XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 1483
Onorevoli Colleghi! - La tortura è ancora largamente
praticata in molte parti del mondo per estorcere confessioni,
per umiliare, per terrorizzare, per manifestare un segno di
potenza. Sulle donne è usata anche per umiliare sessualmente.
Il torturato diventa una cosa, i suoi organi diventano il
tramite del dolore proprio e della potenza distruttiva
dell'altro. Il corpo diventa nemico.
Non sono mancati casi di tortura applicata al corpo di un
parente, quali la moglie, il marito, il figlio o la figlia, al
fine di far scattare nel soggetto un senso di colpa che induca
a rispondere alle domande.
Molti torturati che sopravvivono non riescono più a
superare il trauma per tutta la vita.
Si può torturare anche attraverso il terrore, come quando
si simula la fucilazione o si compiono i preparativi per
l'inflizione di un dolore, ad esempio la preparazione di
elettrodi.
I torturatori si giustificano in vari modi: è necessario
acquisire notizie che potrebbero salvare vite umane, sventare
attentati, bloccare un'organizzazione criminale; ovvero
adducendo quale motivo la particolare efferatezza di crimini
commessi dal prigioniero e la conseguente "moralità di una
punizione". Si leggono queste "pseudoragioni" nelle
interviste, ad esempio, dei generali francesi che comandarono
le truppe di occupazione durante la campagna d'Algeria.
Nell'esperienza prevalente la tortura è usata da un potere
ufficiale ed è frutto di un abuso di potere su un prigioniero
o su un detenuto. E' significativo che il diritto a non subire
tortura fa parte, negli accordi internazionali, di un gruppo
ristretto di diritti che non possono essere soggetti a
limitazioni. Ma proprio la presenza del divieto di tortura in
tante convenzioni internazionali è il segno che essa continua
ad essere praticata. I rapporti delle Nazioni Unite ci dicono
che nella maggior parte dei casi i diritti umani sono
conculcati proprio dagli Stati cui appartengono le vittime.
Anche per questo in un'apposita conferenza delle Nazioni Unite
conclusasi a Roma il 17 luglio 1988 si è approvata
l'istituzione della Corte penale internazionale competente a
giudicare gravi reati quando questi non siano perseguiti nei
Paesi ove sono stati commessi. La Corte rappresenta di per sé
un traguardo di civiltà giuridica anche se le ratifiche
necessarie per la sua entrata in vigore sono ancora
insufficienti.
L'Italia non prevede uno specifico delitto di tortura e i
fatti che la integrano possono essere puniti solo se generano
lesioni; inoltre, le lesioni guaribili entro venti giorni sono
perseguibili solo a querela di parte ed è difficile che chi
abbia subìto torture si senta poi libero di denunciarle
soprattutto se, come spesso accade, non ha testimoni né
prove.
Nel momento in cui si è voluto affrontare l'ipotesi di
introdurre anche nel nostro ordinamento il reato di tortura,
ci si è posti il problema di una sua precisa ed esauriente
definizione. A tale fine ci ha sostenuto la storia, gli
scritti dei grandi illuministi (Verri, Beccaria, Voltaire,
Manzoni), le letture recenti (ad esempio, La Question di
Henri Alleg, sulla guerra di Algeria, o La Confessione
di Arthur London, in cui il dirigente politico cecoslovacco
descrive gli orribili metodi con cui i servizi di sicurezza
del suo Paese torturavano i dissidenti politici negli anni
cinquanta); ci sono state di grande aiuto anche le sentenze
della Corte europea sui diritti dell'uomo (ad esempio quelle
sulle cosiddette "tecniche di aiuto all'interrogatorio", usate
dagli inglesi nell'Irlanda del Nord), o il rapporto della
Commissione europea sui diritti dell'uomo nella Grecia durante
il regime dei colonnelli. Ci è sembrato evidente che la
tortura fosse qualunque violenza o coercizione, fisica o
psichica, esercitata su una persona per estorcerle una
confessione o informazioni, o per umiliarla, punirla o
intimidirla. Nella tortura la disumanità è deliberata: una
persona compie volontariamente contro un'altra atti che non
solo feriscono quest'ultima nel corpo o nell'anima, ma ne
offendono la dignità umana. Nella tortura c'è, insomma,
"l'intenzione di umiliare, offendere e degradare l'altro, di
ridurlo a cosa (...)". Così Antonio Cassese nelle sue memorie
di presidente del Comitato europeo per la prevenzione della
tortura, delle pene e trattamenti inumani o degradanti.
La tortura, così come il genocidio, è considerata crimine
contro l'umanità dal diritto internazionale. La proibizione
della tortura e di altre forme di trattamento o punizione
crudele, inumana o degradante costituisce oggetto di
molteplici convenzioni internazionali ratificate anche dal
nostro Paese.
La Convenzione ONU approvata dall'Assemblea generale il 10
dicembre 1984 e resa esecutiva dall'Italia con legge 3
novembre 1988, n. 498, all'articolo 1 definisce il crimine
della tortura come "qualsiasi atto mediante il quale sono
intenzionalmente inflitti ad una persona dolore e sofferenze
forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da
essa o da una terza persona una informazioni, o confessioni,
di punirla per un atto che essa o una terza persone ha
commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di
fare pressione su di lei o di intimorire o di fare pressione
su una terza persona, o qualsiasi altro motivo fondato su
qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o
sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica
o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su
sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito".
All'articolo 4 si prevede che ogni Stato parte vigili affinché
tutti gli atti di tortura vengano considerati quali
trasgressioni nei confronti del proprio diritto penale. Lo
stesso vale per il tentativo di praticare la tortura. Nasce
così un obbligo giuridico internazionale ad oggi inadempiuto
dal nostro Paese, ossia l'introduzione del reato di tortura
nel codice penale, più volte sollecitato sia dal Comitato sui
diritti umani istituito dal Patto sui diritti civili e
politici che dal Comitato istituito dalla stessa Convenzione
sulla tortura, il quale nell'esame dei due rapporti periodici
sull'Italia ha sottolineato come fosse necessario supplire a
tale lacuna normativa. La proibizione della tortura è anche
esplicitamente prevista all'articolo 3 della Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa
esecutiva con legge n. 848 del 1955, ed all'articolo 7 del
Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del
1966, reso esecutivo con legge n. 881 del 1977.
In sede europea dal 1989 opera, a seguito di apposita
Convenzione, il predetto Comitato per la prevenzione della
tortura, delle pene e trattamenti inumani o degradanti, le cui
visite periodiche nelle carceri e nelle stazioni di polizia
dei Paesi firmatari la Convenzione costituiscono il più
efficace deterrente contro ogni tentazione di violazione dei
diritti fondamentali delle persone private della libertà
personale. Per chiudere il quadro internazionale di
riferimento, esiste anche una Convenzione interamericana
contro la tortura, mentre la Carta africana la proibisce
espressamente. La esplicita previsione del reato di tortura,
oltre che a corrispondere un obbligo giuridico internazionale,
costituisce un forte messaggio simbolico in chiave preventiva.
Significa chiarire con nettezza quali sono i limiti
dell'esercizio della forza e quali sono i limiti
dell'esercizio dei pubblici poteri rispetto ad esigenze
investigative o di polizia. Alcune questioni devono essere
preliminarmente affrontate per meglio chiarire l'ambito di
azioni di una legge che intende introdurre il reato di tortura
nel nostro ordinamento penale.
E' difficile esplicitare esaustivamente il contenuto del
reato di tortura. Proprio per evitare operazioni ermeneutiche
che ne ridimensionino la portata, è necessario procedere ad
una elencazione casistica, seppure non omnicomprensiva, della
fattispecie che possono essere configurate quali episodi di
tortura. Una prima distinzione è tra forme di tortura fisica
(pestaggi sistematici e non, molestie sessuale, shock
elettrici, torture con gettiti di acqua, mutilazioni) e forme
di tortura psicologica (ingiure verbali, minacce di morte,
costrizione alla nudità integrale, costrizione ad assistere
alla tortura o alla morte di altri detenuti, minacce
trasversali, ispezioni improvvise e senza mandato,
sorveglianza continua durante l'espletamento di attività
lavorativa, perdita del lavoro o della possibilità di
continuare gli studi al termine del periodo di detenzione).
Questa prima elencazione, frutto di un'analisi della
giurisprudenza internazionale, evidenzia come la tortura possa
essere non solo inflizione di sofferenza fisica ma anche di
sofferenza psicologica. E nel nostro ordinamento oggi è
certamente insufficiente la mera previsione del reato di
minaccia di cui all'articolo 612 del codice penale.
La definizione di tortura presente all'interno della
stessa Convenzione ONU, essendo ripresa nella proposta di
legge, richiede alcuni chiarimenti. Essa è primariamente
intesa a tutelare i detenuti, ossia le persone in stato di
detenzione legale. Destinatario del crimine di tortura è anche
colui che si trova in uno stato di detenzione illegale o di
fatto (ad esempio il ricovero forzato in un ospedale
psichiatrico). In tale senso si è espresso il Comitato sui
diritti umani che ha interpretato la proibizione della tortura
prevista al citato articolo 7 del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici quale strumento di
protezione non solo delle persone condannate o arrestate, ma
anche degli allievi nelle scuole e dei malati negli ospedali.
Ogni definizione di tortura, pertanto, non deve essere
confinata alle sole ipotesi di violenze nei luoghi di
detenzione. In prospettiva è quindi auspicabile che l'ambito
applicativo si estenda sino a ricomprendere episodi di
violenza sessuale posti in essere da pubblici ufficiali o di
lavoro forzato a danno di minori. Il concetto di tortura deve
essere riempito di contenuti dettati dalle circostanze
politiche e dal momento storico.
Altra questione riguarda l'autore del reato. Non è
necessario che il pubblico ufficiale sia autore diretto della
tortura; è sufficiente che ne sia istigatore, complice
conseziente o mero soggetto acquiesciente alla commissione del
crimine. Pertanto un cittadino comune utilizzato o impiegato
da un pubblico ufficiale per commettere violenza fisica o
psicologica nei confronti di un altro cittadino, in stato di
detenzione o non, per le finalità descritte con precisione
nella norma, commette il reato di tortura. Vi deve essere un
nesso di causalità diretto tra l'istigazione e l'atto
compiuto; nesso che non viene meno nei casi in cui il privato
cittadino vada oltre il mandato conferitogli. Deve rispondere
di tortura anche il pubblico ufficiale tacitamente conseziente
alla commissione di atti di tortura compiuti da soggetti
privati o che si sottrae volontariamente all'obbligo di
impedire un atto di tortura.
La rielaborazione della nozione di tortura deve spingersi
sino a ricomprendere tutte quelle ipotesi in cui gruppi
para-legati (ad esempio "squadroni della morte" o gruppi
armati non dello Stato) fruiscono dell'incoraggiamento, anche
indiretto, dello Stato per intraprendere azioni dirette a
sopprimere gli oppositori politici.
Deve essere tenuto in debito conto, inoltre, il ruolo che
il sesso ed il genere possono giocare nella identificazione
degli atti di tortura. Non può essere tralasciato come ben
diversi siano i rischi a cui una donna è soggetta durante un
interrogatorio rispetto ad un uomo, così come differenti sono
le condizioni di detenzione perché si configuri un trattamento
non rispettoso della dignità della persona.
Infine, la tortura non include, ovviamente, le sofferenze
derivanti dall'applicazione di una sanzione legale o ad essa
inerente o accessoria.
Per tutte queste ragioni è importante prevedere
l'introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale.
Non possono essere ritenuti sufficienti gli articoli 606
(arresto illegale), 607 (indebita limitazione di libertà
personale), 608 (abuso di autorità contro arrestati o
detenuti), 609 (perquisizione e ispezione personali
arbitrarie) del codice penale, sia per la non severità della
sanzione, sia per la non incisività del contenuto. Dall'altro
lato nei reati di percosse (articolo 581 del codice penale) e
di lesioni personali (articolo 582 del codice penale) manca la
specificità dell'elemento soggettivo, tipico, invece, della
tortura.
L'introduzione del reato di tortura costituisce quindi un
adeguamento della normativa interna a quella sovranazionale,
colma le lacune del diritto interno (gli atti di tortura che
non provocano lesioni gravi sono oggi punibili solo a querela
di parte e rischiano quindi l'impunità, così come le sottili
torture psicologiche non rientranti nel novero delle lesioni
personali), costituisce norma di chiusura dell'ordinamento a
garanzia dei diritti umani di tutti i cittadini.
La proposta di legge che introduce il reato di tortura nel
codice penale nell'ambito dei delitti contro la persona (e
precisamente a chiusura del capo I del titolo XII del libro
II, concernente i delitti contro la vita e l'incolumità
individuale) prevede la procedibilità di ufficio, pene
particolarmente severe visto che si attenta ai diritti umani
fondamentali, l'obbligo di negare l'immunità diplomatica a
chiunque si sia macchiato di reati di tortura anche
all'estero, nonché l'istituzione di un fondo per la
riabilitazione delle vittime della tortura.