XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 538
Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge si
prefigge lo scopo di introdurre una serie di significative
modifiche al codice di procedura civile al fine di realizzare
una deflazione del contenzioso e di abbreviare i tempi del
processo.
La proposta di legge si colloca nell'ambito delle
conclusioni presentate dalla Commissione Tarzia al Ministro di
grazia e giustizia per la riforma del codice di procedura
civile e di alcune successive ipotesi di lavoro elaborate
dagli stessi uffici del Ministero.
L'articolo 1 interviene sull'articolo 1284 e sull'articolo
282 del codice civile e sulle norme correlate del codice di
procedura civile, delineando un sistema di sanzioni per
l'inosservanza di provvedimenti giudiziali di condanna al
pagamento di somme di denaro (comma 1) e per le altre
obbligazioni (comma 2), che tengono conto di esperienze
proprie di ordinamenti stranieri (le cosiddette
"astreintes"), ma anche già presenti, da tempo,
nell'ordinamento italiano (articolo 66 del regio decreto 21
giugno 1942, n. 929, ed articolo 86 del regio decreto 29
giugno 1939, n. 1127). La finalità primaria è quella di
indurre il soccombente ad adempiere al precetto stabilito nel
provvedimento giudiziale nell'intento di incidere sui tempi
del processo esecutivo, che costituisce un altro dei nodi
irrisolti della giustizia civile. La norma di cui al comma 1
definisce un sistema sanzionatorio di carattere automatico
correlato pur sempre all'eseguibilità del provvedimento
giudiziale, e, quindi, soggetto ai meccanismi di revoca e di
sospensione dell'esecutorietà propri del processo civile. La
disposizione introdotta con il comma 2 propone un sistema di
misure coercitive, volte a garantire la realizzazione del
diritto all'adempimento di obblighi di fare e non fare, di
consegna e rilascio, con l'esclusione di quei rapporti (le
locazioni urbane ed i rapporti di cui all'articolo 409 del
codice di procedura civile), che per la loro specificità,
sotto il profilo della rilevanza sociale (che si riflette
anche in una particolare regolamentazione processuale), appare
opportuno non coinvolgere nella disciplina proposta con la
norma in esame.
Gli articoli 2, 3 e 4 della presente proposta di legge
tendono tutti all'abbreviazione dei tempi del processo civile
di cognizione. Pur nella consapevolezza che l'accelerazione
della fase istruttoria possa poi tradursi in una dilatazione
dei tempi della fase decisionale, è sembrato imprescindibile
intervenire su alcuni momenti del processo, che, nella prassi,
costituiscono di sovente inutili appesantimenti e si prestano
ad un uso distorto del processo stesso.
Il divieto delle udienze di mero rinvio, di cui
all'articolo 2, sembra rappresentare una scelta obbligata per
un ordinamento giuridico che voglia farsi carico del problema
della durata del giudizio. Nella stessa ottica la norma
intende ridurre l'incidenza negativa che, sulla complessiva
durata del processo, esplicano frequentemente le richieste
avanzate dalle parti nel corso dell'udienza (in relazione, ad
esempio, alle previsioni degli articoli 186-bis,
186-ter, 648, 649 e 708 del codice di procedura civile),
con la correlativa esigenza della controparte di poter
esprimere le proprie valutazioni e replicare adeguatamente. La
disposizione regola la fattispecie in modo da escludere che il
giudice possa limitarsi a rinviare la causa ad una successiva
udienza per l'esame e per lo svolgimento delle
controdeduzioni, prevedendo che il giudice, ove non sia
possibile un'adeguata trattazione dell'istanza nell'ambito
della medesima udienza, trattenga la causa a riserva,
consentendo alle parti di svolgere le proprie difese con
memorie scritte.
L'articolo 3 interviene, in primo luogo, sui tempi della
consulenza tecnica d'ufficio tentando di ovviare a situazioni
processuali ben note agli operatori del diritto, nelle quali
il giudizio vive lunghe ed immotivate fasi di quiescenza, in
attesa del deposito della relazione. La definizione di termini
massimi e la prescrizione dei provvedimenti che il giudice
deve adottare di fronte al protrarsi di atteggiamenti inerti
riflettono primariamente l'intento di responsabilizzare tutti
i soggetti del processo rispetto all'ineludibile esigenza di
celerità del giudizio.
Alla medesima esigenza è ispirata l'ulteriore parte della
disposizione in esame: mediante la statuizione di un termine
massimo entro il quale le parti possono far constatare nel
processo i propri rilievi alla consulenza tecnica ed il
correlativo obbligo del consulente tecnico d'ufficio di
esaminare tali osservazioni ed eventualmente replicare alle
stesse, si intende ovviare alla prassi del rinvio per esame
della consulenza tecnica, agli ulteriori rinvii connessi alla
riconvocazione del consulente tecnico d'ufficio,
all'espletamento dell'eventuale supplemento peritale, alle
nuove repliche dei periti di parte; resta, ovviamente, ferma
la possibilità delle parti di contestare le indicazioni del
consulente nell'udienza successiva al deposito, eventualmente
sollecitando l'autorizzazione al deposito di memorie
scritte.
L'articolo 4 riformula l'articolo 87 delle disposizioni
per l'attuazione del codice di procedura civile approvate con
regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, eliminando
espressamente la possibilità di produrre documenti in giudizio
nell'ambito dell'udienza. La questione era stata oggetto di
divergenti valutazioni all'atto dell'entrata in vigore della
riforma del codice di procedura civile, che contemplava
soltanto la possibilità di produzioni documentali, mediante
deposito in cancelleria, contestualmente alla costituzione in
giudizio o nel termine fissato dal giudice ai sensi
dell'articolo 184 del codice di procedura civile. In concreto,
la produzione di documenti in udienza, soprattutto se in
numero rilevante, inibisce al giudice un'adeguata trattazione
della causa (dovendo dare atto a verbale delle produzioni) e
nel contempo impone, di fatto, un rinvio dell'udienza per
consentire alla controparte il compiuto esame della
documentazione. L'eliminazione di tale modalità riconduce
l'attività di produzione documentale nell'ambito dei due
momenti del processo sopra indicati (la costituzione in
giudizio ed il termine di cui all'articolo 184 del codice di
procedura civile, con la correlativa facoltà di replica),
elidendo la necessità di udienze inutili.
L'articolo 5 della proposta di legge sostituisce, tra
l'altro, l'articolo 185 del codice di procedura civile che
disciplina, come è noto, il tentativo di conciliazione. La
modifica è nel senso di realizzare una fase processuale non di
routine ma reale. Di qui l'obbligo, per la parte, di
indicazione delle condizioni alle quali è disposta alla
conciliazione e, conseguentemente, la valutabilità, da parte
del giudice, delle posizioni conciliative espresse dalle parti
ai fini della decisione.
La modifica dell'articolo 360, primo comma, numero 5), del
codice di procedura civile (articolo 6, comma 1, della
proposta di legge) tocca uno degli aspetti più delicati e
controversi del giudizio di Cassazione. Il controllo della
motivazione della sentenza impugnata costituisce il terreno
nel quale si esplica la difficile convivenza delle ragioni
stesse della Cassazione nell'ordinamento processuale: terza
istanza del processo, come giudice supremo di legalità, e
funzione nomofilattica, attribuitale dall'articolo 65
dell'ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto 30
gennaio 1941, n. 12. Il codice del 1865 non prevedeva norme
analoghe a quella vigente, ma, di fatto, una forma di
controllo sulla motivazione era stata introdotta nella
pratica, facendo leva sulla disposizione di cui al numero 2)
dell'articolo 517, che ammetteva il ricorso qualora la
sentenza fosse nulla a norma dell'articolo 361 e, quindi,
anche nell'ipotesi di omissione dei "motivi in fatto ed in
diritto". Il legislatore del 1942 si fece carico di quella che
risultava essere un'esigenza obiettiva del sistema
processuale, introducendo una formula ("per omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio", che fosse stato oggetto di
discussione tra le parti), che venne però ritenuta
eccessivamente restrittiva, in quanto sostanzialmente
correlata ad una sorta di violazione del principio della
corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.
Con la riforma del 1950 si introdusse la formulazione
attuale ("per omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia,
prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio"). Ormai da
decenni si avverte, però, il bisogno di ridefinire il ruolo
della Cassazione nell'ambito dell'ordinamento processuale e
tale esigenza è già sfociata nella formulazione dell'articolo
606 del codice di procedura penale. Si è, infatti, ben presto
diffuso il convincimento che il difficile equilibrio tra la
funzione di giudice del diritto e la parallela funzione della
verifica della corretta ricostruzione del fatto, attraverso il
controllo della motivazione, finiva con l'attribuire al
giudizio di Cassazione ineludibili margini di incertezza e di
ambiguità, con specifico riguardo ai limiti del sindacato
giudiziale sulla sentenza impugnata, lasciando, in sostanza il
giudice arbitro di definire tali limiti, volta per volta, in
base a criteri non sempre univoci. In questo senso, il nuovo
articolo 606 del codice di procedura penale sembra esprimere
una disciplina più precisa del controllo sulla motivazione e
rappresenta la formulazione più corretta e compiuta che tale
sindacato può assumere nell'ordinamento processuale; la
mancanza o la manifesta illogicità della motivazione, quando
il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato,
riflettono la tipizzazione di evenienze patologiche, di natura
"intratestuale", che consentono al giudice di stabilire
confini precisi ed univoci al controllo sul merito del
provvedimento. Del resto, se si valutano comparativamente gli
interessi generalmente coinvolti nel processo civile ed in
quello penale, non può certo disconoscersi che l'esigenza
dell'accertamento della verità materiale si atteggia in modo
ben più imperioso nel giudizio penale, talché l'adozione nel
processo civile di una medesima definizione dei limiti del
sindacato sulla motivazione non può ritenersi in alcun modo
limitativa degli spazi di difesa ed, anzi, offre la
possibilità di coniugare correttamente ed equilibratamente le
funzioni tipiche della Cassazione nel processo civile, e, nel
contempo, di perseguire, mediante l'introduzione di parametri
più definiti, la prospettiva di disincentivare il ricorso
indiscriminato alla Cassazione.
Il comma 2 dell'articolo 6 della proposta di legge, che
estende i casi di pronuncia in camera di consiglio, si
riallaccia ad un dibattito, da tempo presente nella dottrina e
che risulta originato da meri dati statistici: dalle 6469
sentenze pronunciate dalla Cassazione nel 1976, si è passato
nell'arco di un ventennio ad un numero notevolmente superiore
al doppio; ed è agevole presumere che tali dati siano
destinati ad ulteriori, sostanziali, incrementi a seguito dei
nuovi spazi di intervento della Cassazione conseguenti alle
riforme del contenzioso tributario e delle controversie in
tema di pubblico impiego. Sembra, quindi, porsi in termini
indifferibili il problema di definire un momento di discrimine
nella moltitudine delle questioni sottoposte al vaglio della
Cassazione, modulando la risposta dell'ordinamento in funzione
di un esame preliminare che faccia emergere quelle ipotesi in
cui il ricorso risulti manifestamente fondato o infondato e
delineando, rispetto a tali ipotesi, modalità di definizione
del procedimento più snelle e più incisive; esame che,
peraltro, conosce subito un riscontro giurisdizionale
nell'attribuzione alla Corte della facoltà di esprimere una
diversa valutazione circa la devoluzione alla camera di
consiglio e fissare conseguentemente un'udienza di
discussione; correlativamente si attribuisce alle parti
un'ampia facoltà di contestare la scelta del procedimento
camerale, mediante la presentazione di memorie e l'audizione
in camera di consiglio.
I commi 3 e 4 dell'articolo 6 della proposta di legge
derivano dall'elaborazione della Commissione per la revisione
del codice di procedura civile, presieduta dal professor
Tarzia. La prima delle citate disposizioni tende, mediante la
riformulazione dell'articolo 379 del codice di procedura
civile, a dare più ampia attuazione al principio di oralità
della trattazione (con l'eliminazione della possibilità di
presentare nella stessa udienza "brevi osservazioni per
iscritto sulle conclusioni del pubblico ministero") ed al
principio del contraddittorio (consentendo agli avvocati delle
parti private di esporre le proprie difese dopo che il
pubblico ministero ha formulato le sue conclusioni). La norma,
nella formulazione proposta, risponde, da un lato, ad
un'esigenza di snellimento dell'udienza e, dall'altro, ad un
atteggiamento "culturale" sempre più diffuso che individua
nella parte privata il soggetto che deve poter interloquire
per ultimo nella discussione della causa. Contestualmente la
disposizione mira a risolvere i problemi connessi alla
compatibilità della norma attualmente vigente con la
particolare posizione che viene a rivestire il pubblico
ministero ricorrente. Il comma 4 dell'articolo 6 della
proposta di legge riflette analoghe esigenze di snellimento,
nel contesto di un progetto di rivitalizzazione dei valori di
certezza e di uniformità della giurisprudenza, stabilendo un
principio che vuole essere, da un lato, una norma
comportamentale e, dall'altro, una sorta di indicazione
all'esterno del tipo di risposta che la Cassazione è tenuta a
dare in ordine a questioni di diritto già risolte che siano
portate al suo esame, senza una correlativa prospettazione di
nuovi elementi di valutazione.
Ad esigenze analoghe rispetto a quelle sopra illustrate è,
in concreto, informato anche l'intervento di cui all'articolo
7 della proposta di legge. La proliferazione dei ricorsi in
Cassazione induce ad una limitazione degli spazi di intervento
del pubblico ministero, nella prospettiva di una complessiva
razionalizzazione delle risorse. Sul piano statistico si
rileva, infatti, che, negli ultimi anni, il rapporto tra
sostituti procuratori generali e cause pendenti dinanzi alla
Cassazione ha fatto sì che ogni anno un sostituto procuratore
generale esamini un numero di ricorsi superiore a 500, in un
contesto in cui risultano in notevole aumento i procedimenti
disciplinari, con le consequenziali, gravose incombenze ad
essi connesse. Sembra, quindi, necessario ridefinire i limiti
dell'intervento del pubblico ministero, stabilendo delle
priorità, che è sembrato fondato individuare nelle cause
trattate dinanzi alle sezioni unite, in quelle destinate alla
camera di consiglio, oltreché in quelle in cui il suo
intervento sia previsto come obbligatorio, in via generale,
dal primo comma dell'articolo 70 del codice di procedura
civile e nelle cause in cui sia comunque intervenuto nei
precedenti gradi del giudizio. Resta, inoltre, ferma la
facoltà del pubblico ministero di intervenire anche nelle
altre cause, dinanzi alle sezioni semplici, allorché ritenga
necessario od opportuno che la questione sia esaminata dalle
sezioni unite: si tratta dell'esplicazione del generale potere
di intervento, previsto dal terzo comma del citato articolo
70, e correlato alla tutela di un pubblico interesse, ma che
si concretizza, nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione,
esclusivamente nella facoltà di sollecitare la remissione
dinanzi alle sezioni unite prevista dal terzo comma
dell'articolo 376 del codice di procedura civile soprattutto
in funzione di tutelare la complessiva omogeneità
dell'ordinamento.
L'articolo 8 della proposta di legge interviene,
ampliandone il contenuto, sull'articolo 474 del codice di
procedura civile, che elenca i titoli in forza dei quali è
possibile procedere all'esecuzione forzata. In particolare si
propone di integrare il numero 3) del secondo comma
dell'articolo 474 del codice di procedura civile, disponendo
l'efficacia esecutiva degli atti ricevuti da notaio o da altro
pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, non
soltanto relativamente alle obbligazioni di somme di denaro,
ma anche relativamente alle obbligazioni di consegna o di
rilascio.
Si propone, inoltre, con l'introduzione del numero
3-bis) del secondo comma dell'articolo 474 del citato
codice, la tipizzazione, quale titolo esecutivo, delle
scritture private autenticate, sempre per le stesse
obbligazioni di cui al numero 3) del medesimo comma.
L'articolo 9 della proposta di legge tende, in primo
luogo, ad ovviare a quella che appare un'obbiettiva carenza
del sistema: l'inutilizzabilità del procedimento per decreto
ingiuntivo nell'ipotesi di in cui l'intimato risieda
all'estero. Si tratta di una limitazione che risulta, ormai,
del tutto ingiustificata in un contesto in cui i rapporti
commerciali e giuridici a livello internazionale vanno
assumendo un rilievo sempre più significativo, e che appare
anche scarsamente in linea con i princìpi in tema di
liberalizzazione degli scambi all'interno della comunità. La
soppressione della norma risulta, inoltre, in linea con la
tendenza ad ampliare l'ambito di operatività del decreto
ingiuntivo.
L'articolo 10 della proposta di legge si compone di cinque
commi, di cui i più significativi, per la loro portata
innovativa, sono certamente gli ultimi due. Il comma 4,
riformulando l'articolo 688 del codice di procedura civile,
introduce nell'ordinamento un modello di procedimento
cautelare che si caratterizza per la tendenziale esaustività
della tutela accordata alla parte istante. Mediante la
previsione della liquidazione delle spese e disancorando il
provvedimento provvisorio dalla necessaria instaurazione del
giudizio di merito, si vuole creare, in linea con esperienze
già diffuse in diversi ordinamenti europei e, segnatamente, in
Francia (il cosiddetto "rèferè"), una procedura
funzionale ad una rapida e completa attuazione del diritto,
che non imponga alla parte, che si ritenga soddisfatta
dall'esito del procedimento cautelare, di perseguire, in un
annoso giudizio ordinario, una pronuncia di mero accertamento
di quel medesimo diritto già concretamente realizzato a
seguito del ricorso cautelare o, come accade di sovente nella
prassi, la sola liquidazione delle spese processuali. Il
giudizio di cognizione ordinaria diviene, quindi, meramente
eventuale, rimesso all'iniziativa del soggetto che si ritenga
leso dal provvedimento cautelare o che in questo non rinvenga
il pieno soddisfacimento dei propri interessi. Tale schema
procedurale trova completa attuazione nella nuova formulazione
dell'articolo 700 del codice di procedura civile che, al
secondo comma, richiama il disposto del terzo comma del nuovo
articolo 688. Di contro, non si è ritenuto opportuno estendere
tale innovazione a tutti i procedimento cautelari, in quanto,
con specifico riferimento ai sequestri regolati dagli articoli
670 e seguenti, non sembra possibile prescindere dalla
strumentalità del provvedimento cautelare con il successivo
accertamento nel merito della fondatezza della pretesa.
Il comma 5 definisce altresì una nuova formulazione
dell'articolo 700 del codice di procedura civile anche con
riguardo ai presupposti del provvedimento, in linea con le
tendenze manifestatesi nell'interpretazione giurisprudenziale,
volte al superamento del concetto di irreparabilità del danno
ed all'estensione del provvedimento a tutte le ipotesi per le
quali non siano previsti specifici strumenti idonei a
garantire una tutela di carattere urgente. La complessiva
finalità della riforma dell'articolo 700 è quella di dar vita
ad una modalità di definizione delle controversie,
caratterizzata da rapidità e duttilità e che non passi
necessariamente attraverso la cognizione ordinaria e la
sentenza, dando luogo ad una regolamentazione degli interessi
in lite, suscettibile di assumere connotazioni di stabilità,
ogni qualvolta le parti non ritengano utile continuare a
confrontarsi in ordine a questioni già proposte all'esame del
giudice del provvedimento cautelare e dell'eventuale
reclamo.
I primi tre commi dell'articolo 10 sono rispettivamente
diretti ad esplicitare l'estensione della portata delle
astreintes ai provvedimenti cautelari, a completare la
previsione degli organi competenti in tema di reclamo
cautelare e a puntualizzare l'ambito di applicazione delle
norme in tema di procedimento cautelare, alla luce delle
modifiche apportate in tema di denuncia di nuova opera e di
danno temuto.
L'articolo 11 tende a realizzare una forma di definizione
delle controversie, alternativa al processo ordinario, e che
si articola, in concreto, nell'estensione nell'ambito di
applicazione di uno strumento processuale già esistente
nell'attuale ordinamento processuale (l'accertamento tecnico
preventivo), coniugato ad un tentativo di conciliazione,
affidato al consulente tecnico d'ufficio e "rafforzato" dal
meccanismo di correlazione tra la valutazione della posizione
assunta dalla parte e la regolamentazione delle spese
dell'eventuale giudizio di merito, già adottato nella nuova
formulazione dell'articolo 185 del codice di procedura
civile.
La prima finalità a cui risponde l'articolo 696-bis
del citato codice è quella di apprestare uno strumento
attraverso il quale le parti possano, pur sempre nell'ambito
della giurisdizione e con le garanzie di terzietà proprie di
un consulente nominato dal giudice, usufruire di una modalità
per la determinazione delle eventuali conseguenze lesive
connesse ad inadempimenti nell'esecuzione di prestazioni
obbligatorie (nei contratti di opera, di appalto, di
compravendita, eccetera) o a fatti dannosi di natura
extracontrattuale (tra cui, in primo luogo, i sinistri
stradali), oltreché ad una pluralità di vicende all'origine di
svariate tipologie di controversie (infiltrazioni di acqua tra
fondi contigui, danni ad abitazioni, eccetera). L'accertamento
tecnico preventivo, nella configurazione di cui alla norma in
esame, può, di per sé, rappresentare una modalità di
definizione della controversia in tutte quelle ipotesi in cui
le contestazioni tra le parti vertano essenzialmente sul
quantum dell'obbligazione. In particolare, l'attenzione
di recente mostrata dal mondo assicurativo verso forme di
conciliazione stragiudiziale, induce a ritenere che
l'introduzione di uno strumento atto ad una sollecita
definizione dell'entità dei danni, nel contesto però di un
procedimento che offra - anche sul piano psicologico - al
cittadino comune adeguate garanzie circa la congruità della
soluzione di questo tipo di contenzioso, possa contribuire in
modo significativo alla deflazione di questo tipo di
contenzioso.
La medesima finalità è perseguita, inoltre, mediante la
previsione del tentativo di conciliazione affidato al
consulente e correlato alla valutazione che il giudice potrà
fare, nell'eventuale giudizio a cognizione ordinaria,
dell'atteggiamento tenuto in questa sede dalle parti. L'idea
che informa tale previsione è quella di coinvolgere, da
subito, le parti in una ragionata valutazione dei propri
interessi, anche con riguardo a quelle ipotesi in cui
l'accertamento delle responsabilità non risulti prima
facie ben definito o sia comunque suscettibile di
incontrare obiettive difficoltà sul piano probatorio. Il
meccanismo della conciliazione è sostanzialmente mutuato da
quello previsto dall'articolo 198 e seguenti del codice di
procedura civile in tema di esame contabile, oltreché dalla
nuova formulazione dell'articolo 185 introdotta dall'articolo
5 della proposta di legge.
La prospettata modificazione dell'articolo 81 delle
disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile,
approvato con regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368
(articolo 12 della proposta di legge), contrariamente a quanto
potrebbe apparire ad una prima lettura, ha, in realtà,
finalità acceleratorie del processo. Infatti è noto che, nella
prassi, l'intervallo temporale tra un'udienza e l'altra è
ormai cadenzato su tempi ben diversi dai quindici giorni
previsti nella predetta norma. Peraltro, la recente riforma
del codice di procedura civile ha introdotto nell'ordinamento
termini che risultano obbiettivamente incompatibili con la
predetta disposizione (i venti giorni previsti dal secondo
comma dell'articolo 180, i termini di trenta giorni più
ulteriori trenta previsti dall'ultimo comma dell'articolo
168-bis, nonché i rinvii determinati dall'eventuale
esigenza di integrazione del contraddittorio, di rinnovazione
della citazione, di chiamata del terzo, che comportano la
concessione di termini non inferiori a sessanta giorni); e,
comunque, tutta la struttura del nuovo processo risulta
informata ad una visione dell'intervallo tra le udienze
istruttorie ben più lungo dei quindici giorni previsti dalla
menzionata disposizione, anche perché attività processuali,
quali il deposito di documenti e l'allegazione di prove sono
state spostate al di fuori dell'udienza. La previsione di un
termine massimo di quindici giorni residua solo nella norma di
cui al secondo comma dell'articolo 669-sexies del codice
di procedura civile in relazione a situazioni di estrema
urgenza. Mantenere in vita un termine privo di senso - e che
viene legittimamente disapplicato dal giudice - significa, di
fatto, rinunciare a regolamentare la durata dell'intervallo
tra le udienze. Nel contempo, la persistenza di tale termine
risulta influire negativamente sulle decisioni emesse nei
confronti dello Stato italiano, in sede di ricorsi alla
Commissione europea dei diritti dell'uomo per l'eccessiva
durata del processo. In quest'ottica, si è ritenuto opportuno
procedere ad un adeguamento di tale termine e proporre,
quindi, la sostituzione dell'originaria previsione, con
l'introduzione di un termine - settanta giorni - che appare,
per lo più, congruo per l'espletamento delle incombenze
processuali tra un'udienza e l'altra e che, nel contempo, può
consentire una reale accelerazione del processo, facendo salvo
il rinvio per l'udienza di precisazione delle conclusioni (che
coincide con la vecchia udienza di spedizione al collegio),
per il quale il termine di settanta giorni non è
oggettivamente realistico.
Le disposizioni della presente proposta di legge non
comportano alcun onere finanziario a carico dello Stato.