XIV LEGISLATURA

PROGETTO DI LEGGE - N. 3914




        Onorevoli Colleghi! - La proposta di legge mira ad assicurare a tutti i prestatori di lavoro una tutela effettiva ed efficace che valga da valido deterrente contro i licenziamenti ingiustificati. Di tale tutela oggi non fruiscono né i collaboratori coordinati e continuativi, né gli stessi lavoratori subordinati occupati in unità produttive con meno di 16 addetti (a meno che l'impresa nel suo insieme superi i 60 occupati).
        Per gli attuali collaboratori coordinati e continuativi la soluzione è offerta dalla proposta di legge "parallela" che li ricomprende nella nuova fattispecie, ampliata da una riscrittura e revisione dell'articolo 2094 del codice civile; mentre per i lavoratori delle piccole imprese e unità produttive l'insufficienza della cosiddetta "stabilità obbligatoria", e cioè della mera sanzione indennitaria forfettizzata prevista dall'articolo 8 della legge n. 604 del 1966 e dall'articolo 2 della legge n. 108 del 1990 è ormai di tutta evidenza. Si tratta, infatti, di un modesto indennizzo, compreso tra le 2,5 e le 6 mensilità, privo di efficacia dissuasiva per i datori di lavoro che vogliano estromettere il lavoratore senza un motivo giustificato o, peggio ancora, per un motivo illecito e discriminatorio che ben difficilmente il lavoratore potrebbe comprovare e smascherare. Nessuno può negare in linea di principio che, dovendo essere, per regola generale, il licenziamento sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo esso è un "negozio causale", di talché la mancanza in concreto della causale non può, concettualmente, che portare alla conseguenza giuridica della sua invalidità. Se così non è, oggi, nel diritto positivo, ciò discende da ragioni di tipo sociologico, riconducibili all'obiettiva difficoltà dei rapporti interpersonali, indotte dal trauma di un licenziamento contestato anche in via giudiziaria, con l'immaginabile acutizzazione di contrasti e la scia di rancori e di ostilità da ambedue le parti.
        Per tale motivo il legislatore ha adottato nella piccola dimensione produttiva la "scorciatoia" del semplice - e certo troppo modesto - indennizzo, escludendo la conseguenza, logicamente e giuridicamente lineare, dell'annullamento del negozio di licenziamento.
        Questa scorciatoia è apparsa anche maggiormente obbligata con riguardo ai licenziamenti individuali per motivi oggettivi, stante la notoria maggiore esposizione della piccola impresa alle oscillazioni del mercato, di talché è sembrato costituisse un'indagine troppo gravosa e pericolosa il decidere, in tale situazione, se veramente il motivo oggettivo ricorra.
        Va osservato in senso contrario che quella scorciatoia non ha motivo d'essere o, meglio, che essa riflette un problema reale, ma logicamente, giuridicamente, e anche praticamente, successivo a quello della validità dell'atto di licenziamento. Si pensi, ad esempio, ai licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo: qui si imputa al lavoratore di aver commesso una colpa grave o gravissima tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. Se la colpa non c'è o è di lieve entità, per quale motivo il licenziamento deve produrre ugualmente il suo effetto? Sarebbe come sottoporre ugualmente alla pena chi è stato riconosciuto innocente.
        Appartiene, per così dire, alla sfera dei diritti civili il fatto che un licenziamento disciplinare debba essere eliminato se si accerta da parte del giudice che non vi è la colpa disciplinare affermata dal datore che lo ha emanato.
        Sul versante del licenziamento per motivi oggettivi, la questione che ha dato luogo alla ricordata scorciatoia risulta ancor più mal posta, essendo noto che, anche nelle imprese di grandi dimensioni, il giudice, contrariamente a quanto avviene nei licenziamenti disciplinari, non può entrare nel merito specifico della decisione del datore di lavoro di ridurre il livello occupazionale in funzione della situazione di mercato.
        Il datore di lavoro è tenuto solo ad essere coerente con se stesso, e cioè, ad esempio, a non sostituire un lavoratore anziano con uno giovane o a non licenziare un lavoratore per far effettuare lavoro straordinario ai restanti; tutti comportamenti, come si comprende, contraddittori rispetto alla invocata necessità di ridurre la forza lavoro.
        Laddove, pertanto, ci si trovi di fronte a contraddizioni di questo genere, e cioè in sostanza a simulazioni della esigenza invocata, non vi è motivo per cui un simile atto contraddittorio non debba essere eliminato.
        Il problema è, piuttosto, che non sempre le cose sono così chiare come negli esempi riportati. Con la conseguenza che la linea di confine tra sindacato di legittimità e sindacato di merito nel licenziamento per motivo oggettivo, specialmente nella piccola impresa, dà luogo a incertezze, contrasti e decisioni contraddittorie.
        Occorre dunque introdurre una innovazione, presente nell'articolo 5 della proposta di legge, norma che costituisce un ponte, per così dire, con altra proposta di legge di iniziativa popolare promossa dalla CGIL, la quale contempla una revisione in senso universalistico e dunque di applicazione anche alle piccole imprese del sistema degli ammortizzatori sociali, coniugandola con l'obbligo di preventivo ricorso agli ammortizzatori di carattere conservativo del rapporto (contratti di solidarietà, cassa integrazione guadagni, trasformazione del rapporto di lavoro in rapporto di lavoro a part-time) rispetto agli ammortizzatori di tipo indennitario per l'avvenuta perdita del posto di lavoro (indennità di disoccupazione o di mobilità).
        In concreto l'articolo 5 della proposta di legge prevede una integrazione dell'articolo 3 della legge n. 604 del 1996 nella parte dedicata al giustificato motivo di licenziamento, disponendo che il datore di lavoro, grande o piccolo che sia, possa licenziare per tale motivo solo dopo aver fatto preventivo ricorso agli ammortizzatori di tipo conservativo previsti nella citata proposta di legge della CGIL e dei quali anche i piccoli datori potranno usufruire.
        Il quadro che ne risulta è dunque un quadro in cui problemi che hanno profili di diversità vengono collocati e risolti in modo da sdrammatizzarne la portata. Sul versante dei licenziamenti disciplinari il precetto legislativo ai datori di lavoro è di non licenziare se non vi è una colpa grave e dimostrabile del lavoratore.
        Sul versante dei licenziamenti economico-produttivi, il precetto è di far prima ricorso agli ammortizzatori sociali che l'ordinamento mette a disposizione loro e dei lavoratori; e poi, se ancora esiste l'esubero, è possibile licenziare legittimamente.
        Come si vede alla luce di questa premessa, non esiste alcuna ragione per ritenere che la regola di annullamento dei licenziamenti non sorretti da un giustificato motivo soggettivo o oggettivo debba prevedere zone di esclusione determinate dal livello occupazionale dell'impresa o del luogo di lavoro, ed infatti gli articoli 1 e 2 della presente proposta di legge contengono l'abrogazione dei limiti di tale natura oggi vigenti.
        Restano, invece, limiti di tipo qualitativo riguardanti particolari sottospecie di rapporti di lavoro e cioè il rapporto di lavoro dei dirigenti, dei collaboratori familiari e dei lavoratori ultrasessantacinquenni che hanno maturato il massimo (40 anni) della anzianità pensionistica.
        Fuori di questi casi, come detto, l'annullamento del licenziamento ingiustificato comporta la reviviscenza del rapporto con effetto ex tunc e dunque l'applicazione dell'articolo 18 della legge n. 300 del 1970 (cosiddetto "Statuto dei lavoratori") senza più alcuna distinzione riguardante limiti occupazionali: in tutti i casi il giudice emette la sentenza di reintegra con condanna del datore di lavoro a rifondere le retribuzioni perdute dal giorno del licenziamento, o con la facoltà, prevista allo stesso articolo 18, per il lavoratore di rinunciare alla reintegra a fronte di ulteriori 15 mensilità di retribuzioni.
        E' a questo punto che concretamente si pone il problema dell'effettivo potenziale di tutela e della effettiva capacità dissuasiva di licenziamenti ingiustificati del medesimo articolo 18 nella piccola dimensione produttiva.
        L'esperienza insegna, infatti, che in queste dimensioni produttive è soprattutto importante evitare che si giunga al licenziamento, perché, una volta che la rottura è avvenuta, la ricostituzione del rapporto di lavoro è assai difficile e non soltanto per atteggiamenti di rifiuto del datore di lavoro, ma anche di riluttanza del lavoratore a riprendere l'opera lavorativa in un ambiente in cui è stato trattato ingiustamente e probabilmente lo sarà ancora. Si può dire, in altre parole, che il collaudatissimo e prezioso effetto di deterrenza che l'articolo 18 esplica nelle imprese di maggiori dimensioni rischia di non essere altrettanto efficace in quelle di piccola dimensione.
        Nell'impresa maggiore, la reintegra anche effettiva è assai più frequente di quanto si creda, ma è innegabile che essa diviene più rara man mano che ci si avvicina al limite dei 16 dipendenti.
        Potrebbe così verificarsi che nonostante tutto, e cioè nonostante l'applicazione generalizzata dell'articolo 18, il lavoratore licenziato della piccola impresa finisca in concreto con il perdere il lavoro per il prolungarsi di una snervante situazione di incompatibilità, con riflessi ovviamente anche sulla deterrenza preventiva di tale norma, temibile più in teoria che in pratica per il piccolo datore di lavoro che effettivamente voglia procedere a un licenziamento ingiusto.
        Occorre allora completare il quadro della tutela e integrare il potenziale di deterrenza della normativa, con una ulteriore previsione specificamente dedicata ai lavoratori delle piccole imprese, la quale ha l'ulteriore vantaggio di ovviare alle facili polemiche sulla "indissolubilità del matrimonio", come si dice, tra piccolo imprenditore e lavoratore.
        Si può cominciare con il rammentare in proposito che fa parte della nostra tradizione giuridica che il risarcimento per qualsiasi torto fatto o subìto debba avvenire "in forma specifica", ma che, ove la forma specifica (non per nulla definita "reintegrazione" dall'articolo 2058 del codice civile) appaia troppo difficile o gravosa, possa essere sostituita da un risarcimento per equivalente. Per equivalente, si intende, dell'intero valore del bene della vita perduto a seguito di quel torto.
        E' questo il concetto che gli articolo 6, 7, 8 e 9 della proposta di legge applicano alla problematica di cui prima si diceva, prevedendo (articolo 6) che dopo la sentenza di reintegra, la quale ricostituisce il rapporto, il datore di lavoro che occupa fino a 15 dipendenti possa rivolgersi (sempre che il lavoratore non abbia voluto lui risolvere il rapporto con diritto alle 15 mensilità previste dall'articolo 18), con un suo ricorso, al medesimo giudice che ha emesso la sentenza, chiedendo di sostituire l'ordine di reintegra con un risarcimento per equivalente della perdita del posto di lavoro causata al dipendente.
        Non si tratta di una trasformazione della tutela reale in tutela meramente risarcitoria perché qui il lavoratore è già reintegrato, e la causa di licenziamento termina con il passaggio in giudicato della sentenza, nel momento stesso in cui il datore di lavoro propone questa istanza al giudice.
        Tale istanza, infatti, comporta la rinunzia definitiva del datore di lavoro ad impugnare la sentenza che ha annullato il licenziamento e il lavoratore resterà in forza fino a quando il giudice non determinerà quanto al lavoratore spetti come equivalente del posto di lavoro perduto e la relativa somma sarà stata pagata. Proprio il profilo della quantificazione dell'"equivalente" è forse la novità più importante, quella che dà luogo alla effettiva deterrenza della normativa complessiva e realizza in concreto una tutela dei lavoratori non indiscriminatamente uguale per tutti, ma correlata alla reale condizione di ciascuno e, dunque, tanto più forte quanto più il lavoratore appartiene a una fascia debole del mercato del lavoro. Prevedono, infatti, gli articoli 8 e 9 della proposta di legge, che al termine di un procedimento rapido, ma a contraddittorio pieno, il giudice condanni i datori di lavoro a pagare quell'equivalente utilizzando obbligatoriamente una serie di criteri che quantificano il danno reale della perdita del posto di lavoro: tali criteri attengono pertanto all'età, al sesso, alla qualifica professionale, al livello della scolarità, alle condizioni del mercato del lavoro locale e ad ogni altra circostanza incidente sulla probabilità e sui tempi di reperimento di nuova occupazione (avendo riguardo altresì alle conseguenze sulle condizioni personali e famigliari del lavoratore).
        Altro, come si comprende, è perdere il posto di lavoro per un operaio trentenne specializzato che vive nel nord Italia, altro è per una donna di quarantacinque anni commessa in un esercizio commerciale di una parte depressa dell'Italia meridionale.
        La caratteristica più importante della norma è però che questo danno reale viene liquidato dal giudice con la tecnica di attualizzazione del danno futuro, la stessa che si usa, per intendersi, nella liquidazione dei danni alla persona negli incidenti o negli infortuni. Ciò significa che viene calcolato, su base statistica e probabilistica la proiezione del danno nel futuro; ma poi il danno viene liquidato interamente e subito, senza che possano poi assumere rilievo giuridico eventi successivi i quali, in ipotesi, riducano e eliminino il danno stesso. E', come si comprende, molto vantaggiosa per la vittima e, applicata alla nostra materia, realizza proprio quella deterrenza per la quale, nella piccola impresa, non sarebbe sufficiente il solo l'articolo 18, perché con questa disciplina il datore di lavoro che voglia procedere a un licenziamento azzardato deve tenere ben conto della qualità personale del prestatore di lavoro e cioè della sua debolezza sul mercato. Il rischio, invero, è di dover poi pagare (una volta che abbia perso la causa di licenziamento e voglia comunque liberarsi del prestatore) un risarcimento per equivalente molto alto; ovvero a quel datore converrà, una volta che il lavoratore ha ottenuto la sentenza di reintegra, di reintegrarlo effettivamente, con il che la tutela reale sarà stata davvero realizzata ma proprio in virtù, a ben guardare, di questa ulteriore disposizione.
        La possibilità di sostituire il risarcimento per equivalente al risarcimento in forma specifica o reintegrazione è limitata ai datori di lavoro con meno di 16 dipendenti, proprio perché si è assunto convenzionalmente, ma ormai storicamente, che sia questo l'ambito occupazionale entro il quale diventa rilevante il pericolo di intollerabilità della convivenza.
        Proprio per questo, però, occorre che quell'ambito non venga surrettiziamente dilatato come oggi spessissimo accade, perché non tutti coloro che effettivamente prestano lavoro vengono computati ai fini dei 15 dipendenti. Non vengono computati i collaboratori coordinati e continuativi, gli apprendisti, i lavoratori a termine con contratto breve, eccetera, e per tale motivo l'articolo 7 della proposta di legge li computa invece tutti, ricostituendo così il cosiddetto "organico oggettivo".
        Per altro verso è frequentissimo che, al fine di evasione del limite dei 15 dipendenti, vengono costituite più imprese con distinta personalità giuridica, ma che in realtà costituiscono tra di loro un gruppo che supera di gran lunga quel limite. Allo scopo, l'articolo 7 prevede che debbano computarsi tutti gli occupati nelle imprese controllanti e controllate o soggette ad una unica direzione.
        Vi è infine un doppio temperamento alla regola del risarcimento per equivalente attualizzato per il danno futuro, nel senso che il minimo del risarcimento non può essere inferiore alle 15 mensilità, mentre viene posto un tetto di 24 mensilità quando l'impresa abbia realizzato nell'esercizio annuo precedente un fatturato non superiore a 350.000 euro.




Frontespizio Testo articoli