XIV LEGISLATURA

PROGETTO DI LEGGE - N. 2881




        Onorevoli Colleghi! - Malgrado le dure lezioni della storia, l'umanità è sempre ricattata dalla minaccia della violenza nelle relazioni internazionali e la dignità dell'essere umano viene sempre più spesso negata nelle situazioni di conflitto interno o internazionale che, con la fine della guerra fredda, lungi dall'essere risolte tendono, invece, ad aggravarsi e a divenire endemiche, in una situazione in cui la condizione di guerra viene addirittura teorizzata come infinita.
        Il diritto internazionale conosce la categoria dei delicta iuris gentium, cioè di quei delitti che, poiché colpiscono valori considerati essenziali nell'ordinamento internazionale, sono considerati come un attentato all'umanità in quanto tale ed i loro autori come hostes umani generis.
        Di qui la necessità di assicurare la loro punizione in ogni circostanza, facendo emergere le responsabilità individuali, anche in deroga ad un principio tradizionale del diritto internazionale che assicura l'immunità degli atti commessi dagli individui-organi di Stati.
        Fu il Tribunale di Norimberga a statuire che: "gli individui hanno degli obblighi internazionali che trascendono l'obbligazione di obbedienza imposta da ogni singolo Stato".
        I princìpi di diritto internazionale riconosciuti dallo Statuto e dalla sentenza del Tribunale di Norimberga hanno identificato tre categorie di crimini di diritto internazionale:

            a) crimini contro la pace;

            b) crimini di guerra;

            c) crimini contro l'umanità.

        I princìpi dello Statuto e della sentenza del Tribunale di Norimberga, essendo stati oggetto di ricognizione in numerosi trattati ed in altri atti di rilievo internazionale, fra i quali la risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, adottata all'unanimità l'11 dicembre 1946, com'è noto, sono divenuti princìpi di diritto internazionale generale e, come tali, sono stati recepiti dall'ordinamento giuridico italiano, attraverso quel canale di collegamento fra ordinamento interno ed ordinamento internazionale costituito dalla norma di cui all'articolo 10, primo comma, della Costituzione.
        Tali princìpi, introducendo la nozione di crimine internazionale, definivano in modo eccessivamente generico i contenuti di tali crimini, precisando i contorni della responsabilità internazionale ed i limiti delle tradizionali immunità degli atti degli organi dei singoli Stati.
        Una volta affermata la nozione di crimine internazionale è sorta l'esigenza di assicurare la repressione universale di tali crimini.
        Il problema si pose immediatamente in ordine alla repressione del più grave dei crimini internazionali: il genocidio.
        La Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 260 del 9 dicembre 1948, non riuscì ad affermare il principio dell'obbligo della repressione universale.
        Essa, infatti, pose l'obbligo di punire l'individuo colpevole non già a carico di tutti gli Stati contraenti bensì soltanto a carico dello Stato di cui l'individuo fosse organo o dello Stato del locus commissi delicti, autorizzando, pertanto, lo Stato danneggiato dall'attività illecita di un organo straniero sul suo territorio a compiere un'attività (di punizione degli individui-organi colpevoli) in danno dello Stato straniero altrimenti vietata. Come unica alternativa a questo sistema binario di punibilità la Convenzione prevedeva la possibilità di deferire i responsabili ad una Corte penale internazionale per la istituzione della quale, com'è noto, è stato necessario attendere oltre cinquant'anni.
        Un importante passo avanti, sia nella definizione della nozione di crimine internazionale, sia nella ricerca di un efficace sistema di punibilità, fu effettuato dalla Conferenza di codificazione del diritto bellico, che sfociò nella redazione delle IV Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949.
        Tali Convenzioni, attraverso una stessa norma, ricorrente in tutte e quattro (articolo 49 della I, articolo 50 della II, articolo 129 della III, articolo 146 della IV) affermarono in maniera nettissima il principio della giurisdizione universale, attribuendo ad ogni Stato firmatario il potere-dovere di procedere alla repressione di ogni fatto che costituisse grave violazione delle medesime, ovunque fosse stato commesso e chiunque ne fosse stato l'autore.
        In mancanza di un Tribunale penale internazionale e dell'effettiva possibilità dell'ordinamento internazionale di assicurare la coercizione penale dei crimini internazionali, si optò per un sistema che faceva passare la realizzabilità della coercizione attraverso la normativa penale interna dei singoli Stati.
        In pratica al singolo Stato fu delegato il compito di tutelare un bene, di cui è titolare l'intera comunità internazionale, sulla base delle prescrizioni contenute nelle norme internazionali alle quali dovevano conformarsi le norme del diritto penale interno.
        Passando all'esame della norma comune, due sono i punti essenziali, articolati nel primo e secondo comma del citato articolo 49 della I Convenzione, che recitano testualmente: "Le Alte parti contraenti si impegnano a prendere ogni misura legislativa necessaria per stabilire sanzioni penali adeguate da applicarsi alle persone che abbiano commesso o dato ordine di commettere una delle gravi infrazioni alla presente Convenzione precisate nell'articolo seguente.
        Ogni Parte contraente avrà l'obbligo di ricercare le persone imputate di aver commesso o dato l'ordine di commettere una di dette infrazioni gravi e dovrà, qualunque sia la loro nazionalità, deferirle ai propri tribunali. Essa potrà pure, se preferisce e secondo le norme previste dalla propria legislazione, consegnarle per essere giudicate, ad un'altra Parte contraente interessata al procedimento, purché della Parte contraente possa far valere contro dette persone prove sufficienti".
        Il primo comma introduce il principio della punibilità universale, che non soggiace a limite alcuno, poiché tutti gli Stati hanno l'obbligo di operare per rendere concretamente punibili i crimini di guerra all'interno dei rispettivi ordinamenti nazionali. Il secondo comma rende ancora più stringente tale obbligo prevedendo che ogni Parte contraente abbia l'obbligo di ricercare le persone imputate e di deferirle ai propri tribunali, ovvero di estradarle verso altri Stati che hanno interesse a giudicarle (aut iudicare aut dedere).
        Le IV Convenzioni di Ginevra hanno impiantato, pertanto, un sistema ambizioso di punibilità universale assoluta, che non presenta smagliature di sorta, limitazioni di competenza, ostacoli procedurali od altro.
        La severità di questo sistema traeva origine dal riconoscimento della gravità di questi crimini, effettuato dalla comunità internazionale in un'epoca storica in cui era particolarmente sentita l'emozione suscitata dalla notte di orrore della II guerra mondiale.
        Una volta creato questo canale di collegamento fra l'esigenza di tutela dei beni fondamentali della comunità internazionale e gli strumenti di coercizione del diritto penale interno, spettava ad ogni singolo Stato rendere tale canale concretamente percorribile, adottando le misure legislative necessarie ed opportune per rendere effettiva la perseguibilità nell'ordinamento interno di quei fatti che l'ordinamento internazionale aveva enucleato come crimini di guerra.
        Orbene non v'è dubbio che il legislatore italiano sia rimasto inadempiente rispetto all'obbligo posto dalle IV Convenzioni di Ginevra di prendere le misure legislative necessarie per rendere operante la punibilità universale dei fatti qualificabili come gravi violazioni delle Convenzioni medesime, sebbene le Convenzioni siano state rese esecutive nell'ordinamento interno con la legge 27 ottobre 1951, n. 1739.
        Tale inadempimento è stato reso ancora più grave dall'adesione dell'Italia al I e II Protocollo del 1977 che hanno riconfermato e completato le IV Convenzioni di Ginevra del 1949. L'Italia ha reso esecutivi nell'ordinamento interno tali Protocolli con la legge 11 dicembre 1985, n. 762, senza adottare nessun'altra misura legislativa per darvi attuazione.
        Nel frattempo, dopo una lunghissima gestazione, è venuto finalmente alla luce il progetto di un Tribunale penale internazionale.
        La Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite svoltasi a Roma ha adottato il 17 luglio 1998 lo Statuto della Corte penale internazionale, istituzione che è entrata effettivamente in vigore il 1^ luglio 2002.
        Lo Statuto della Corte penale internazionale ha emanato un codice dei crimini di diritto internazionale, facendo propria e sviluppando la trilogia dello Statuto di Norimberga ed allargandola al genocidio.
        Dal momento che il sistema della Corte penale internazionale è sussidiario rispetto all'obbligo di repressione gravante sulle giurisdizioni nazionali, la completa attuazione degli obblighi nascenti dal Trattato di Roma comporta non soltanto l'obbligo di prevedere nuove forme di reato (in particolare la categoria dei crimini contro l'umanità, quasi completamente sconosciuta al nostro ordinamento), ma di prevederne anche la repressione, se extraterritoriali, con i temperamenti del caso.
        L'Italia ha reso esecutivo lo Statuto della Corte penale internazionale con la legge 12 luglio 1999 n. 232, senza intervenire in alcun modo sulla legislazione nazionale.
        In verità il disegno di legge (atto Senato n. 3594, XIII legislatura), di esecuzione e ratifica dello Statuto, comunicato alla Presidenza del Senato della Repubblica il 23 ottobre 1998, prevedeva la delega al Governo per l'emanazione di uno o più decreti legislativi per dare attuazione allo Statuto. Nel corso del procedimento parlamentare tale previsione è stata stralciata ed è stata trasferita in un altro disegno di legge che nella passata legislatura non è mai stato trasformato in legge (atto Senato n. 3594-bis, XIII legislatura).
        Resta così assodato che l'Italia è rimasta inadempiente rispetto agli obblighi di dare piena attuazione nel nostro ordinamento alle disposizioni delle IV Convenzioni di Ginevra del 1949, dei due Protocolli del 1977 e dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale.
        Il prolungarsi di questa inadempienza non può essere tollerato più a lungo. Il nostro Paese, in conformità con le sue tradizioni costituzionali, deve cooperare alla costruzione di un ordine internazionale più giusto e più pacifico. Uno dei capitoli di questa cooperazione è quello di garantire la repressione universale dei crimini internazionali, in conformità con gli obblighi nascenti dagli strumenti internazionali di cui si è detto.
        L'attuazione di tale principio nel nostro ordinamento si presta a procedure ed opzioni differenti. La normativa proposta mira ad utilizzare al massimo le norme e gli istituti già esistenti nel nostro sistema penale e processuale, attraverso un intervento minimo.
        La scelta di fondo operata con la presente proposta di legge è quella di utilizzare il canale di cui all'articolo 7 del codice penale, rendendo - in via generale - punibili in Italia i fatti che possono rientrare nelle tre categorie di crimini internazionali poste dallo Statuto della Corte penale internazionale (articoli 6, 7 e 8) vale a dire il genocidio, i crimini contro l'umanità ed i crimini di guerra.
        Per rendere il sistema concretamente gestibile occorreva trovare dei filtri e stabilire un criterio di collegamento fra l'ordinamento italiano ed il fatto commesso all'estero, anche in considerazione del fatto che nel nostro ordinamento, fondato sull'obbligatorietà dell'azione penale, non sono presenti i limiti all'esercizio della giurisdizione presenti in altri ordinamenti, come l'impossibilità di procedere in contumacia. La scelta effettuata è stata quella di introdurre delle condizioni obiettive di punibilità. Sono stati individuati tre criteri: presenza del reo sul territorio dello Stato (criterio tradizionale), cittadinanza italiana dell'autore o del soggetto passivo del reato, richiesta da parte di un procuratore speciale delle vittime residente in Italia.
        E' stata esclusa l'ipotesi della richiesta del Ministro della giustizia perché politicizzerebbe troppo la procedura, mentre si è ritenuto di introdurre un criterio nuovo (la richiesta delle vittime tramite un procuratore speciale residente in Italia) che collega l'intervento della giurisdizione ad un legame di cooperazione e di tutela stabilito da soggetti residenti in Italia. In pratica, valorizza l'intervento delle associazioni italiane che si battono per la protezione universale dei diritti umani.
        Con riferimento al problema spinoso della processabilità di Capi di Stato o di Governo esteri, la scelta è stata quella di mantenere in vigore il principio della non immunità riaffermato dal Trattato di Roma, ma di sottoporlo ad un elemento di self restraint e di temperamento politico, prevedendo che per i Capi di Stato o di Governo in carica sia necessario il filtro della richiesta del Ministro della giustizia. Ciò anche alla luce dei princìpi affermati nella sentenza della Corte internazionale di giustizia del 14 febbraio 2002 nella controversia promossa dal Congo contro il Belgio che, sebbene criticabile sotto il profilo dottrinario, costituisce tuttavia diritto (internazionale) vigente.
        Nell'articolo 4 della proposta di legge sulle immunità è stata inserita una norma sulla responsabilità civile degli Stati che può avere una grande rilevanza concreta, consentendo il ricorso proficuo all'azione civile contro gli Stati i cui individui-organi abbiano commesso le violazioni.
        La competenza a conoscere di tali reati è stata attribuita alla corte d'assise, con esclusione dei reati militari commessi dal personale che partecipa a corpi di spedizione italiani all'estero, per il quale si è ritenuto opportuno di conservare le disposizioni processuali di cui all'articolo 9 del decreto-legge 1^ dicembre 2001, n. 421 convertito, con modificazioni, dalla legge 31 gennaio 2002, n. 6, che prevedono la competenza del tribunale militare ordinario, al fine di garantire l'unicità del sindacato giurisdizionale.
        Tutti i reati in parola sono imprescrittibili. La procedibilità è sempre d'ufficio.
        Il problema pratico più difficile da risolvere è stato quello della tipizzazione delle fattispecie punibili, vale a dire della definizione degli specifici reati perseguibili.
        A questo proposito la scelta è stata quella di applicare al massimo la normativa vigente. Così per i crimini di genocidio si è fatto riferimento alle ipotesi di reato previste dalla legge sul genocidio. Per i crimini di guerra si è fatto riferimento ad un elenco dei reati estratti da un apposito capo del codice penale militare di guerra. E' vero che in tale capo non sono previste tutte le ipotesi di gravi infrazioni indicate dalle IV Convenzioni di Ginevra e dai due Protocolli aggiuntivi e spesso le pene sono inadeguate, tuttavia la questione potrà essere riaffrontata in modo organico quando si metterà mano alla riforma del codice penale militare di guerra.
        Più complicato da risolvere è stato il problema della tipizzazione dei crimini contro l'umanità, così come sommariamente indicati dal Trattato di Roma.
        A questo riguardo è stato necessario recuperare alcune fattispecie penali comuni e formulare alcune fattispecie di reato, fra le quali spicca il reato di tortura, che si è ritenuto di introdurre nella sezione I del capo III del titolo XII del libro II del codice penale, dove sono concentrate altre ipotesi di reato (riduzione in schiavitù, eccetera) che rientrano nella latitudine dei fatti individuati come crimini contro l'umanità.




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