemi pratici e sistematici. Si è ritenuto, in proposito,
necessario stabilire l'applicabilità della disciplina
normativa a tutti gli arbitrati, senza distinzione di
"natura". Si è voluto, in altre parole, impedire che il
problema della disciplina applicabile sia condizionato dalle
formule adoperate dalle parti o dalle classificazioni operate
dagli interpreti; resta, ovviamente, possibile la diversa ed
espressa volontà delle parti di derogare alla disciplina
legale, salve disposizioni individuate come inderogabili, così
come di conferire a terzi poteri di intervenire su rapporti
controversi senza assumere funzione arbitrale.
Illustrazione dell'articolato.
L'articolo 1 prevede l'oggetto della delega al Governo,
che comprende la novellazione dell'attuale codice di procedura
civile, da considerare l'archetipo non solo del processo
ordinario di cognizione, ma anche di tutti i procedimenti
contenuti nelle leggi speciali che ad esso fanno rinvio,
nonché il procedimento per l'adozione dei decreti
legislativi.
L'articolo 2, in materia di giurisdizione, prevede
anzitutto una armonizzazione dei rapporti con le giurisdizioni
di altri Stati, secondo i criteri dei regolamenti comunitari,
delle convenzioni internazionali e della legge n. 218 del
1995. In effetti, dalla data di entrata in vigore del codice
ad oggi, si è radicalmente invertita la filosofia dei rapporti
fra le varie giurisdizioni statuali ed è quindi opportuno che
tale nuova filosofia impronti di sé anche il testo base del
nostro sistema processuale.
Con riferimento, invece, ai rapporti fra le giurisdizioni,
ordinaria e speciali, non si è ritenuto di incidere sulla
ripartizione delle attribuzioni, anche perché essa è contenuta
prevalentemente nelle norme costituzionali. E' parso, invece,
opportuno riscrivere i meccanismi volti ad assicurare il
rispetto delle norme che attribuiscono le controversie ai vari
settori giurisdizionali. Secondo la Costituzione (articolo
111, ultimo comma) spetta alla Corte di cassazione la
risoluzione dei conflitti; e ciò avviene sia attraverso il
ricorso ai sensi dell'articolo 360 del codice di procedura
civile, che è proponibile avverso le sentenze dei giudici di
merito ordinari e dei giudici speciali, sia, in via
preventiva, attraverso il regolamento di giurisdizione.
Le modifiche riguardano, in primo luogo, la possibilità di
esperire il regolamento di giurisdizione anche come mezzo di
impugnazione della sentenza che abbia deciso sulla sola
questione di giurisdizione. Ciò consentirà alla parte, che
intenda ottenere una decisione immediata e definitiva sulla
questione di giurisdizione, di
impugnare immediatamente dinanzi alla Corte di cassazione la
sentenza che abbia deciso la sola questione di giurisdizione.
Né si deve temere che tale possibilità possa essere
strumentalmente utilizzata per dilazionare la decisione
definitiva di merito, posto che, dopo la riforma del 1990, la
proposizione del regolamento di giurisdizione non comporta la
sospensione automatica del processo di merito, essendo rimesso
allo stesso giudice che ha emesso la sentenza sulla
giurisdizione la facoltà di non sospendere il processo,
laddove ritenga l'istanza di regolamento manifestamente
inammissibile o la questione di giurisdizione manifestamente
infondata.
Altrettanto importante è l'introduzione, anche nei
rapporti fra le varie giurisdizioni, del meccanismo della
translatio iudicii, attualmente previsto per le sole
questioni di competenza. In virtù di tale meccanismo, la
proposizione della domanda, ancorché effettuata al giudice
carente di giurisdizione, produce gli effetti tipici della
litispendenza; a titolo esemplificativo: interruzione e
sospensione della prescrizione; impedimento della decadenza;
applicazione delle norme previste in materia di successione
nel diritto controverso, che si conservano ove la domanda,
dopo la definitiva declaratoria di carenza di giurisdizione
del giudice adito, sia riproposta entro sei mesi al giudice
fornito della giurisdizione.
L'articolo 3 muove dal presupposto che le linee di fondo
del procedimento innanzi al giudice di pace debbono essere
conformi a quelle del rito ordinario davanti al tribunale: non
solo, infatti, tale rito è più agevolmente gestibile dal
giudice di pace, in quanto questi è coinvolto solo a seguito
del libero svolgersi della trattazione tra le parti, ma anche
non sussiste ragione alcuna perché davanti al giudice di pace
il procedimento sia privato della flessibilità e, quindi,
della adattabilità alle peculiarità del caso di specie che
caratterizzano il rito ordinario.
Nel caso di controversie di valore particolarmente
modesto, il legislatore delegato potrà considerare
l'opportunità di semplificare ulteriormente il
procedimento.
La competenza generale per valore del giudice di pace,
tradizionalmente ancorata alle sole controversie aventi per
oggetto beni mobili, è stata elevata a cinquemila euro, mentre
per il settore relativo alle controversie aventi per oggetto
il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di
veicoli e natanti è stata portata a venticinquemila euro.
L'articolo 4 semplifica i criteri di competenza
territoriale, dettati dagli attuali articolo 18 e seguenti del
codice di procedura civile, sia prevedendo uno sfoltimento dei
fori cosiddetti "speciali" - in particolare dei fori previsti
dagli articoli da 22 a 24 del vigente codice di procedura
civile - che oggi hanno indubbiamente un'importanza minore
rispetto al passato, sia circoscrivendo l'inderogabilità
convenzionale della competenza, sia, infine, stabilendo due
diverse modalità di contrastare la pubblica fede degli atti
pubblici e delle scritture private autenticate, riconosciute o
verificate. Ove una delle parti abbia interesse ad una
decisione con efficacia di giudicato, spendibile in tutte le
sedi, rimangono fermi la competenza per materia del tribunale
e lo speciale procedimento previsto dagli attuali articoli 221
e seguenti del codice di procedura civile. Ove, viceversa,
nessuna delle parti abbia interesse ad un accertamento della
falsità del documento con efficacia di giudicato, ciascun
giudice, con esclusione di quello incaricato di opposizione a
sanzioni amministrative, potrà "incidenter tantum" e con
efficacia limitata al processo innanzi a sé pendente, valutare
la attendibilità della prova documentale, senza dover
investire il tribunale e sospendere necessariamente il
processo.
L'articolo 5 semplifica l'attuale regime degli spostamenti
di competenza per ragioni di connessione, mantenendo sempre
ferma la competenza territoriale determinata in base alla
domanda principale e consentendo la trasmigrazione della causa
esclusivamente verso il giudice "superiore",
se quello originariamente adito è incompetente per valore
rispetto alla causa connessa; peraltro, si è escluso che
quella di compensazione abbia, come è attualmente, ma con poca
razionalità (articolo 35 codice di procedura civile), un
regime diverso da quello che le è proprio quale eccezione, e
si è ribadito che il giudice dell'azione è anche il giudice
dell'eccezione.
Ritenendo assolutamente non funzionale l'attuale
disciplina della litispendenza (articolo 39, primo comma,
codice di procedura civile), si è previsto - adeguando tale
regime a quello della continenza - che il giudice
successivamente adito si spogli della causa non soltanto in
quanto la causa già pende davanti ad altro giudice, ma anche
se il primo giudice è competente ad emettere la decisione di
merito. In tale modo, il regime della litispendenza interna si
adegua a quello della litispendenza internazionale -
introdotto dalla legge n. 218 del 1995 - la quale si fonda sul
principio per cui il giudice italiano non si spoglia della
causa rispetto alla quale, in base all'ordinamento italiano,
avrebbe "potestas judicandi" per il solo fatto che essa
già pende davanti al giudice straniero, ma soltanto dopo aver
altresì delibato la possibilità che quel giudice straniero
possa deciderla; principio già proprio della Convenzione di
Bruxelles (articolo 21) ed oggi del regolamento (CE) n.
44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000 (articolo 27). Si
tratta, anche a questo proposito, di tutelare l'esigenza per
cui chi si è rivolto al giudice abbia effettivamente la
decisione e non sia rinviato, solo perché preventivamente
adito, ad un giudice che sia privo del potere di decidere la
causa.
L'articolo 6 prosegue sulla strada della restrizione dei
tempi e dei modi di rilevazione dell'incompetenza, già in
parte segnata dalla riscrittura dell'articolo 38 ad opera
della legge n. 353 del 1990, adattando la disciplina alla
nuova struttura della fase introduttiva del processo.
All'eccezione di incompetenza per territorio derogabile viene
assimilata quella per valore, ai fini sia della rilevabilità
solo ad istanza di parte, sia della preclusione dopo il
tempestivo deposito della comparsa di risposta; l'incompetenza
per materia e quella per territorio inderogabile restano
rilevabili d'ufficio attraverso il decreto di fissazione
dell'udienza, mentre il termine di preclusione viene legato
all'istanza di fissazione dell'udienza.
La decisione della questione di competenza, da un lato
viene semplificata nella forma - ordinanza in luogo di
sentenza - e, dall'altro, viene resa immediata tanto
nell'ipotesi in cui, considerato il rilievo d'ufficio, appare
altamente probabile la dichiarazione di incompetenza, quanto
nell'ipotesi di richiesta congiunta.
L'articolo 7 prevede che il regolamento di competenza sia
mantenuto nei confronti delle sole ordinanze che pronunciano
esclusivamente sulla competenza; lo scioglimento di questioni
di competenza in sentenza contenente decisione di merito -
ovvero altre decisioni di rito - resta censurabile con
l'appello. A fini di semplificazione ed accelerazione è,
altresì, eliminato lo strumento del regolamento d'ufficio -
residuo di concezioni della competenza come misura delle
prerogative dell'organo; la modifica presuppone,
evidentemente, il venir meno dell'eccezione
all'incontestabilità dell'"incompetenza dichiarata e <della>
competenza del giudice in essa indicato", stabilita
dall'articolo 44 del codice di procedura civile per le
incompetenze per materia e per territorio inderogabile. Viene
meno anche l'automaticità della sospensione del giudizio o del
termine di riassunzione: sulla falsariga dell'attuale articolo
367 del codice di procedura civile, la sospensione viene
subordinata ad un giudizio di "non manifesta infondatezza o
inammissibilità" da parte del giudice che ha pronunciato
l'ordinanza, ovvero del giudice davanti al quale la causa è
riassunta.
In considerazione dell'introduzione del regolamento di
giurisdizione successivo, si investe il legislatore delegato
del compito di uniformare a tali princìpi anche il regime di
quest'ultimo istituto.
L'articolo 8 prevede un aggiornamento della disciplina
dell'astensione e di quella della ricusazione, ormai datate,
fermi restando i princìpi sottostanti agli istituti.
Viene sostituita alla vecchia dizione "se ne ha conosciuto
in altro grado del processo" quella della "precedente
conoscenza processuale della causa", concetto che solo
forzatamente poteva essere fatto rientrare nella prima e che
mira a dare sempre rilevanza all'identità del giudicante nelle
successive fasi di opposizione o di impugnazione.
E' previsto il deterrente della possibilità di
indennizzare i danni su istanza della parte danneggiata,
derivanti dall'utilizzo improprio dello strumento processuale
e della possibilità di condanna per responsabilità aggravata -
con sanzione svincolata dal danno - in ipotesi di
inammissibilità o rigetto dell'istanza di ricusazione ed è
introdotta una possibilità di controllo del provvedimento
negativo. Allo scopo di evitare l'uso strumentale e dilatorio
dell'istanza di ricusazione, si prevede che l'automaticità
della sospensione del processo sia subordinata ad un giudizio
di non manifesta inammissibilità o infondatezza.
L'articolo 9 prevede la disciplina dell'intervento del
pubblico ministero, che viene rivista sulla base della
consolidata esperienza che ha rivelato una sostanziale
discontinuità dell'intervento "spontaneo" dell'organo nel
processo. In tale ottica, è confermata la presenza
obbligatoria dell'organo nei giudizi di fronte alla Corte di
cassazione e, nel contempo, è introdotta ed opportunamente
regolata la litis denuntiatio al pubblico ministero nei
giudizi vertenti su diritti indisponibili, affidando al
giudice il potere di sollecitare l'esercizio del potere di
intervento da parte del pubblico ministero, sicché, ove
accolga tale sollecitazione, il pubblico ministero partecipa
fattivamente al procedimento.
L'articolo 10 affronta i problemi più sentiti in tema di
rappresentanza processuale e di procura alle liti.
Quanto al primo punto, viene fatta chiarezza sulla
"vexata quaestio" della possibilità o meno di conferire
rappresentanza processuale a chi non sia investito del
corrispondente potere di rappresentanza sostanziale: la
soluzione legislativa in senso positivo si impone, a fronte
della progressiva perdita di senso della tralaticia, ma
radicata, opinione contraria, tratta da una forzata lettura
dell'articolo 77 del codice di procedura civile.
Ferma restando l'esigenza di conferimento per iscritto, il
regime della procura alle liti - oggi sovente fonte di
formalismi e speculazioni - viene semplificato, da un lato
facilitando la possibilità di ratifica e generalizzandone la
retroattività e, dall'altro, invertendo l'attuale presunzione
di limitazione temporale della procura. Il potere di
rilevazione d'ufficio è limitato al solo difetto totale di
procura, salvo il caso di contumacia della controparte
interessata al rilievo, con mantenimento dell'efficacia piena
della ratifica eventualmente intervenuta. L'attuale disciplina
della procura alle liti, quale emerge dalla elaborazione
giurisprudenziale, sembra, invero, confondere i profili
pubblicistici della difesa tecnica (è interesse dello Stato
che, dinanzi ai suoi organi giurisdizionali, si presentino
soggetti istituzionalmente forniti delle adeguate cognizioni
tecniche necessarie) con i profili privatistici del
conferimento della procura. Quando, innanzi all'organo
giurisdizionale, agisce un soggetto abilitato, il "titolo" in
virtù del quale egli rappresenta una parte non costituisce
questione di interesse pubblico; e, soprattutto, non vi è
ragione perché non si possa avere una ratifica con efficacia
"ex tunc".
L'articolo 11 prevede l'affiancamento al principio della
soccombenza - che resta il principio cardine del sistema delle
spese - di quello della cosiddetta "causalità", di cui è
manifestazione il potere del giudice di addebitare i costi
sulla parte formalmente vittoriosa, che abbia però dato causa
alla lite. Si tratta, evidentemente, della generalizzazione di
un principio già conosciuto dal sistema, ma ritenuto limitato
a taluni istituti. Il rifiuto di proposte conciliative - la
cui ragionevolezza si possa misurare sull'esito della lite - è
espressamente elevato a fattore di responsabilità per i costi
del processo.
Viene ragionevolmente ampliata l'area della responsabilità
aggravata con la considerazione dell'abuso dei diritti di
azione e difesa nelle varie articolazioni processuali, nel
senso di rendere esplicito che fonte di specifica
responsabilità è anche l'impugnazione temeraria. Viene,
peraltro, mantenuto il requisito della normale prudenza per la
casistica dell'articolo 96, secondo comma, del codice di
procedura civile, ma la responsabilità per improvvida
esecuzione viene estesa anche all'ipotesi di titolo esecutivo
stragiudiziale.
L'articolo 12, fermi restando i criteri riconosciuti di
determinazione delle ipotesi di litisconsorzio necessario,
propone di meglio regolamentare gli effetti della mancata
ottemperanza all'ordine di integrazione del contraddittorio
nel termine perentorio, attraverso la previsione del rilievo
officioso dell'estinzione del processo.
Restano anche ferme la figura e la regolamentazione di
base del litisconsorzio facoltativo, ma appare opportuna
l'estensione della deroga alla competenza territoriale,
prevista dall'articolo 33 del codice di procedura civile,
all'ipotesi di cumulo per connessione cosiddetta
"impropria".
Si è, invece, esclusa la deroga alla competenza
territoriale nel cumulo oggettivo non sorretto da connessione
- connessione valutabile anche attraverso l'eccezione
nell'ipotesi di domande riconvenzionale - fatta sempre salva
l'adesione alla deroga manifestata dall'accettazione del
contraddittorio.
L'articolo 13 disciplina gli interventi del terzo ed
apporta all'istituto alcuni ritocchi razionalizzatori.
Al legislatore delegato è innanzitutto demandato il
compito di delimitare temporalmente gli interventi principale
ed adesivo autonomo; il provvedimento di estromissione del
terzo, in ipotesi di intervento inammissibile, assume forma di
ordinanza reclamabile, in quanto si tratta di provvedimento
che non pregiudica la tutelabilità, in separata sede, del
diritto fatto valere dal terzo; l'interventore adesivo
dipendente si vede riconoscere espressamente il potere di
impugnare la sentenza - trattandosi di una fondamentale
espressione del diritto di difesa di tale soggetto,
incongruamente denegata finora dalla prassi giurisprudenziale;
la disciplina dell'intervento su istanza di parte viene
normativamente fissata, nel senso della predeterminazione
delle figure di terzi che possono essere chiamati e
dell'esclusione della automatica estensione ad essi della
domanda dell'attore; la disciplina dell'intervento "jussu
judicii" viene modificata, nel senso di prevedere il potere
di ordinare la "denuntiatio litis" ai terzi a qualunque
titolo legittimati all'intervento volontario.
Viene previsto il potere officioso di dichiarare
l'estinzione in caso di mancata ottemperanza all'invito ad
effettuare la "denuntiatio", allorché la legittimazione
del terzo venga individuata in funzione di una sua possibile
futura opposizione di terzo revocatoria.
L'articolo 14 propone una tendenziale semplificazione
della disciplina degli atti processuali, per adeguarla sia al
mutato contesto attuale, sia per reagire ad alcune
manifestazioni di formalismo che la prassi applicativa ha
sperimentato.
In tale senso si prevede:
a) la possibilità di produzione dei documenti in
lingua straniera con semplice traduzione: l'obbligo di
traduzione giurata - fattore di notevole e spesso
ingiustificato allungamento della procedura - viene così
subordinato all'istanza della controparte, ovvero all'ordine
del giudice;
b) la possibilità che la sentenza possa fare a
meno dello "svolgimento del processo", tutte le volte che ciò
non appaia strettamente necessario per la completezza o la
comprensibilità della motivazione, ovvero - in caso di suo
mantenimento quale requisito formale - che lo si possa
riprodurre da atti di parte, menzionando la circostanza;
c) l'opportunità che l'intero sistema delle
comunicazioni ai difensori e tra i difensori delle parti possa
ordinariamente servirsi di mezzi moderni quali la posta
elettronica e il fax; a questo fine, il legislatore delegato
dovrà, da un lato, prevedere che il difensore indichi i
relativi numeri ed indirizzi al momento della costituzione od
in un altro successivo e, dall'altro, individuare le modalità
tecniche che diano prova della ricezione;
d) la possibilità che la disciplina delle varie
forme di notificazione subisca una generale riorganizzazione
in senso razionalizzatore, anche per garantire la
realizzazione dei diritti di difesa e di azione e
l'adeguamento ai princìpi comunitari. Naturalmente, la
determinazione degli strumenti tecnici dovrà tenere conto
dell'utilizzabilità degli strumenti informatici;
e) la semplificazione della "notificazione per
pubblici proclami", sostituendo l'attuale procedura con forme
di comunicazioni più moderne ed efficaci;
f) l'opportunità che la notifica ad associazioni,
enti e persone giuridiche sia equiparata il più possibile alle
modalità previste per le persone fisiche e, in particolare,
che la notifica al rappresentante legale valga da notifica
all'ente rappresentato, anche per quanto concerne la
possibilità di notifica mediante fax e posta elettronica.
L'articolo 15 rivede la disciplina dei termini processuali
in senso meno formalistico, sicché al legislatore delegato
viene rimesso il compito di prevedere la possibilità di
abbreviazione o proroga dei termini ordinatori, su istanza di
parte ed ovviamente prima della loro scadenza; compatibile con
i termini perentori è, invece, la rimessione in termini per
causa non imputabile alla parte, con il rispetto del principio
del contraddittorio e con il limite dei termini di
impugnazione che - essendo legati al giudicato - vedono
prevalere esigenze di certezza e di stabilità.
La razionalizzazione dell'insoddisfacente regime delle
cause sottratte alla sospensione feriale si impone attraverso
una congrua riduzione dell'eterogeneo elenco attuale, onde
evitare che un meccanismo, originariamente di garanzia,
continui ad essere una trappola in cui si cade
involontariamente. Ciò viene realizzato attraverso la
previsione della sospensione dei termini come regola e la
specificazione che l'eccezione vale per i soli procedimenti
caratterizzati dalla natura cautelare o dall'urgenza.
L'articolo 16 prende le mosse dalla constatazione che
l'attuale assetto del processo civile, imperniato sulla
costante presenza "fisica" del giudice per il compimento di
qualsiasi attività e, conseguentemente, sulla necessità che
ogni attività si svolga in udienza, determina, ad un tempo, un
considerevole spreco di attività da parte del giudice ed
un'altrettanto considerevole perdita di tempo per le parti.
Attualmente, infatti, dopo che le parti hanno depositato i
loro scritti difensivi iniziali, bisogna attendere l'udienza
di prima comparizione (articolo 180 del codice di procedura
civile) perché il giudice, verificata la regolarità del
contraddittorio, fissi la successiva udienza di trattazione
autorizzando le parti, se richiesto, alla comunicazione di
comparse ed assegnando al convenuto un termine perentorio per
la proposizione di eccezioni non rilevabili d'ufficio.
All'udienza di trattazione (articolo 183 del codice di
procedura civile) poi, - esperito l'interrogatorio libero
(incombente assai spesso risolventesi nel "riportarsi" ai
rispettivi scritti) ed il tentativo di conciliazione - il
giudice, se richiesto, fissa un termine perentorio per il
deposito di memorie volte a precisare le allegazioni, ed un
successivo termine per replica e, infine, l'udienza per
l'ammissione dei mezzi istruttori. In tale udienza (articolo
184 del codice di procedura civile) il giudice, su istanza di
parte, rinvia ad altra udienza, assegnando un termine per
produzione di documenti e note istruttorie ed ulteriore
termine per indicazione di prova contraria.
Nella generalità dei casi, l'attività del giudice in
queste fasi si risolve nell'autorizzare
le parti che lo richiedano (e basta che una parte, anche se
con intento puramente dilatorio, lo richieda) a depositare
scritti difensivi; e ciò il giudice fa non solo impiegando il
suo tempo in udienze sostanzialmente inutili ma, proprio
perché egli è costretto ad impegnarsi in siffatte udienze, nel
corso di udienze tra loro distanziate di diversi mesi. Con la
conseguenza che anche la più elementare delle controversie
deve, solo che una delle parti sia interessata a prolungarne
la durata, trascinarsi di udienza in udienza, da un lato
subendo, ma dall'altro lato contribuendo a provocare la
dilatazione degli intervalli tra le udienze stesse; il tutto
mortificando il ruolo proprio del giudice, ridotto a
dispensatore di rinvii e di termini per il deposito di
scritti.
La presente riforma - nell'intento di fare davvero del
giudice il fulcro del processo e di consentire alla parte che
voglia una decisione di non subire le avverse tattiche
dilatorie - prevede che l'atto di citazione non fissi
l'udienza, ma soltanto un termine - disciplinato nel minimo
dalla legge - al convenuto per replicare; sicché il convenuto,
così come, nel prosieguo del processo, qualsiasi parte che
abbia interesse ad una sollecita decisione, può rispondere in
un termine minore di quello concessogli e far decorrere dalla
sua risposta il termine minimo concesso all'avversario per la
replica.
Il meccanismo consente alle parti di scambiarsi
liberamente - senza bisogno di alcuna autorizzazione e
coinvolgendo nella loro attività soltanto la cancelleria quale
luogo di deposito di scritti difensivi e documenti - le
comparse ritenute necessarie, con una flessibilità del rito -
opposta all'attuale rigidità - che appare indispensabile,
attesa la estrema varietà delle controversie civili.
La facoltà, riconosciuta a ciascuna delle parti, di porre
fine allo scambio di scritti difensivi garantisce, da un lato,
il diritto alla decisione contro ogni intento dilatorio e,
dall'altro lato, la tendenziale esaustività degli scritti
difensivi, in quanto ciascuna parte, sapendo che l'avversario
può in ogni momento troncare il dialogo chiedendo la
decisione, è indotta a svolgere compiutamente le proprie
ragioni senza espedienti volti a diluire nel tempo le proprie
difese.
Al legislatore delegato è affidato il compito di
individuare un termine massimo per lo scambio di scritti
difensivi, decorso il quale, ove non venga da una delle parti
chiesta la decisione, il processo si estingue: e ciò al fine,
in una struttura processuale che esalta in questa fase il
ruolo del difensore, di sottolinearne altresì la
responsabilità quale interprete dell'interesse della parte
assistita.
Infine, l'ultima lettera dell'articolo 16 demanda al
legislatore delegato di modulare l'applicazione dei nuovi
princìpi espressi dagli articoli da 16 a 19 del disegno di
legge, relativamente alla fase introduttiva del giudizio ed a
quella di formulazione delle richieste istruttorie delle
parti, nei casi in cui la legge prevede che il giudizio
ordinario di cognizione sia introdotto con ricorso, anziché
con atto di citazione.
La norma, come è chiaramente evidenziato dal suo
riferimento al solo "giudizio ordinario", ovviamente non
concerne i riti speciali già ex se compiutamente
disciplinati (quali, ad esempio, il rito laburistico,
locatizio, eccetera), in ordine ai quali nulla è innovato;
essa si riferisce, invece, ai numerosi casi, sparsi nel codice
di rito o in diverse leggi speciali, in cui si prevede
l'introduzione di un giudizio ordinario di cognizione con
ricorso, senza dettarsi però alcuna disciplina processuale in
ordine alle modalità di definitiva fissazione dell'oggetto del
giudizio (cosiddetto "litis contestatio") e di
articolazione delle istanze istruttorie delle parti.
La lettera in esame si riferisce, perciò, alle azioni
possessorie, all'opposizione all'esecuzione, all'opposizione
agli atti esecutivi, all'opposizione di terzo all'esecuzione,
al giudizio di separazione dei coniugi ed a quello di
divorzio: andranno, altresì, considerati gli ulteriori casi
previsti in materia fallimentare (articoli 98, 100, 101, 102 e
103 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267); nonché quelli di
cui all'articolo 1137 del codice civile; all'articolo 3 testo
unico di cui al regio decreto 14 aprile
1910, n. 639; all'articolo 11, tredicesimo comma, del decreto
del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1972, n. 1035.
Tali fattispecie sono state completamente ignorate dal
legislatore che ha operato la riforma di cui alla legge 26
novembre 1990, n. 353, e successive modificazioni, ma tuttavia
esse, nel rito processuale attualmente in vigore, hanno
trovato egualmente una loro disciplina, che è stato possibile
ricavare in via interpretativa mediante l'adattamento alle
peculiarità conseguenti all'introduzione del giudizio con
ricorso delle attività di cui il rito vigente prevede lo
svolgimento nelle udienze di cui agli articoli 180, 183 e 184
dell'attuale codice.
Analoga soluzione non sarebbe neppure possibile dopo
l'entrata in vigore della riforma, dato che questa unificherà
tutte tali udienze in quella fissata con il decreto di cui
all'articolo 19 del disegno di legge, che è peraltro destinata
a svolgersi dopo la definitiva fissazione delle domande ed
eccezioni delle parti (cosiddetta "litis contestatio"):
si impone, perciò, di demandare al legislatore delegato uno
specifico intervento relativamente ai casi in cui il giudizio
ordinario di cognizione è introdotto con ricorso.
Tuttavia, proprio in applicazione del principio generale
espresso dalla lettera a) del comma 1 dello stesso
articolo 16, con la lettera g) si ribadisce la
residualità di tale forma di introduzione del giudizio
ordinario di cognizione, che sarà limitata ai casi in cui si
ravvisa la necessità o l'opportunità di anteporre
l'instaurazione del primo contatto in udienza tra le parti ed
il giudice rispetto al momento della definitiva litis
contestatio, dovendosi in ogni altro caso ricondurre l'atto
introduttivo allo schema della citazione. Esemplificando, il
legislatore delegato dovrà considerare se nella fattispecie di
cui all'articolo 1137 del codice civile non sia preferibile il
ricorso alla forma introduttiva ordinaria; al contrario, è
possibile che, in relazione alle nuove forme processuali, la
citazione di cui all'articolo 543, secondo comma, n. 4, del
codice di procedura civile, venga considerata strutturalmente
inidonea all'introduzione (eventuale) del giudizio di
accertamento dell'obbligo del terzo di cui all'articolo 548
del codice di procedura civile e che, perciò, in sede di
esercizio della delega, si ritenga di prevedere l'introduzione
di quest'ultimo giudizio con ricorso.
In ogni caso, colmando una lacuna sinora presente nel
codice di rito, si demanda al legislatore delegato di operare
una compiuta disciplina generale delle fasi iniziali del
giudizio ordinario di cognizione quando ne è prevista dalla
legge l'introduzione con ricorso; tali fasi iniziali arrivano
fino al momento in cui il giudice decide sulle istanze
istruttorie delle parti, poiché a partire da tale momento non
vi è più alcuna differenza rispetto ai giudizi ordinari
introdotti con atto di citazione.
L'articolo 17 disciplina l'istanza di fissazione
dell'udienza, che è lo strumento attraverso il quale la parte,
che ritenga sterile il protrarsi del dialogo con la
controparte e ritenga responsabilmente che la causa sia stata
sufficientemente trattata - dal punto di vista ovviamente del
proprio interesse - provoca nel processo l'intervento del
giudice. Tale intervento, oltre che per ottenere la decisione,
può essere provocato anche al fine di richiedere provvedimenti
anticipatori di condanna - del tipo di quelli previsti dagli
articoli 186-bis e 186-ter, nonché dall'articolo
423 del codice di procedura civile, provvedimenti cautelari,
ovvero la soluzione di "incidenti" processuali, ma, poiché la
devoluzione della controversia è sempre "totale", occorre che
in ogni caso siano precisate integralmente le conclusioni (di
rito e di merito) affinché il giudice, se ritiene la causa
matura, possa deciderla, dopo aver provocato il
contraddittorio delle parti - a tale fine mutuando il
meccanismo decisorio ideato, nel processo amministrativo,
dalla legge n. 205 del 2000.
L'articolo 18 individua un regime differenziato per le
preclusioni relative ad attività di parte concernenti il
merito ovvero concernenti il rito, prevedendo per le
prime - e non anche per le seconde - la necessità che siano
fatte valere attraverso un'istanza della controparte: sicché,
mentre l'inammissibilità della domanda riconvenzionale e della
chiamata di terzo non proposte nella comparsa di risposta
richiede l'eccezione dell'avversario, l'inammissibilità per la
tardività di eccezioni di rito - ed in particolare di
incompetenza - è dichiarabile d'ufficio.
Così operando si tutela l'interesse che la controparte può
avere ad ottenere non già una pronuncia in rito, bensì un
rigetto nel merito di domande che, altrimenti, sarebbero
riproponibili in altro giudizio: in tale modo mutuando, in
questo settore, la medesima soluzione che nell'articolo 16
propone per l'ipotesi di mancata costituzione dell'attore -
dove il convenuto può scegliere tra chiedere la decisione di
merito ed eccepire l'estinzione del processo - e che, con
modalità diverse, il vigente codice offre sia all'articolo
181, secondo comma (mancata comparizione dell'attore) sia
all'articolo 290 (mancata costituzione dell'attore).
Quanto alle eccezioni di merito non rilevabili d'ufficio,
si è previsto un termine di preclusione collegato alla seconda
memoria, ma altresì - nello spirito di quella tendenziale
completezza fin dall'inizio degli scritti difensivi, stimolata
dalla responsabilizzazione dei difensori - che, qualora
l'attore rinunci a replicare alla comparsa di risposta e
depositi istanza di fissazione dell'udienza, le eccezioni non
siano più proponibili.
L'articolo 19 riguarda il decreto del giudice che, nel
fissare l'udienza richiesta da una delle parti, deve contenere
già la soluzione di talune questioni, specie
sull'ammissibilità e la rilevanza delle prove, disponibili
d'ufficio o su istanza di parte, ovvero indicare questioni
rilevabili d'ufficio e, comunque, bisognose di adeguata
trattazione negli scritti difensivi.
Il contenuto del provvedimento è tale da garantire che il
giudice arrivi all'udienza conoscendo la causa e sia,
pertanto, in grado di dirigerne lo svolgimento con piena
consapevolezza.
Il giudice, inoltre, può disporre la comparizione
personale delle parti quando vi sia effettiva utilità
dell'interrogatorio libero ai fini di una possibile
conciliazione, ovvero di conseguire chiarimenti in fatto; uno
strumento che - rispetto all'attuale situazione, nella quale
la sua "cartacea" obbligatorietà ha fatto sì che l'istituto
diventasse un incombente meramente rituale e routinario -
viene così valorizzato quando effettivamente utile e, quindi,
si inserisce nel principio generale di flessibilità del rito
che deve adeguarsi, attraverso la saggia intermediazione del
giudice, alle peculiarità delle singole controversie.
In sostanza, il provvedimento di fissazione dell'udienza,
lungi dal risolversi in un adempimento meramente burocratico,
costituisce lo strumento attraverso il quale il giudice
"imposta" l'udienza tirando le fila dell'attività posta in
essere dai difensori delle parti, e "collabora" con questi
indicando le questioni fondamentali sulle quali si impernierà
l'udienza. Dal decreto, peraltro, i difensori delle parti
saranno posti in grado di percepire l'impostazione che alla
controversia il giudice intende dare e, quindi, posti in grado
di adottare adeguate strategie difensive in udienza, anche al
fine di provocare un ripensamento del giudice.
L'articolo 20, nella prospettiva di accelerazione e di
razionalizzazione delle procedure di assunzione delle prove -
prospettiva intesa a favorire l'uso di riti "alternativi", ad
esempio il "réferé", e a ridurre, quando le parti non
siano interessate al giudicato, il ricorso all'ordinario
processo di cognizione - prevede l'opportunità
dell'introduzione nel sistema di dichiarazioni testimoniali
scritte, assunte dai difensori, previo accordo in tal senso
delle parti, anche e soprattutto prima dell'inizio del
giudizio, investendo il legislatore delegato delle modalità
della loro autenticazione. In tal senso viene indicato fin da
ora il potere di attestazione dell'ufficiale giudiziario,
mentre è lasciato alla discrezionalità del legislatore
delegato scegliere se tale potere possa competere anche al
difensore che opera l'assunzione. Queste dichiarazioni sono
destinate all'utilizzazione nel processo, fermo il potere del
giudice di disporre tutti gli accertamenti, anche istruttori,
eventualmente ritenuti opportuni. Così configurate, esse
appaiono sostanzialmente riconducibili all'"affidavit",
istituto consolidato ed impiegato con successo non solo nelle
procedure ispirate alla "common law", ma praticato anche
in altri ordinamenti continentali: vedi, ad esempio,
l'istituto delle "attestations", regolato dagli articoli
200 e seguenti nel titolo dedicato alla "administration
judiciaire de la preuve" dal "Nouveau code de procédure
civile" francese.
Ai difensori viene, inoltre, riconosciuto il potere di
assunzione di relazioni peritali e di attestazioni di fatti e
situazioni constatati da pubblici ufficiali.
Accanto a tali atti di parte, si è inoltre voluto aprire
la strada anche alle ispezioni di luoghi e alla assunzione di
accertamenti tecnici, quali attività preventive, esperite in
contraddittorio, in sostanza consulenze tecniche di ufficio
anticipate. Queste attività - che dovrebbero essere richieste
all'autorità giudiziaria ai fini delle nomina del consulente
tecnico e, nelle ispezioni di luoghi, anche dell'ufficiale
giudiziario, perdono così la loro dipendenza esclusiva
dall'urgenza, assumendo carattere di normalità. In tal modo,
non solo aumenta seriamente la probabilità di tagliare i tempi
lunghi richiesti per l'ammissione e l'espletamento delle
consulenze tecniche in corso di causa, ma addirittura la
probabilità di soffocare sul nascere - favorendo accordi
transattivi e conciliazioni - molti giudizi che si basano
esclusivamente, o quasi, sull'ignoranza del responso del
consulente tecnico del giudice.
La stessa logica presiede alla scelta di consentire
all'avvocato di compulsare i pubblici depositari e di ottenere
dalla pubblica amministrazione le informazioni rilevanti per
la soluzione della controversia, nel rispetto del procedimento
disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241.
Se, ad esempio, fosse possibile al danneggiato da un
incidente automobilistico ottenere subito e direttamente copia
del verbale della polizia stradale, per avere il quale
bisogna, invece, instaurare un giudizio e indurre il giudice
ad utilizzare, dopo uno o due anni in media, lo strumento
previsto dall'articolo 213 del codice di procedura civile, si
eviterebbero molte citazioni strumentali.
L'articolo 21 non interviene sul regime delle prove
contenuto nel codice civile, in quanto non si è ritenuto che
vi siano ragioni per discostarsi dalla disciplina vigente. Vi
è, invece, l'esigenza di razionalizzare l'acquisizione al
processo delle prove: in particolare, deve essere semplificata
la formazione delle prove costituende, pur garantendo il
contraddittorio fra le parti, anche e soprattutto in questa
delicata fase del processo. In connessione con quanto previsto
dall'articolo 21, specifici problemi, ignoti al legislatore
del 1942, sono invece posti dalla utilizzabilità del documento
informatico. Al di là della disciplina dell'efficacia dello
stesso - oggetto di recentissimi interventi del legislatore -
sono evidentemente necessari meccanismi appositi per
l'acquisizione al processo di un documento - poiché tale è, a
tutti gli effetti, quello informatico - il cui contenuto, per
essere percepito, esige l'utilizzazione di uno strumento.
Altro problema da risolvere riguarda l'attuazione del
contraddittorio su un testo, la cui comprensione, appunto,
deve essere mediata attraverso un mezzo.
A completamento del punto in delega, l'esigenza di
coordinare la disciplina della forma degli atti processuali
con le caratteristiche e le esigenze del processo
informatizzato ha specificamente la funzione di recepire, nel
testo del codice, la disciplina dell'informatizzazione che il
legislatore sta progressivamente introducendo.
Sembra opportuno, infatti, che tale disciplina non sia
lasciata a testi normativi speciali, esterni al codice. Ciò
soprattutto perché alcune esperienze straniere mostrano come,
una volta che sia reso possibile il compimento degli atti del
processo in forma digitale, questo diventa in breve tempo il
modo assolutamente prevalente di svolgimento del processo
stesso.
L'articolo 22 disciplina l'udienza di discussione che,
preparata dal decreto di fissazione, diventa non più un luogo
di smistamento della causa verso un'altra udienza, ovvero la
sede in cui i difensori delle parti sono burocraticamente
autorizzati al deposito di scritti difensivi, ma il cuore del
processo e la sede di un effettivo contraddittorio tra le
parti e di comunicazione tra esse ed il giudice.
Nell'udienza viene, in primo luogo, in discussione proprio
il decreto di fissazione, con i provvedimenti - "in
primis", ma non solo, istruttori - adottati dal giudice
nell'"impostare" la causa: da ciò discende la previsione della
possibilità per il giudice, sulla base di quanto le parti
hanno sostenuto nelle memorie depositate prima dell'udienza e
nella discussione orale, di confermare, modificare o revocare
i provvedimenti adottati con il decreto.
Al giudice, inoltre, viene riconosciuto il potere, qualora
abbia ammesso prove costituende ed ove non provveda
immediatamente alla loro assunzione in udienza, di consentire
- se richiesto da tutte le parti - la loro assunzione in sede
extragiudiziaria, dando le disposizioni ritenute più opportune
in ordine alle modalità di assunzione e di documentazione,
salva sempre la facoltà di disporne la rinnovazione totale o
parziale, ove ciò appaia opportuno: sicché l'assunzione di
prove senza la presenza del giudice è subordinata: a)
alla concorde richiesta delle parti; b) alla
discrezionale determinazione del giudice; c) alla
fissazione, da parte del giudice, delle modalità di assunzione
e documentazione e salvo sempre il potere di rinnovazione
innanzi a sé.
Nel caso di assunzione "extra moenia" ed in quello
di assunzione diretta ed immediata - anche, se del caso, in
più di un'udienza - il giudice fissa un'udienza di discussione
preceduta dal deposito di memorie conclusionali; ma è ovvio
che, nel caso di assunzione nel corso di unica udienza, la
decisione può essere emessa a conclusione della medesima
udienza previa discussione orale, se il giudice ritiene
superflua la redazione di scritti conclusionali.
Se non vi sono prove costituende da assumere la pronuncia
della sentenza, a seguito della discussione orale, è prevista
come esito normale del processo; esito normale effettivo e non
già solo auspicato, perché il meccanismo costituito dal
decreto di fissazione dell'udienza è tale da garantire che,
effettivamente, il giudice sia in grado di decidere
immediatamente la causa con un provvedimento succintamente
motivato steso in calce al verbale. L'istituto, oggi previsto
dall'articolo 281-sexies del codice di procedura civile,
potrà, pertanto, trovare concreta attuazione in un rilevante
numero di casi ed anche quando la causa sia stata istruita con
l'assunzione di prove orali: il decreto di fissazione
dell'udienza, infatti, è tale da costituire una sorta di
"formula" (come quella del "praetor" romano nel processo
formulare) che consentirà al giudice - eliminando normalmente
il "collo di bottiglia" oggi rappresentato dalla stesura della
sentenza - di provvedere immediatamente a definire la
controversia a conclusione dell'udienza. In tal modo si
realizzerà davvero uno dei più caratterizzanti obiettivi
dell'oralità, vanamente inseguito quando si pretenda, come nel
vigente codice, che tutto il processo - e non già il suo
momento saliente di un'udienza di effettiva trattazione - si
svolga dinnanzi al giudice.
La possibilità che la decisione venga depositata
successivamente all'udienza viene opportunamente conservata
per le controversie particolarmente complesse, ma si tratterà
di possibilità alla quale il giudice ricorrerà in casi
particolari, incentivato come è a valersi dello strumento
della sentenza stesa a verbale dalla notevole agevolazione
consentitagli nell'assolvimento del suo compito.
Il giudice, attraverso un meccanismo mutuato da quanto la
legge n. 205 del 2000 prevede per il processo amministrativo,
può decidere nel merito la causa, che egli ritenga matura,
anche se adito per l'emissione di provvedimenti anticipatori
ovvero cautelari; il che giustifica che le
parti siano sempre tenute a precisare le loro conclusioni
definitive anche quando vorrebbero investire il giudice
soltanto di questioni relative, ma provvisoriamente o
cautelarmente, al merito.
L'articolo 23 introduce rilevanti modificazioni
all'istituto della contumacia. Le ragioni, che hanno indotto
ad abbandonare il criterio della contumacia come "ficta
contestatio" e ad accogliere l'inverso principio della
contumacia come "ficta confessio", consistono
fondamentalmente nella considerazione delle conseguenze
ricollegabili all'adozione dell'uno o dell'altro modello. Nel
primo sistema - che il nostro ordinamento ha derivato, nel
1865, dal codice di procedura civile francese - chi propone la
domanda deve comunque provare i fatti costitutivi della
stessa, anche se la controparte resta contumace. Nel secondo
sistema - che è proprio del processo tedesco ed austriaco - se
la parte contro la quale la domanda è proposta non si
costituisce, chi ha proposto la domanda è esonerato dal
provare i fatti costitutivi del proprio diritto, che si
considerano non contestati e quindi ammessi. Se una parte
manifesta la volontà di disinteressarsi dell'esito del
processo non vi è nessuna ragione di costringere l'altra parte
a sostenere un'istruttoria, che costa denaro ed allunga i
tempi del processo. In sostanza, al modello attualmente
vigente può farsi la critica di essere "più realista del re",
in quanto impone il compimento di attività anche quando una
delle parti ha manifestato la propria indifferenza per l'esito
del processo.
Naturalmente, l'effetto di considerare ammessi i fatti
allegati dalla parte costituita può essere ricollegato alla
contumacia solo a certe condizioni ed in certi limiti.
Anzitutto, deve trattarsi di contumacia cosiddetta
"volontaria", e quindi occorre che il giudice
pregiudizialmente accerti la regolarità della instaurazione
del contraddittorio sotto tutti i suoi profili - a mo' di
esempio, validità dell'atto introduttivo e della sua
notificazione; capacità del convenuto; infatti, come è ovvio,
l'inerzia della controparte può significare disinteresse
all'esito del processo, e quindi giustificare la ficta
confessio, solo ove il comportamento inerte sia frutto di
una libera scelta della parte e non già della mancata
instaurazione del contraddittorio.
In secondo luogo, la regola non può valere ove il processo
abbia ad oggetto diritti indisponibili, per l'assorbente
ragione che, in tali casi, non vige, in generale, il principio
in virtù del quale i fatti ammessi non hanno bisogno di essere
provati, e quindi non può valere neppure quella particolare
fattispecie di fatti ammessi, che è prodotta dalla
contumacia.
In terzo luogo, la contumacia produce la sola conseguenza
di far ritenere per esistenti i fatti costitutivi del diritto,
allegati dalla parte che ha proposto la domanda: non
impedisce, da un lato, che il giudice debba porre a fondamento
della decisione le eccezioni rilevabili di ufficio, che
emergano dagli atti - ad esempio, la nullità del contratto -
dall'altro, esige che il giudice debba comunque valutare la
concludenza della domanda e cioè se i fatti, così come
allegati dall'attore e ritenuti per esistenti in virtù della
contumacia della controparte, sono sussumibili in una
fattispecie astratta, da cui scaturisca il diritto fatto
valere.
E' stata, inoltre, prevista la possibilità per il giudice
di deferire il giuramento suppletorio o estimatorio, qualora
la quantificazione della somma o, più in generale, della
prestazione oggetto della domanda sia ritenuta non del tutto
attendibile.
In presenza, quindi, di una domanda fondata su fatti
concreti integranti una fattispecie astratta generatrice del
diritto fatto valere, e quando non vi siano eccezioni -
ovviamente rilevabili di ufficio in quanto risultanti dagli
atti - ostative all'accoglimento della stessa, il giudice deve
pronunciare un immediato provvedimento di accoglimento della
domanda stessa. La forma dell'ordinanza sottolinea la
necessaria sinteticità dell'atto, che può e deve limitarsi a
constatare la concludenza in iure della domanda
proposta.
Il regime dell'ordinanza è quello della sentenza
appellabile. Poiché, in caso di appello, tutta la disciplina
della contumacia si gioca sull'inibitoria, si è ritenuto di
differenziare il caso della contumacia volontaria da quello
della contumacia involontaria - cioè, dipendente da vizi nella
instaurazione del contraddittorio, non rilevati dal giudice
che ha pronunciato l'ordinanza contumaciale.
Nell'ipotesi di contumacia volontaria, l'appello proposto
da chi si è volontariamente disinteressato al processo di
primo grado può portare all'inibitoria dell'efficacia
esecutiva del provvedimento appellato solo se l'appellante
fornisca prova scritta o di pronta soluzione dei fatti da lui
allegati con l'appello.
Diversamente, nell'ipotesi di contumacia involontaria, è
chiaro che viene meno il fondamento stesso della condanna del
contumace: pertanto, la regola va rovesciata e l'inibitoria è
in linea di principio atto dovuto, tranne che sussistano le
condizioni che legittimano la concessione della provvisoria
esecuzione del decreto ingiuntivo opposto.
L'articolo 24 disciplina la contumacia cosiddetta
"involontaria" - conseguenza, cioè - di vizi relativi
all'instaurazione del contraddittorio - che è attualmente
insoddisfacente e fonte di numerose incertezze. Nel sistema
normativo vigente, alla parte che - non avendo avuto
conoscenza del processo per la nullità degli atti introduttivi
del processo o della loro notificazione - sia rimasta
contumace, si offre come rimedio la possibilità di utilizzare
i mezzi di impugnazione ordinari, anche al di là del termine
di decadenza annuale. Ciò produce una serie di inconvenienti.
In primo luogo, una volta introdotta la possibilità che la
Corte di cassazione pronunci nel merito, il contumace
involontario si vede privato di ogni strumento per far valere
il vizio del processo, quando la sua soccombenza deriva dalla
sentenza della Corte. In secondo luogo, l'impugnazione
ordinaria può essere proposta anche a distanza di anni dal
momento in cui il contumace è venuto a conoscenza della
sentenza. Infine, essendo lo strumento previsto a favore del
contumace un mezzo di impugnazione ordinario, esso determina
la prosecuzione della precedente litispendenza, impedendo
quindi l'operare degli strumenti sostanziali volti a
stabilizzare la realtà esistente.
Si è, quindi, ritenuto opportuno introdurre una disciplina
unitaria, con le seguenti caratteristiche: in primo luogo, se
il contumace deve utilizzare un mezzo di impugnazione
ordinario, perché, ad esempio, gli è stata notificata la
sentenza, rimane fermo tale onere. Se, al contrario, si
verificano le ipotesi che attualmente prevedono la
proponibilità dell'impugnazione ordinaria al di là del termine
di decadenza annuale, lo strumento di tutela del contumace è
costituito da un mezzo di impugnazione straordinario -
l'opposizione dinanzi al giudice di primo grado - proponibile,
peraltro, non illimitatamente, ma entro un termine congruo
decorrente dal momento in cui egli ha avuto conoscenza della
sentenza.
Quanto, poi, alla seconda previsione contenuta nel
criterio in esame, essa si limita ad estendere agli altri atti
di instaurazione del contraddittorio ed alla loro
notificazione - ad esempio, la riassunzione - quanto
espressamente previsto solo per la citazione e la
notificazione della stessa.
L'articolo 25 rivede le ipotesi di collegialità della
decisione, che sono oggi un coacervo asistematico di ipotesi
eterogenee. Fermo restando che, in linea di principio, il
sistema riconosce l'esigenza di cause sottratte alla decisione
monocratica, si riformulano le fattispecie secondo criteri
riconoscibili ed oggettivi: se la decisione deve essere
collegiale, occorre che essa non si risolva in una formalità e
la sola strada per ottenere ciò è che la sua specialità sia
effettivamente giudicata necessaria, avuto riguardo alla
delicatezza delle questioni coinvolte, necessariamente legata
alla natura della controversia oggetto del giudizio. Viene,
inoltre, previsto che al giudice monocratico, investito della
trattazione della causa, possa essere concessa
l'opportunità - evidentemente da affidare in dettaglio alla
valutazione del legislatore delegato - di chiedere al
presidente di sezione o, in mancanza, al presidente del
tribunale di voler assegnare alla trattazione del collegio le
controversie che presentano questioni di particolare
importanza; si prevede, inoltre, che al presidente del
tribunale sia riconosciuta la facoltà di garantire una
funzione regolatrice, razionalizzatrice e nomofilattica,
tramite la possibilità di assegnazione al collegio delle
controversie di cui sopra, oppure già decise in senso difforme
da giudici monocratici.
L'articolo 26 prevede un meccanismo che pone fine
all'attuale sistema di riscossione degli obblighi tributari
connessi alla pronuncia dei provvedimenti giudiziari, che si è
rivelato fonte di ritardi ingiustificati, spesso anche
pregiudizievoli per la tutela dei diritti oggetto dei giudizi.
I princìpi costituzionali, nella costante lettura della Corte
costituzionale, mentre non impediscono che il processo possa
costituire la fattispecie per la nascita di obblighi
tributari, impediscono che il pagamento di imposte e tasse
costituisca condizione per ottenere la tutela del proprio
diritto o per esercitare il diritto di difesa (articolo 24
della Costituzione). La Corte ha già avuto occasione di
dichiarare l'incostituzionalità delle norme che subordinavano
al pagamento dell'imposta di registro il rilascio di copia
della sentenza - copia necessaria per poter impugnare la
stessa. Di recente, la Corte ha esteso il principio alle copie
necessarie per l'esecuzione forzata.
Ma il principio enunciato è rimasto in pratica "lettera
morta" in quanto - non appena pubblicata - la sentenza ed il
fascicolo della causa vengono immediatamente inviati dalla
cancelleria al competente ufficio finanziario, e là rimangono
fintantoché non sia stata liquidata e corrisposta l'imposta.
Perfino numerose sentenze della Corte di cassazione restano
indisponibili, anche a distanza di anni, perché nessuna delle
parti ha corrisposto l'imposta: con quali improvvide
conseguenze, anche sulla funzione nomofilattica della Corte, è
possibile immaginare.
Oltre a ciò, anche con la miglior diligenza della parte, i
tempi per il passaggio fisico del fascicolo dall'ufficio
giudiziario all'Agenzia delle entrate ed il ritorno dello
stesso all'ufficio sono tali da comportare una sensibile
dilazione nella tutela della parte che, magari, avrebbe
diritto di procedere ad esecuzione forzata, ma non ha il
titolo esecutivo documentale per farlo; o che, magari,
vorrebbe impugnare per poter chiedere l'inibitoria, ma non ha
la copia necessaria per l'impugnazione.
Né si potrebbe opporre che il meccanismo attualmente
vigente è funzionale all'effettiva riscossione delle imposte
dovute, poiché è stata proprio la Corte costituzionale - come
già detto - a negare che l'interesse dello Stato alla
riscossione delle imposte possa far premio sull'interesse
delle parti garantito dall'articolo 24 della Costituzione.
Si è, perciò, prevista l'introduzione di una procedura che
garantisca il tempestivo svolgimento delle attività dirette
all'adempimento degli obblighi tributari, non subordinando il
rilascio delle copie della sentenza all'assolvimento del
relativo onere fiscale.
L'articolo 27 modifica l'attuale disciplina della
sospensione, che è stata oggetto di ampi studi nel periodo
successivo all'entrata in vigore del vigente codice. La
dottrina ha individuato due categorie di sospensione: quella
per pregiudizialità, prevista principalmente dall'articolo 295
del codice di procedura civile, e quella "impropria",
caratterizzata dal fatto che il processo rimane fermo, in
attesa che altro giudice decida una questione, che appartiene
all'oggetto del processo in corso e che eccezionalmente è
sottratta alla cognizione del giudice dello stesso. Diviene,
quindi, opportuna una razionalizzazione delle varie ipotesi,
che tenga conto della loro diversa natura.
Per quanto attiene, invece, alla sospensione concordata,
la disposizione attualmente vigente prevede un periodo massimo
di quattro mesi. Anche a prescindere
dal rilievo dell'incongruità di tale periodo - difficilmente
oggi fra un'udienza e l'altra intercorre un termine inferiore
a quattro mesi - è lo spirito della disposizione a non poter
essere condiviso. Non vi è nessuna ragione perché il processo
debba correre anche contro la volontà delle parti: essenziale
è, al contrario, che il processo sia veloce se anche una sola
delle parti lo vuole. Se le parti concordano nel voler
mantenere il processo in stato di sospensione, non si vede
quale possa essere l'interesse pubblico idoneo ad impedire che
si produca l'effetto da esse voluto. A questo principio vanno
sottratti i casi in cui la domanda sia soggetta a trascrizione
o vi sia un interesse dei terzi alla pronta definizione del
giudizio.
Infine, diviene necessario prevedere una disciplina comune
a tutte le ipotesi di sospensione per ciò che attiene ai
controlli sul provvedimento che decide sulla questione:
controlli certamente necessari, dal momento che la sospensione
si risolve pur sempre in un diniego di tutela, pur se
temporaneo o basato sulla concorde volontà delle parti. Nel
sistema attualmente vigente solo il provvedimento che dispone
la sospensione per pregiudizialità è controllabile; non lo
sono, invece, il provvedimento che nega la sospensione per
pregiudizialità e i provvedimenti che statuiscono,
positivamente o negativamente, sulle fattispecie di
sospensione impropria. Si aggiunga che lo strumento di
controllo previsto - il regolamento di competenza - oltre ad
essersi rivelato eccessivo rispetto allo scopo, aggrava
inutilmente il carico della Corte di cassazione.
Si ritiene, quindi, opportuno consentire un controllo
immediato su tutti i provvedimenti che dispongono in materia
di sospensione, sia positivi che negativi, individuando tale
controllo nel reclamo, che è strumento duttile e comunque
idoneo a provocare un riesame pieno della questione.
L'articolo 28 modifica l'attuale disciplina
dell'interruzione del processo che, pur essendo in sé
articolata, risente di un vizio di fondo, consistente nel
ritenere che l'interruzione sia funzionale al compimento di
atti di impulso processuale. Si sostiene, quindi, che quando
non si renda necessario il compimento di atti di impulso
processuale ad opera del soggetto nei cui confronti si è
verificato il fatto interruttivo, non vi sarebbe ragione di
applicare l'istituto della interruzione. Da qui, ad esempio,
l'asserita estraneità dell'interruzione al giudizio di
cassazione: con la deprecabile conseguenza che la morte o
l'impedimento dell'avvocato patrocinante in cassazione non
impedisce che la controversia venga decisa, e ciò nonostante
che la parte non possa essere adeguatamente difesa.
In realtà, come è stato evidenziato anche dalla dottrina
posteriore all'entrata in vigore del codice, l'interruzione è
finalizzata all'attuazione del diritto di difesa, in quanto i
fatti interruttivi pongono la parte rispetto alla quale si
verificano in condizione di non potere utilizzare in concreto
quei poteri processuali che sono in astratto conferiti dalle
norme. E', quindi, necessario ridisciplinare l'istituto,
tenendo conto della sua vera funzione.
Un inconveniente dell'attuale disciplina è causato dalla
previsione in virtù della quale, quando l'evento colpisce una
parte costituita a mezzo di procuratore, l'interruzione
consegue alla dichiarazione del difensore: dichiarazione che
può essere effettuata dal difensore nel momento da lui
insindacabilmente individuato. Ora, poiché la riassunzione nei
confronti degli eredi della parte venuta meno può essere
effettuata, in modo impersonale, mediante notificazione
all'ultimo domicilio della parte entro un anno dall'evento,
accade che il difensore di quest'ultima possa, in modo del
tutto lecito, dilazionare la dichiarazione fino oltre la
scadenza dell'anno e, quindi, impedire alla controparte di
usufruire delle modalità facilitate di riassunzione. Per
ovviare a ciò, si è previsto che la riassunzione possa essere
effettuata anche a prescindere dall'interruzione, onde evitare
che la controparte sia costretta a riassumere il processo nel
momento insindacabilmente scelto dal
procuratore della parte colpita dall'evento interruttivo.
Un altro inconveniente dell'attuale disciplina
dell'interruzione riguarda l'applicazione dell'istituto alle
procedure concorsuali, la cui apertura produce la perdita
della legittimazione del debitore. In tal caso, ove manchi la
dichiarazione dell'evento interruttivo da parte del difensore
del debitore, il processo deve necessariamente proseguire,
anche se la sentenza non sarà poi opponibile alla massa. Si è,
quindi, previsto che, in tale caso, l'interruzione possa
conseguire alla dichiarazione anche di altre parti, tutte le
volte in cui queste non abbiano interesse ad una pronuncia
efficace nei soli confronti del debitore tornato "in
bonis"; per equilibrare la responsabilità degli effetti
della dichiarazione si è, inoltre, previsto che l'evento
interruttivo, ove sia contestato nella sua effettiva
verificazione, debba essere adeguatamente provato dalla parte
che chiede l'interruzione.
L'articolo 29 prevede interventi in tema di estinzione,
che si articolano su due piani.
Da un lato, infatti, occorre razionalizzare la disciplina
dell'estinzione a fronte delle modifiche intervenute nel testo
originario del codice. In origine l'estinzione era sempre
dichiarabile di ufficio; a seguito della riforma del 1950,
essa è divenuta dichiarabile solo su istanza di parte.
L'estinzione si fonda, in realtà, su due diversi fenomeni: da
un lato, sull'inattività cosiddetta "semplice" e, dall'altro,
sull'inattività cosiddetta "qualificata". In estrema sintesi,
l'inattività semplice consiste nel mancato compimento di un
atto di impulso processuale, prescritto dal legislatore
secondo una sua libera scelta, in relazione ad un processo che
vede, comunque, presenti tutte le condizioni per la decisione
di merito. L'inattività qualificata, al contrario, consiste
nel mancato compimento di uno specifico atto, finalizzato a
far acquisire al processo una condizione per la pronuncia di
merito, allo stato carente.
Ciò posto, se la scelta del legislatore originario - nel
consentire la dichiarazione di ufficio dell'estinzione anche
nel caso dell'inattività semplice - era sintomatica di una
ideologia, in virtù della quale la celerità del processo
costituisce interesse pubblico anche contro la volontà delle
parti, in senso inverso la scelta della riforma del 1950 -
nell'impedire la dichiarazione di ufficio dell'estinzione
anche nel caso dell'inattività qualificata - trascurava di
considerare che l'omesso compimento dell'atto di sanatoria
lascia comunque il processo in condizione di non poter essere
deciso nel merito.
La presente riforma ritiene opportuno tenere distinte le
due fattispecie. Nell'inattività semplice spetta solo alla
controparte decidere se chiedere l'estinzione o, invece, far
comunque avanzare il processo verso la decisione di merito.
Ciò in conformità allo spirito che anima tutto il presente
disegno di legge, che non persegue la celerità del processo
"ope iudicis" anche contro la volontà concorde di tutte
le parti, poiché non ritiene sussistente un interesse pubblico
che vada oltre la volontà delle parti. Nell'inattività
qualificata, al contrario, la rilevabilità d'ufficio
dell'estinzione consente al giudice di chiudere, in modo
semplificato, un processo che, comunque, non è in grado di
produrre una decisione di merito.
L'altro intervento ha una portata più ampia e trae spunto
dalla disciplina dell'estinzione per modificare la disciplina
degli effetti delle sentenze di rito. Dalla vigente normativa
in materia di estinzione, la giurisprudenza deduce che le
sentenze di contenuto processuale hanno efficacia solo
all'interno del processo in cui sono state emesse: l'unica
eccezione è costituita dalle sentenze della Corte di
cassazione sulla giurisdizione e sulla competenza, che fanno
stato anche nell'ipotesi in cui la domanda sia riproposta in
altro processo.
Tale disciplina è frutto di una scelta di diritto
positivo, volutamente divergente da quella che è la soluzione
secondo i princìpi; si tratta di scelta che non ha serie
giustificazioni e che si rivela foriera di non pochi
inconvenienti.
Infatti, le sentenze a contenuto processuale ben sono in
grado, a seconda del loro contenuto, di produrre effetti anche
in un altro processo, avente lo stesso oggetto del precedente.
Si pensi, ad esempio, alla carenza di legittimazione: se la
domanda, con cui si fa valere in giudizio un diritto,
allegando una fattispecie di legittimazione straordinaria, è
rigettata in rito perché il giudice non ritiene sussistente
tale fattispecie, la regola attualmente vigente consente di
riproporre la domanda negli stessi identici termini, senza che
nel secondo processo possa invocarsi l'autorità della
precedente sentenza. Lo stesso ragionamento può essere esteso
a tutti gli altri presupposti processuali.
La proposta di riforma è quella di non deviare dai
princìpi, e di consentire che anche le sentenze di rito
producano "naturalmente" i loro effetti, secondo i princìpi
propri della cosa giudicata e, quindi, nel rispetto
dell'ambito oggettivo, soggettivo e temporale della stessa,
allorché, dopo una definizione del giudizio in rito, la
domanda sia riproposta.
In coerenza con quanto appena visto, si ritiene opportuno
modificare anche la disciplina dei rapporti fra definizione in
rito del processo ed effetti sostanziali della domanda. Dalla
normativa in materia di interruzione della prescrizione si
ricava che l'estinzione del processo fa venire meno tali
effetti. Ciò può portare alla perdita, sul piano sostanziale,
del diritto fatto valere nel processo estinto: il ché
costituisce una conseguenza eccessiva. Si aggiunga che la
giurisprudenza della Corte di cassazione, dopo aver per un
certo periodo di tempo correttamente equiparato la chiusura in
rito del processo all'estinzione, più di recente ha ritenuto
di limitare alla sola estinzione le conseguenze poc'anzi
descritte: introducendo, peraltro, una diversità di disciplina
difficilmente giustificabile.
La modifica è, quindi, la seguente: qualunque sia la
modalità tecnica di definizione del processo in rito -
estinzione o provvedimento a contenuto processuale - gli
effetti sostanziali della domanda si conservano, se la domanda
è riproposta entro un breve termine - indicato in sei mesi -
dalla definizione del precedente giudizio.
L'articolo 30 delinea un processo di appello con le
seguenti caratteristiche:
a) l'appellabilità di tutte le sentenze, fatta
eccezione di quelle decise secondo equità, costituisce uno
strumento necessario per porre un "filtro" al ricorso per
cassazione. Le statistiche giudiziarie mostrano che solo una
parte delle sentenze di appello è oggetto di ricorso per
cassazione: e ciò, evidentemente, perché le parti trovano
soddisfazione, in sede di appello, nei confronti delle
sentenze di primo grado. Sicché introdurre l'appello avverso
tutte le sentenze significa ridurre sensibilmente la necessità
di ricorrere per cassazione al fine di far valere le proprie
ragioni nei confronti della sentenza di primo grado;
b) la non appellabilità immediata delle sentenze
su questioni giudicate senza definire il giudizio (sentenze
cosiddette "non definitive") e la appellabilità immediata
delle sentenze che decidono una o alcune delle domande
proposte (sentenze cosiddette "parzialmente definitive")
consegue al diverso oggetto delle stesse ed ai diversi effetti
che esse producono: meramente endoprocessuali le prime, di
natura sostanziale le seconde; onde non vi è necessità di
tutelare immediatamente il soccombente nei confronti delle
prime, mentre tale necessità sussiste nei confronti delle
seconde. Si propone, in sostanza, l'estensione anche alle
sentenze della disciplina che la riforma del 1994 ha
introdotto per l'impugnazione del lodo. Non essendo la
sentenza cosiddetta "non definitiva" suscettibile di
impugnazione immediata non vi è evidentemente ragione di
sottoporre la stessa alla cosiddetta "riserva di appello". Al
contrario, l'immediata impugnabilità della sentenza cosiddetta
"parzialmente definitiva" lascia alla parte soccombente la
scelta fra l'impugnazione immediata e quella differita:
pertanto, ove la parte opti per la seconda alternativa, è
opportuno che manifesti tempestivamente la sua scelta;
c) la necessità di disciplinare l'atto di appello,
nella sua forma principale o incidentale, non ha necessità di
essere sottolineata. Basti pensare che tale atto, pur non
contenendo una domanda giudiziale, apre un'ulteriore fase del
processo: onde l'impossibilità di applicare all'atto di
appello "sic et simpliciter" quanto previsto per l'atto
introduttivo del processo di primo grado. Ciò comporta anche
la necessità di stabilire un'autonoma disciplina delle
nullità. Strettamente collegata a questa problematica è la
questione della rilevanza dei motivi di appello, che ha
subìto, nel tempo, una netta evoluzione, in parallelo con
l'acquisita consapevolezza che la critica alla decisione
oggetto di appello costituisce un requisito imprescindibile
per conferire alla sentenza resa in sede di impugnazione una
credibilità superiore a quella della sentenza impugnata;
d) considerazioni esattamente speculari a quelle
appena esposte possono essere fatte per l'atto difensivo
avverso quello di appello;
e) le fattispecie di improcedibilità dell'appello
derivano da una scelta sostanzialmente discrezionale del
legislatore: si tratta, dunque, di individuare ragionevoli
ipotesi in cui l'inattività dell'appellante impedisce l'esame
nel merito dell'appello. Così, ad esempio, l'attuale necessità
che la costituzione in appello avvenga in un termine
abbastanza ristretto, decorrente dalla notificazione della
citazione, produce difficoltà non trascurabili quando il luogo
di notificazione dell'impugnazione non coincide con la sede
della corte di appello;
f) la scelta sul tema dei "nova" in appello
- nel senso del ritorno alla disciplina antecedente alla
riforma del 1990 - è motivata dalla profonda convinzione che
la figura del litigante, il quale volutamente riserva le sue
armi migliori all'appello, non esiste nella realtà della
prassi giudiziaria. Oltretutto, l'esecutività "ex lege"
delle sentenze di condanna pronunciate in primo grado
costituisce il miglior argomento contro l'opinione che ritiene
necessario - al fine di "valorizzare" il processo di primo
grado - restringere l'ambito delle novità proponibili in
appello. Né, infine, ha pregio l'argomento secondo il quale la
presenza di preclusioni in primo grado impedisce logicamente
che sia possibile fare in appello ciò che non si può più fare
nella precedente fase: infatti, è ben possibile concepire che
il processo di primo grado, giunto ad un certo stadio, si
chiuda alle novità, ma che tali novità tornino proponibili,
una volta che si apra il processo di appello. Tale fenomeno
esisteva anche nel processo di primo grado antecedentemente
alla riforma del 1990, nel quale con la precisazione delle
conclusioni si precludevano le ulteriori allegazioni e
richieste istruttorie, che tornavano ad essere proponibili in
appello. Se, dunque, una delle parti - presumibilmente quella
che è rimasta soccombente - vuole proporre in appello nuove
allegazioni o nuove prove, non si vede perché mai ciò debba
esserle impedito: salva, ovviamente, la possibilità di tener
conto della tardività ai fini delle spese;
g) il problema dei rapporti fra nullità del
processo di primo grado e processo di appello dipende da una
serie di fattori, che non conducono ad una soluzione
obbligata. E' possibile, pertanto, che l'appello sia un puro
gravame, inidoneo a porre rimedio alle nullità del processo di
primo grado; è possibile che, al contrario, qualunque vizio -
ovviamente sanabile - del processo di primo grado sia
emendabile in appello; è possibile una soluzione intermedia,
come quella prevista nel vigente codice, secondo il quale il
processo di appello è in linea di massima in grado di porre
rimedio ai vizi del processo di primo grado, salvo che questi
riguardino le condizioni per la pronuncia di merito. L'opzione
qui proposta ritiene che l'eccezione contenuta nel vigente
sistema, pur essendo logicamente comprensibile, può essere
eliminata. Spetterà, quindi, al giudice di appello, una volta
accertata l'esistenza del vizio processuale, disporre il
compimento di tutte le attività idonee a sanare il vizio e,
poi, quelle consequenziali alla verificata
sanatoria. Ma se il processo di appello deve essere idoneo a
porre rimedio a tutti i vizi del processo di primo grado,
coerenza vuole che non si possano invocare i limiti propri
dell'ipotesi in cui l'appello non ha questa funzione: in
particolare, non può valere, in questo caso, il divieto di
proposizione di domande nuove, divieto che presuppone un
appello che non abbia il compito di porre rimedio ai vizi del
processo di primo grado. Insomma, delle due l'una: o l'appello
è in grado di fronteggiare tutte le nullità del processo di
primo grado, ed allora devono essere proponibili anche le
nuove domande, ove la nullità in questione ne abbia impedito
la proposizione in primo grado; oppure non è possibile in
assoluto la proposizione di nuove domande in appello, ma
allora non è vero che l'appello è in grado di rimediare a
tutti i vizi del processo di primo grado o, quantomeno,
non è in grado di rimediare a quei vizi che in quella sede
hanno impedito la proposizione delle nuove domande.
L'articolo 31 contiene interventi sul processo di
cassazione, che seguono tutti un filo conduttore: consentire
alla Corte di svolgere al meglio la sua funzione
nomofilattica, secondo le considerazioni che seguono:
lettera a): se la funzione della Corte non è
principalmente quella di rendere giustizia nel caso concreto,
non ha senso differenziare il ricorso ordinario da quello
straordinario ex articolo 111 della Costituzione, posto
che quest'ultimo ha proprio il preciso scopo di consentire
alla Corte di intervenire in ogni settore dell'ordinamento,
anche in relazione a quelle norme che trovano applicazione in
provvedimenti non ricorribili in cassazione in via ordinaria;
da tale regime sono ovviamente escluse le questioni di
giurisdizione afferenti le pronunce dei giudici speciali,
identificati dall'ottavo comma dell'articolo 111 della
Costituzione. In questa stessa direzione, si sono precisati i
limiti del sindacato sulla motivazione in fatto, pur nella
consapevolezza che spetta unicamente alla Corte stessa
mantenere tale sindacato nei limiti compatibili con la propria
funzione nomofilattica;
lettera b): la necessità che il ricorso contenga,
a pena di inammissibilità, l'enunciazione del quesito di
diritto proposto ha anch'essa lo scopo di finalizzare
l'attività della Corte alla decisione delle questioni di
diritto e di impedire che il ricorso si limiti ad una mera
ripetizione degli argomenti sostenuti nella precedente
fase;
lettera c): l'estensione del sindacato della Corte
ai contratti collettivi di diritto comune porta a compimento
l'opera iniziata dal legislatore con la riforma del pubblico
impiego;
lettera d): la non ricorribilità immediata delle
sentenze su questioni giudicate senza definire il giudizio
(sentenze cosiddette "non definitive") e la ricorribilità
immediata delle sentenze che decidono una o alcune delle
domande proposte (sentenze cosiddette "parzialmente
definitive") consegue al diverso oggetto delle stesse ed ai
diversi effetti che esse producono: meramente endoprocessuali
le prime, di natura sostanziale le seconde; onde non vi è
necessità di tutelare immediatamente il soccombente nei
confronti delle prime, mentre tale necessità sussiste nei
confronti delle seconde;
lettera e): la previsione ha lo scopo specifico di
eliminare l'attuale automatismo, in virtù del quale è
sufficiente che sia sollevata una questione di giurisdizione
perché ne debbano essere investite le sezioni unite. Si è
ritenuto, comunque, opportuno mantenere l'intervento di queste
ultime nella decisione delle questioni di giurisdizione
sollevate con riferimento a pronunce del Consiglio di Stato e
della Corte dei conti, in considerazione essenzialmente della
posizione della Suprema Corte come regolatrice dei conflitti
fra giudice ordinario e giudici speciali, nonché fra i giudici
speciali;
lettera f): la distinzione dei ruoli, all'interno
di un ufficio giudiziario unico
come quello della Corte di cassazione, fra sezioni semplici e
sezioni unite, corrisponde alla duplice funzione che deve
svolgere l'organo di vertice in un sistema nel quale non
esiste il vincolo al precedente e nel quale, quindi, qualunque
giudice può discostarsi dai princìpi enunciati dalla medesima
Corte. Da un lato, infatti, una Corte Suprema deve pronunciare
sentenze in grado di indirizzare l'attività dei destinatari
delle norme; dall'altro, la parte che è rimasta soccombente,
perché il giudice di merito ha - del tutto lecitamente -
disatteso il precedente della Corte, deve avere la possibilità
di chiedere alla Corte l'applicazione del principio enunciato
nel precedente. Ambedue gli interventi appartengono a pieno
diritto alla funzione nomofilattica. Alle sezioni unite
spetta, dunque, pronunciare sentenze autorevoli e convincenti;
alle sezioni semplici spetta il compito di garantire
l'applicazione dei princìpi enunciati dalle sezioni unite.
Nell'ambito di questa attività è, quindi, evidente che le
sezioni semplici, da un lato, non possono autonomamente
discostarsi da quanto precedentemente deciso dalle sezioni
unite, dall'altro lato, spetta alle sezioni semplici il
compito, assai rilevante, di verificare l'opportunità di un
riesame del precedente, rimettendo alle stesse la causa - che
la sezione semplice ritenga di non poter decidere facendo
applicazione dei princìpi precedentemente enunciati dalle
sezioni unite - con ordinanza, attraverso la quale la sezione
esporrà le ragioni che la inducono a non fare applicazione del
precedente e che giustificano appunto un ripensamento delle
sezioni unite;
lettera g): la modifica si rende opportuna a causa
delle divergenze che sussistono in ordine all'interpretazione
dei numeri 3) e 4) del primo comma dell'articolo 360 del
codice di procedura civile. Poiché, secondo un'interpretazione
maggioritaria, tutte le violazioni di norme processuali
rientrano nel numero 4), l'attuale dizione dell'articolo 384
del codice di procedura civile ha fatto sorgere il dubbio se
sia possibile la pronuncia di merito (che, si noti,
nell'ottica dell'articolo 384 non significa sentenza nel
merito, ma sentenza sostitutiva di quella impugnata,
qualunque ne sia il contenuto) quando la causa sia matura per
la decisione, ma si lamenti la violazione di norme
processuali, anziché sostanziali. Poiché, ovviamente, la
risposta deve essere affermativa, ne deriva la necessità di
chiarire che determinante non è il tipo di norma violata -
sostanziale o processuale - quanto la circostanza che la Corte
possa decidere in via definitiva senza dover procedere ad
accertamenti di fatto;
lettera h): l'enunciazione del principio di
diritto costituisce elemento essenziale della funzione
nomofilattica: è vero che esso può essere ricavato dalla
sentenza della Corte presa nella sua globalità, ma l'esplicita
enunciazione dello stesso dà maggior autorevolezza alla
decisione e produce anche una maggiore consapevolezza di
quanto affermato. Nella sostanza, l'enunciazione del principio
di diritto e la necessità che il ricorso contenga
l'enunciazione di un quesito di diritto costituiscono due
facce della stessa medaglia;
lettera i): l'attuale diritto vigente, in tema di
ricorso straordinario ex articolo 111 della Costituzione, nega
la possibilità di impugnare i provvedimenti che, oltre alla
forma, non abbiano neppure gli effetti propri delle sentenze.
In particolare, si ritengono incensurabili in Cassazione i
provvedimenti modificabili e revocabili dal giudice che li ha
emessi, come quelli che dispongono circa i figli minori; non
lo sono neppure i provvedimenti i cui effetti sono destinati
ad essere riassorbiti in altri provvedimenti definitivi, come
quelli cautelari. Questa situazione produce un notevole
inconveniente: l'impossibilità per la Corte di fornire dei
precedenti. Ad esempio, non vi possono essere sentenze della
Corte di cassazione sull'interpretazione ed applicazione degli
articoli da 669-bis a 669-quaterdecies del codice
di procedura civile. Ciò produce, nella materia del
procedimento cautelare, una giurisprudenza a "macchia di
leopardo": tante "prassi" quanti sono i tribunali, che è
proprio quello che la presenza di una Corte Suprema
dovrebbe contribuire a scongiurare. Per ovviare a tale
inconveniente, non è certo possibile estendere illimitatamente
la previsione dell'articolo 111 della Costituzione anche ai
provvedimenti del tipo di quelli sopra indicati, in quanto ciò
produrrebbe un ulteriore aggravio per la Cassazione. Tuttavia,
poiché nelle dette materie la Costituzione non garantisce la
decisione della Corte di cassazione, si è pensato ad un
meccanismo - attivabile dal Procuratore generale - analogo al
vigente articolo 363 del codice di procedura civile, che
provochi una pronuncia della Corte di mero indirizzo, e cioè
nomofilattica nel senso più pregnante della parola, senza
incidenza nel caso concreto che ha dato occasione alla
pronuncia.
L'articolo 32 vuole rimediare ad una lacuna creatasi nel
codice da quando è consentito alla Corte di cassazione di
emettere una pronuncia sostitutiva di quella impugnata. In tal
caso, com'è ovvio, il giudicato è prodotto dalla stessa
sentenza della Corte; pertanto, ove si verifichino i
presupposti per l'impugnazione straordinaria della sentenza,
questa dovrebbe essere, in teoria, proposta alla stessa Corte.
Anche se si ritiene di poter affidare tale compito alla
Cassazione, superando i numerosi ostacoli esistenti, la Corte
potrebbe trovarsi a dover svolgere un'attività istruttoria
anche complessa; la sentenza, eventualmente di merito, emessa
all'esito dell'impugnazione, sarebbe assolutamente
incontrollabile e, dunque, occorrerebbe comunque disciplinare
il relativo procedimento. Proprio per le ragioni sopra
esposte, si è ritenuta preferibile una soluzione che veda
competente per l'impugnazione straordinaria il giudice che ha
emesso la sentenza sostituita dalla Cassazione.
L'articolo 33 disciplina alcuni interventi per quanto
riguarda il rito del lavoro - ed implicitamente, quindi, anche
il rito previdenziale e il rito delle locazioni - sulla base
della considerazione che, in linea di massima, tale rito non
presenta l'esigenza di incisive modificazioni. Imprescindibile
è la collocazione del processo del lavoro all'interno del
codice, sia per ragioni storiche che per ragioni di coerenza
sistematica dei riti speciali rispetto alla disciplina
generale.
Le proposte di modifica richiedono al legislatore
delegato, anzitutto, di provvedere a disciplinare modalità
procedurali accelerate per le controversie che presentino
particolare rilievo sociale, da individuare dallo stesso
legislatore delegato con riferimento ai valori
costituzionalmente preminenti (ad esempio i licenziamenti
collettivi ed individuali); si prevede, inoltre, un intervento
razionalizzatore della disciplina del tentativo di
conciliazione, nonché l'apertura dell'appello alle nuove prove
ed allegazioni, in coerenza con le scelte operate in
riferimento all'appello in generale.
Si impone, inoltre, un ripensamento anche dell'arbitrato
in materia di lavoro. La normativa vigente, pur essendo di
recente introduzione, ha suscitato dubbi e perplessità;
d'altro canto, occorre coordinare la disciplina vigente
dell'arbitrato del lavoro con le modifiche proposte in materia
di arbitrato in generale, ferma restando la specificità della
materia; a tale proposito, la formulazione della lettera
c) del comma 1 è stata pensata in termini volutamente
ampi, così da rendere possibile al legislatore delegato
l'adattamento della materia alle disposizioni delle leggi
speciali sul lavoro che alla materia arbitrale fanno
riferimento.
Il trasferimento alla giurisdizione ordinaria della
maggioranza delle controversie di lavoro derivanti da rapporti
alle dipendenze di una pubblica amministrazione impone,
inoltre, di affidare al legislatore delegato l'introduzione di
una norma di principio sulla normale eseguibilità in forma
specifica dei provvedimenti giurisdizionali esecutivi
(definitivi o provvisori che siano) pronunciati dal giudice
ordinario a carico dell'amministrazione-datore di lavoro.
L'attuazione della tutela esecutiva è oggi seriamente
compromessa dall'idea che le condanne in forma specifica a
favore del dipendente non possano essere attuate nei confronti
dell'amministrazione datore di lavoro. Sulla materia grava,
infatti, il grande equivoco della necessaria conversione
della tutela specifica in tutela risarcitoria, sulla base di
formule quali "contrattualizzazione" e "privatizzazione".
Queste formule, però, non sembra possano giustificare la
situazione attuale di denegata tutela che, tra l'altro, si
riflette perversamente sulla tutela cautelare, anche rispetto
alla quale viene invocato il postulato dell'incoercibilità
della prestazione, tanto più stridente se comparata con
l'immediata ed effettiva coercibilità delle obbligazioni
specifiche dell'amministrazione, non solo nelle aree di
pubblico impiego lasciate "in toto" alla giurisdizione
del giudice amministrativo ma, addirittura, nelle controversie
del personale "privatizzato" e "contrattualizzato" che la
legge - per contingenti esigenze distributive - sottrae al
giudice ordinario - con l'assurdità che la tutela dell'avente
diritto cambia radicalmente per il passaggio da un ordine
giurisdizionale ad un altro.
Si propone, pertanto, fatte salve le previsioni
razionalizzatrici della competenza per il giudizio di
ottemperanza contenute nei principi del successivo articolo
36, di estendere in via generale l'eseguibilità forzata nei
confronti della pubblica amministrazione, per l'ipotesi che
essa sia datore di lavoro, con riferimento a tutte le
tipologie di esecuzione forzata.
Non diversamente che per le disposizioni della legge n.
218 del 1995, si è ritenuto opportuno procedere ad una
riorganizzazione unitaria del processo del lavoro, la cui
disciplina è attualmente frammentata tra il codice di
procedura e il decreto legislativo n. 165 del 2001, con
conseguente difficoltà di coordinamento e di ricognizione
della regola del caso. Naturalmente, la sede codicistica è
apparsa il contenitore più congruo per ospitare una ordinata
riorganizzazione della disciplina. Tale opera di coordinamento
riguarderà, come appare evidente, la sola materia devoluta
alla giurisdizione del giudice ordinario, con esclusione della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, secondo il
criterio di riparto attualmente individuato dall'articolo 63
del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
L'articolo 34 affronta il tema delle mutue implicazioni
fra processo di cognizione e processo esecutivo; la mancanza
di un titolo esecutivo costringe il creditore a ricorrere al
processo di cognizione, per ottenere in quella sede un
provvedimento di condanna. Queste pur esatte considerazioni
non hanno tuttavia indotto a proporre di abbandonare il
tradizionale principio "nulla executio sine titulo", ma
si è cercato di razionalizzare il sistema, consentendo al
creditore di chiedere la tutela esecutiva, laddove possibile,
senza quindi dover ricorrere all'intervento del giudice della
cognizione.
Si è, quindi, ritenuto anzitutto di estendere l'efficacia
esecutiva dell'atto pubblico anche riguardo all'esecuzione in
forma specifica, essendo del tutto irragionevole che l'atto
idoneo a procacciare la tutela esecutiva per espropriazione
sia inidoneo a sorreggere un'esecuzione per consegna e
rilascio o per obblighi di fare.
L'efficacia di titolo esecutivo è stata estesa alle
scritture private, anche non autenticate, in quanto già
attualmente il nostro sistema attribuisce tale efficacia ai
titoli di credito, che dal punto di vista documentale sono
appunto scritture private non autenticate. Se il diritto, che
scaturisce da tali scritture, è certo, liquido ed esigibile
non vi è ragione di costringere il creditore ad instaurare un
processo di cognizione al fine di procurarsi un titolo
esecutivo giudiziale.
La previsione, relativa all'efficacia del titolo esecutivo
a favore e contro i successori - rispettivamente nel diritto e
nell'obbligo - recepisce a livello normativo la soluzione
assolutamente prevalente in giurisprudenza, e chiarisce un
dettato normativo (articolo 477 del codice di procedura
civile) attualmente ambiguo.
Infine, l'eliminazione del divieto di spedizione di più
copie in forma esecutiva si giustifica in considerazione del
fatto che la regola è anacronistica e costringe il creditore
che voglia esperire più mezzi di espropriazione - com'è, del
resto, suo diritto - a procedere a pignoramenti successivi,
provvedendo man mano alla sostituzione, in ciascuno di essi,
della copia
spedita in forma esecutiva con altra copia conforme non
esecutiva.
L'articolo 35 detta previsioni che razionalizzano diversi
profili generali del processo esecutivo.
La presenza del giudice dell'esecuzione in tutti i tipi di
processo esecutivo risponde vuoi ad esigenze di garanzia, vuoi
ad esigenze di efficienza: ciò non significa che tutte le
attività debbano essere svolte personalmente dal giudice. Al
contrario, si è ritenuto che al giudice debbano essere
riservate le funzioni di controllo e di risoluzione delle
difficoltà e delle contestazioni che si verificano nel corso
del processo, mentre le altre attività possono essere svolte
da ausiliari, liberando così il giudice da compiti che non
sono strettamente propri della funzione giurisdizionale.
La formazione del fascicolo di ufficio in ogni forma di
esecuzione risponde ad esigenza di trasparenza e praticità,
soprattutto dopo che, entrate in vigore le modifiche
suggerite, una pluralità di soggetti coopererà con il giudice
dell'esecuzione: si lascia al legislatore delegato di valutare
l'opportunità che copia del fascicolo sia conservata anche
dall'ufficiale giudiziario, e ciò in relazione all'auspicata
informatizzazione del processo ed all'opportunità che
l'ufficiale giudiziario abbia tutte le informazioni sulla
procedura da lui iniziata.
La semplificazione della disciplina delle comunicazioni
risponde ad una esigenza di celerità, realizzata senza imporre
oneri eccessivi alle parti.
Infine, la previsione relativa alla liquidazione delle
spese estende anche al processo esecutivo la disciplina
generale in materia di spese processuali.
L'articolo 36 affida al legislatore delegato di prevedere
una regola che consenta di eseguire coattivamente tutte le
condanne pronunciate dal giudice ordinario nei confronti della
pubblica amministrazione, aventi per oggetto obblighi di fare,
che comportino la necessità di adottare atti
amministrativi.
L'attuale situazione vede, infatti, una efficace
possibilità di tutela per i soli provvedimenti che contengono
la condanna della pubblica amministrazione al pagamento di
somme di denaro, ipotesi in cui è possibile per il creditore
eseguire il provvedimento giudiziario nelle forme
dell'esecuzione ordinaria.
Del tutto diversa è la situazione che si presenta
allorquando la condanna debba essere eseguita attraverso
l'emanazione di un atto o di un provvedimento amministrativo.
In tali casi, il creditore - ove la pubblica amministrazione
non emani l'atto richiesto - non ha strumenti effettivi di
tutela, giacché l'ordinamento non prevede forme di esecuzione
assimilabili a quelle presenti nel giudizio amministrativo,
segnatamente legate al giudizio di ottemperanza.
La scelta proposta estende la competenza del giudice
amministrativo all'esecuzione con le forme dell'ottemperanza
anche ai titoli esecutivi ed ai provvedimenti emanati dal
giudice ordinario, ma che comportano l'adozione di
provvedimenti amministrativi, sia che si tratti di attività
paritetica, sia che si tratti di attività discrezionale.
In tale modo si intende far tesoro della lunga e fruttuosa
esperienza del giudizio di ottemperanza, salvaguardando
l'autonomia del sistema della giustizia amministrativa e le
prerogative della discrezionalità amministrativa, ma, al
contempo, si garantisce effettività di tutela anche alle
situazioni giuridiche soggettive tutelate innanzi alla
giurisdizione ordinaria.
L'articolo 37 introduce la possibilità di procedere ad
espropriazione dell'azienda, soluzione che nel sistema vigente
non è possibile, in quanto manca la possibilità di sottoporre
a pignoramento una "universitas" composta di beni
sottoposti a differenziati regimi di circolazione.
Una volta resa possibile la sottoposizione ad esecuzione
forzata dell'azienda, occorre ovviamente prevedere la
possibilità di alienazione unitaria della stessa (in realtà,
la stessa possibilità di pignoramento è funzionale a
consentire una vendita della "universitas", anziché
giungere
allo smembramento necessario di essa); a ciò è funzionale
l'impignorabilità relativa dei beni mobili componenti
l'azienda.
Ove opportuno, sarà possibile nominare un amministratore
giudiziario.
L'articolo 38 disciplina uno dei punti centrali
dell'espropriazione forzata, quello dell'individuazione dei
beni pignorabili; analogamente, nell'esecuzione per consegna è
essenziale individuare la collocazione spaziale del bene
mobile. Sotto ambedue i profili, l'attuale situazione è del
tutto carente.
E' stato, quindi, previsto che l'ufficiale giudiziario
possa invitare l'esecutato a dichiarare, sotto la sua
responsabilità penale, l'esistenza e l'ubicazione dei beni da
sottoporre ad esecuzione, analogamente a quanto accade nel
sistema tedesco (cosiddetto "giuramento di manifestazione").
Ovviamente, in relazione all'esecuzione per consegna questo
costituisce l'unico strumento utilizzabile.
Con riferimento all'espropriazione, si è prevista altresì
la possibilità che l'ufficiale giudiziario, previa eventuale
autorizzazione del giudice dell'esecuzione, abbia accesso ai
dati contenuti nell'anagrafe tributaria, ovvero in altre
banche dati pubbliche, analogamente a quanto già previsto per
il concessionario della riscossione. Si è ritenuto opportuno
prevedere che tale accesso sia effettuato dal pubblico
ufficiale, anziché dal creditore, per evitare che quest'ultimo
possa avere diretto accesso alle banche dati e, comunque,
utilizzare ad altri fini le informazioni acquisite per
procedere al pignoramento.
In stretta correlazione con quanto sopra visto, si è
ritenuta opportuna l'introduzione di uno strumento uniforme,
attraverso il quale l'esecutato possa far controllare che il
valore dei beni sottoposti ad esecuzione è eccessivo rispetto
al credito da soddisfare, con efficacia sospensiva del
procedimento ablatorio.
L'articolo 39, con riferimento all'espropriazione
mobiliare, prevede l'impossibilità di vendere il bene per un
prezzo inferiore ad una percentuale di quello stimato, così da
evitare manovre di ribasso da parte dei potenziali acquirenti,
pregiudizievoli sia per i creditori che per il debitore.
Con riferimento all'esecuzione presso terzi, è prevista la
possibilità che la dichiarazione del terzo sia raccolta
dall'ufficiale giudiziario che procede al pignoramento, per
evitare che il terzo debitore, nell'intervallo fra la
notificazione dell'atto di pignoramento e l'udienza, possa
modificare la situazione sostanziale esistente, in pregiudizio
dei creditori.
L'articolo 40 reca la disciplina dell'esecuzione
immobiliare, perseguendo due finalità: da un lato, rafforzare
l'effettività della tutela esecutiva, sia per i creditori che
per il debitore; dall'altro, abbreviare i tempi del processo,
anche attribuendo ad ausiliari del giudice dell'esecuzione il
compimento di attività che non debbono necessariamente essere
riservate a quest'ultimo.
Rientrano nella prima finalità:
1) la trascrizione del pignoramento antecedentemente
alla sua notificazione al debitore. Infatti, attualmente, fra
la notificazione - soprattutto a mezzo posta - del
pignoramento e la trascrizione dello stesso può intercorrere
un periodo di tempo che consente al debitore di compiere atti
di disposizione ed all'avente causa di farli trascrivere prima
che sia possibile la trascrizione del pignoramento;
2) la possibilità di dare notizia dell'avviso di vendita
in modi più efficaci di quelli attualmente esistenti;
3) l'inversione della regola, attualmente vigente,
secondo la quale l'esecutato è di regola custode del bene
pignorato. Tale inversione si rende opportuna sotto diversi
profili: anzitutto, se si tratta di un bene che produce un
reddito, che viene percepito dall'esecutato, rimane poi
praticamente impossibile recuperare le corrispondenti somme,
che pure fanno parte ad ogni effetto dell'attivo
dell'esecuzione; se, invece, si tratta di bene utilizzato
direttamente dall'esecutato, diviene spesso impossibile
farlo visionare dai potenziali acquirenti. Si è, quindi,
previsto che il provvedimento di nomina del custode
costituisca titolo esecutivo per il rilascio nei confronti dei
terzi, che non abbiano titolo opponibile all'esecuzione, per
contrastare eventuali manovre fraudolente dell'esecutato;
4) la sostanziale impossibilità di vendere il bene ad un
prezzo inferiore alla metà di quello stimato. Si vogliono così
impedire manovre al ribasso da parte dei potenziali
acquirenti, pregiudizievoli dell'interesse sia del debitore,
sia dei creditori;
5) la possibilità del potenziale acquirente di farsi
finanziare l'acquisto, mediante garanzia sul bene espropriato.
I principali motivi di svantaggio della vendita forzata
rispetto alla vendita di diritto comune sono tre:
l'impossibilità di contrattare contenuto, modi e termini dei
reciproci adempimenti di venditore ed acquirente; la
difficoltà di far visionare il bene a chi è interessato
all'acquisto; la difficoltà, per il potenziale acquirente, di
ottenere un finanziamento per l'acquisto mediante garanzia sul
bene. Il primo svantaggio è impossibile da eliminare, per le
caratteristiche proprie della vendita forzata. Al secondo si è
cercato di ovviare mediante quanto previsto al numero 4).
Al terzo si è posto rimedio, stabilendo che il processo
esecutivo debba strutturarsi in modo tale da consentire al
potenziale acquirente di ottenere credito mediante garanzia
sul bene da acquistare.
Rientrano nella seconda finalità (abbreviazione dei
tempi):
6) la semplificazione della autorizzazione alla vendita,
rendendo obbligatoria la nomina dell'esperto, che provvede
alla stima del bene ed alla verifica dei titoli
dell'esecutato;
7) la possibilità di vendita attraverso commissionario,
che diviene indispensabile nelle ipotesi in cui il bene
oggetto di pignoramento abbia caratteristiche tali da rendere
opportuna la ricerca del potenziale acquirente attraverso
contatti privati;
8) l'estensione della delega al notaio anche con
riferimento alla vendita senza incanto;
9) la delega al notaio anche per la pronuncia del
decreto di trasferimento e per la predisposizione del progetto
di distribuzione, limitatamente all'ipotesi in cui non vengano
sollevate contestazioni ad opera delle parti, ipotesi nelle
quali la decisione delle controversie è ovviamente riservata
al giudice.
L'articolo 41 risponde ad un'esigenza di tutela
dell'avente diritto. Nella disciplina attualmente vigente, le
spese debbono essere tutte anticipate da quest'ultimo e, solo
alla fine del processo esecutivo, egli avrà titolo per
recuperarle dall'obbligato inadempiente. Ma l'anticipazione
delle spese può essere problematica ed è comunque onerosa per
l'avente diritto. Occorre evitare che egli debba
necessariamente finanziare un'opera che spetta all'esecutato
compiere; si è, pertanto, previsto che l'anticipazione delle
spese possa essere posta a carico dell'obbligato, in una
misura stabilita dal giudice.
L'articolo 42 risponde alla avvertita esigenza di
introdurre un sistema di tutela esecutiva indiretta, che abbia
portata generale e che - nel colmare una lacuna che
contraddistingue il nostro sistema rispetto agli altri
ordinamenti europei - ponga fine anche alla disomogeneità con
la quale, finora, il legislatore ha previsto tale tutela a
favore di determinate categorie di diritti.
La scelta fondamentale riguarda la qualificazione della
sanzione afflittiva prevista per l'inadempiente, imponendo una
scelta tra sanzione civile e sanzione penale.
A favore della prima alternativa milita l'inopportunità di
prevedere fattispecie di reato al di là dei casi strettamente
necessari; a favore della seconda milita la considerazione che
l'entità globale della sanzione civile non può discostarsi
eccessivamente dall'entità del danno che la controparte
subisce a causa dell'inerzia, altrimenti si produce un
arricchimento
ingiustificato dell'avente diritto. Inoltre, se le somme
corrisposte a titolo di sanzione sono percepite dall'avente
diritto, diviene più complicato per chi ha subito l'esecuzione
ottenere la restituzione di quanto corrisposto.
La soluzione prescelta contempera le alternative
prevedendo:
a) che, in presenza di un titolo esecutivo
relativo ad obblighi infungibili, l'avente diritto possa
ottenere una comminatoria a carico della controparte;
b) che, persistendo l'inadempimento, l'avente
diritto possa fare accertare l'entità della somma dovuta in
dipendenza della comminatoria;
c) che le somme via via maturate siano versate
allo Stato;
d) che, sulle somme così versate, si soddisfi
l'avente diritto nei limiti dei danni prodotti dall'inerzia
dell'obbligato e che il residuo sia definitivamente acquisito
allo Stato.
L'articolo 43 disciplina le controversie che possono
trarre origine dal processo esecutivo, che possono essere
ricondotte a quattro tipi:
a) controversie relative al diritto sostanziale da
tutelare;
b) controversie relative al diritto processuale
alla tutela esecutiva;
c) controversie relative ai diritti dei terzi sui
beni pignorati;
d) controversie relative alla distribuzione del
ricavato.
Nel sistema attuale, le controversie di cui alle lettere
c) e d) non necessitano di interventi normativi
diversi dal coordinamento con le modifiche proposte.
Viceversa, va rivista la disciplina delle controversie di
cui alle lettere a) e b), perché quella attuale
offre il fianco a diverse critiche. In particolare, con
l'opposizione all'esecuzione si fanno valere anche questioni
di natura processuale (relative al titolo esecutivo ed alla
pignorabilità dei beni); viceversa, l'opposizione agli atti
esecutivi ha un oggetto troppo angusto, perché parametrato
esclusivamente sulle nullità formali - relative ai singoli
atti - mentre nel processo esecutivo vi sono anche le nullità
extraformali - relative ai presupposti processuali.
Si è deciso di separare nettamente lo strumento volto a
risolvere le contestazioni relative al diritto sostanziale da
tutelare da quello volto a risolvere le contestazioni relative
al diritto processuale alla tutela esecutiva. Il termine per
la proposizione di quest'ultimo strumento va, poi, correlato
al termine nel quale la questione deve, in generale, essere
sollevata, posto che l'opposizione agli atti è l'equivalente
funzionale della eccezione di rito nel processo di
cognizione.
Si è ritenuto, infine, opportuno sostituire
all'opposizione agli atti esecutivi - che viene decisa dallo
stesso giudice dell'esecuzione con sentenza inappellabile - un
reclamo al collegio, strutturato come il reclamo cautelare,
che svolge la stessa funzione del reclamo ai sensi
dell'articolo 26 del regio decreto n. 267 del 1942 (cosiddetta
"legge fallimentare").
L'articolo 44 introduce una compiuta disciplina dei
rimedi avverso gli atti degli ausiliari del giudice
dell'esecuzione: nel sistema vigente vi sono, infatti, solo
isolate previsioni, dal contenuto spesso divergente.
Considerato anche che lo spirito della riforma è quello di
affidare ad ausiliari tutto quanto non esige l'intervento
diretto del giudice dell'esecuzione, si rivela opportuno
introdurre un rimedio generale, esaustivamente disciplinato,
nei confronti degli atti e dei comportamenti degli ausiliari
(ufficiale giudiziario, notaio, eccetara).
Tale rimedio si ispira a quanto attualmente previsto dagli
articoli 534-ter e 591-ter del codice di procedura
civile: esso assume la forma del reclamo al giudice
dell'esecuzione, proponibile contro l'atto dell'ausiliario;
non ha effetto sospensivo, salva diversa disposizione del
giudice dell'esecuzione; è proponibile entro un termine
decorrente dalla conoscenza dell'atto
stesso, in alternativa all'opposizione di rito di cui alla
lettera b) del comma 1 dell'articolo 45, avverso l'atto
finale del subprocedimento affidato all'ausiliario; la
decisione del reclamo da parte del giudice dell'esecuzione è,
a sua volta, reclamabile al collegio.
L'articolo 45 prevede una razionalizzazione degli istituti
della sospensione e dell'estinzione, in coerenza con le novità
introdotte, lasciando per il resto invariati i princìpi
attualmente vigenti.
E' disciplinata, in particolare, la possibilità che
l'esecuzione forzata possa essere sospesa anche prima del
pignoramento, per non lasciare il periodo temporale successivo
alla notificazione del precetto sguarnito di questa forma di
cautela.
La previsione di cui alla lettera b) è giustificata
dal fatto che l'attuale disciplina della riassunzione
(articolo 627 codice di procedura civile) non distingue fra le
ipotesi di sospensione del processo esecutivo che sono
previste a favore del creditore (articoli 549 e 601 del codice
di procedura civile) ed ipotesi di sospensione che sono
previste a favore del debitore o del terzo; in proposito, si è
previsto, come ulteriore potere del giudice oltre a quello di
rigetto dell'istanza o di concessione dell'inibitoria, anche
la facoltà di sottoporre a cauzione la prosecuzione o la
riassunzione dell'esecuzione, nei casi in cui sussistano dubbi
sulla fondatezza dell'impugnazione. Inoltre, l'attuale
disciplina impone al creditore di riassumere il processo
esecutivo anche laddove egli preferisca attendere la
formazione del giudicato sulla controversia incidentale.
La previsione di cui alla lettera c) trae spunto dal
fatto che la sospensione del processo esecutivo, seguente alle
contestazioni in tema di distribuzione, si giustifica
unicamente per il timore che possa non essere restituito
quanto ricevuto senza che ve ne fosse il diritto;
conseguentemente, ove il creditore contestato dia idonea
cauzione, non vi è motivo per tenere immobilizzata la somma da
distribuire per tutto il tempo necessario a decidere la
controversia.
Per quanto riguarda la previsione di cui alla lettera
d), valgono le considerazioni già commentate a proposito
dell'articolo 25.
Il comma 2 prevede che, in ogni ipotesi di estinzione o
comunque di chiusura e definizione del processo esecutivo,
continua a rimanere pienamente tutelata la situazione
dell'assegnatario e dell'aggiudicatario, anche provvisorio,
che non sia incorso in decadenze e che, in nessun caso,
possano travolgersi o revocarsi gli effetti degli atti
esecutivi già compiuti.
L'articolo 46 muove dalla constatazione che il nostro
sistema processuale - al contrario di quello di altri
ordinamenti - manca totalmente di un processo esecutivo
concorsuale per i debitori non assoggettabili a fallimento.
Nei confronti di chi non rientra nella previsione
dell'articolo 1 del regio decreto n. 267 del 1942 (cosiddetta
"legge fallimentare") restano esperibili una pluralità di
esecuzioni singolari, anche quando il patrimonio del debitore
è incapiente rispetto ai crediti. La conseguente
"atomizzazione" dei processi esecutivi, oltre a produrre la
moltiplicazione delle controversie comuni (ad esempio, la
natura privilegiata o meno di un credito, il cui titolare sia
intervenuto in una pluralità di esecuzioni), rende assai più
difficoltosa l'attuazione della "par condicio", se non
altro perché ciascun creditore deve effettuare un autonomo
atto di intervento in ciascuna esecuzione.
D'altro canto, non è sembrato opportuno istituire un
processo concorsuale "pesante" come quello fallimentare, il
cui atto iniziale produca gli effetti del pignoramento, anche
a prescindere dal compimento delle attività volte a rendere
opponibili ai terzi gli atti compiuti dal titolare del diritto
e che produca la perdita della legittimazione del debitore
relativa a tutti i beni pignorabili, ancorché questi non siano
al momento individuati.
Si è ritenuto che un risultato soddisfacente possa essere
raggiunto senza incidere sul regime di circolazione dei beni
e, quindi, è stato previsto che il pignoramento si effettui
secondo le normali regole che lo disciplinano, ma che - ove
siano
perfezionati una pluralità di pignoramenti contro lo stesso
esecutato - si proceda alla riunione necessaria, alla prima
esecuzione, di quelle instaurate successivamente. Ciò consente
ai creditori di proporre un solo atto di intervento; ai
legittimati di proporre una sola volta le contestazioni
comuni; di approntare un solo piano di riparto, e di risolvere
una sola volta le controversie ad esso relative. Si
garantisce, in tal modo, una più completa attuazione della
"par condicio".
Naturalmente, ciò presuppone l'istituzione di un
"registro" nazionale delle esecuzioni, sul modello del già
esistente registro dei protesti.
L'articolo 47 prende le mosse dalla constatazione che i
procedimenti monitori attualmente esistenti rispondono a
indiscusse esigenze, che si correlano all'inadempimento delle
più comuni prestazioni: pagamento di somme di denaro, consegna
di beni mobili, rilascio di beni immobili. Tuttavia, la
diversa genesi storica del procedimento per ingiunzione e di
quello per convalida hanno prodotto una diversità di
disciplina, che razionalmente non è giustificabile: si pensi,
soltanto, al diverso ambito di cognizione del giudice, che
nella convalida è sotto certi profili anomalo; alla natura
privata dell'intimazione, cui si aggiunge l'atto
giurisdizionale della convalida, a fronte della natura
esclusivamente giurisdizionale del decreto ingiuntivo; al
limitato ambito di applicazione della convalida, a fronte
della generale applicazione del procedimento per
ingiunzione.
Si è ritenuta, quindi, opportuna la riscrittura dei
procedimenti monitori attualmente esistenti, riconducendo il
procedimento per convalida alla struttura propria del
procedimento monitorio ed estendendone l'utilizzabilità anche
ad ipotesi diverse da quelle attualmente previste.
L'articolo 48 si ispira al "réferé" francese, di cui
ripete le principali caratteristiche, generalizzando quanto
già anticipato dalla riforma del diritto societario, attuata
con il decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5.
Le ragioni che inducono ad introdurre un procedimento
sommario, rispettoso del principio del contraddittorio, che
sfocia in un provvedimento immediatamente esecutivo, ma privo
dell'efficacia del giudicato, risiedono nella constatazione
che, nella maggior parte dei casi, la parte ricorre al
processo di cognizione non perché ha necessità di un
accertamento con efficacia di giudicato, quanto perché vuole
procurarsi un titolo esecutivo. Pertanto, in tali casi, è
sufficiente dare alla parte un provvedimento esecutivo, anche
se non munito dell'autorità del giudicato.
Ora, mentre un provvedimento idoneo al giudicato esige -
sia pure a richiesta di parte - lo svolgimento di un processo
a cognizione piena ed esauriente, un provvedimento il cui
contenuto non è vincolante e che, quindi, è contestabile in
qualsiasi sede, può essere emesso anche al termine di un
procedimento sommario, senza la necessità che, a richiesta di
una delle parti, il procedimento sommario si converta in
processo a cognizione piena.
Attraverso questo strumento, in sostanza, si pone a carico
dell'apparente obbligato, in base ad una valutazione sommaria
di fondatezza della domanda, il tempo necessario per lo
svolgimento di un processo a cognizione piena ed
esauriente.
Infine, il provvedimento può essere emesso anche in sede
di processo a cognizione piena, se chi ha proposto la domanda
si "accontenta" del provvedimento esecutivo e rinuncia al
giudicato; qualora la controparte non sollevi obiezioni, il
provvedimento sommario è in tal caso idoneo a definire il
processo.
L'articolo 49 muove dalla constatazione che, spesso, il
contrasto fra le parti riguarda la "quaestio facti" di
tal che, una volta effettuata l'istruttoria - e, beninteso, se
non vi sono ragioni di contestazione sul modo con cui
l'istruttoria si è svolta - la controversia viene conciliata.
Se, dunque, si riesce ad anticipare la formazione della prova
rispetto all'inizio del processo, è presumibile che non tutte
le controversie caratterizzate da un contrasto in punto di
fatto vengano portate dinanzi al giudice.
Nel sistema vigente, invece, la formazione della prova
prima del processo è possibile solo se ricorre il presupposto
del "periculum in mora" e, quindi, sostanzialmente
l'istruzione preventiva ha natura solo cautelare. Eliminando
tale presupposto, è possibile generalizzare la formazione
pre-processuale delle prove costituende.
Inoltre, un difetto dell'attuale sistema riguarda l'ambito
eccessivamente ristretto degli accertamenti tecnici preventivi
che - come si suole dire - debbono limitarsi a "fotografare"
la situazione esistente. Essi non sono, dunque, esaustivi e,
pertanto, non sono idonei a definire la "quaestio
facti". Si propone, quindi, di eliminare tali limiti,
consentendo l'espletamento "ante causam" di una
consulenza tecnica che abbia le stesse caratteristiche di
quella disposta in corso di causa.
L'articolo 50 riguarda il procedimento cautelare uniforme,
che in quasi dieci anni di applicazione non ha mostrato gravi
lacune o difetti. Pertanto, gli interventi proposti si
limitano a pochi ritocchi.
In primo luogo, si ritiene opportuno portare a compimento
il principio della coincidenza fra la competenza per la fase
cautelare e la competenza per quella di merito con possibile
estensione, quindi, del potere cautelare anche al giudice di
pace (ciò che valuterà il legislatore delegato).
In secondo luogo, occorre rivedere la disciplina
dell'efficacia nel tempo del provvedimento cautelare,
coordinandola con l'eliminazione della regola che imponeva
sempre l'immediata proposizione del processo di merito, pena
la perdita di efficacia della misura cautelare.
In terzo luogo, è necessario completare la disciplina
dell'attuazione del provvedimento cautelare, disciplina che è
attualmente carente, traendo spunto dal nuovo sistema delle
opposizioni in sede di esecuzione forzata (vedi articolo
45).
Da ultimo, si prevede che, anche in materia cautelare,
debbano essere previsti meccanismi idonei a consentire
l'esercizio della funzione nomofilattica della Corte di
cassazione.
L'articolo 51 propone modifiche ai singoli provvedimenti
cautelari, che si limitano ad alcuni ritocchi, in parte
(lettera a) del comma 1) resi necessari dalle modifiche
introdotte nell'esecuzione forzata; in parte (lettere b),
c), e d) del citato comma 1) consigliati da
difetti e lacune evidenziatisi nella normativa vigente.
L'articolo 52 attiene alla materia dei procedimenti in
camera di consiglio che è stata oggetto, negli ultimi anni, di
numerosi interventi del legislatore, il quale ha spesso
previsto l'utilizzazione del procedimento in sostituzione del
processo di cognizione, con ciò dando luogo a numerosi
problemi di compatibilità con la Costituzione, in quanto tale
procedimento era stato originariamente pensato per essere
utilizzato solo in materia non contenziosa. Rilevata
l'antinomia insita in tale anomala applicazione e seguendo
l'opinione della Corte costituzionale, si è ritenuto che non
sia razionale impedire l'utilizzazione di modelli processuali
difformi dal processo di cognizione, ma che occorra
distinguere a seconda della funzione che svolge il
procedimento in camera di consiglio. Altre sono le esigenze -
anche e soprattutto di natura costituzionale - e, quindi, le
regole, laddove il procedimento in camera di consiglio svolga
le funzioni proprie del processo di cognizione; altre sono le
esigenze e, quindi, le regole, laddove il procedimento in
camera di consiglio sia utilizzato in materia di giurisdizione
volontaria.
La soluzione prescelta si articola, pertanto, nei seguenti
quattro punti:
a) sono delineate le caratteristiche comuni a
tutti i procedimenti in camera di consiglio;
b) si prevedono le disposizioni particolari che
caratterizzano il procedimento in camera di consiglio laddove
esso sia destinato a terminare con un provvedimento non
suscettibile di giudicato sostanziale;
c) si prevedono le disposizioni particolari che
caratterizzano il procedimento
in camera di consiglio laddove esso sia destinato a terminare
con un provvedimento suscettibile di giudicato sostanziale;
d) si stabilisce che tutte le ipotesi, nelle quali
si prevede attualmente l'applicazione delle norme sul
procedimento in camera di consiglio, siano ricondotte alla
disciplina costituita dalla somma delle lettere a) e
b) per i casi di "vera" giurisdizione volontaria e dalla
somma delle lettere a) e c) per i casi in cui il
procedimento in camera di consiglio è utilizzato in
sostituzione del processo di cognizione.
L'articolo 53 prevede una riforma organica della
disciplina dell'arbitrato.
Invero, nonostante le due riforme del 1983 e del 1994,
alcune modificazioni alla disciplina dell'arbitrato si sono
evidenziate opportune. Le soluzioni indicate si fondano sulle
seguenti considerazioni:
a) le previsioni, attualmente vigenti, in materia
di compromettibilità in arbitri della controversia hanno
contenuto eterogeneo, essendo nominativamente richiamate
talune ipotesi di non arbitrabilità e rinviandosi poi, in via
residuale, all'utilizzabilità di altro istituto, la
transazione. Si è ritenuto opportuno fare riferimento ad un
unico criterio - quello della disponibilità dell'oggetto della
controversia - anche perché il rinvio alla transigibilità
della controversia è sovente fonte di incertezze;
b) dopo la riforma dell'arbitrato, vi è
attualmente una disomogeneità fra la capacità di stipulare il
compromesso e quella di stipulare la clausola compromissoria.
Si è, allora, adottato, anche per il primo, il criterio
vigente per la seconda, ovvero il potere di disporre in
relazione al diritto controverso;
c) la disciplina vigente ignora totalmente
l'arbitrato con pluralità di parti, la successione nel diritto
controverso, la partecipazione dei terzi al processo
arbitrale. Si è reso, quindi, necessario disciplinare queste
fattispecie, facendo applicazione dei princìpi generali
dell'arbitrato - l'uguale potere delle parti, intese come
centro di imputazione di interessi, nella nomina degli
arbitri; l'ineliminabile fondamento volontaristico della
decisione arbitrale; la permanenza degli effetti del patto
compromissorio in caso di successione;
d) la credibilità dell'arbitrato esige che siano
garantite l'indipendenza e l'imparzialità degli arbitri;
occorre, quindi, rafforzare i meccanismi finalizzati a tale
risultato, volti essenzialmente a rendere noti alle parti i
fatti che possono incidere sull'indipendenza ed imparzialità
dell'arbitro (ad esempio, prevedendo - come accade in molti
arbitrati amministrati - la cosiddetta "dichiarazione di
indipendenza" da parte dell'arbitro). Se la scelta
dell'arbitro è, e non può non essere, attività insindacabile
delle parti, è tuttavia necessario che tale scelta sia
effettuata con piena cognizione dei fatti che possono incidere
sulla indipendenza ed imparzialità del soggetto prescelto;
e) la normativa vigente prevede solo due
specifiche ipotesi di responsabilità degli arbitri; resta
totalmente priva di disciplina la residua area di
responsabilità; da qui la necessità di completare il disegno
normativo;
f) l'ultima riforma del 1994 non ha istituito
forme di assistenza giudiziaria al processo arbitrale in
materia di istruzione probatoria. Non si è voluto, cioè, che
il provvedimento arbitrale ammissivo di una prova coinvolgente
terzi - soprattutto, ma non esclusivamente, la prova
testimoniale - adeguatamente munito di "exequatur", sia
titolo per poter coinvolgere i terzi nell'assunzione
probatoria, oppure per far assumere la prova dal giudice, alla
stregua di una prova delegata. Ciò determina uno svantaggio
dell'arbitrato, che deve essere rimosso, prevedendo appunto
adeguate forme di collaborazione fra arbitro e giudice, che
rendano possibile l'istruzione probatoria quando questa
coinvolge terzi;
g) l'attuale disciplina delle questioni
incidentali risulta poco giustificabile, quantomeno
nell'interpretazione che in maniera assolutamente prevalente
se ne è data. Si ritiene, infatti, che l'arbitro non
possa neppure conoscere incidentalmente delle questioni
pregiudiziali non arbitrabili; e che, in tal caso, l'arbitro
debba sospendere il processo dinanzi a sé; onde le parti
sarebbero costrette a proporre, in sede giurisdizionale, la
domanda relativa alla situazione pregiudiziale non
arbitrabile, se vogliono ottenere dall'arbitro la decisione
della causa dipendente. Tutto ciò costituisce un'inammissibile
ipotesi di "coatio ad agendum". Si è, quindi, limitata
la disciplina descritta ai soli casi nei quali la decisione
della questione pregiudiziale non arbitrabile sia imposta
dalla legge;
h) il termine per la pronuncia del lodo
costituisce uno dei "tormenti" del processo arbitrale: è bene
razionalizzare la disciplina, facendo chiarezza sulle molte
questioni attualmente incerte;
i) analoga questione si pone anche per la
pronuncia del lodo: si è, quindi, disposta l'estensione
all'arbitrato interno della disciplina attualmente vigente per
quello internazionale;
l) nonostante gli interventi del legislatore, a
tutt'oggi l'efficacia del lodo non omologato costituisce
motivo di discussioni e, soprattutto, ostacolo alla
spendibilità all'estero del lodo italiano. E' necessario,
pertanto, precisare che il lodo, anche non omologato, ha gli
effetti di una sentenza. Con ciò non s'intende che il
legislatore delegato debba prendere posizione sulla natura del
lodo. Altro è, infatti, qualificare sistematicamente il lodo,
altro è disciplinarne gli effetti: quest'ultima operazione
rientra certamente nelle attribuzioni proprie del legislatore.
L'equiparazione - quanto agli effetti - del lodo alla sentenza
impedirà ogni dubbio circa la qualità "vincolante" di tali
effetti;
m) l'impugnazione per nullità - vero e proprio
banco di prova dell'arbitrato - necessita di alcuni ritocchi e
di qualche modifica.
In primo luogo, è necessario riscrivere in modo più
razionale ed omogeneo le ipotesi di nullità, che oggi sono
affastellate un po' a caso nei nove numeri dell'articolo 829,
primo comma, del codice di procedura civile (basti pensare che
la previsione relativa alla pronuncia "extra
compromissum" in realtà riguarda sia la pronuncia su
domanda non proposta, sia la pronuncia su domanda
proposta).
In secondo luogo, è necessario invertire l'alternativa
regola/eccezione contenuta nel secondo comma dell'articolo 829
del codice di procedura civile; non più sindacato sul merito,
tranne che le parti l'abbiano escluso, sebbene sindacato sul
merito solo se le parti l'abbiano previsto. Naturalmente, il
controllo di merito è altresì possibile se la legge
espressamente lo prevede o se il lodo contrasta con i princìpi
fondamentali dell'ordinamento.
In terzo luogo è necessario, nella stessa direzione,
chiarire alcuni punti incerti sul procedimento di impugnazione
per nullità, ricollegando più strettamente alla volontà delle
parti la pronuncia del rescissorio e prevedendo se,
nell'ipotesi in cui il giudice dell'impugnazione per nullità
non possa emettere la pronuncia sostitutiva, la domanda debba
essere riproposta in sede giudiziale oppure arbitrale;
n) l'intervento più urgente in materia di
arbitrato riguarda la disciplina dei rapporti fra arbitrato e
giurisdizione. La stessa giurisprudenza della Corte di
cassazione è oscillante in ordine a diverse, rilevanti
questioni. Si è, pertanto, ritenuto di introdurre una
disciplina chiara ed esaustiva, che affronta e risolve i
problemi esistenti (effetti della stipulazione del patto
compromissorio nel processo giurisdizionale; proposizione
della stessa domanda in ambedue le sedi; effetti delle
pronunce che, in ambedue le sedi, affermano o negano la
sussistenza del proprio potere decisorio);
o) l'arbitrato amministrato sta divenendo sempre
più frequente; si è, quindi, ritenuto di introdurre una
disciplina specifica, che consenta di chiarire i rapporti che
si instaurano fra istituzione, parti e arbitri; i poteri
dell'istituzione, con particolare riferimento all'intervento
di quest'ultima nel procedimento di nomina degli arbitri; la
responsabilità dell'istituzione in
caso di inadempimento agli obblighi assunti.
Resta salva la specificità dell'arbitrato in materia di
lavoro, come enucleata dal comma 3 dell'articolo 33.
L'articolo 54 estende all'arbitrato interno la disciplina
attualmente vigente per l'arbitrato internazionale, con la
sola eccezione dell'articolo 838 del codice di procedura
civile, abrogando la disciplina vigente relativa all'arbitrato
internazionale.
L'articolo 55 introduce una norma di chiusura, ritenuta
indispensabile, anche e soprattutto a seguito delle
controversie sorte a proposito dell'arbitrato irrituale che
prevede l'applicazione delle norme sull'arbitrato a tutte le
ipotesi di patto compromissorio, ove non sussista una volontà
espressa delle parti in senso contrario. In ogni caso, la
volontà delle parti non può escludere il rispetto del
principio del contraddittorio, la sindacabilità in via di
azione o di eccezione della decisione per vizi del
procedimento e la possibilità di fruire della tutela
cautelare.
Ciò consente di individuare in modo chiaro le norme e gli
istituti applicabili a qualunque fattispecie in cui le parti
affidino ad un terzo la decisione di una controversia,
attribuendogli il potere di individuare, in modo per esse
vincolante, le rispettive regole di condotta, con riferimento
ad una situazione sostanziale preesistente.
Resta, ovviamente, possibile che le parti, in applicazione
del principio dell'autonomia privata, conferiscano a terzi un
mandato di portata diversa, che non consiste nella decisione
di una controversia, ma tale fenomeno fuoriesce dal diritto
processuale e pone problemi esclusivamente di diritto
sostanziale.
L'articolo 56 prende lo spunto dalla constatazione che,
attualmente, nel processo civile in pratica non vi sono
udienze pubbliche, in quanto l'unica udienza che abbia tale
caratteristica - quella di discussione della causa - è
sostanzialmente inutilizzata. Si tratta, quindi, di una
modifica dovuta agli obblighi assunti dallo Stato, ed
espressamente previsti dall'articolo 6 della legge 4 agosto
1955, n. 848, che ha reso esecutiva la Convenzione di Roma del
4 novembre 1950 per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali.
L'articolo 57 affronta la problematica, generalmente
condivisa, della previsione di forme di risoluzione
consensuale delle controversie, favorite dall'intervento di un
terzo - conciliatore o, come si dice in altri ordinamenti,
mediatore - che sia in grado di condurre le parti fino ad un
punto di incontro soddisfacente per entrambe.
In via pregiudiziale, va osservato che l'obbligatorietà
del tentativo di conciliazione costituisce un'intrinseca
contraddizione, poiché non ha senso obbligare al compimento di
un'attività un soggetto il cui consenso è necessario per il
buon esito della attività stessa. Pertanto, da un lato si
propone che il tentativo non sia mai obbligatorio e
dall'altro, si consente che il giudice possa sospendere il
processo per un breve periodo, ed invitare le parti ad
esperire il tentativo di conciliazione, solo se nessuna di
esse si oppone.
La soluzione contraria è prevista per il caso in cui le
parti si siano contrattualmente impegnate a svolgere un
procedimento conciliativo: in questo caso, il giudice deve
rispettare la volontà contrattuale delle parti, sospendendo il
processo per dare modo di esperire tale tentativo. Viene così
riconosciuta la rilevanza, anche processuale, della clausola
di conciliazione: mentre ora, com'è noto, stante l'assenza di
una previsione normativa e l'inderogabilità convenzionale
delle norme processuali, il mancato rispetto della clausola di
conciliazione può produrre effetti solo sul piano sostanziale,
"sub specie" di risarcimento degli eventuali danni.
E' stato, inoltre, stabilito che l'istanza di
conciliazione produca gli effetti della domanda giudiziale con
riferimento agli effetti sugli istituti della prescrizione e
della decadenza, in modo da consentire lo svolgimento
del procedimento conciliativo senza timore che la mancata
tempestiva proposizione della domanda giudiziale produca
effetti estintivi del diritto.
Come hanno dimostrato gli studi esistenti in materia, il
procedimento conciliativo ha la possibilità di portare ad un
accordo solo se le parti hanno piena fiducia nel mediatore e
hanno la garanzia che quanto verrà detto in quella sede non
possa poi essere utilizzato - ove la conciliazione non riesca
- nella successiva fase contenziosa; altrimenti le parti,
invece di collaborare alla ricerca di una soluzione
accettabile da entrambe, utilizzano il procedimento
conciliativo per preparare le armi da utilizzare dinanzi al
giudice o all'arbitro, dicendo solo ciò che può favorirle e
non ciò che può loro nuocere, così impedendo l'individuazione
di una soluzione consensuale della controversia. Sorge,
quindi, la necessità che dal procedimento di conciliazione non
emergano elementi probatori utilizzabili nella successiva,
eventuale, fase contenziosa ed inoltre l'opportunità di
assicurare la professionalità e trasparenza della mediazione,
escludendo che mediatore possa essere chi poi - giudice o
arbitro - avrà il potere di decidere la controversia. In
particolare, è opportuno che la mediazione sia affidata ad
istituzioni particolarmente qualificate, che operino senza
fine di lucro e siano iscritte in un apposito registro, previa
verifica della sussistenza dei requisiti previsti dalla legge.
Naturalmente, il favore accordato ai procedimenti conciliativi
svolti presso tali istituzioni deve essere limitato a taluni
profili: in primo luogo, l'efficacia di titolo esecutivo
dell'accordo conciliativo, ma anche la possibilità per il
giudice di invitare le parti a svolgere un procedimento
conciliativo presso uno di tali soggetti. E' evidente,
infatti, che non sarebbe pensabile creare un "monopolio" della
mediazione a favore di alcune istituzioni.
Quanto agli effetti, gli atti che consacrano le
conciliazioni raggiunte nelle sedi sopra indicate si prevede
acquisiscano efficacia di titolo esecutivo mediante un
provvedimento del giudice, che ovviamente dovrà limitarsi ad
accertare che la conciliazione sia stata raggiunta presso una
delle istituzioni iscritte nel registro; la tutela esecutiva
costituisce, infatti, un elemento essenziale per
l'appetibilità della conciliazione, che la rende
effettivamente alternativa alla sentenza o al lodo
arbitrale.
Infine, si prevede l'introduzione di idonei incentivi
fiscali, evitando al contempo che la conciliazione possa
costituire strumento di elusione degli obblighi tributari. Si
è prevista, pertanto, la riduzione dell'onere tributario che
sarebbe dovuto per la registrazione della sentenza, nonché un
procedimento ulteriormente semplificato per l'assolvimento del
relativo pagamento, con l'esclusione dal beneficio delle
controversie aventi ad oggetto beni immobili, onde evitare che
la disposizione possa essere strumentalizzata al fine di
eludere i tributi gravanti sul trasferimento della proprietà.
Anche in questo settore, resta salva la specificità della
materia del lavoro, la cui legislazione speciale in tema di
sistemi stragiudiziali di composizione delle controversie
dovrà essere tenuta presente dal legislatore delegato al fine
di garantire un necessario coordinamento con le fattispecie
generali.
L'articolo 58 affronta il tema delle controversie in
materia agraria, che trovano oggi la loro disciplina al di
fuori del codice e, per di più, sono oggetto di una pluralità
di fonti normative.
Si rende opportuno, da un lato, l'inserimento della loro
disciplina all'interno del codice e, dall'altro, l'adeguamento
della stessa alle particolarità della materia, sulla base del
rito del lavoro, così come disciplinato dall'articolo 33.
Occorre, poi, tenere conto che l'articolo 409, numero 2),
del codice di procedura civile non esaurisce l'ambito delle
controversie agrarie e, quindi, occorre distinguere fra le
controversie agrarie cui si applica interamente il rito del
lavoro - perché comprese nell'articolo 409 del codice di
procedura civile - e quelle cui il rito del lavoro si applica
solo in parte,
perché non comprese nell'articolo 409 del codice di procedura
civile.
In tale direzione, si è previsto che alle controversie
agrarie che non sono anche cause di lavoro - perché non
comprese nell'articolo 409 del codice di procedura civile -
non si applichino le norme del rito del lavoro che
presuppongono una controversia fra un "lavoratore" ed un
"datore di lavoro" (ad esempio, l'articolo 421, primo comma,
l'articolo 429, terzo comma, l'articolo 431, commi primo,
secondo e terzo, del codice di procedura civile).
L'articolo 59 ha ad oggetto le controversie in materia di
sanzioni amministrative, per le quali si pongono esigenze
analoghe a quelle appena segnalate per le controversie
agrarie. Attualmente, nella materia, esistono due modelli di
processo: quello generale, di cui alla legge n. 689 del 1981,
che prescrive l'emanazione dell'ordinanza-ingiunzione e
l'opposizione alla stessa in sede giurisdizionale e quello
speciale, previsto dal codice della strada, che prescinde
dall'emanazione dell'ordinanza-ingiunzione e perciò consente
l'instaurazione del processo anche senza che vi sia
un'ordinanza-ingiunzione da opporre.
Occorre prevedere, all'interno del codice, una disciplina
che tenga conto delle peculiarità della materia e delle
diverse tipologie di controversie, coordinando inoltre tale
disciplina con le modifiche apportate in generale al processo
civile.
La previsione di cui alla lettera d) del comma 1
dell'articolo 59 si giustifica sulla base delle complicazioni
che, nella pratica, sono sorte in ordine al giudizio
preliminare di ammissibilità del ricorso, anche a seguito
delle note sentenze della Corte costituzionale, che hanno
modificato, in maniera sostanziale, l'originario disegno del
legislatore.
L'articolo 60 risponde alla necessità di ricondurre i
procedimenti speciali ivi menzionati ai princìpi generali del
processo riformato, tenendo conto delle particolarità di
ciascuno di essi, così come enunciate nel testo.
L'articolo 61 risponde all'esigenza di ricondurre
all'interno del codice la disciplina del riconoscimento delle
sentenze straniere, in quanto il trasferimento della materia
in una legge speciale si è rivelato inopportuno e ha prodotto
una ingiustificabile asimmetria con la parallela disciplina
del riconoscimento del lodo arbitrale straniero.
Si è ritenuto, inoltre, necessario introdurre la
possibilità di proporre opposizione al riconoscimento della
sentenza, perché - soprattutto in certe materie (persona,
matrimonio, filiazione) - l'attuale sistema produce
inconvenienti di rilievo, come evidenziato dall'esperienza
successiva all'entrata in vigore della riforma del diritto
internazionale privato. In particolare, si è ritenuto che il
riconoscimento automatico debba essere limitato ai rapporti
con quei Paesi con cui esistono convenzioni sul reciproco
riconoscimento delle sentenze, testimonianza di una sicura
affinità giuridica con il nostro sistema, che pone al riparo
dai rischi dipendenti da un indiscriminato automatismo.
L'articolo 62 prevede disposizioni necessarie in presenza
di una pluralità di riti che comporta la possibilità che, nel
caso concreto, sia utilizzato un rito diverso da quello
prescritto. In tale caso, occorre distinguere a seconda che la
correttezza del rito costituisca una condizione per la
pronuncia di merito - ciò che è opportuno che accada laddove
le differenze fra il rito corretto e quello in concreto
applicato siano rilevanti; oppure non costituisca una
condizione per la pronuncia di merito - ciò che è opportuno
che accada laddove le differenze fra il rito corretto e quello
in concreto applicato siano secondarie.
Nella prima alternativa, il processo iniziato con il rito
errato deve chiudersi con pronuncia di rito; nella seconda
alternativa, si ha il mutamento di rito e la prosecuzione del
processo con il rito corretto - come attualmente è previsto
per il passaggio dal rito ordinario al rito del lavoro, e
viceversa.
Si è ritenuto opportuno introdurre un principio generale,
applicabile in tutte le ipotesi in cui vi sia un errore di
rito, che
valga comunque - anche nei casi in cui la correttezza del
rito costituisce condizione per la pronuncia di merito - a far
salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda.
L'articolo 63 consente la necessaria opera di
coordinamento tra le innovazioni introdotte con la riforma e
le norme del codice di procedura civile vigente e delle altre
leggi che contengono disposizioni sul processo civile,
disponendo una razionalizzazione che possa consentire anche la
loro riunione nel corpo unico del codice, così da garantire
una maggiore uniformità e coerenza all'intero sistema.