Onorevoli Colleghi! - Le vicende che hanno drammaticamente coinvolto le imprese Cirio e Parmalat hanno acceso l'attenzione dei mass-media e dell'opinione pubblica italiana e internazionale sulle condizioni e sul funzionamento del sistema capitalistico. Molti si chiedono se simili fenomeni non si sarebbero potuti evitare ricorrendo a un efficace sistema di controlli, altri se invece essi non siano connessi a ragioni e a cause così profonde e interne all'attuale sistema da richiedere non solo penetranti controlli, ma anche sostanziali modificazioni delle regole vigenti.
Le Commissioni Attività produttive e Finanze dei due rami del Parlamento hanno condotto nei primi due mesi del 2004 un'indagine conoscitiva, che si è articolata lungo molte sedute e ha permesso di ascoltare i rappresentanti di istituzioni e i soggetti che a vario titolo hanno avuto un ruolo nel crack di Cirio e di Parmalat. Si è trattato, certamente, di un'iniziativa di grande peso, che ha permesso di mettere in luce diverse storture esistenti nella realtà dell'attuale sistema capitalistico-finanziario. I suoi risultati, grazie alle relazioni che hanno concluso il lavoro delle Commissioni, sono sotto gli occhi di tutti. Possono essere apprezzati o al contrario aspramente criticati. Secondo i proponenti della presente proposta di inchiesta parlamentare in ogni caso non è questo il punto. Infatti il tema sollevato dai clamorosi casi Cirio e Parmalat è assai più vasto, non può essere circoscritto a quelle vicende, pur in sé assai significative.
Lo dicono gli stessi protagonisti sentiti in questi mesi di lavoro nel corso dell'indagine già ricordata. Ce lo dicono, quando ognuno di loro testimonia un'impotenza ad agire, a intervenire, persino a sapere, non parliamo, poi, a controllare.
Tutto questo ci suggerisce un'ipotesi. È l'intero sistema che non funziona. È il sistema del capitalismo giunto alla sua massima fase di globalizzazione e di finanziarizzazione che produce a ogni latitudine scandali e tradimenti della fiducia dei cittadini e dei risparmiatori.
Lo si è visto negli USA in particolare con il caso Enron. Il fallimento della Enron in conseguenza di manipolazioni contabili ha comportato il licenziamento di 5.600 persone e ha fatto svanire capitali per 68 miliardi di dollari. Tuttavia non è stato il solo, ad esso vanno almeno aggiunti quelli della Tyco, della Worldcom, della Ahold.
In Italia la situazione è ancora più grave perché, mentre negli USA e in altri Paesi dopo gli scandali sono stati introdotti controlli e pene più severi, il Governo italiano ha fatto approvare provvedimenti che hanno depenalizzato il falso in bilancio, diminuito le prescrizioni e le pene per reati societari e trascurato, nel nuovo diritto societario, la trasparenza nella gestione e nei controlli nella e sulla impresa.
Solo riformando i meccanismi di funzionamento dell'impresa si possono rivedere, attivare, rafforzare i controlli per impedire episodi come Cirio e Parmalat che colpiscono gravemente i risparmiatori, i lavoratori, intere filiere produttive.
In tutte queste circostanze si prova una sensazione d'impotenza. I cittadini non hanno alcun potere di conoscenza e tantomeno di controllo, i Governi si dichiarano impotenti, i Parlamenti intervengono solamente in chiave conoscitiva, quando le cose sono già avvenute e i danni sono già stati compiuti, le varie authority si dichiarano, per diverse ragioni, inadatte a prevenire questi fenomeni per la mancanza di poteri di controllo effettivamente penetranti.
Il nostro sistema appare a rimorchio di scelte e di decisioni che si determinano altrove. Siamo un anello debole della catena, un'articolazione senza potere dentro il processo di globalizzazione. Il nostro Paese ha perduto o fortemente ridotto la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato tra i primi al mondo. È uscito quasi completamente da mercati in continua crescita. Non è riuscito a fare raggiungere una adeguata massa critica a imprese nelle quali ancora possiede un grande patrimonio di risorse umane e di tecnologia. I costi economici e sociali di questa situazione sono stati e sono immensi: tra questi vi è il rischio di diventare una colonia industriale di altri Paesi.
Nel recente Forum di Davos sono risuonate esclamazioni del tipo «viva la moralità negli affari!» oppure «viva l'impresa etica!» Queste esprimono un comprensibile desiderio di ritornare a un risanamento delle basi del capitalismo ma, stando agli ultimi avvenimenti, è quantomeno lecito dubitare di una felice riuscita di questo proposito.
Anzi assistiamo a fenomeni esattamente contrari. I paradisi fiscali e legali - vera e propria terra di rapina della ricchezza prodotta dal lavoro umano, spesso esercitato in condizioni di supersfruttamento - godono di grande libertà e incrementano vertiginosamente i loro affari. Il sistema di finanziamento delle imprese, attraverso l'incanalamento in questa direzione del risparmio privato, si rovescia in quello del finanziamento alle banche creditrici.
«Dopo il fallimento di Enron - ha commentato Ignacio Ramonet su Le Monde Diplomatique del febbraio 2004 - i fautori della globalizzazione liberista hanno proclamato la fine delle imprese canaglia e degli imprenditori truffaldini, sostenendo che alla fin fine quella vicenda avrebbe avuto l'effetto benefico di indurre il sistema a correggersi. Ma, come dimostra lo scandalo Parmalat, non se ne è fatto nulla».
È successo così. Ma noi non possiamo permettere che succeda ancora. Per questo dobbiamo conoscere e capire per potere poi prospettare delle soluzioni.
È questa la ragione per cui proponiamo l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta, dotata dei poteri previsti dall'articolo 82 della Costituzione, sulla attuale realtà e sul funzionamento del capitalismo finanziario nel nostro Paese, nel quadro delle sue relazioni con il mercato finanziario mondiale.
Ci rendiamo conto che si tratta di un'inchiesta vasta, che richiederà grande impegno e tempi adeguati.
Ma non è la prima volta che il nostro Parlamento si pone degli obiettivi così ambiziosi. Per restare nei confini della storia del Parlamento repubblicano si può citare l'esempio della Commissione parlamentare di inchiesta sui limiti posti alla concorrenza in campo economico, che condusse i suoi lavori per ben quattro anni, tra il 1961 e il 1965, a cavallo di due legislature, la III e la IV, contribuendo in modo rilevante alla conoscenza dello sviluppo capitalistico del nostro Paese in un periodo che è poi risultato essere cruciale per la sua storia.
Abbiamo voluto scegliere la dimensione monocamerale per la Commissione parlamentare di inchiesta, istituendola presso la Camera dei deputati. Non ce ne vogliano i colleghi del Senato della Repubblica. Lo facciamo per rendere meno complessa la pratica organizzazione dei lavori della Commissione, ma non avremmo nulla in contrario se la nostra proposta di inchiesta parlamentare trovasse così tanti consensi nell'altro ramo del Parlamento da essere trasformata nell'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta bicamerale.
Riteniamo inutile appesantire questa relazione con il riassunto di quanto è contenuto nell'articolato che segue e che pensiamo essere chiaro di per sé.
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