XIV LEGISLATURA

PROGETTO DI LEGGE - N. 538




        Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge si prefigge lo scopo di introdurre una serie di significative modifiche al codice di procedura civile al fine di realizzare una deflazione del contenzioso e di abbreviare i tempi del processo.
        La proposta di legge si colloca nell'ambito delle conclusioni presentate dalla Commissione Tarzia al Ministro di grazia e giustizia per la riforma del codice di procedura civile e di alcune successive ipotesi di lavoro elaborate dagli stessi uffici del Ministero.
        L'articolo 1 interviene sull'articolo 1284 e sull'articolo 282 del codice civile e sulle norme correlate del codice di procedura civile, delineando un sistema di sanzioni per l'inosservanza di provvedimenti giudiziali di condanna al pagamento di somme di denaro (comma 1) e per le altre obbligazioni (comma 2), che tengono conto di esperienze proprie di ordinamenti stranieri (le cosiddette "astreintes"), ma anche già presenti, da tempo, nell'ordinamento italiano (articolo 66 del regio decreto 21 giugno 1942, n. 929, ed articolo 86 del regio decreto 29 giugno 1939, n. 1127). La finalità primaria è quella di indurre il soccombente ad adempiere al precetto stabilito nel provvedimento giudiziale nell'intento di incidere sui tempi del processo esecutivo, che costituisce un altro dei nodi irrisolti della giustizia civile. La norma di cui al comma 1 definisce un sistema sanzionatorio di carattere automatico correlato pur sempre all'eseguibilità del provvedimento giudiziale, e, quindi, soggetto ai meccanismi di revoca e di sospensione dell'esecutorietà propri del processo civile. La disposizione introdotta con il comma 2 propone un sistema di misure coercitive, volte a garantire la realizzazione del diritto all'adempimento di obblighi di fare e non fare, di consegna e rilascio, con l'esclusione di quei rapporti (le locazioni urbane ed i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile), che per la loro specificità, sotto il profilo della rilevanza sociale (che si riflette anche in una particolare regolamentazione processuale), appare opportuno non coinvolgere nella disciplina proposta con la norma in esame.
        Gli articoli 2, 3 e 4 della presente proposta di legge tendono tutti all'abbreviazione dei tempi del processo civile di cognizione. Pur nella consapevolezza che l'accelerazione della fase istruttoria possa poi tradursi in una dilatazione dei tempi della fase decisionale, è sembrato imprescindibile intervenire su alcuni momenti del processo, che, nella prassi, costituiscono di sovente inutili appesantimenti e si prestano ad un uso distorto del processo stesso.
        Il divieto delle udienze di mero rinvio, di cui all'articolo 2, sembra rappresentare una scelta obbligata per un ordinamento giuridico che voglia farsi carico del problema della durata del giudizio. Nella stessa ottica la norma intende ridurre l'incidenza negativa che, sulla complessiva durata del processo, esplicano frequentemente le richieste avanzate dalle parti nel corso dell'udienza (in relazione, ad esempio, alle previsioni degli articoli 186-bis, 186-ter, 648, 649 e 708 del codice di procedura civile), con la correlativa esigenza della controparte di poter esprimere le proprie valutazioni e replicare adeguatamente. La disposizione regola la fattispecie in modo da escludere che il giudice possa limitarsi a rinviare la causa ad una successiva udienza per l'esame e per lo svolgimento delle controdeduzioni, prevedendo che il giudice, ove non sia possibile un'adeguata trattazione dell'istanza nell'ambito della medesima udienza, trattenga la causa a riserva, consentendo alle parti di svolgere le proprie difese con memorie scritte.
        L'articolo 3 interviene, in primo luogo, sui tempi della consulenza tecnica d'ufficio tentando di ovviare a situazioni processuali ben note agli operatori del diritto, nelle quali il giudizio vive lunghe ed immotivate fasi di quiescenza, in attesa del deposito della relazione. La definizione di termini massimi e la prescrizione dei provvedimenti che il giudice deve adottare di fronte al protrarsi di atteggiamenti inerti riflettono primariamente l'intento di responsabilizzare tutti i soggetti del processo rispetto all'ineludibile esigenza di celerità del giudizio.
        Alla medesima esigenza è ispirata l'ulteriore parte della disposizione in esame: mediante la statuizione di un termine massimo entro il quale le parti possono far constatare nel processo i propri rilievi alla consulenza tecnica ed il correlativo obbligo del consulente tecnico d'ufficio di esaminare tali osservazioni ed eventualmente replicare alle stesse, si intende ovviare alla prassi del rinvio per esame della consulenza tecnica, agli ulteriori rinvii connessi alla riconvocazione del consulente tecnico d'ufficio, all'espletamento dell'eventuale supplemento peritale, alle nuove repliche dei periti di parte; resta, ovviamente, ferma la possibilità delle parti di contestare le indicazioni del consulente nell'udienza successiva al deposito, eventualmente sollecitando l'autorizzazione al deposito di memorie scritte.
        L'articolo 4 riformula l'articolo 87 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile approvate con regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, eliminando espressamente la possibilità di produrre documenti in giudizio nell'ambito dell'udienza. La questione era stata oggetto di divergenti valutazioni all'atto dell'entrata in vigore della riforma del codice di procedura civile, che contemplava soltanto la possibilità di produzioni documentali, mediante deposito in cancelleria, contestualmente alla costituzione in giudizio o nel termine fissato dal giudice ai sensi dell'articolo 184 del codice di procedura civile. In concreto, la produzione di documenti in udienza, soprattutto se in numero rilevante, inibisce al giudice un'adeguata trattazione della causa (dovendo dare atto a verbale delle produzioni) e nel contempo impone, di fatto, un rinvio dell'udienza per consentire alla controparte il compiuto esame della documentazione. L'eliminazione di tale modalità riconduce l'attività di produzione documentale nell'ambito dei due momenti del processo sopra indicati (la costituzione in giudizio ed il termine di cui all'articolo 184 del codice di procedura civile, con la correlativa facoltà di replica), elidendo la necessità di udienze inutili.
        L'articolo 5 della proposta di legge sostituisce, tra l'altro, l'articolo 185 del codice di procedura civile che disciplina, come è noto, il tentativo di conciliazione. La modifica è nel senso di realizzare una fase processuale non di routine ma reale. Di qui l'obbligo, per la parte, di indicazione delle condizioni alle quali è disposta alla conciliazione e, conseguentemente, la valutabilità, da parte del giudice, delle posizioni conciliative espresse dalle parti ai fini della decisione.
        La modifica dell'articolo 360, primo comma, numero 5), del codice di procedura civile (articolo 6, comma 1, della proposta di legge) tocca uno degli aspetti più delicati e controversi del giudizio di Cassazione. Il controllo della motivazione della sentenza impugnata costituisce il terreno nel quale si esplica la difficile convivenza delle ragioni stesse della Cassazione nell'ordinamento processuale: terza istanza del processo, come giudice supremo di legalità, e funzione nomofilattica, attribuitale dall'articolo 65 dell'ordinamento giudiziario, approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12. Il codice del 1865 non prevedeva norme analoghe a quella vigente, ma, di fatto, una forma di controllo sulla motivazione era stata introdotta nella pratica, facendo leva sulla disposizione di cui al numero 2) dell'articolo 517, che ammetteva il ricorso qualora la sentenza fosse nulla a norma dell'articolo 361 e, quindi, anche nell'ipotesi di omissione dei "motivi in fatto ed in diritto". Il legislatore del 1942 si fece carico di quella che risultava essere un'esigenza obiettiva del sistema processuale, introducendo una formula ("per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio", che fosse stato oggetto di discussione tra le parti), che venne però ritenuta eccessivamente restrittiva, in quanto sostanzialmente correlata ad una sorta di violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.
        Con la riforma del 1950 si introdusse la formulazione attuale ("per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio"). Ormai da decenni si avverte, però, il bisogno di ridefinire il ruolo della Cassazione nell'ambito dell'ordinamento processuale e tale esigenza è già sfociata nella formulazione dell'articolo 606 del codice di procedura penale. Si è, infatti, ben presto diffuso il convincimento che il difficile equilibrio tra la funzione di giudice del diritto e la parallela funzione della verifica della corretta ricostruzione del fatto, attraverso il controllo della motivazione, finiva con l'attribuire al giudizio di Cassazione ineludibili margini di incertezza e di ambiguità, con specifico riguardo ai limiti del sindacato giudiziale sulla sentenza impugnata, lasciando, in sostanza il giudice arbitro di definire tali limiti, volta per volta, in base a criteri non sempre univoci. In questo senso, il nuovo articolo 606 del codice di procedura penale sembra esprimere una disciplina più precisa del controllo sulla motivazione e rappresenta la formulazione più corretta e compiuta che tale sindacato può assumere nell'ordinamento processuale; la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato, riflettono la tipizzazione di evenienze patologiche, di natura "intratestuale", che consentono al giudice di stabilire confini precisi ed univoci al controllo sul merito del provvedimento. Del resto, se si valutano comparativamente gli interessi generalmente coinvolti nel processo civile ed in quello penale, non può certo disconoscersi che l'esigenza dell'accertamento della verità materiale si atteggia in modo ben più imperioso nel giudizio penale, talché l'adozione nel processo civile di una medesima definizione dei limiti del sindacato sulla motivazione non può ritenersi in alcun modo limitativa degli spazi di difesa ed, anzi, offre la possibilità di coniugare correttamente ed equilibratamente le funzioni tipiche della Cassazione nel processo civile, e, nel contempo, di perseguire, mediante l'introduzione di parametri più definiti, la prospettiva di disincentivare il ricorso indiscriminato alla Cassazione.
        Il comma 2 dell'articolo 6 della proposta di legge, che estende i casi di pronuncia in camera di consiglio, si riallaccia ad un dibattito, da tempo presente nella dottrina e che risulta originato da meri dati statistici: dalle 6469 sentenze pronunciate dalla Cassazione nel 1976, si è passato nell'arco di un ventennio ad un numero notevolmente superiore al doppio; ed è agevole presumere che tali dati siano destinati ad ulteriori, sostanziali, incrementi a seguito dei nuovi spazi di intervento della Cassazione conseguenti alle riforme del contenzioso tributario e delle controversie in tema di pubblico impiego. Sembra, quindi, porsi in termini indifferibili il problema di definire un momento di discrimine nella moltitudine delle questioni sottoposte al vaglio della Cassazione, modulando la risposta dell'ordinamento in funzione di un esame preliminare che faccia emergere quelle ipotesi in cui il ricorso risulti manifestamente fondato o infondato e delineando, rispetto a tali ipotesi, modalità di definizione del procedimento più snelle e più incisive; esame che, peraltro, conosce subito un riscontro giurisdizionale nell'attribuzione alla Corte della facoltà di esprimere una diversa valutazione circa la devoluzione alla camera di consiglio e fissare conseguentemente un'udienza di discussione; correlativamente si attribuisce alle parti un'ampia facoltà di contestare la scelta del procedimento camerale, mediante la presentazione di memorie e l'audizione in camera di consiglio.
        I commi 3 e 4 dell'articolo 6 della proposta di legge derivano dall'elaborazione della Commissione per la revisione del codice di procedura civile, presieduta dal professor Tarzia. La prima delle citate disposizioni tende, mediante la riformulazione dell'articolo 379 del codice di procedura civile, a dare più ampia attuazione al principio di oralità della trattazione (con l'eliminazione della possibilità di presentare nella stessa udienza "brevi osservazioni per iscritto sulle conclusioni del pubblico ministero") ed al principio del contraddittorio (consentendo agli avvocati delle parti private di esporre le proprie difese dopo che il pubblico ministero ha formulato le sue conclusioni). La norma, nella formulazione proposta, risponde, da un lato, ad un'esigenza di snellimento dell'udienza e, dall'altro, ad un atteggiamento "culturale" sempre più diffuso che individua nella parte privata il soggetto che deve poter interloquire per ultimo nella discussione della causa. Contestualmente la disposizione mira a risolvere i problemi connessi alla compatibilità della norma attualmente vigente con la particolare posizione che viene a rivestire il pubblico ministero ricorrente. Il comma 4 dell'articolo 6 della proposta di legge riflette analoghe esigenze di snellimento, nel contesto di un progetto di rivitalizzazione dei valori di certezza e di uniformità della giurisprudenza, stabilendo un principio che vuole essere, da un lato, una norma comportamentale e, dall'altro, una sorta di indicazione all'esterno del tipo di risposta che la Cassazione è tenuta a dare in ordine a questioni di diritto già risolte che siano portate al suo esame, senza una correlativa prospettazione di nuovi elementi di valutazione.
        Ad esigenze analoghe rispetto a quelle sopra illustrate è, in concreto, informato anche l'intervento di cui all'articolo 7 della proposta di legge. La proliferazione dei ricorsi in Cassazione induce ad una limitazione degli spazi di intervento del pubblico ministero, nella prospettiva di una complessiva razionalizzazione delle risorse. Sul piano statistico si rileva, infatti, che, negli ultimi anni, il rapporto tra sostituti procuratori generali e cause pendenti dinanzi alla Cassazione ha fatto sì che ogni anno un sostituto procuratore generale esamini un numero di ricorsi superiore a 500, in un contesto in cui risultano in notevole aumento i procedimenti disciplinari, con le consequenziali, gravose incombenze ad essi connesse. Sembra, quindi, necessario ridefinire i limiti dell'intervento del pubblico ministero, stabilendo delle priorità, che è sembrato fondato individuare nelle cause trattate dinanzi alle sezioni unite, in quelle destinate alla camera di consiglio, oltreché in quelle in cui il suo intervento sia previsto come obbligatorio, in via generale, dal primo comma dell'articolo 70 del codice di procedura civile e nelle cause in cui sia comunque intervenuto nei precedenti gradi del giudizio. Resta, inoltre, ferma la facoltà del pubblico ministero di intervenire anche nelle altre cause, dinanzi alle sezioni semplici, allorché ritenga necessario od opportuno che la questione sia esaminata dalle sezioni unite: si tratta dell'esplicazione del generale potere di intervento, previsto dal terzo comma del citato articolo 70, e correlato alla tutela di un pubblico interesse, ma che si concretizza, nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione, esclusivamente nella facoltà di sollecitare la remissione dinanzi alle sezioni unite prevista dal terzo comma dell'articolo 376 del codice di procedura civile soprattutto in funzione di tutelare la complessiva omogeneità dell'ordinamento.
        L'articolo 8 della proposta di legge interviene, ampliandone il contenuto, sull'articolo 474 del codice di procedura civile, che elenca i titoli in forza dei quali è possibile procedere all'esecuzione forzata. In particolare si propone di integrare il numero 3) del secondo comma dell'articolo 474 del codice di procedura civile, disponendo l'efficacia esecutiva degli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, non soltanto relativamente alle obbligazioni di somme di denaro, ma anche relativamente alle obbligazioni di consegna o di rilascio.
        Si propone, inoltre, con l'introduzione del numero 3-bis) del secondo comma dell'articolo 474 del citato codice, la tipizzazione, quale titolo esecutivo, delle scritture private autenticate, sempre per le stesse obbligazioni di cui al numero 3) del medesimo comma.
        L'articolo 9 della proposta di legge tende, in primo luogo, ad ovviare a quella che appare un'obbiettiva carenza del sistema: l'inutilizzabilità del procedimento per decreto ingiuntivo nell'ipotesi di in cui l'intimato risieda all'estero. Si tratta di una limitazione che risulta, ormai, del tutto ingiustificata in un contesto in cui i rapporti commerciali e giuridici a livello internazionale vanno assumendo un rilievo sempre più significativo, e che appare anche scarsamente in linea con i princìpi in tema di liberalizzazione degli scambi all'interno della comunità. La soppressione della norma risulta, inoltre, in linea con la tendenza ad ampliare l'ambito di operatività del decreto ingiuntivo.
        L'articolo 10 della proposta di legge si compone di cinque commi, di cui i più significativi, per la loro portata innovativa, sono certamente gli ultimi due. Il comma 4, riformulando l'articolo 688 del codice di procedura civile, introduce nell'ordinamento un modello di procedimento cautelare che si caratterizza per la tendenziale esaustività della tutela accordata alla parte istante. Mediante la previsione della liquidazione delle spese e disancorando il provvedimento provvisorio dalla necessaria instaurazione del giudizio di merito, si vuole creare, in linea con esperienze già diffuse in diversi ordinamenti europei e, segnatamente, in Francia (il cosiddetto "rèferè"), una procedura funzionale ad una rapida e completa attuazione del diritto, che non imponga alla parte, che si ritenga soddisfatta dall'esito del procedimento cautelare, di perseguire, in un annoso giudizio ordinario, una pronuncia di mero accertamento di quel medesimo diritto già concretamente realizzato a seguito del ricorso cautelare o, come accade di sovente nella prassi, la sola liquidazione delle spese processuali. Il giudizio di cognizione ordinaria diviene, quindi, meramente eventuale, rimesso all'iniziativa del soggetto che si ritenga leso dal provvedimento cautelare o che in questo non rinvenga il pieno soddisfacimento dei propri interessi. Tale schema procedurale trova completa attuazione nella nuova formulazione dell'articolo 700 del codice di procedura civile che, al secondo comma, richiama il disposto del terzo comma del nuovo articolo 688. Di contro, non si è ritenuto opportuno estendere tale innovazione a tutti i procedimento cautelari, in quanto, con specifico riferimento ai sequestri regolati dagli articoli 670 e seguenti, non sembra possibile prescindere dalla strumentalità del provvedimento cautelare con il successivo accertamento nel merito della fondatezza della pretesa.
        Il comma 5 definisce altresì una nuova formulazione dell'articolo 700 del codice di procedura civile anche con riguardo ai presupposti del provvedimento, in linea con le tendenze manifestatesi nell'interpretazione giurisprudenziale, volte al superamento del concetto di irreparabilità del danno ed all'estensione del provvedimento a tutte le ipotesi per le quali non siano previsti specifici strumenti idonei a garantire una tutela di carattere urgente. La complessiva finalità della riforma dell'articolo 700 è quella di dar vita ad una modalità di definizione delle controversie, caratterizzata da rapidità e duttilità e che non passi necessariamente attraverso la cognizione ordinaria e la sentenza, dando luogo ad una regolamentazione degli interessi in lite, suscettibile di assumere connotazioni di stabilità, ogni qualvolta le parti non ritengano utile continuare a confrontarsi in ordine a questioni già proposte all'esame del giudice del provvedimento cautelare e dell'eventuale reclamo.
        I primi tre commi dell'articolo 10 sono rispettivamente diretti ad esplicitare l'estensione della portata delle astreintes ai provvedimenti cautelari, a completare la previsione degli organi competenti in tema di reclamo cautelare e a puntualizzare l'ambito di applicazione delle norme in tema di procedimento cautelare, alla luce delle modifiche apportate in tema di denuncia di nuova opera e di danno temuto.
        L'articolo 11 tende a realizzare una forma di definizione delle controversie, alternativa al processo ordinario, e che si articola, in concreto, nell'estensione nell'ambito di applicazione di uno strumento processuale già esistente nell'attuale ordinamento processuale (l'accertamento tecnico preventivo), coniugato ad un tentativo di conciliazione, affidato al consulente tecnico d'ufficio e "rafforzato" dal meccanismo di correlazione tra la valutazione della posizione assunta dalla parte e la regolamentazione delle spese dell'eventuale giudizio di merito, già adottato nella nuova formulazione dell'articolo 185 del codice di procedura civile.
        La prima finalità a cui risponde l'articolo 696-bis del citato codice è quella di apprestare uno strumento attraverso il quale le parti possano, pur sempre nell'ambito della giurisdizione e con le garanzie di terzietà proprie di un consulente nominato dal giudice, usufruire di una modalità per la determinazione delle eventuali conseguenze lesive connesse ad inadempimenti nell'esecuzione di prestazioni obbligatorie (nei contratti di opera, di appalto, di compravendita, eccetera) o a fatti dannosi di natura extracontrattuale (tra cui, in primo luogo, i sinistri stradali), oltreché ad una pluralità di vicende all'origine di svariate tipologie di controversie (infiltrazioni di acqua tra fondi contigui, danni ad abitazioni, eccetera). L'accertamento tecnico preventivo, nella configurazione di cui alla norma in esame, può, di per sé, rappresentare una modalità di definizione della controversia in tutte quelle ipotesi in cui le contestazioni tra le parti vertano essenzialmente sul quantum dell'obbligazione. In particolare, l'attenzione di recente mostrata dal mondo assicurativo verso forme di conciliazione stragiudiziale, induce a ritenere che l'introduzione di uno strumento atto ad una sollecita definizione dell'entità dei danni, nel contesto però di un procedimento che offra - anche sul piano psicologico - al cittadino comune adeguate garanzie circa la congruità della soluzione di questo tipo di contenzioso, possa contribuire in modo significativo alla deflazione di questo tipo di contenzioso.
        La medesima finalità è perseguita, inoltre, mediante la previsione del tentativo di conciliazione affidato al consulente e correlato alla valutazione che il giudice potrà fare, nell'eventuale giudizio a cognizione ordinaria, dell'atteggiamento tenuto in questa sede dalle parti. L'idea che informa tale previsione è quella di coinvolgere, da subito, le parti in una ragionata valutazione dei propri interessi, anche con riguardo a quelle ipotesi in cui l'accertamento delle responsabilità non risulti prima facie ben definito o sia comunque suscettibile di incontrare obiettive difficoltà sul piano probatorio. Il meccanismo della conciliazione è sostanzialmente mutuato da quello previsto dall'articolo 198 e seguenti del codice di procedura civile in tema di esame contabile, oltreché dalla nuova formulazione dell'articolo 185 introdotta dall'articolo 5 della proposta di legge.
        La prospettata modificazione dell'articolo 81 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile, approvato con regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368 (articolo 12 della proposta di legge), contrariamente a quanto potrebbe apparire ad una prima lettura, ha, in realtà, finalità acceleratorie del processo. Infatti è noto che, nella prassi, l'intervallo temporale tra un'udienza e l'altra è ormai cadenzato su tempi ben diversi dai quindici giorni previsti nella predetta norma. Peraltro, la recente riforma del codice di procedura civile ha introdotto nell'ordinamento termini che risultano obbiettivamente incompatibili con la predetta disposizione (i venti giorni previsti dal secondo comma dell'articolo 180, i termini di trenta giorni più ulteriori trenta previsti dall'ultimo comma dell'articolo 168-bis, nonché i rinvii determinati dall'eventuale esigenza di integrazione del contraddittorio, di rinnovazione della citazione, di chiamata del terzo, che comportano la concessione di termini non inferiori a sessanta giorni); e, comunque, tutta la struttura del nuovo processo risulta informata ad una visione dell'intervallo tra le udienze istruttorie ben più lungo dei quindici giorni previsti dalla menzionata disposizione, anche perché attività processuali, quali il deposito di documenti e l'allegazione di prove sono state spostate al di fuori dell'udienza. La previsione di un termine massimo di quindici giorni residua solo nella norma di cui al secondo comma dell'articolo 669-sexies del codice di procedura civile in relazione a situazioni di estrema urgenza. Mantenere in vita un termine privo di senso - e che viene legittimamente disapplicato dal giudice - significa, di fatto, rinunciare a regolamentare la durata dell'intervallo tra le udienze. Nel contempo, la persistenza di tale termine risulta influire negativamente sulle decisioni emesse nei confronti dello Stato italiano, in sede di ricorsi alla Commissione europea dei diritti dell'uomo per l'eccessiva durata del processo. In quest'ottica, si è ritenuto opportuno procedere ad un adeguamento di tale termine e proporre, quindi, la sostituzione dell'originaria previsione, con l'introduzione di un termine - settanta giorni - che appare, per lo più, congruo per l'espletamento delle incombenze processuali tra un'udienza e l'altra e che, nel contempo, può consentire una reale accelerazione del processo, facendo salvo il rinvio per l'udienza di precisazione delle conclusioni (che coincide con la vecchia udienza di spedizione al collegio), per il quale il termine di settanta giorni non è oggettivamente realistico.
        Le disposizioni della presente proposta di legge non comportano alcun onere finanziario a carico dello Stato.




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