XIV LEGISLATURA

PROGETTO DI LEGGE - N. 48




        Onorevoli Colleghi! - La nascita di un figlio è diventato un costo spesso insostenibile per la famiglia media italiana. Infatti, la decisione delle famiglie di avere pochi figli non è più una scelta, ma è diventata una necessità poiché i costi per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione di un figlio, dalla nascita ai ventidue anni, si aggirano intorno ai 376 milioni di lire, per una coppia che possa contare su un reddito medio basso di 4 milioni di lire nette al mese, ed ai 790 milioni di lire, per genitori a reddito medio alto (8 milioni di lire nette al mese).
        L'Italia è diventata il Paese più vecchio del mondo, con un indice di natalità di 1,2 figli per donna, a causa di un crollo delle nascite dovuto prevalentemente al fatto che le famiglie scelgono di restare "micro" perché non possono contare su alcun tipo di aiuto dello Stato, né sotto forma di servizi (nidi, asili, doposcuola), né sotto forma di agevolazioni fiscali quali quelle previste in altri Paesi dell'Unione europea.
        In base ai dati dell'Istituto nazionale di statistica relativi all'anno 1999 il movimento naturale della popolazione in Italia (differenze tra nascite e morti) è risultato negativo per 33.841 unità. Il dato disaggregato per zone geografiche segnala un saldo positivo al sud (+36.693) ed uno negativo al centro (-19.209) ed al nord (-51.325).
        Mentre lo Stato contribuisce in vario modo a diverse forme di investimento, riconoscendone il valore sociale, non partecipa affatto all'investimento in "risorse umane", finalizzato al mantenimento ed allo sviluppo della "specie uomo".
        Purtroppo quello che appare evidente dell'attuale situazione è che essa sottende un modello di società che, tramite l'immigrazione extracomunitaria, punta a promuovere la necessaria mano d'opera per il sistema socio-economico, mettendo in realtà a dura prova il modello culturale e sociale delle nostre comunità.
        Malgrado la diffusa retorica sulla centralità della risorsa umana, secondo la normativa vigente chi investe su di essa non solo non viene minimamente aiutato, ma viene punito con una pressione fiscale regressiva.
        Inoltre, è necessario considerare che i trasferimenti pubblici sono esclusivamente a favore della componente "anziani" e "adulti disoccupati" mentre le componenti "minori" e "giovani e adulti inoccupati" sono a totale carico delle famiglie.
        E' dunque evidente l'iniquità di tale situazione: mentre al trasferimento del reddito verso chi non può lavorare contribuiscono tutti i lavoratori in proporzione ai loro redditi, indipendentemente dalle persone a carico, al trasferimento di reddito verso i minori contribuisce esclusivamente chi li ha a carico, subendo altresì la maggiore pressione fiscale delle imposte indirette.
        Se è vero che la scelta della maternità è una scelta personale o della famiglia, è tuttavia altrettanto vero che il mantenimento di un sistema fiscale così gravemente sperequativo ai danni dei contribuenti con figli a carico viola palesemente i princìpi costituzionali. Infatti, si ricorda che la Costituzione repubblicana, dopo aver riconosciuto "i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio", fissa il "dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli", dichiara che "la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose" e stabilisce che "tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva" e che "il sistema tributario è informato a criteri di progressività".
        Il criterio di progressività, per essere effettivamente rispettato, dovrebbe osservare sia il principio di equità verticale che quello di equità orizzontale. Il primo richiede che, dati due livelli di reddito diversi, l'imposta che grava sul reddito più basso deve essere inferiore a quella che grava sul reddito più alto, mentre il secondo richiede che, dati due soggetti con uno stesso livello di reddito nominale, se gli oneri che gravano su uno di questi sono tali da ridurre la capacità contributiva rispetto all'altro, allora il primo deve pagare un'imposta inferiore a quella dell'altro.
        Il sistema fiscale italiano dunque, non rispetta alcuno dei suddetti princìpi, anzi, per quel che concerne l'imposta sul reddito delle persone fisiche, nel fissare la misura delle detrazioni, sembra volere disincentivare le famiglie a generare i figli e a farsi carico del loro mantenimento. Tale disincentivo è confermato anche dalla sottovalutazione dell'impegno del coniuge che decide di dedicarsi a tempo pieno a seguire i figli.
        Il riconoscimento dell'impegno economico costituito dalla presenza di un figlio, secondo la vigente normativa, è confinato in un'ottica di intervento assistenziale - che per i redditi medio bassi avviene attraverso lo strumento dell'assegno familiare, in modo comunque insufficiente ed inadeguato considerato che non tutte le famiglie hanno diritto a questo tipo di trasferimento - ed è completamente trascurata l'esigenza di equità orizzontale, nonostante la Costituzione sottolinei la rilevanza sociale della famiglia.
        Appare difficile comprendere quali siano le cause di un trattamento fiscale così sfavorevole ai carichi di famiglia in Italia. Se esiste una concezione che ispira la legislazione italiana, questa sembra essere la seguente: la presenza di figli a carico di regola continua a non comportare una diminuzione di capacità contributiva che non sia soltanto simbolica. Per la normativa fiscale è infatti praticamente irrilevante che una famiglia decida di allevare, istruire ed educare un figlio o che scelga piuttosto di acquistare uno yacht o una macchina.
        Di fronte a tale situazione il legislatore ha il preciso dovere di far sì che vengano rimosse le condizioni che precludono o limitano pesantemente, sotto il profilo economico, la scelta - personale o dell'intera famiglia - di procreare.
        La presente proposta di legge intende riformare il trattamento fiscale della famiglia attraverso la previsione di tre specifiche misure:

            1) l'estensione del principio della deducibilità dei costi sostenuti per la crescita dei figli, definendone le tipologie ed i limiti;

            2) l'introduzione della famiglia quale soggetto d'imposta, con l'applicazione del sistema del quoziente familiare per il calcolo dell'imposizione, lasciando peraltro la facoltà al contribuente di optare per l'attuale sistema di tassazione separata;

            3) la modifica delle aliquote previste all'articolo 11 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni.

        La scelta dello strumento della deduzione di spese prestabilite anziché di quello della detrazione, più in linea con la tradizione fiscale italiana, costituisce un intervento più equo per il riconoscimento degli oneri derivanti dalla presenza di carichi di famiglia: la detrazione fissa, infatti, in un sistema di aliquote crescenti come quello italiano, assume implicitamente l'ipotesi assurda che gli oneri decrescano al crescere del reddito. La possibilità di dedurre dal reddito lordo importi corrispondenti ai reali costi di base della famiglia, in luogo delle attuali detrazioni di imposta, avrebbe il vantaggio di rendere chiaro qual è il reddito al di sopra del quale inizia la capacità contributiva e permetterebbe quindi di tassare direttamente le risorse non indispensabili per la sussistenza dei componenti della famiglia.
        In particolare, il riconoscimento del credito familiare previsto dall'articolo 10-bis del citato testo unico, di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, introdotto dall'articolo 1, comma 1, lettera a), della presente proposta di legge, deriva dalla considerazione che, visto il costo elevato sostenuto dalla famiglia per la crescita di un figlio, si ritiene necessario prevedere la possibilità di detrarre, quale onere deducibile dal reddito imponibile, un ammontare pari ad almeno 100 milioni di lire da ripartire nell'arco dei diciotto anni. Nell'ambito del credito familiare il contribuente potrà scegliere quali spese portare in deduzione. Dunque, in tale modo viene assicurata parità di trattamento tributario a fronte di libertà di scelta della famiglia.
        Il limite di 100 milioni di lire potrebbe sembrare modesto in relazione ad una spesa complessiva di circa 300 milioni di lire, ma occorre evidenziare che la misura si cumulerebbe con l'adozione del quoziente familiare con impatto di non trascurabile entità.
        Complessivamente considerate, tali misure, che mutuano le più interessanti esperienze estere in proposito di sistema impositivo sulla famiglia, avrebbero un impatto rilevante per le famiglie con redditi medio bassi e con più di due figli a carico.
        Con lo strumento del quoziente familiare, previsto dall'articolo 11-bis del citato testo unico, introdotto dall'articolo 1, comma 1, lettera c), della presente proposta di legge, il reddito familiare viene prima sommato e poi suddiviso in una o più quote non necessariamente uguali tra loro. Alla quota si applica l'aliquota prevista per gli scaglioni cui essa appartiene: l'imposta totale dovuta dalla famiglia è data dalla moltiplicazione dell'imposta dovuta per una quota intera moltiplicata per il numero delle quote. In tale modo risultano favorite soprattutto le famiglie monoreddito (o quelle in cui uno dei coniugi percepisce un reddito sensibilmente inferiore a quello dell'altro) e le famiglie numerose in quanto il reddito viene suddiviso oltre che tra i coniugi anche tra i figli. Valga ad esempio l'esperienza della Francia in cui tale sistema è già in vigore.
        Tra l'altro, nella presente proposta di legge è stata riconosciuta al contribuente la possibilità di scegliere se optare per la tassazione familiare con il metodo del quoziente o per quella individuale. In tale modo risulta, altresì, pienamente soddisfatta l'indicazione della Corte costituzionale che, nella famosa sentenza n. 176 del 14 luglio 1976, in materia di cumulo dei redditi, esprimeva "l'auspicio che sulla base delle dichiarazioni dei propri redditi fatte dai coniugi, ed in un sistema ordinato sulla tassazione separata dei rispettivi redditi complessivi, possa essere data ai coniugi la facoltà di optare per un differente sistema di tassazione (espresso in un solo senso o articolato in più modi) che agevoli la formazione e lo sviluppo della famiglia e consideri la posizione della donna casalinga e lavoratrice".
        Attraverso la previsione di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell'articolo 11 del citato testo unico, come sostituite dall'articolo 1, comma 1, lettera b), della proposta di legge, che prevedono una ridefinizione delle scale delle aliquote, si è voluto assicurare anche ai percettori di redditi inferiori ai 30 milioni di lire la possibilità di usufruire del risparmio di imposta garantito dall'attuazione del meccanismo del quoziente familiare.
        Inoltre la proposta di legge mira a valorizzare la solidarietà intergenerazionale, promuovendo la cura e l'assistenza in famiglia degli anziani. Per coloro, infatti, che vengono assistiti in famiglia, anziché essere ricoverati in appositi istituti, scatta l'attribuzione di coefficienti che, mediante il metodo del quoziente familiare, assicurano risparmi fiscali.
        Infine, con le disposizioni di cui all'articolo 2 della presente proposta di legge, che reca modifiche alle leggi n. 448 del 1998 e n. 1204 del 1971, si intendono favorire le lavoratrici che scelgono di dedicare più tempo all'allevamento, alla cura e all'istruzione dei figli. Tali disposizioni nascono dall'esigenza, ampiamente avvertita, di consentire alle madri l'adempimento della loro funzione fondamentale nei primi anni di vita del bambino.
        Può essere utile ricordare che la tutela della maternità e la cura dei figli sono state ribadite a livello comunitario in alcuni atti fondamentali tra i quali rivestono particolare importanza:

            la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori il cui progetto è stato deliberato dal Consiglio europeo il 30 ottobre 1989 e alla quale hanno aderito, in occasione del vertice di Strasburgo del 9 dicembre 1989, undici Stati membri che tra i princìpi contiene quello della necessità di sviluppare tutte quelle misure che consentano agli uomini ed alle donne di conciliare meglio i loro obblighi professionali e familiari;

            il Trattato sull'Unione europea, firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, reso esecutivo con legge 3 novembre 1992, n. 454, e successive modificazioni, che nell'accordo allegato al Protocollo sulla politica sociale sancisce, tra l'altro, la possibilità per uno Stato membro di adottare provvedimenti specifici volti a facilitare l'attività professionale delle donne;

            il Libro bianco sulla politica sociale europea di cui alla comunicazione della Commissione delle Comunità europee COM(94)333 in cui viene sancito che ogni Stato membro deve provvedere ad eliminare la segregazione femminile nel mercato del lavoro e a valorizzare il lavoro delle donne, a conciliare lavoro e vita familiare, a promuovere la partecipazione delle donne nei processi decisionali.

        Pertanto, abbiamo ritenuto opportuno modificare la disciplina sull'assegno di maternità che è attualmente inadeguata rispetto alle esigenze delle madri. Inoltre, si è ritenuto necessario prevedere il ricorso al rapporto a tempo parziale attraverso la trasformazione del contratto di lavoro full time. A tale fine, dato che il ricorso al rapporto a tempo parziale non è facilitato da interventi incentivanti, anzi, fino alla conversione in legge del decreto-legge n. 510 del 1996, (convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608) due rapporti part-time costavano, da un punto di vista contributivo, più di un contratto full-time, si è intervenuti prevedendo una agevolazione previdenziale e fiscale a favore del datore di lavoro che vede ridursi le aliquote contributive per i contratti part-time stipulati con le lavoratrici madri.
        Si prevede, altresì, che l'opportunità di rinunciare temporaneamente alla propria normale attività lavorativa per dedicarsi alla cura di un figlio non venga penalizzata dalla riduzione di remunerazione prevista dalla normativa vigente. Si è dunque provveduto alla modifica della normativa al fine di consentire alle madri, durante il periodo di astensione per maternità, di godere al 100 per cento della retribuzione spettante.
        Dunque, non sussistendo elementi giuridici per rifiutare di prendere in considerazione l'adozione del sistema descritto, riteniamo prioritario giungere ad una rapida approvazione della presente proposta di legge, soprattutto al fine di eliminare quei limiti che oggettivamente ostacolano la naturale propensione alla costituzione di un nucleo familiare "completo", vale a dire di una famiglia di cui siano parte integrante anche i figli.




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