XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 626
Onorevoli Colleghi! - L'esigenza di modificare talune
norme legislative riguardanti l'ordinamento del Corpo di
polizia penitenziaria e di riflesso l'organizzazione
complessiva dell'amministrazione penitenziaria, trasformatasi
da direzione generale degli istituti di prevenzione e pena in
Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è stata
immediatamente avvertita all'indomani della riforma del Corpo
degli agenti di custodia in polizia penitenziaria, in quanto
la legge 15 dicembre 1990, n. 395, aveva omesso di prevedere
compiutamente ed organicamente, all'interno del nuovo corpo, i
quadri direttivi e dirigenziali dell'ex carriera direttiva e
dirigenziale dei direttori amministrativi penitenziari (ora
collaboratori d'istituto VII livello, direttori penitenziari
VIII livello, direttori coordinatori penitenziari IX livello,
primi dirigenti, dirigenti superiori e dirigenti generali)
nonché gli ufficiali del disciolto Corpo degli agenti di
custodia, ancora in servizio nell'amministrazione.
La non previsione dei quadri dirigenziali e direttivi del
Corpo di polizia, ad ordinamento civile, aveva infatti
determinato una situazione anomala in quanto lo stesso
risultava, come in effetti risulta, acefalo e disgregato,
mancando quella organica immedesimazione che negli altri corpi
di polizia sussiste tra, ad esempio, questore e agente di
polizia, comandante di compagnia e carabiniere semplice,
eccetera.
Fatto salvo il diritto di opzione per gli appartenenti
alla ex-carriera direttiva che preferiscano rimanere
nell'ambito del comparto "Ministeri", si intende con la
presente proposta di legge (che ripropone il testo già
presentato nella XIII legislatura, atto Camera n. 1564),
colmare un vuoto inspiegabile nell'ambito dell'organizzazione
del Corpo di polizia penitenziaria, favorendo finalmente
quella organicità, uniformità ed immedesimazione, che devono
sostanziare, all'interno di un corpo di polizia, i rapporti
gerarchici già previsti tra i funzionari direttivi e
dirigenziali e gli appartenenti al Corpo di polizia
penitenziaria.
Contestualmente, si vuole raggiungere l'obiettivo di
correggere alcune macroscopiche contraddizioni che si rilevano
ad una lettura approfondita della legge n. 395 del 1990,
nonché riconoscere, sulla scorta di una provata identità,
accompagnata dalla prevista anzianità di servizio, la
possibilità per tutti gli appartenenti al Corpo di polizia
penitenziaria di crescere professionalmente, attraverso una
rivisitazione equilibrata e ragionevole degli organici, al
fine di assicurare davvero la legalità e l'efficienza del
servizio istituzionale penitenziario, attraverso un confronto
numerico delle qualifiche e degli organici di altre Forze di
polizia, specificamente della Polizia di Stato, perché si è
convinti che è la tipologia della struttura organizzativa
complessiva del personale lo strumento principale sul quale
intervenire per dare sostanzialmente, in una ottica di
imparzialità e buona amministrazione, le condizioni necessarie
di efficienza ed efficacia, e quindi di effettiva legalità,
all'amministrazione penitenziaria che non sembra più in grado
di gestire con intelligenza, coerenza, trasparenza e adeguata
autorevolezza sia il cospicuo numero di agenti di polizia
penitenziaria che la popolazione detenuta.
Vale la pena sottolineare che i direttori penitenziari
(comprendendo per motivi di brevità terminologica anche i
collaboratori d'istituto e i dirigenti), sono destinatari
dell'articolo 40 della legge n. 395 del 1990 e che sugli
stessi si riflettono gli effetti del trattamento giuridico ed
economico delle corrispondenti qualifiche della Polizia di
Stato, pur non essendo contestualmente "poliziotti".
Essi, pertanto, sia formalmente sia sostanzialmente, sono
fuori dal cosiddetto "comparto Ministeri", tanto che anche il
contratto per gli statali ha specificato che il campo di
applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro non
si estende agli stessi e rimanda ad una successiva
contrattazione l'individuazione degli istituti contrattuali
"estensibili".
La normativa vigente considera i direttori degli istituti
penitenziari (non, quindi, i direttori di centri di servizio
sociale) dal punto di vista funzionale, superiori gerarchici
del Corpo di polizia penitenziaria (articolo 9 della legge n.
395 del 1990).
Il direttore dell'istituto "assicura il mantenimento della
sicurezza e del rispetto delle regole, avvalendosi del
personale penitenziario, secondo le rispettive competenze"
(articolo 2 del regolamento di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, recante norme
sull'ordinamento penitenziario e sulle misure preventive e
limitative della libertà).
I direttori penitenziari possono fare parte dei comitati
provinciali per l'ordine e la sicurezza pubblica (ai sensi
dell'articolo 20, terzo comma, della legge 1^ aprile 1981, n.
121, e successive modificazioni).
I direttori penitenziari possono detenere, per legge,
un'arma personale senza necessitare di speciale autorizzazione
(articolo 7 della legge n. 36 del 1990).
Per il vero, la trafila delle attribuzioni rilevanti dal
punto di vista degli atti e delle responsabilità che ad essi
derivano (allo scopo ancora si richiamano nuovamente le
numerose disposizioni del codice di procedura penale,
dell'ordinamento penitenziario, della legge n. 395 del 1990,
eccetera) e che li imparentano fortemente e, salvandone la
tipicità, li fanno coincidere sostanzialmente con i funzionari
delle qualifiche più elevate delle Forze dell'ordine, sia
svolgenti funzioni di polizia amministrativa che, seppure
informalmente, giudiziaria (in quanto costantemente informano
gli atti di polizia giudiziaria degli agenti del Corpo di
polizia penitenziaria), sono molteplici per cui si preferisce
qui terminare.
Ciò spiega l'esigenza di colmare il vuoto legislativo
dovuto all'assenza di un esplicito inserimento dei direttori
penitenziari tra i pubblici ufficiali svolgenti funzioni di
polizia giudiziaria, attribuendo ad essi la qualifica di
ufficiali di polizia giudiziaria, prevedendo il loro
contestuale incorporamento nel Corpo civile di polizia
penitenziaria.
In tale modo si potrà anche escludere in nuce ogni
deleterio e defatigatorio contenzioso con le autorità
giudiziarie che, in relazione anche alla convenienza del
momento, talvolta si pongono nei riguardi dei direttori come
nei confronti di organi svolgenti attività di polizia
giudiziaria, altre come a dei meri pubblici ufficiali,
ingenerando in tale modo fraintendimenti ed evidenti
difficoltà che si riflettono sulla gestione degli appartenenti
al Corpo di polizia penitenziaria. Questi non comprendono,
essendo effettivamente incomprensibile, il perché essi abbiano
funzioni di polizia giudiziaria mentre ai direttori
penitenziari, loro superiori gerarchici, non siano
riconosciute tali attribuzioni: tanto più nel periodo attuale,
con le carceri stracolme di detenuti, con un personale di
polizia penitenziaria fortemente sindacalizzato e
parcellizzato in più organizzazioni sindacali ma nel contempo
abbandonato al proprio destino, atteso che sono ben quasi
dieci anni che manca un regolamento di servizio, strumento
indispensabile per il governo dello stesso, che non è
possibile immaginare di governare un "esercito" di oltre 40
mila poliziotti penitenziari senza che siano previsti,
gerarchicamente, con chiarezza e spirito di immedesimazione,
dei quadri direttivi e dirigenziali del Corpo qualificati.
Risulta, in sostanza, riduttivo e destinato all'insuccesso un
eventuale progetto che esaurisca una organizzazione così
complessa, soprattutto per i risvolti di carattere
amministrativo, di interpretazione e attuazione di
disposizioni normative e di alta specializzazione giuridica,
pedagogica, psicologica, nell'eventuale previsione di una
nuova figura direttiva, attraverso l'ulteriore scorrimento
degli ispettori penitenziari nella qualifica dei commissari di
polizia penitenziaria; infatti se questa possibilità può pure
essere prevista, può avere un senso soltanto se rappresenta il
traguardo di una carriera di ispettore (titolo di studio il
diploma di scuola media superiore), perché altrimenti
rimarrebbe sempre incompiuto il problema della gestione del
carcere che, per la sua complessità, non può che richiedere
professionalità in possesso di diploma di laurea e, come già
attualmente previsto, anche di specializzazione
post-laurea.
Al momento, in ogni carcere, subito dopo il direttore, per
ciò che attiene il governo del personale di polizia, è
presente la figura di un comandante di reparto, generalmente
un ispettore, il quale, seppure parimenti fondamentale
nell'inquadramento del reparto di polizia, non può che
rappresentare un quadro intermedio (perché altrimenti non
dovrebbe essere anche così nella Polizia di Stato dove invece
vi sono, e numerose, le figure dei commissari, dei primi
dirigenti, dei questori, eccetera).
L'esigenza di prevedere, organicamente e nel Corpo stesso,
i quadri direttivi e dirigenziali discende ulteriormente dalla
necessità di omogeneizzazione del quadro complessivo delle
Forze dell'ordine, rivedendo le piante organiche tutte,
affinché sia finalmente presente un funzionale adeguato numero
di ispettori, sovrintendenti e assistenti e agenti analogo, in
proporzione, a quello segnatamente della Polizia di Stato,
perché ciò si tradurrebbe, naturalmente, in legalità ed
efficienza.
Basti pensare che in Italia vi sono istituti di pena con
migliaia di dipendenti (Poggioreale a Napoli, San Vittore a
Milano, Le Vallette a Torino, eccetera) e i direttori
responsabili possono essere, e spesso sono, funzionari di VIII
o IX livello, il comandante di reparto un ispettore ordinario,
lì dove invece ci vorrebbero dirigenti generali o superiori,
una pletora di primi dirigenti, di direttori penitenziari e
collaboratori di istituto penitenziario, e numerosi ispettori
capo, ispettori e vice ispettori, nonché sovrintendenti.
A tanto poi si aggiunga l'assenza ormai endemica di
personale amministrativo (ragionieri, coadiutori, operatori
amministrativi, assistenti amministrativi, eccetera) per
aggravare ulteriormente il quadro complessivo della
situazione.
Si tenga presente, inoltre, che mancando quelli che, ad
esempio nella Polizia di Stato, sono i cosiddetti "ruoli
tecnici", non vi sono, generalmente, all'interno delle
carceri, elettricisti, conduttori di impianti tecnologici,
idraulici, esperti tecnici di impianti di sicurezza attiva e
passiva a controllo elettronico, tecnici per la prevenzione di
incendi e gestione della sicurezza, eccetera, talché solo
attraverso contratti di manutenzione con ditte private, con
buona "salute" della sicurezza penitenziaria, si rimedia e con
prevedibili ritardi agli eventuali e frequenti guasti degli
impianti in senso lato.
Non vi sono medici di polizia penitenziaria, non vi sono
infermieri di ruolo se non in esiguo numero, non vi sono
psichiatri o psicologi di ruolo e pertanto sempre disponibili,
insomma il quadro complessivo dello stato generale
dell'organizzazione delle carceri è a dire poco avvilente e le
continue notizie di cronaca ne sono solo la punta
dell'iceberg.
Tanto spiega la previsione di ruoli tecnici di polizia
penitenziaria, fatto salvo il diritto a rimanere nel ruolo di
appartenenza, seppure in esaurimento, per quanti non
intendessero transitare nelle suddette nuove figure
professionali.
Concludendo, tutte le forze politiche hanno il dovere
morale di farsi carico dei problemi prospettati che si
riflettono immediatamente e fatalmente sulla situazione
complessiva delle carceri, che in assenza di chiarezza
normativa e di univoci orientamenti, contribuiscono
negativamente a determinare lo stato di difficoltà e di scarsa
trasparenza per la collettività e di inciviltà e
imbarbarimento verso i detenuti, stravolgendo princìpi, solo
formalmente enunciati, di sicurezza penitenziaria, atteso lo
stato generale di effettivo degrado della fondamentale
istituzione, mancando nella realtà la realizzazione, solo
demagogicamente enunciata, di un sistema penitenziario civile
e funzionale.
Con la proposta di legge, invece, con reciproca serenità e
concorrente operosa progettualità tra le diverse istituzioni
interessate (Ministero della giustizia, segnatamente le
autorità giudiziarie e i funzionari direttivi e dirigenziali
provenienti dalla carriera dei direttori penitenziari, le
Forze dell'ordine tutte, eccetera), si recuperebbero sinergie,
dedicando ogni attenzione al superamento delle difficoltà e al
raggiungimento degli obiettivi istituzionali propri,
diversificati ma in ogni caso concorrenti delle
amministrazioni interessate.
In particolare si propone quanto di seguito illustrato.
Tra le varie modifiche alla legge n. 395 del 1990, c'è
quella che si riferisce anche alla possibilità di consentire
indistintamente, a prescindere dal sesso, l'utilizzo del
personale di polizia penitenziaria in situazioni di emergenza
(incendio, terremoto, evasione di massa, rivolta all'interno
delle sezioni, eccetera) e per il tempo strettamente
necessario per riportare l'ordine. Al momento, infatti, il
paradossale divieto previsto dalla legge n. 395 del 1990
nell'articolo 6, comma 2, impedisce che, ad esempio, in caso
di rivolta all'interno di una sezione femminile possa essere
utilizzato del personale di polizia penitenziaria maschile e
viceversa, per cui si arriverebbe all'assurdo che, mentre ben
potrebbero intervenire dei carabinieri o delle agenti di
Polizia di Stato femminile in una sezione maschile ove sia in
atto una rivolta, tanto sarebbe vietato alle appartenenti al
Corpo di polizia penitenziaria femminile. Trattasi di
un'autentica e illogica contraddizione.
E' previsto anche un più equo trattamento economico per i
cappellani, i quali, dimenticati costantemente dal legislatore
ordinario, pur svolgendo un compito fondamentale di
equilibrio, di sostegno umano a prescindere dal credo
religioso dei detenuti (addirittura in alcune realtà
penitenziarie il loro impegno risulta preminentemente rivolto
agli extra-comunitari, in specie magrebini e medio-orientali
di religione mussulmana), pur svolgendo attività di
collegamento con organizzazioni di volontariato, contribuendo
al mantenimento dei legami familiari con il mondo del lavoro,
eccetera, sono umiliati da un trattamento economico mensile
poco superiore a un milione di lire, ragione per cui sono
costretti ad integrare l'insufficiente indennità svolgendo
attività lavorative extra-penitenziarie o affidandosi alla
carità, cosa che può risultare penosa specialmente allorquando
si sia avanti con l'età.
Nonostante appaia evidente la loro importanza quali
elementi calmieranti delle intemperanze dei ristretti e nel
far assumere ulteriormente maggiori elementi di umanità e
comprensione negli istituti di pena, i precedenti legislatori,
in una ottica laica a senso unico, hanno determinato nei fatti
una situazione di pregiudizio verso tali importanti figure
penitenziarie.
Infine, nella proposta di legge, si prevede una più
equilibrata interpretazione del contenuto educativo e
risocializzante che deve darsi al lavoro penitenziario,
soprattutto nel confronto che dello stesso deve farsi rispetto
al lavoro degli uomini liberi cittadini, in quanto non è
peregrino individuare nell'attuale normazione del lavoro
detentivo una situazione complessivamente privilegiata
rispetto a quello di quanti, ad esempio cassintegrati o
inoccupati, l'abbiano perso o non l'abbiano mai avuto.
Risulta infatti eccessivo considerare il lavoro detentivo
alla stessa stregua, o quasi, di quello svolto dalla
generalità dei lavoratori, sia per la qualità della
produttività, spesso assente perché solitamente la
professionalità lavorativa dei ristretti è appena abbozzata e
risente fortemente dello stato d'animo degli stessi, delle
ansie, delle incostanze e delle difficoltà oggettive di chi
contestualmente vive la carcerazione.
Mancando standard di qualità, il lavoro
penitenziario risulta essere generalmente scadente. In effetti
il più delle volte quel che interessa agli addetti alla
vigilanza è che i detenuti siano impegnati in qualche modo
utile, che trascorrano il tempo operosamente, che si abituino
ad assumere impegni, che si organizzino la vita detentiva
scandendo gli orari intelligentemente tra attività ludiche, di
studio e lavorative, evitando il più possibile quel che accade
oggi: "l'ozio forzato", vissuto, di regola, dai detenuti come
la peggiore delle punizioni.
Inoltre il costo sempre crescente della manodopera
detenuta non solo costringe l'amministrazione penitenziaria a
ridurre posti di lavoro, ma disincentiva i privati ad
offrirne. Ecco perché prevedere una diversa modalità di
assunzione degli oneri può addirittura consentire un
cambiamento di tendenza, facendo salvi comunque alcuni
obblighi di solidarietà sociale e riconoscendo, in ogni caso,
una premialità anche di natura retributiva, purché equilibrata
e più vicina anche al sentore della gente comune, la quale non
capirebbe certamente il senso di una sostanziale secca
uguaglianza di trattamento dei detenuti lavoranti con i
lavoratori "liberi", a fronte dei costi che la collettività
deve assumere per il loro mantenimento nelle carceri (vitto,
assistenza sanitaria, sussidi economici, interventi economici
per il reinserimento), per il pagamento delle spettanze del
personale, eccetera.