XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 796
Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge ha
lo scopo di dare piena attuazione al principio di uguaglianza
di cui all'articolo 3 della Costituzione, alla luce del nuovo
articolo 13 del Trattato che istituisce la Comunità europea,
come modificato dal Trattato di Amsterdam, di cui alla legge
16 giugno 1998, n. 209, affrontando il problema del divieto di
discriminazione per tutte le cause indicate da entrambe le
norme. Si tratta delle differenze di sesso, di razza o origine
etnica, di religione o convinzioni personali, di opinioni
politiche, di disabilità, di età, di orientamento sessuale, di
condizioni personali o sociali.
Com'è noto il nostro ordinamento civilistico è assai
povero di strumenti di tutela in via d'urgenza dei diritti
connessi con il divieto di discriminazione. Le azioni
giudiziarie già previste sono tutte tipiche, e le relative
pretese possono essere azionate in contesti limitati. In
particolare, le azioni menzionate sono quelle previste dagli
articoli 15, 18 e 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300
(statuto dei lavoratori), dall'articolo 4 della legge 10
aprile 1991, n. 125, sulle pari opportunità nel lavoro, e ora
dall'articolo 44 del testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25
luglio 1998, n. 286, nonché dal decreto legislativo 23 maggio
2000, n. 196, in materia di consiglieri di parità e di azioni
positive. In base alle norme dello statuto dei lavoratori è
possibile agire in giudizio contro una discriminazione posta
in essere dal datore di lavoro per motivi di affiliazione
sindacale. La legge sulla parità tra uomo e donna (n. 903 del
1977) ha esteso l'esperibilità dell'azione ai casi di
"discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di
sesso". L'azione di cui al citato articolo 4 della legge n.
125 del 1991 riguarda le discriminazioni in ragione del sesso,
ma può essere esperita solo se la discriminazione si è
verificata sul lavoro. L'azione civile prevista dall'articolo
44 del citato testo unico è relativa alle discriminazioni "per
motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi". Il citato
decreto legislativo n. 196 del 2000 fa riferimento alla causa
di discriminazione prevista dalla legge n. 125 del 1991 ed, in
particolare, dalla legge per garantire l'equilibrio delle
opportunità nell'ambiente di lavoro. Come si vede la materia è
alquanto frammentata e dispersa.
L'obiettivo della proposta di legge è quello di integrare
gli strumenti normativi esistenti, dando a tutte le persone
che abbiano sofferto una discriminazione, per qualsiasi causa
e in qualsiasi contesto economico-sociale, la possibilità di
agire in giudizio in via d'urgenza per la cessazione del
comportamento discriminatorio e per la rimozione dei suoi
effetti. Si tratta dunque di allargare l'ambito della
giustiziabilità delle situazioni soggettive tutelate dal
divieto di discriminazione, con la previsione di un'azione
rapida, di natura cautelare. La generalizzazione della tutela
giudiziale ha anche lo scopo di far emergere una casistica,
con riferimento a tutte quelle situazioni che attualmente non
hanno alcun tipo di emersione giudiziaria. Ciò contribuirà
anche a far crescere una consapevolezza diffusa sull'esistenza
delle discriminazioni e sulla necessità di una efficace azione
di contrasto.
L'articolo 1 ripropone le formule dell'articolo 3 della
Costituzione, integrando l'elenco delle cause di
discriminazione con quelle previste dall'articolo 13 del
citato Trattato istitutivo della Comunità europea. Di tali
cause di discriminazione non viene tentata alcuna definizione.
Il divieto di discriminazione viene pertanto costruito come
clausola aperta all'evoluzione storica e interpretativa. La
formulazione "differenze di sesso" è stata preferita a
"differenze di genere" poiché tutte le fonti normative, anche
al livello internazionale, fanno riferimento al sesso nelle
norme specificamente dedicate al divieto di discriminazione.
L'espressione qui utilizzata consente perciò di fare
riferimento alla ricca interpretazione già consolidata. Benché
l'articolo 13 del citato Trattato istitutivo della Comunità
europea rechi la formulazione "origine razziale ed etnica", si
preferisce continuare a parlare di "razza", anche in questo
caso per il maggiore grado di consolidamento del termine e
della sua interpretazione. E' stata tuttavia aggiunta la
formulazione relativa all'"origine etnica", mutuata dal
Trattato di Amsterdam. L'indicazione dell'età, della
disabilità e dell'orientamento sessuale sono pure riprese dal
citato articolo 13.
Nel testo viene usata l'espressione "donne e uomini" per
designare in modo non neutro il complesso dei soggetti
destinatari delle norme di tutela. La formulazione va perciò
letta alla luce delle innovazioni linguistiche contenute nella
direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo
1997 recante "Azioni volte a promuovere l'attribuzione di
poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e garantire
libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini",
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 116 del 21 maggio
1997. In altri termini, anche sulla scorta di atti normativi
internazionali come lo Statuto della Corte penale
internazionale, si preferisce definire un certo collettivo,
piuttosto che con termini come "tutti i cittadini" o
consimili, con il riferimento all'appartenenza dei suoi
componenti ad uno dei due sessi. La formulazione "donne e
uomini" non è viceversa interpretabile come riferita alla sola
discriminazione in base al sesso. Il contesto della proposta
di legge è infatti chiaramente comprensivo di tutte le
discriminazioni, per qualsiasi causa. L'identità di genere
peraltro è sempre trasversale all'appartenenza ad un gruppo o
al possesso di una condizione personale che in ipotesi
potrebbero essere fattori causativi di una discriminazione. In
tale caso la discriminazione in base al sesso potrebbe
sommarsi alla discriminazione per altra causa. L'ipotesi non è
scolastica, poiché la compresenza di diverse ragioni di
discriminazione non di rado si verifica nella realtà
sociale.
L'articolo 2, oltre a vietare nel comma 1 ogni atto, patto
o comportamento discriminatori, dà la definizione di
discriminazione indiretta con una formulazione che riprende la
definizione contenuta nel comma 2 dell'articolo 4 della legge
n. 125 del 1991. Per le discriminazioni che si verificano
nell'ambito dei rapporti di lavoro è prevista una tutela
rafforzata. Infatti, mentre in generale la prova liberatoria
rispetto alla insussistenza della discriminazione può
consistere nella dimostrazione che il diverso trattamento ha
una giustificazione oggettiva, per ciò che concerne l'attività
lavorativa o di impresa occorre provare che la ragione
giustificativa riguarda un requisito essenziale allo
svolgimento della prestazione.
Il comma 3 dell'articolo 2 riguarda le azioni positive.
Fino alla data di entrata in vigore del citato decreto
legislativo n. 196 del 2000 né l'ordinamento interno né
l'ordinamento comunitario avevano fornito una vera e propria
definizione, limitandosi l'articolo 1 della legge n. 125 del
1991 a menzionare le "azioni positive per le donne" come
misure da adottare al fine di rimuovere gli ostacoli che di
fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità. Con
l'articolo 7 del decreto legislativo n. 196 del 2000 si
specifica che le azioni positive devono tendere ad assicurare
la riunione degli ostacoli che impediscono la piena
realizzazione di pari opportunità di lavoro e nel lavoro tra
uomini e donne, anche al fine di promuovere l'inserimento
delle donne. La definizione contenuta nella proposta di legge
è ancora più ampia, e si riferisce ad ogni misura volta a
eliminare tutte le disuguaglianze di fatto, non solo tra donne
e uomini. La formulazione rinvia ad ulteriori atti normativi,
o ai contratti collettivi, o ad altri atti adottati
nell'esercizio di poteri autoritativi o di sovraordinazione,
che di volta in volta dovranno indicare i destinatari delle
specifiche misure di favore, i motivi e le finalità per le
quali esse sono adottate. Si prevede espressamente che le
azioni positive non ricadono nel divieto di discriminazione;
con ciò si indica un criterio Iimitativo destinato ad operare
in sede giudiziaria, in relazione alla valutazione
sull'esistenza della discriminazione lamentata.
Il comma 4 dell'articolo 2 indica i princìpi ai quali
devono conformare la propria attività, anche mediante atti
organizzativi, le amministrazioni pubbliche anche ad
ordinamento autonomo, le regioni e le province autonome di
Trento e di Bolzano, gli enti pubblici, anche economici, gli
enti locali ed loro consorzi ed i soggetti a controllo o a
partecipazione maggioritaria pubblica, ovvero esercenti
pubblici servizi. La disposizione ripropone i princìpi
contenuti nella citata direttiva del Presidente del Consiglio
dei ministri 27 marzo 1997 e nell'articolo 57 del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in materia di pari
opportunità tra donne e uomini, specificandoli e soprattutto
ampliandone la portata in relazione a tutte le potenziali
cause di discriminazione. In particolare, la norma indica il
metodo dell'integrazione dei princìpi di non discriminazione e
pari opportunità nelle politiche generali e di settore, nel
complesso dell'attività delle pubbliche amministrazioni, e
segnatamente negli atti di programmazione ed organizzativi. La
seconda specificazione riguarda la promozione di politiche per
l'occupazione, anche attraverso misure relative ai tempi e
all'organizzazione del lavoro, volte a riconoscere e garantire
libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini. Le
pubbliche amministrazioni sono così chiamate non solo ad
assicurare che non si verifichino discriminazioni, ma anche a
svolgere un'attività di carattere promozionale, finalizzata a
creare condizioni di pari opportunità. Anche in questo caso la
formulazione "donne e uomini" designa in modo sessuato
l'universo di riferimento, senza limitare l'operatività della
norma alla sola parità uomo-donna.
Benché l'integrazione dei princìpi di non discriminazione
e pari opportunità nell'attività della pubblica
amministrazione sia ricavabile in via interpretativa
dall'articolo 3 della Costituzione, il carattere innovativo
della disposizione di cui all'articolo 2, comma 4, della
proposta di legge, consiste nella indicazione di una nozione
ampia di pari opportunità, risultante sia dall'estensione alle
differenze indicate nell'articolo 1 di concetti che sono stati
originariamente formulati in relazione alla sola differenza di
genere, sia dall'indicazione di una doppia valenza delle
politiche di pari opportunità, di garanzia contro le
discriminazioni e di promozione di iniziative positive
finalizzate alla realizzazione del principio di uguaglianza.
La valenza di questa disposizione va sottolineata soprattutto
in relazione ai problemi posti dall'evoluzione in senso
multiculturale e multietnico della nostra società.
L'articolo 3 disciplina l'azione in giudizio
(disciplinata, per quanto concerne le discriminazioni sul
lavoro dall'articolo 4 della legge n. 145 del 1991) volta a
ottenere la cessazione del comportamento pregiudizievole e la
rimozione dei suoi effetti. Si tratta di un'azione di natura
cautelare e urgente, che fa salva la possibilità di agire in
via ordinaria per il risarcimento del danno. L'azione ha
carattere residuale, nel senso che trova applicazione nei casi
in cui l'ordinamento non prevede uno strumento di tutela
tipico. L'ambito applicativo tuttavia è assai ampio, poiché
comprende tutte le discriminazioni per motivi di disabilità,
di età, di orientamento sessuale, di condizioni personali e
sociali verificatesi in qualsiasi contesto, nonché le
discriminazioni per motivi di sesso, di lingua e di opinioni
politiche verificatesi al di fuori dell'accesso o dello
svolgimento del rapporto di lavoro ovvero del
licenziamento.
Il comma 2 fissa una regola di competenza territoriale
particolarmente favorevole all'istante, in base alla quale il
giudice competente è sempre quello del luogo di domicilio
dello stesso istante. Ai sensi del comma 3, quando la domanda
è rivolta alla pronuncia di provvedimenti urgenti, si applica
la disciplina dei procedimenti cautelari di cui agli articoli
669-bis e seguenti del codice di procedura civile, con
un'importante innovazione. Poiché in relazione alle situazioni
soggettive specificamente contemplate dalla proposta di legge
la tutela cautelare può talora essere esaustiva, sulla scorta
di precedenti già esistenti nell'ordinamento la fase di merito
è qui prevista come meramente eventuale. Se infatti
l'ordinanza che definisce la fase cautelare è pronunciata
prima del giudizio di merito, il giudice provvede sulle spese
anche nel caso di accoglimento dell'istanza. In questo caso il
procedimento si esaurisce, non applicandosi l'articolo
669-octies del codice di procedura civile, che obbliga
l'istante ad iniziare la causa di merito entro un termine
perentorio. Non si applica neanche l'articolo 669-novies
del medesimo codice, nelle parti in cui disciplina la perdita
di efficacia del provvedimento cautelare in caso di mancato
inizio del procedimento di merito nel termine.
I commi 4 e 5 dell'articolo 3 riprendono l'articolo 44 del
citato testo unico sulla disciplina dell'immigrazione,
rispettivamente il comma 10 e il comma 9, ampliandone il campo
di applicazione al di là dell'ambito lavoristico. Pertanto, in
base al comma 4, se viene posto in essere un atto, patto o
comportamento discriminatorio di carattere collettivo, la
domanda per l'accertamento della discriminazione e per la sua
rimozione può essere proposta dagli enti o associazioni
rappresentativi dei diritti e degli interessi del gruppo cui
appartengono i soggetti passivi della discriminazione. Questa
norma è preordinata all'effettività della tutela
giudiziaria.
Per quanto riguarda il regime della prova, il comma 5
introduce una norma di favore per la persona vittima della
discriminazione, che al fine di dimostrare la sussistenza del
comportamento pregiudizievole può dedurre elementi di fatto,
relativi a fenomeni di carattere collettivo. Tali elementi
sono valutati dal giudice secondo il suo prudente
apprezzamento ai sensi dell'articolo 2729, primo comma, del
codice civile, che non ammette se non presunzioni gravi,
precise e concordanti. La regola comporta una certa
attenuazione dell'onere probatorio a carico dell'istante,
poiché rende più agevole, rispetto al regime ordinario, la
dimostrazione dell'esistenza della discriminazione. Infatti
l'istante potrà dedurre a sostegno della sua pretesa elementi
relativi a fenomeni collettivi, volti a documentare, ad
esempio, l'ingiustificata sottorappresentazione di un gruppo
in un certo contesto economico-sociale. La disposizione non si
spinge peraltro fino a configurare una inversione dell'onere
della prova simile a quella contenuta nell'articolo 4, comma
6, della legge n. 125 del 1991, secondo cui in tale caso il
convenuto deve provare l'insussistenza della discriminazione.
Ai sensi dell'articolo 3, comma 5, della presente proposta di
legge, sulla base di quanto peraltro già previsto
dall'articolo 44 del citato testo unico sulla disciplina
dell'immigrazione, è invece lasciata alla discrezionalità del
giudice la valutazione, da effettuare caso per caso, circa
l'idoneità degli elementi dedotti dall'istante a fondare la
presunzione dell'esistenza della discriminazione.
Ai sensi del comma 6, in caso di elusione dei
provvedimenti del giudice si applica l'articolo 388, primo
comma, del codice penale.
Qualora si dia luogo alla fase di merito, ai sensi del
comma 7 il giudice potrà liquidare, qualora ritenuto
sussistente, il danno non patrimoniale. Si tratta di una norma
innovativa che, sulla scorta dell'analoga previsione del
citato articolo 44 del testo unico, indica il comportamento
discriminatorio come fattore causativo del danno non
patrimoniale. Dunque l'accertamento in fase di cognizione
dell'esistenza della discriminazione costituisce uno dei casi
previsti dalla legge nei quali il giudice è espressamente
facultato alla liquidazione del danno non patrimoniale, anche
indipendentemente dalla condanna per reato di cui all'articolo
185 del codice penale.