XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 1884
Onorevoli Colleghi! - Uno dei fenomeni più
significativi che coinvolgerà l'Italia, l'Europa e tutte le
parti del mondo tecnologicamente più avanzate sarà quello
legato ai profondi e rapidi mutamenti demografici dovuti
all'inesorabile invecchiamento della popolazione.
Un così elevato tasso di invecchiamento è la risultante
dell'effetto combinato della diminuzione della natalità, della
fertilità e della mortalità.
Questa situazione demografica è il risultato indiscutibile
di diversi fattori positivi quali l'aumentato benessere
individuale e collettivo dovuto al miglioramento delle
condizioni sociali, al progresso medico-scientifico,
all'elevazione delle condizioni economiche della popolazione,
nonché ad un diverso atteggiamento culturale rispetto alla
concezione della vita e ad altre importanti questioni che
stanno caratterizzando la vita del nostro tempo. Molti
studiosi hanno evidenziato come, per la prima volta nella
storia dell'umanità, ben quattro generazioni si trovano ad
essere contemporaneamente in vita.
Ciononostante pur nell'incertezza delle previsioni a
medio-lungo termine, i 15 Paesi membri dell'Unione europea nei
primi cinquantanni del 2000 vedranno ridursi la popolazione di
10 milioni di persone e, in maniera corrispondente, si
assisterà ad un aumento della popolazione con più di
sessantacinque anni di età, che passerebbe dagli attuali 16
milioni a ben 27 milioni e mezzo. In Italia, la popolazione
con più di sessanta anni nel 1950 era di 5,8 milioni, nel 1995
è passata a 12,5 milioni e si prevede che nel 2040 raggiungerà
i 19,5 milioni. La popolazione con più di sessantacinque anni
passerà nel 2050 dall'attuale 17,8 per cento su 57,5 milioni
di abitanti, al 31,3 per cento su 49,3 milioni di abitanti.
Nei grandi agglomerati urbani del nord del Paese il fenomeno
dell'invecchiamento ha raggiunto ormai livelli di guardia: a
Milano un quarto della popolazione ha già oggi più di
sessantacinque anni di età.
Per meglio evidenziare gli effetti del processo di
invecchiamento sulla struttura della popolazione gli istituti
di statistica hanno elaborato il cosiddetto "tasso di
dipendenza economico effettivo" che evidenzia la quantità
della popolazione in età non lavorativa (inferiore ai
quattordici anni e superiore ai sessantacinque anni) in
rapporto alla popolazione effettivamente inserita nel sistema
produttivo. Tale indice in Italia attualmente è pari allo 0,91
e si prevede che nel 2025 possa passare all'1,1 e all'1,47 nel
2050. Se si tiene poi conto che il limite dei quattordici anni
di età è destinato a salire a diciotto anni per l'estensione
dell'obbligo scolastico, il tasso di dipendenza ipotizzato è
calcolato per difetto. Uno studio dell'Unione europea,
commentato da Luigi Frey sul periodico del CERES, stima che
l'invecchiamento della popolazione potrà influire sul ritmo di
crescita attraverso una minore disponibilità di lavoro, di
capitale e di qualità dei fattori produttivi.
In particolare in Italia si stima che il tasso di
attività, cioè il rapporto fra forza lavoro e popolazione,
passerà dallo 0,40 del 2000 allo 0,38 nel 2025 allo 0,34 nel
2050.
Si prevede inoltre che la spesa pubblica subirà una
variazione percentuale rispetto al 1995 pari ad una riduzione
dello - 0,48 nel 2000, un incremento del + 5,94 nel 2025 e del
+8,70 nel 2050, e che una crescente dipendenza economica si
rifletterebbe in una minore disponibilità di risparmio
complessivo da destinare alla formazione di capitale. A
seguito di queste previsioni la Commissione delle Comunità
europee ha sollecitato gli Stati membri ad adottare politiche
idonee a contrastare gli effetti del progressivo
invecchiamento della popolazione sull'economia. Sono state
effettuate simulazioni in proposito, dalle quali risulterebbe
che, mentre gli interventi fiscali orientati a rallentare la
crescita dei trasferimenti sociali alle famiglie, dettati dal
progressivo invecchiamento, avrebbero effetti poco
significativi sulla variazione del prodotto interno lordo, le
riforme delle politiche del lavoro e dell'occupazione
avrebbero invece effetti compensativi di gran lunga più
rilevanti.
In particolare vengono suggerite politiche volte
all'estensione della durata della vita lavorativa, sotto varie
forme e politiche salariali che migliorino le prospettive di
reddito da lavoro. In questo contesto appaiono rilevanti i
problemi legati alla esclusione sociale delle persone più
avanti nell'età ed alla conseguente ricaduta sulla loro
salute. A questi problemi possono essere offerte soluzioni per
mezzo di politiche volte a garantire a tutti la disponibilità
di beni e di servizi essenziali, in particolare quelli
riguardanti la tutela della salute.
Agli straordinari cambiamenti demografici si accompagna
una "parallela transizione epidemiologica" (come la definisce
il CENSIS) che, da un lato, vede una fortissima riduzione
delle malattie infettive e parassitarie mentre, dall'altro,
constata un forte incremento delle malattie
cronico-degenerative.
Lo studio citato, inoltre, evidenzia che con l'avanzare
dell'età aumentano sia la prevalenza che l'incidenza delle
patologie croniche, e che queste malattie sono spesso
associate fra loro, soprattutto fra gli
ultrasettantacinquenni. Quando si verificano queste
circostanze, si ripercuotono sui nuclei familiari immediate
conseguenze che incidono pesantemente sulle condizioni
economiche e di vita di tutti i componenti. La vita delle
famiglie cambia completamente a causa dell'impegno richiesto
ai parenti più stretti, volto a garantire una adeguata
assistenza al componente della famiglia non più
autosufficiente.
Il cambiamento dello stile di vita delle famiglie è
significativo anche a causa degli accresciuti oneri economici
che ne conseguono, dovuti da un lato al possibile mancato
guadagno del parente che si occupa dell'assistenza (si tratta
quasi sempre di una donna) e, dall'altro e non sempre in
alternativa, dovuti al compenso delle collaborazioni familiari
o alle rette delle case di riposo. Si tratta di oneri
difficilmente sopportabili da degenti beneficiari di pensioni
medio basse. Di fronte a questi nuovi problemi a cui siamo
chiamati a rispondere risultano meno efficaci le tradizionali
forme di solidarietà e di protezione sociale.
Si accentua così la percezione di una inadeguatezza e di
una insostenibilità dei costi del sistema di welfare.
Diventa quindi indispensabile ridisegnare il sistema di
protezione sociale, definendo nuovamente lo spettro dei
soggetti beneficiari e costruendo un sistema che utilizzi
nuove modalità di finanziamento e nuove forme di
solidarietà.
A questa rinnovata esigenza di solidarietà possono essere
chiamati a contribuire i pensionati e gli anziani
autosufficienti, creando le condizioni normative perché essi
possano recuperare la loro vitalità e un ruolo adeguato nella
società, permettendo loro di mettere a frutto capacità e
competenze in forme nuove e, nel contempo, di sentirsi
compartecipi del sistema di protezione sociale e, in seguito,
possibili beneficiari.
La sfera politica è tradizionalmente portata ad affrontare
i problemi attraverso un approccio specialistico,
monotematico. Il problema del lavoro è vissuto come un
problema a se stante e lo stesso discorso vale per la
questione previdenziale e per quella assistenziale. Le
relazioni che esistono fra i vari problemi sono spesso
ignorate, diventa oggi indispensabile un approccio complessivo
dotato di una maggiore razionalità, senza illudersi che sarà
possibile fare quadrare il cerchio senza difficoltà.
Il problema dell'occupazione è indiscutibilmente legato
alle regole contenute nel sistema previdenziale, in
particolare a quelle relative al tempo di permanenza
nell'attività lavorativa. Pur tuttavia se una più lunga
permanenza in attività dei lavoratori anziani potrebbe
teoricamente far pensare ad una sottrazione di occasioni di
lavoro per i più giovani, in pratica così finora non è stato.
Le uscite dall'attività lavorativa, non solo quelle
anticipate, ma anche quelle avvenute alla scadenza naturale,
sono state sostituite da altri lavoratori in misura
assolutamente irrilevante, e non è stato certo il divieto di
cumulo fra pensione e reddito da lavoro ad ostacolare il
reimpiego di molti lavoratori pensionati, tanto è vero che in
quelle realtà ove le occasioni di lavoro non mancano, essi
sono rifluiti nell'attività sommersa o nel parasubordinato.
Non è un caso che l'età media dei lavoratori parasubordinati è
in forte aumento; infatti è passata da trentotto anni nel 1997
a quarantaquattro anni nel 1999 ed è significativo il dato
secondo il quale il 22 per cento dei lavoratori
parasubordinati uomini ha più di cinquantasei anni. Come è
noto, il divieto di cumulo era stato reintrodotto, in
coincidenza con la riforma della previdenza nel 1995, con
l'intento di arginare l'esodo verso la pensione, al fine di
ridurre il sovraccarico di oneri del sistema previdenziale,
non già come strumento a favore dello sviluppo
dell'occupazione giovanile. Ma il timore di una radicale
modifica delle regole previdenziali, che è tuttora molto
diffuso tra i lavoratori, è la molla principale che spinge i
lavoratori verso la quiescenza, non appena vengono raggiunti i
requisiti previdenziali. L'intento manifesto è quello di
acquisire il diritto alla rendita previdenziale, unico dato di
certezza in una condizione di crescente precarietà
occupazionale, e poi, finché sarà possibile, integrarla con le
entrate derivanti da altre attività.
Vi sono poi le forme di incentivazione all'esodo, messe in
campo dalle imprese per favorire i processi di
ristrutturazione che, sommate alle già ricordate condizioni di
precarietà occupazionale, sono efficaci più di qualsiasi
deterrente legislativo.
Il fenomeno descritto è ovviamente più riconoscibile nelle
regioni del centro-nord, economicamente più sviluppate e di
più antica industrializzazione, ove i requisiti previdenziali
sono raggiunti in età meno avanzata e le ulteriori occasioni
di lavoro non mancano.
Con le attuali regole previdenziali registriamo una
propensione alla prosecuzione dell'attività lavorativa in
forme più libere mentre contemporaneamente si pone l'esigenza
di una maggiore attenzione all'equilibrio del sistema
previdenziale; è necessario, quindi, trovare una composizione
di queste due esigenze non in contrasto fra loro, evitando di
vincolare eccessivamente i comportamenti con norme coercitive.
Solo così sarà possibile tentare di rispondere alla ormai
ineludibile necessità di una maggiore tutela assistenziale nei
confronti degli anziani non autosufficienti. A nostro parere è
possibile cercare di operare una sintesi e trovare un punto di
equilibrio, purché si abbia il coraggio di andare oltre le
logiche che informano l'attuale struttura normativa.
L'esigenza di ridisegnare un più adeguato sistema di
protezione sociale che sia rivolto in modo particolare agli
anziani non autosufficienti difficilmente può trovare
soluzione lasciando inalterate le attuali modalità di
finanziamento e le attuali forme di erogazione dei servizi di
assistenza.
Oggi una degenza in un istituto per anziani non
autosufficienti ha un costo giornaliero che si aggira attorno
ai 10 euro, mentre una persona che assiste un anziano, in
regola con i contributi, costa circa 1.800 euro al mese più
vitto e alloggio; se si tiene conto che la media delle
pensioni erogate dall'Istituto nazionale della previdenza
sociale è di 930 euro al mese ci si rende conto della
oggettiva impraticabilità, per la stragrande maggioranza dei
cittadini, di forme dignitose di assistenza a totale loro
carico.
La superficialità di talune posizioni politiche, espresse
anche dagli enti locali sui quali in definitiva grava il
problema, vorrebbe vedere contemporaneamente una riduzione
delle pensioni, una riduzione della pressione fiscale, una
riduzione degli oneri contributivi ed un innalzamento della
protezione sociale, richiedendo l'intervento finanziario dello
Stato.
L'intervento pubblico di sostegno risulta essere sempre
più oneroso e, se posto a carico della fiscalità generale, è
oggettivamente in contrasto con le sempre più frequenti
sollecitazioni alla riduzione della pressione fiscale. Diventa
quindi indispensabile ricercare un nuovo punto di equilibrio e
rielaborare una forma solidaristica di finanziamento
dell'assistenza agli anziani più diretta e partecipata. La
questione previdenziale, in presenza dell'evoluzione
demografica sopra descritta, non ha ancora trovato un punto di
equilibrio stabile nel tempo. Le modifiche apportate
nell'ultimo decennio, se hanno inciso nel settore del lavoro
pubblico sul prolungamento della permanenza nell'attività
lavorativa, rimuovendo una situazione abnorme di
sperequazione, non hanno però fatto lo stesso nel settore del
lavoro privato e del lavoro autonomo, dove gli interventi più
significativi sono stati apportati nella direzione della
riduzione dell'entità delle prestazioni. Anche il
preannunciato intervento, volto ad accelerare l'introduzione
del metodo di calcolo contributivo, pur affermando un
principio di maggior equità, interviene però sostanzialmente
nella direzione della riduzione dell'entità delle
prestazioni.
La risposta più coerente sul versante previdenziale alle
tendenze demografiche in atto e alle conseguenze sul sistema
di welfare, non può che essere ricercata nella direzione
volta ad allungare la vita lavorativa e prolungare nel tempo
forme di contribuzione previdenziale. Questa strada può
risultare tanto più agevole ed efficace quanto più viene
vissuta come una libera scelta del lavoratore. Paradossalmente
le norme in vigore e i comportamenti delle imprese, dettati
più dall'esigenza di far quadrare i conti, vanno nella
direzione esattamente opposta. Il problema non è solo di
carattere finanziario, è anche di ordine psicologico. Se si
tiene conto che la precoce e improvvisa cessazione
dell'attività lavorativa facilita l'affermarsi di forme di
isolamento e di emarginazione dalla vita attiva e che queste,
a loro volta, portano a forme precoci di dipendenza, ci si
rende conto della irrazionalità di questo approccio al
problema.
Il sistema di divieti costruito in questi anni
relativamente al cumulo fra pensione e reddito da lavoro si è
mostrato inefficace ed inattuabile.
L'approccio poco convincente su questo tema utilizzato
dalla legislazione passata e presente, con norme e contenuti
diversi a seconda che si sia in presenza di lavoratori
autonomi, lavoratori dipendenti privati e lavoratori
dipendenti pubblici, non ha oggi alcun fondamento ed
indebolisce le finalità sociali per cui è stato concepito.
La flessibilizzazione dei rapporti di lavoro e la mobilità
professionale pongono nuovi problemi di comunicabilità tra i
vari fondi dentro il sistema previdenziale e fra previdenza e
attività lavorativa.
Il divieto di cumulo sembra più ispirato ad una obsoleta
visione dirigistica della società che orientato a favorire dei
comportamenti virtuosi. Si è trasformato nel tempo, seppure
inconsapevolmente, in un incentivo all'attività sommersa,
rafforzato da una normativa stratificata, contorta, incoerente
ed incomprensibile la cui applicazione risulta incontrollabile
e la conseguente efficacia assolutamente indeterminata.
Una visione più matura della società dovrebbe portare alla
costruzione di norme che vedono una maggiore
responsabilizzazione dei cittadini. Lo Stato dovrebbe, da un
lato, rispettare le libere scelte di ciascuno, e dall'altro,
esigere il rigoroso rispetto dei doveri fondamentali,
conseguenti alla propria condizione, attraverso regole
semplici, condivise, le cui finalità sono facilmente
riconoscibili. Una prima conclusione ci porta a considerare
che:
1) il progressivo invecchiamento della popolazione ha
delle conseguenze dirette sull'entità degli oneri
previdenziali e assistenziali;
2) la prosecuzione dell'attività lavorativa degli
anziani, in forme flessibili, non necessariamente sottrae
lavoro ai giovani;
3) i divieti contenuti nelle leggi sono inefficaci
rispetto all'obiettivo di arginare l'esodo verso la
pensione;
4) recuperare vitalità, capacità e competenze
dell'anziano è una ricchezza per la società ed un modo per
rallentare lo scivolamento verso la non autosufficienza;
5) si pone il problema di ricostruire, attraverso forme
nuove di solidarietà, il sistema di protezione sociale rivolto
alla condizione degli anziani e all'equilibrio del sistema
previdenziale.
La normativa esistente.
La questione dei limiti al concorso della retribuzione con
il trattamento pensionistico, chiamata più comunemente
"cumulo", rappresenta uno dei temi di più vivace dibattito
nell'ambito della materia previdenziale. Le norme che si sono
succedute nel tempo si sono sempre ispirate a finalità di
giustizia retributiva piuttosto che di giustizia distributiva.
Le prime disposizioni anticumulo sono state introdotte nel
nostro ordinamento già nel 1952, successivamente annullate nel
1965, ripristinate nel 1968, per essere poi dichiarate
illegittime dalla Corte costituzionale che, nel 1969,
disponeva l'intangibilità della pensione liquidata sulla base
del sistema contributivo di calcolo. Divenuto poi operativo il
sistema di calcolo retributivo veniva ripristinata una
disciplina anticumulo parziale. La norma veniva ulteriormente
precisata nel 1991 e successivamente quasi ogni anno le leggi
finanziarie sono intervenute con modifiche più o meno ampie
sul regime del cumulo della pensione con i redditi da
lavoro.
Il contenuto della proposta di legge.
Al fine di rispondere alle esigenze evidenziate nella
presente relazione, è stata redatta la presente proposta di
legge, della quale si illustra sinteticamente l'articolato.
L'articolo 1 abolisce qualsiasi divieto di cumulo fra
redditi derivanti da pensione e redditi derivanti da lavoro
autonomo, parasubordinato o dipendente.
L'unico vincolo che viene introdotto riguarda la
risoluzione del rapporto di lavoro dipendente al momento della
messa in quiescenza e conseguentemente il divieto
all'instaurarsi di un nuovo rapporto di lavoro dipendente a
tempo indeterminato.
L'articolo 2, in modo volutamente pleonastico, afferma che
il reddito da lavoro che si aggiunge alla rendita
previdenziale è sottoposto al regime fiscale ordinario.
L'articolo 3 disciplina il versamento dei contributi
sociali i quali saranno calcolati sul reddito da lavoro
secondo le modalità vigenti. Se il pensionato-lavoratore ha
un'età inferiore a sessanta anni, la contribuzione è destinata
per una quota pari al 50 per cento al sostegno solidale nei
confronti del sistema previdenziale ed il rimanente 50 per
cento contribuisce all'aumento della rendita previdenziale
prevista dalle norme vigenti, secondo modalità di calcolo
ispirate al criterio del metodo contributivo pro-rata
liquidabile una sola volta. Nel caso in cui il
pensionato-lavoratore abbia raggiunto un'età superiore ai
sessanta anni, una quota del versamento contributivo pari al
50 per cento è destinata ad incrementare la rendita
previdenziale del lavoratore sempre secondo modalità di
calcolo ispirate al metodo contributivo pro-rata
liquidabile una sola volta, mentre il rimanente 50 per cento è
destinato a finanziare forme di assistenza a sostegno degli
anziani non autosufficienti attraverso l'istituzione di
appositi fondi regionali, la cui gestione verrà concertata fra
i livelli istituzionali competenti e le organizzazioni
rappresentative dei pensionati.
L'articolo 4 prevede un decreto del Ministro del lavoro e
delle politiche sociali, da emanare entro sei mesi dalla data
di entrata in vigore della legge, recante disposizioni sulla
periodicità e sulla modalità di riscossione dei contributi di
solidarietà. Essi dovranno essere versati attraverso forme da
individuare, molto snelle, come, ad esempio, carte di credito
o appositi ticket da acquistare presso rivendite
autorizzate.
L'articolo 5 prevede sanzioni significative, compresa la
sospensione temporanea del diritto alla riscossione della
pensione, per il periodo di un anno, oltre al pagamento dei
contributi evasi.