RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 25

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MASSIMO D'ALEMA




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La seduta comincia alle 15.45.


(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'esame dei progetti di legge di revisione della parte seconda della Costituzione.
Informo che è in distribuzione un elenco contenente l'ipotesi di contingentamento dei tempi per la seduta odierna e per quelle successive.
Avverto altresì che, poiché entro la giornata odierna dobbiamo concludere il dibattito sulla relazione in materia di forma di Stato, presentata dal senatore D'Onofrio nella seduta precedente, e prevediamo che la seduta possa protrarsi fino alle 21.30, questa volta sarò fiscale: mi scuso di ciò e del fatto che tale severità la eserciterò in particolare con gli ultimi iscritti a parlare, perché difficilmente consentirò loro di sforare il tempo complessivo. Invito pertanto tutti a compiere uno sforzo di autoregolamentazione in modo da non obbligarmi a togliere la parola a nessuno.
Diamo inizio alla serie di interventi.

ETTORE ANTONIO ROTELLI. Non per la nonchalance stilistica della relazione e del resto che pure non si addice al lavoro di un costituente (tale è il revisore di un'intera seconda parte della Costituzione), e che ci rinnova il rammarico per l'assenza in questa Commissione bicamerale di costituzionalisti non votati ad una causa di parte. Non per la tecnica legislativa, che pure - come mi confermano dall'ufficio per la redazione tecnica dei testi normativi - avrebbe richiesto nella revisione costituzionale una sostituzione o soppressione comma per comma, se non altro per non lasciare insoluti tanti problemi (proprio quelli che si sono lasciati insoluti). Non per la proposta solo apparentemente tecnica - l'unica condivisibile della relazione - di invertire l'ordine dei titoli della parte seconda della Costituzione, cominciando ora da quello che era V, le autonomie: trattasi infatti della ricezione fedele del suggerimento avanzato da chi parla nel suo disegno di legge (atto Senato n. 2030) e di coerenza con il vigente articolo 5, onde l'autonomia attuale è principio fondamentale, mentre, per esempio, la forma di governo parlamentare non lo è. Non per la presunzione di dettare i tempi della storia (in un paese che per di più non conosce rivoluzioni, anche se il telegiornale ne annuncia una per ogni proposta di legge presentata o approvata), e di stabilire pertanto che saremmo ad un passaggio storico, quello della creazione della Repubblica federale, anzi ci troveremmo di fronte ad una Repubblica che da «centralistica e delle autonomie regionali e locali» diventerebbe «Repubblica autenticamente federale» grazie ad una esaltante performance finale del Comitato forma di Stato, il quale nelle ultime settimane, negli ultimi giorni, addirittura nelle ultime ore, fulminato sulla via di Damasco, avrebbe raffinato se stesso in senso autenticamente federalistico. Non per la licenza, che si è concesso - senza mandato - chi per il suo ruolo, relatore sulla forma di Stato, meno di


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chiunque altro avrebbe dovuto permettersi di proporre una modificazione dello stesso articolo 5 per aggiungere l'aggettivo «federale», che è precluso formalmente dalla legge istitutiva della Commissione bicamerale, come sostengo dal giorno della sua entrata in vigore, ieri infine con il conforto (per me niente affatto confortante) del Capo dello Stato, e proporlo, neanche a dirlo, come un dovere dei parlamentari, mentre è, a ben vedere, il capovolgimento di mezzo secolo di interpretazione della Costituzione: si tratta semmai di modificare la parte seconda, in coerenza del principio fondamentale immutato, nel caso l'articolo 5, e non certo modificare quest'ultimo per avere prima modificato quell'altro.
Non per la rivelazione tanto attesa dalle genti della differenza tra ordinamento federale e ordinamento regionale, che non consiste - spiega il relatore - nella quantità di poteri legislativi, amministrativi e giurisdizionali distribuiti (a questa stregua lo Stato più decentrato oggi in Europa è la Spagna, che non è federale e per giunta non è nemmeno una repubblica), ma consiste piuttosto nel modo, nel processo di ripartizione: non necessariamente Stati sovrani che stipulano il patto costitutivo della federazione, come gli Stati Uniti, bensì contrattazione dello Stato con ciascuna delle regioni, sicché ogni statuto speciale (si noti bene, ogni statuto speciale) stabilisce quali siano le funzioni che conserva lo Stato e quali quelle da cui, bontà sua, la regione si esime.
Non per la inedita singolarità di tale «nuovo patto costituzionale» (come viene chiamato), che non sarebbe più, come tutti avevamo sempre pensato che fosse, un patto fra italiani (la Costituzione della Repubblica) ma un patto fra lo Stato da un lato e le regioni e gli enti locali dall'altro lato. Patto questo singolare davvero, dal momento che, imposto da uno solo dei contraenti, lo Stato, dunque unilaterale, è per il suo contenuto fieramente respinto dalle regioni, nonché (per il modo fuorviante in cui è stato presentato) persino dai comuni, che sarebbero poi, tutti insieme, i contraenti. Non per la contraddizione rispetto a due secoli di storia costituzionale occidentale, che è nella pretesa di una Repubblica già una e indivisibile, e adesso in aggiunta federale, come se l'unità di una repubblica federale potesse essere altro che il risultato di una federazione volontaria (che ci sia stata quando ci sia stata) di Stati prima sovrani: la qual cosa - non avrei mai pensato di doverlo rilevare - non ha certo nulla a che fare con un'annessione monarchica sia pure suffragata da plebisciti (1861).
Non per la dequalificazione che in tal modo si determinerebbe dell'articolo 5, perché l'inciso (oggi è soltanto un inciso) «una e indivisibile» cesserebbe di svolgere la sua unica attuale funzione propria, di limite estremo oltre il quale non può andare quella promozione dell'autonomia locale cui invece la Repubblica è costituzionalmente impegnata senza altri vincoli e senza soste di sorta. Non per la natura scopertamente politica dell'intera operazione, su carta intestata di partito, o gruppo partitico: il tentativo di abbagliare, o abbindolare la lega con l'offerta di qualche perlina di vetro colorato: ciò che fra l'altro avrebbe dovuto offendere innanzitutto i destinatari, se non avessero ritenuto più astuto fingere di abboccare.
Non per siffatte stravaganze - diciamo così - ed altre analoghe, che non si capisce mai bene se siano d'autore o dell'intero Comitato (Comitato comunque all'oscuro fino a tre ore prima dell'epifania e, se non avessi lottato duramente, fino alla stessa epifania), non per esse avremmo ragione di dolerci: in fondo, la relazione si potrebbe cestinare facilmente se infine apparisse all'altezza, almeno sostanziale, se non stilistico-formale, il relativo articolato. Anche la definizione del titolo come ordinamento federale subito dopo aver negato la legittimità dell'aggettivo «federale» nella revisione costituzionale presente sarebbe, nonostante la recidiva, una colpa lieve e perciò perdonabile.
Le proposizioni normative invero qualche pregio recettizio lo presentano: intanto

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lo spazio ampio accordato alla pubblica amministrazione (ben 7 articoli, peraltro riconducibili a 3, in sostituzione degli articoli 97, 98 e 99), senza la cui riforma è opera vana e superflua qualsiasi revisione costituzionale. Ci si è emendati, in effetti, dall'errore originario di porre sullo stesso piano l'amministrazione attiva e le autorità indipendenti, si è dato a queste fondamento costituzionale, sia pure sbagliando ancora l'ordine: le funzioni, come ci ha ripetutamente ricordato Massimo Severo Giannini, vengono sempre prima dell'organizzazione. E fondamento si è aggiunto anche ai difensori civici, sebbene mal collocati quali strumenti di trasparenza e imparzialità, anziché di difesa del cittadino come tale. Registro soprattutto l'accoglimento pieno (le citazioni, si sa, sarebbero nelle note che qui ineluttabilmente, a sollievo del relatore, mancheranno) delle proposte fatte nel suddetto atto Senato n. 2030: il controllo di gestione interno, anche ad evitarne l'assorbimento in quello esterno rivendicato, a torto, dalla Corte dei Conti; la produttività del personale come elemento del rapporto di lavoro e della retribuzione; la verifica previa dell'impatto delle leggi sull'organizzazione amministrativa, qui chiamata erroneamente fattibilità.
Piena soddisfazione, finalmente, dall'accettazione esatta del nuovo articolo 114, quale sarebbe, per cui la Repubblica non più «si riparte» bensì da comuni, province e regioni e dallo Stato è nell'ordine costituita (e non composta o formata), come se fosse un organo collegiale. Come al relatore si è ricordato alla vigilia, la distinzione tra Repubblica e Stato (cioè fra Stato comunità e Stato apparato, tra Stato ordinamento e Stato persona) è già tutta da sempre nella Costituzione repubblicana, a cominciare dagli articoli 1 e 5; connota la Repubblica come Stato democratico; è l'architrave di tutta l'interpretazione costituzionale repubblicana« (Costantino Mortati, Istituzioni di diritto pubblico: lo cito una volta per tutte).
Purtroppo, l'entusiasmo incipiente deve arrestarsi a questo punto, anche sotto il profilo della pura affermazione di principio: manca, infatti, la definizione di regioni, province e comuni come enti autonomi (articoli 114 e 128), cioè manca la proiezione dell'autonomia delle collettività (articolo 5) su quella delle istituzioni, così private di autonomia (anche agli occhi della Corte costituzionale), tanto più che contemporaneamente emerge un'autonomia funzionale che è superflua per le università, stante la parte prima, ed è pericolosissima per gli interessi economici (meglio, allora, rifare la Camera dei fasci e delle corporazioni).
Il fatto è che questo pseudofederalismo, che non è di metodo né di risultato, e questo pseudoautonomismo, che non è della regione né dei comuni, lasciano intatti tutti i problemi che avevamo di fronte due mesi fa.
Eppure soluzioni incisive ma equilibrate erano state presentate prima in sede di Commissione bicamerale poi nel Comitato (non credo di avere il tempo per ribadirle). Tuttavia, perché domani non si dica che nulla fu proposto di alternativo, ho proceduto alla confezione di un terzo prodotto che, corredato di note articolo per articolo, presenterò appena la presidenza ci avrà comunicato la scadenza dei termini per presentare testi alternativi.
Sono convinto che basterebbero poche ore per raggiungere un vasto consenso su una proposta ragionevole e riformatrice. A condizione, naturalmente, che si pensi alla Repubblica e non alla lotta politica.

MASSIMO VILLONE. Riteniamo che il testo presentato dal collega D'Onofrio possa essere accettabile come testo base, in quanto ci sembra che il suo impianto complessivo possa essere condiviso, salvo alcune modificazioni, per la verità anche importanti, che cercherò di indicare nel mio intervento.
Il testo presentato dal collega D'Onofrio ha suscitato critiche e polemiche, forse addirittura qualche sconcerto, perché molti l'hanno considerato censurabile per la sua radicalità. Noi non pensiamo che questo sia in sé un vizio del testo, ma riteniamo anzi che vi sia bisogno di radicalità nelle nostre proposte, e non


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solo con riferimento al settore oggi alla nostra attenzione, una radicalità che si rende necessaria non per la rincorsa di chicchessia (non dobbiamo, infatti, correre dietro a nessuno né aprire trattative con alcuno), ma perché il paese ha bisogno di soluzioni caratterizzate da un'intrinseca radicalità: non si possono solo riverniciare le pareti di questo edificio nel quale tutti ci troviamo.
Naturalmente, deve essere una radicalità coerente con le esigenze di questo paese, di questo momento storico, con la consapevolezza del fatto che partiamo da una situazione di centralismo, ossia da uno Stato centrale che si apre ad una soluzione di impianto federale e non viceversa; una radicalità coerente con le tendenze di fondo e le scelte istituzionali che stiamo cercando di compiere, che guardano soprattutto a soluzioni istituzionali lineari, trasparenti, che garantiscano chiarezza nell'imputazione dei poteri e delle responsabilità. Questa radicalità deve essere coerente anche con la storia del paese, che vede una forte tradizione nel livello istituzionale del governo locale, in particolare dei comuni, e non, come in altri paesi, un forte radicamento dell'identità storica di soggetti territorialmente più vasti. È anche necessaria una coerenza con lo stato attuale del paese, che vede una notevole divaricazione strutturale tra un paese forte e un paese debole, che non può non condizionare e indirizzare le nostre scelte.
Quindi, non dobbiamo rifuggire dalla radicalità, ma compiere scelte, ancorché radicali, che siano adatte al nostro paese, anche cercando un'originalità nelle soluzioni: non dobbiamo spaventarci di questo né andare necessariamente alla ricerca di soluzioni che, pur essendo idonee altrove, potrebbero assolutamente non esserlo dal nostro punto di vista.
Quello proposto è comunque un impianto che si può accettare come testo base, con interventi anche significativi su alcuni elementi che indicherò: mi soffermerò in particolare su tre punti sui quali riteniamo che si possa procedere con un ragionamento in termini di emendamento e premetto che non parlerò del federalismo fiscale, del quale si occuperà successivamente il collega Salvati.
Si tratta di tre punti su cui tra l'altro, nella nostra valutazione, si era determinato, nel Comitato forma di Stato, un consenso ampio, che quindi ci sembra possa rappresentare un utile elemento di orientamento anche nell'attività emendativa.
Il primo di questi punti attiene alla definizione della competenza statale. Come ricordano i colleghi che hanno partecipato ai lavori del Comitato forma di Stato, abbiamo considerato a lungo un elenco di materie affidate alla competenza statale, elenco tra l'altro proposto dallo stesso collega D'Onofrio, che era significativamente più ampio di quello tradotto nella proposta e che ha segnato un punto di equilibrio sostanziale: mi sembra infatti corretto affermare che il consenso su quella impostazione fosse piuttosto vasto. In realtà, nella definizione che si rinviene nella proposta, per una parte riscontriamo etichette delle singole materie che sono suscettibili di una lettura più o meno ampia; quindi, possiamo anche dire che una parte dell'elenco più lungo che era stato predisposto in sede di Comitato si può considerare comunque presente nella formulazione più breve adottata dal relatore. Questo, però, non vale per tutto. Riteniamo che l'elenco delle materie di competenza statale debba essere significativamente integrato, non per voglia di centralismo - vorrei che questo punto fosse chiaro a tutti - quanto, piuttosto, per garantire una necessaria tutela dei diritti dei cittadini; deve insomma trattarsi di una scelta di livello nazionale che si giustifica perché rispondente all'attesa dei cittadini a comportamenti uniformi delle pubbliche amministrazioni ed anche rispetto alla propria situazione giuridica nei confronti degli apparati pubblici. È questo un aspetto sul quale siamo particolarmente sensibili; riteniamo sia assolutamente necessario salvaguardare, proprio sotto questo profilo, il carattere genuinamente nazionale e vediamo in tale profilo, più che nella tutela dei diritti fondamentali

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dei cittadini, di tutti i cittadini, a qualunque parte del paese essi appartengano, il senso dell'essere insieme, assai più che nella previsione di apparati pubblici pesanti, complessi e centralistici. Ecco perché pensiamo che nell'elencazione vadano introdotte integrazioni anche significative. A titolo d'esempio, e richiamandomi alle indicazioni contenute nella formulazione originaria dell'elenco, richiamo materie quali la scuola, la struttura, le grandi reti nazionali, l'ordine pubblico: si tratta di aspetti sui quali, per motivi diversi, riteniamo vi sia necessità di una specifica menzione nell'elenco delle competenze statali, sia pure non assumendo il tutto come attribuzione di interi settori di gestioni amministrative allo Stato. Si tratta di un dato del tutto evidente con riferimento, per esempio, alla scuola. Il fatto che vi sia un ruolo nella definizione di livelli qualitativi e quantitativi, avendo riguardo all'ordinamento scolastico generale ed agli ordinamenti didattici, non significa che l'intera gestione dell'organizzazione scolastica debba costituire oggetto di affidamento. Vorrei quindi fosse chiaro che il punto nel quale ci riferiamo alla necessità di integrare l'elenco di cui all'articolo 3, comma 1, non è ispirato ad una chiave di recupero di centralismo ma è piuttosto volto alla tutela di diritti, da assicurare in maniera omogenea a tutti i cittadini su tutto il territorio. Deve essere questo, a nostro avviso, l'asse intorno al quale definire l'integrazione, che deve sì essere significativa ma che non deve stravolgere il senso di una fortissima rivoluzione di potere legislativo attribuito alle regioni.
Va inoltre affrontato il punto di quella che, per così dire, potremmo definire fascia mobile, ossia l'aspetto delle competenze. Si tratta di una fascia intermedia di confine tra Stato e regioni, che il collega D'Onofrio ha inteso disciplinare con la proposta di statuti costituzionalizzati, contrattati tra lo Stato e le regioni. Riteniamo che in merito al meccanismo prospettato vada condotto un momento di riflessione. Certo, l'obiettivo della flessibilità può essere condiviso: è indiscutibile che esistano materie rispetto alle quali la definizione di un netto confine può determinare elementi di difficoltà, materie cioè nelle quali vi sia, naturalmente e fisiologicamente, la compresenza di un livello d'interesse nazionale e di un livello d'interesse subnazionale. Tuttavia, tale obiettivo di flessibilità va perseguito, a nostro modo di vedere, senza indebolire la complessiva scelta di conferire nettezza al riparto delle competenze, senza abbandonare un profilo di omogeneità di fondo; ciò, ancora una volta, non per esigenze di centralismo, ma perché potrebbe essere questo un elemento produttivo di conseguenze paradossali e non previste. Se non avessimo come obiettivo ultimo il fatto che a regime si vada in tempi certi, e che quindi ci sia un momento nel quale l'assetto si chiude e si definisce in modo tendenzialmente omogeneo, potremmo trovarci di fronte alla conseguenza paradossale di dover far sopravvivere tre o quattro ministeri perché una o due regioni rifiutano di esercitare questa o quella competenza. Si tratterebbe - ripeto - di una conseguenza paradossale in chiave di centralismo, oltre che di una conseguenza assai costosa e fonte di inefficienza.
A nostro modo di vedere, è evidente che, mentre dobbiamo favorire il momento della flessibilità, la crescita congiunta del nuovo impianto dello Stato, dobbiamo anche sapere che deve trattarsi di un processo a termine (non certo limitato a pochi mesi ma da svilupparsi nell'arco di un certo numero di anni) e, soprattutto, di un processo che veda una sua fine, nel senso di evitare la sopravvivenza, in termini erratici ed imprevedibili, di pezzi di Stato collegati a singole scelte che eventualmente si dovessero effettuare sul piano dell'esercizio da parte di altri soggetti, che non siano lo Stato, di questo o di quel segmento di potestà normativa.
In definitiva, la soluzione da adottare deve contemperare questa necessità, salvaguardando, nello stesso tempo, l'autonomia delle regioni; deve insomma trattarsi di una soluzione che metta insieme l'iniziativa delle stesse regioni, il fatto che

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si tratti di una fase sostanzialmente transitoria e, infine, che quest'ultima abbia un'uscita dalla quale, in un modo o nell'altro, venga garantita un'omogeneità di fondo dell'impianto. Tutto ciò si può realizzare in modo diverso; risponde ad un'esigenza reale la necessità di una partecipazione dei soggetti di autonomia e credo sia ovvia anche la necessità di un coordinamento con il Comitato Parlamento e fonti normative. Riteniamo che la soluzione prospettata dal relatore presenti il rischio di un'eccessiva rigidità, nonché le caratteristiche di una risposta che potrebbe diventare definitiva senza soddisfare le esigenze che ho richiamato; in questo senso, riteniamo possa accettarsi, tra l'altro nella stessa logica della proposta del relatore, qualche modifica, sulla quale stiamo lavorando.
Un terzo punto che ci vede in parziale dissenso rispetto alla proposta del relatore è relativo agli enti locali. Riteniamo, in particolare, che questo punto debba essere messo a fuoco con maggiore decisione, in particolare per quanto riguarda i comuni. Chiediamo che venga introdotta la chiara previsione di una garanzia costituzionale diretta e specifica per l'ente locale, segnatamente per il comune, che non sia rimessa quindi ad una sede di contrattazione, così come in effetti configurato dalla proposta del relatore. Abbiamo sempre detto, fin dal primo momento, che crediamo in un federalismo non fondato soltanto sul pilastro rappresentato dalle regioni ma ad un federalismo «a due gambe», che veda da un lato un forte istituto regionale e, dall'altro, un altrettanto forte insieme di soggetti di autonomia locale. Ciò perché, più che su concetti, sistemi o principi astratti, il federalismo è un vestito che si attaglia sul modo di essere di un paese ed è nella nostra storia che nel governo locale vi sia una forza che, a nostro modo di vedere, non possiamo dimenticare nel momento in cui andiamo a ridefinire il sistema costituzionale. Il riferimento agli enti locali, pertanto, deve a nostro avviso essere rivisto, con una definizione specifica di garanzie per l'ente locale, in particolare per i comuni, e con una particolare attenzione sotto il profilo dei poteri ordinamentali.
Consentiamo invece su alcuni punti, anche radicali, dell'impianto proposto dal relatore. Consentiamo quindi ad un riparto rigoroso delle competenze che a nostro avviso risponde meglio alla necessità di un sistema in cui sia è chiara l'imputazione di poteri e di responsabilità, la tendenza di fondo del nostro sistema che meglio si attaglia alla divaricazione tra nord e sud che lo caratterizza.
Consentiamo alla previsione in Costituzione di un principio di sussidiarietà riferito all'azione amministrativa, per cui appunto l'amministrazione deve spostarsi il più in basso possibile verso i cittadini, alla porta di casa.
Consentiamo ancora alla previsione di un'autonomia completa delle regioni quanto alla propria organizzazione, sulla forma di governo e sul sistema elettorale, nonché alla previsione ampia di autonomia statutaria e regolamentare per gli enti locali.
In sintesi, l'impianto ci sembra accettabile come testo base, con innovazioni anche significative che però non ci sembrano in contrasto con la filosofia di fondo.

ADRIANA PASQUALI. Mi sia permesso questo interrogativo, del tutto aperto e non mascherato: fino a che punto il relatore di un singolo comitato è dominus e fino a che punto è giusto che operi le sue scelte autonome presentandole apertamente come tali in plenaria, anziché essere il grande mediatore delle proposte dei gruppi o anche dei singoli commissari?
Il Comitato forma di Stato si è espresso in prevalenza - ed io credevo che la prevalenza fosse un concetto risolutivo e non un optional - in modo che io giudico difforme dall'articolato del relatore D'Onofrio. Il quadro complessivo che è uscito dalle proposte del Comitato, a parte quelle più esasperate che si ponevano peraltro anche come minoritarie, era di un federalismo che corrispondesse all'esigenza, sentita a tutti i livelli, a che


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fosse demolito lo statalismo nelle sue accentuazioni negative (insostenibile sovraccarico fiscale, eccesso di produzione legislativa che non ha eguali nel mondo, schiacciante ed incombente elefantiasi burocratica, assistenzialismo nelle sue degenerazioni attuative).
Le nostre proposte sono state tutte - dico tutte - tese all'abbattimento del centralismo ed all'accettazione di un modello di federalismo che è quello che risponde alle necessità di ridisegnare l'assetto costituzionale in modo da allinearlo non solo alle suddette esigenze ma anche alla nuova realtà, in una dimensione europea. Ma con un limite: perché nella scelta tra un federalismo necessario ed un federalismo estremo, bisognava pure tener conto della nostra storia, della nostra specificità (la differenziazione tra le varie realtà regionali) della circostanza, non ultima, che l'Italia non può divenire una federazione di Stati perché lo vieta l'articolo 5 della nostra Carta costituzionale, lo vietano quelle belle e meravigliose parole che sono «una ed indivisibile».
La stessa aggettivazione «federale» mal si concilia con i due aggettivi cardine della nostra Costituzione. Ritengo che ci si sia troppo innamorati di modelli stranieri che non hanno sempre dato buona prova. Da ultimo, ci si è innamorati del modello della Catalogna, e non solo per le soluzioni in materia di gradualità.
Ebbene, l'autonomia catalana concessa nel 1978 dopo la caduta del franchismo anziché risolvere una volta per sempre un annoso problema, che aveva peraltro giustificazioni storiche, sociali e linguistiche, ha aperto la strada a nuove rivendicazioni. Quell'autonomia, pure larghissima, oggi va stretta e si prospettano rivendicazioni nel senso che la Catalogna divenga un vero Stato federale, prodromo al distacco dalla Spagna.
Con l'ipotesi di federalismo forte che esce dall'articolato D'Onofrio noi in pratica creiamo già una specie di federazione di Stati, posto che allo Stato resta una potestà legislativa troppo limitata e che i commi 3 e 4 dell'articolo 3 aprono la strada a pericolosissime istanze regionali, tese a mettere sempre più in posizione subalterna lo Stato.
Non è questo che nasce necessariamente dal principio della sussidiarietà che tutti abbiamo riconosciuto. Al contrario, si apre la strada ad un neocentralismo regionale molto più incombente e soffocante di quanto sia oggi il centralismo statale. Il testo base del relatore D'Onofrio elenca 11 competenze in capo allo Stato, cioè ben 15 in meno di quelle della sua originaria proposta.
Non voglio porre qui a confronto questa soluzione minimale con le proposte di noi commissari, che in senso ampliamente maggioritario abbiamo optato per un elenco lungo e compiuto. Se ne sarebbe dovuto tener conto ma non voglio tornare sulla polemica, di cui tra l'altro mi dispiaccio perché avevamo creduto sinceramente nel clima di collaborazione che si era creato nel Comitato e perché va dato atto comunque al relatore D'Onofrio di aver svolto un rilevantissimo e certo non facile lavoro, sia pure in una parziale autonomia decisionale.
Semmai voglio ricordare quali sono i limiti della potestà legislativa della Catalogna, tanto per tornare a quel modello, rispetto a quella che sarebbe l'estensione enorme della potestà legislativa regionale in Italia. La Catalogna avrà anche una polizia autonoma destinata a sostituire la Guardia civìl, estrinsecazioni dell'autonomia quali la tutela dello sviluppo del diritto catalano e quant'altro caratterizza la specificità di questa forte autonomia; ma in compenso essa legifera in materie ben circoscritte e limitate, mentre con solo 11 competenze in capo allo Stato, le competenze residuali delle regioni italiane risulteranno più ampie che in qualsiasi Repubblica federale, senza avere le stesse giustificazioni storiche per un assetto costituzionale di questo tipo.
Del breve elenco D'Onofrio di cui al comma 1 dell'articolo 3 mi sembra si possa osservare che non sarebbe stato grave lasciare alle regioni anche la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, mentre era - anzi è - fondamentale mantenere in capo allo Stato l'ordinamento generale

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dell'istruzione, gli standard di qualità e di quantità dell'istruzione, quelli relativi alle finalità ed ai principi ed ai livelli minimi di istruzione scolastica e dei relativi ordini, gradi e titoli di studio, l'ordinamento universitario, così come al punto 1.17 della proposta che lo stesso relatore D'Onofrio ha presentato nella seduta del Comitato del 13 marzo 1997.
La cultura è un valore unitario dello Stato, pur nel rispetto delle identità di chi ha alle spalle tradizioni specifiche. Ma ci dovrà pur essere un minimo comun denominatore che vale per l'intera nazione per quanto attiene ai programmi ed agli standard minimi: lo stesso può dirsi per le competenze sui beni culturali.
È sparito dall'articolato l'ordine pubblico, sostituito dalla sicurezza personale. Ma c'è equivalenza tra i due concetti? L'ordine pubblico è implicitamente affidato alle regioni anche per l'aspetto organizzativo e del personale? Ci saranno le polizie regionali? E la lotta antimafia ed anticamorra saranno regionali? Ed il commercio estero lo si affida alle singole regioni, costituendo le stesse come soggetti di politica internazionale sia nei riguardi dell'Unione europea che dei vari Stati?
Una delle scarne competenze dello Stato è la difesa. Mi sembrerebbe necessario aggiungere: «forze armate». Idem per la moneta: è sufficiente questa parola a comprendere, sintetizzare ed assorbire tutto? Ed il sistema valutario e bancario? Si potrebbe continuare: la realtà è che un elenco eccessivamente limitato, con sottrazione di competenze che non possono che essere proprie dello Stato e per giunta usando in ordine a quelle poche competenze termini riduttivi e non facilmente estensibili crea un modello di federalismo confliggente con i principi intoccabili della prima parte della Costituzione.
A me sembra che per attuare il federalismo non debba essere preoccupazione prioritaria dare la massima estensione delle competenze legislative ed amministrative alle regioni, qualcuna delle quali non sarà «voluta» da una singola regione, il che non cambia il problema di fondo, quanto che sia applicato in modo compiuto ed effettivo il principio della sussidiarietà.
Il presidente D'Alema si è riferito ad un federalismo che non farà perno in modo esclusivo sulle istituzioni regionali, ma che comporterà un decentramento di poteri e di responsabilità a diversi livelli, di funzioni legislative verso le regioni, di poteri e di responsabilità amministrative forti innanzitutto verso i comuni e le città.
È stato detto anche che il modello deve essere coerente con la storia e l'evoluzione del paese, con il radicamento effettivo delle identità territoriali. Ora, la nostra storia non giustifica affatto un federalismo forte; a mio parere, non lo giustificherebbe in un'attuazione così traumatica neppure l'evoluzione stessa del paese, perché dobbiamo considerare l'evoluzione complessiva e soprattutto quella che è naturale e fisiologica. Una cosa è l'evoluzione, altra sono le spinte politiche condizionanti e ricattatorie.
In sostanza, auspico che non si fornisca a chi manifesta, o nutre con più abile mascheramento, propositi secessionistici, il grimaldello per realizzare i suoi fini. La realizzazione di certi traguardi non viene ostacolata con il rincorrere la lega sul suo stesso terreno; quella lega che ancora una volta ci ha risposto con uno schiaffo. E non viene ostacolata in genere da una politica di cedimento al ricatto, ma al contrario potrebbe trovare difficoltà insuperabili in una Costituzione che sappia rinnovarsi in modo forte ma non estremo, e fornisca le risposte necessarie senza spingersi pericolosamente oltre.
Un'ultima osservazione: sparisce la figura del prefetto. Questa figura malvista, forse da sempre, sulla quale anche il grande Einaudi nel passato si è espresso negativamente. A me sembra che ora il prefetto, o il commissario di Governo, si presenti come un organo di raccordo necessario tra lo Stato e gli enti locali, sia pure con funzioni, competenze e soprattutto poteri notevolmente modificati.
Concludendo, mi appare necessario lavorare seriamente ad emendare l'articolato D'Onofrio, pur senza affossarlo e

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senza dimenticare mai che ciò che è troppo radicale, ciò che è estremo nella direzione centrifuga può portare pericolosamente in sé il germe della disgregazione. Grazie.

FAUSTO MARCHETTI. Signor presidente, nella relazione del 14 maggio lei ha evidenziato l'esigenza di uno Stato più vicino ai cittadini, con un forte decentramento di poteri in senso federalista, dal centro alla periferia, e con un rafforzamento del ruolo delle regioni e delle città. Quindi, con un superamento radicale del modello centralistico.
Ha auspicato un modello di impronta federalistica originale che sia allo stesso tempo solidale e competitivo, con una precisazione: competitivo nel senso di una chiara attribuzione di responsabilità ai diversi livelli istituzionali e con una sottolineatura, quella di un notevole accrescimento, che dovrebbe derivare dal processo riformatore, dei poteri legislativi delle regioni nel quadro di un accrescimento dei poteri amministrativi e delle responsabilità dei comuni.
Per la potestà legislativa ha affermato che si va nella direzione di una ipotesi fondata sul rovesciamento dell'articolo 117 della Costituzione, prevedendo l'enumerazione delle materie di competenza dello Stato centrale - in un passaggio della relazione stessa si sostiene che non potranno essere pochissime - e l'attribuzione alle regioni di una potestà legislativa generale; in tal modo superando ogni legislazione concorrente (leggi statali di principio e leggi organiche) o limiti posti dalla legislazione statale, rimanendo solo i limiti posti dalla revisione della seconda parte della Costituzione.
Rispetto a queste considerazioni presenti nella relazione del nostro presidente, la proposta D'Onofrio rappresenta uno strappo inatteso, una vera provocazione rispetto alla quale non potevano mancare le reazioni di quanti, pur volendo realizzare una profonda riforma della forma di Stato, non intendono minare le basi della Repubblica «una e indivisibile».
Le regioni, nella proposta D'Onofrio, vengono disegnate quali staterelli ad indipendenza graduata da statuti, sui quali si aprirebbe una serie di contrattazioni al rialzo al termine delle quali si avrebbe un vestito d'Arlecchino, inidoneo a produrre risultati complessivi più avanzati per l'intero paese. È anzi certo che ne risulterebbe, assieme ad una ulteriore inefficienza, una serie di spaccature in ogni direzione: tutte regioni speciali con uno Stato a competenza variabile rispetto a ciascun territorio regionale. Alcuni esempi delle possibili conseguenze di questo meccanismo sono stati citati poc'anzi dal collega Villone.
Si tratta dunque dell'esatto opposto di quanto prospettato nella sua relazione, signor presidente, in cui si escludeva che vi possa essere una asimmetria nelle regole, anche se ha prospettato una asimmetria nei tempi nei quali ciascuna regione potrà essere in grado di esercitare direttamente determinati poteri.
Devo dire che anche sulla asimmetria nei tempi qualche dubbio può sorgere; comunque, qualora fosse ritenuta necessaria occorrerà fissare limiti precisi, come ha fatto poc'anzi il collega Villone.
Rispetto alla proposta D'Onofrio, occorrerebbe rivedere l'impianto complessivo; a nostro avviso, essa non può essere assunta quale testo base, tant'è che proporremo un testo alternativo. Comunque voglio indicare alcuni elementi - oltre a quelli di fondo da me citati - la cui mancanza ci preoccupa, nel senso che determinate materie dovrebbero essere attribuite alle regioni, sia pur con la contrattazione cui ho fatto riferimento.
Mi riferisco alla materia scolastica ed universitaria ed alla giurisdizione in generale, dato che solo quella superiore spetterebbe allo Stato. In proposito, in sede di discussione del sistema di garanzie si potrà prevedere ed esaminare qualche aspetto per il quale anche il sistema delle autonomie possa giocare un ruolo nell'ambito della giurisdizione ad integrazione della competenza complessiva statale in materia. È evidente che la formulazione prospettata da D'Onofrio va oltre i limiti


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della possibile attribuzione di funzioni a regioni ed enti locali, in questo settore.
Inoltre, intendo riferirmi al sistema di elezione, in particolare alle elezioni regionali, ai casi di ineleggibilità e di incompatibilità dei consiglieri regionali, alla legge elettorale regionale, che debbono essere stabiliti con legge della Repubblica.
Se il Governo della Repubblica ritiene che una legge approvata da un consiglio regionale ecceda la competenza o contrasti con gli interessi nazionali o con quelli di altre regioni, dovrà avere la possibilità di promuovere la questione di legittimità costituzionale innanzi alla Corte costituzionale o quella di merito, per contrasto di interesse, davanti al Parlamento; allo stesso modo nel quale regioni ed enti locali potranno accedere alla Corte a tutela delle proprie attribuzioni.
Siamo sostenitori decisi dell'autonomia comunale che è - lo accennava già il collega Villone - ampiamente sottovalutata nella proposta presentata, un'autonomia la quale deve essere garantita costituzionalmente, anche sotto il profilo finanziario e tributario. Sull'ordinamento degli enti locali non può mancare una disciplina generale di livello nazionale proprio a tutela dell'autonomia costitutiva di tali enti. Il loro ordinamento non può essere affidato alle regioni, quasi ad avere comuni del tutto diversi l'uno dall'altro a seconda della regione di appartenenza. Nell'ambito di una legislazione nazionale a maglie larghe relativa agli ordinamenti degli enti locali vi deve essere la più ampia autonomia dei comuni garantita attraverso gli statuti nelle forme più opportune. Anche su questo mi pare che il collega Villone abbia richiamato l'attenzione della Commissione.
L'esaltazione dell'autonomia degli enti locali e delle regioni può avvenire nel quadro della salvaguardia dei valori fondamentali. Dovrà essere previsto pertanto, ad esempio, che nell'esercizio delle funzioni di valore sociale la regione garantisca a ciascun cittadino le prestazioni previste dalle leggi della Repubblica. Ricordo che anche nella relazione del presidente si è affermato che è da approfondire la questione del rapporto tra poteri legislativi dello Stato e poteri legislativi delle regioni in tutte le materie definibili come oggetto della politica sociale.
Per quanto riguarda la costituzionalizzazione delle autonomie funzionali (autorità amministrative indipendenti, difensore civico) dovremo tornare, anche in sede di discussione, sulle proposte del relatore del Comitato per le garanzie, ma comunque vorrei osservare che gli istituti richiamati assumono le più diverse configurazioni mentre in Costituzione dovrebbero trovare garanzie istituti od enti precisamente individuati. Lo stesso difensore civico, la cui presenza può essere utilmente estesa dalla legislazione ordinaria, ha assunto, anche alla luce della seconda legge Bassanini, compiti tradizionalmente attribuiti ai comitati di controllo e viene quindi connotato in un modo ora veramente indefinibile, quindi non si sa bene a quale tipo di difensore civico si faccia riferimento. Su questo punto credo che alcune considerazioni del collega Rotelli debbano essere prese in seria considerazione.
Altri punti della proposta D'Onofrio suscitano più ampie riserve. Se la approvassimo, si potrebbe accedere ai pubblici uffici senza concorso. Ciò rappresenta una grande rivoluzione. I pubblici uffici vengono organizzati con regolamenti: va bene, però non sulla base di principi stabiliti con legge ma soltanto sulla base di quei tre principi molto larghi che verrebbero stabiliti nella Costituzione! Credo che il ricorso al regolamento possa essere incentivato nella misura in cui vi siano principi stabiliti con legge ben più cogenti di quelli generali enunciati nel testo presentato dal collega D'Onofrio.
È indubbiamente giusto perseguire l'obiettivo della produttività delle prestazioni del personale anche della pubblica amministrazione, ma è veramente improponibile la formulazione prospettata che sembra minacciare con norma costituzionale riduzioni delle retribuzioni e licenziamenti, mentre viene cancellato il principio dell'accesso all'impiego attraverso pubblico concorso.

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Ugualmente da respingere è la possibilità di stabilire con legge limitazioni per magistrati, militari di carriera e in servizio attivo, funzionari e agenti di polizia, rappresentanti diplomatici e consolari all'estero non soltanto per l'iscrizione a partiti politici, come già previsto nell'articolo 98 della Costituzione, ma anche per l'iscrizione alle organizzazioni collaterali ai partiti politici. Una norma di questo tipo ha uno scopo preciso - a meno che non si voglia sostenere che sia stato un lapsus calami, ma non credo - di normalizzazione, rappresenta un segnale ai magistrati che vanno educati ad un modello di vita ritirato, taciturno, impenetrabile. Le loro associazioni, se si approvasse una norma di questo tipo, potrebbero essere considerate - come alcuni già dicono - collaterali a qualche partito politico. Trovo negativamente significativo che anche nella proposta per la forma di Stato si tenti di contenere la partecipazione alla vita democratica dei magistrati, dei militari e degli appartenenti alla polizia, un mondo che dovrebbe tornare ad essere muto, sottratto al rapporto con la società con la quale deve invece, a mio avviso, essere costantemente collegato.

ENRICO BOSELLI. Do un giudizio un po' diverso da quello di altri colleghi sulla proposta avanzata dal professor D'Onofrio. Mi scuso in anticipo perché forse ripeterò cose già discusse in Comitato, del quale però non ho fatto parte.
Ho l'impressione che il punto di partenza dell'ipotesi D'Onofrio sia sostanzialmente giusto. Piuttosto mi pare che siano assenti uno o due punti fondamentali e poi che ci sia una polemica, una preoccupazione da parte di molti gruppi e colleghi che nasce da alcune dichiarazioni ad effetto che nella bozza D'Onofrio sono state rese e che, in realtà, hanno creato qualche incertezza.
Parto dal punto giusto. D'Onofrio dice: «Entriamo nel capitolo federalista elevando il ruolo di tutte le regioni italiane al livello oggi valido soltanto per le cinque regioni a statuto speciale, formate nel corso di questi quarant'anni di vita repubblicana». Ciò significa sostanzialmente rendere impermeabili da parte dei poteri centrali (Parlamento e Governo) le competenze delle singole regioni. Questa è la differenza di fondo fra le quindici ordinarie e le cinque speciali: sulle prime il Parlamento nazionale ed il Governo possono in ogni momento intervenire con atti legislativi, mentre sulle seconde questo in teoria non dovrebbe accadere. Dico «in teoria» perché se si va a vedere il contenzioso davanti all'Alta Corte delle cinque regioni a statuto speciale e quello delle quindici a statuto ordinario, si scopre che è identico, cioè devastante, enorme.
Poi vi sono due punti fondamentali che fanno la distinzione tra le regioni a statuto speciale e quelle ordinarie: mi riferisco alla compartecipazione al prelievo fiscale dello Stato che, come si sa, è graduato dalla Sicilia fino al Friuli (si va dai quattro decimi ai dieci decimi) e all'autonomia nella determinazione del modello elettorale. Anche qui le cinque regioni a statuto speciale hanno un potere diverso: solo la Sicilia è in grado di ordinare il sistema degli enti locali, mentre le altre quattro si limitano ad avere il potere di ordinare propri organi istituzionali o costituzionali, consigli e giunte. Ritengo questo un punto di partenza giusto del collega D'Onofrio; ma vorrei sottolineare alcuni limiti.
Non è vero che costituzionalizzare gli statuti consenta di mettere le regioni al riparo da un potere invasivo del Parlamento nazionale e del Governo centrale. È accaduto negli ultimi quindici - o almeno negli ultimi dieci - anni che il Parlamento nazionale abbia lasciato invariata la percentuale di compartecipazione fiscale (cioè il denaro) ed abbia accresciuto indebitamente le competenze delle cinque regioni ad autonomia speciale: ciò ha provocato - diciamo - il collasso di molte di esse.
La proposta di D'Onofrio, poi, non chiarisce in maniera netta il tipo di impegno finanziario. Mi pare di aver capito che - oltre alle tasse di origine locale e regionale - si tratta del modello


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della compartecipazione al tributo erariale. Bisognerà però stabilire con quale percentuale e chi individuerà tale quota di compartecipazione ai tributi erariali. Anche perché, lo ripeto, oggi fra le cinque regioni ad autonomia speciale si registra una differenza in questa percentuale (che, quando nacque la nostra Repubblica, venne stabilita come una procedura simile a quella indicata da D'Onofrio).
Accanto al fondo di perequazione si pone il problema del fondo di solidarietà. È un tema giusto. Ricordavo al collega Salvati - che credo interverrà su questo punto - che anche nella Repubblica federale tedesca vi sono soltanto quattro lander con un saldo attivo. Esattamente come in Italia: le cose non sono poi così diverse. Soltanto quattro Stati, o lander, hanno un saldo attivo nel fondo di solidarietà, perché anche lì la situazione - fra nord, sud, est ed ovest - è abbastanza complessa.
Nella proposta di D'Onofrio vedo alcuni limiti di omissione. Ho già ricordato il primo: non mi pare chiaro il meccanismo di alimentazione finanziaria, nel senso che se si tratta di compartecipazione al prelievo fiscale dello Stato occorre determinare in quale percentuale e chi siano i titolari del potere di stabilire questa quota.
Il secondo problema riguarda il nodo del bicameralismo. Mi rendo conto che la nostra Commissione affronterà il tema del Parlamento successivamente, ma senza dubbio lo schema proposto da D'Onofrio si regge su un ruolo del Parlamento organizzato diversamente rispetto ad oggi. Come è noto, i paesi che hanno un sistema federale o comunque vicino al federalismo hanno differenziato in maniera assolutamente esplicita (per non arrivare al già citato caso della Germania federale in cui la Camera delle regioni è diretta emanazione dei governi regionali, non è eletta su base regionale).
Per quanto concerne le procedure, si è fatto riferimento al modello catalano e spagnolo. Capisco le difficoltà ed anche le perplessità; sinceramente non penso che questa proposta sia un modo per fare il verso alla lega. Diciamocelo chiaramente: siamo in arretrato di almeno dieci anni; l'Italia è l'unico paese con un modello assolutamente arretrato di decentramento, di regionalismo, di complesso delle istituzioni. Quindi, non stiamo facendo il verso a Bossi: stiamo semplicemente cercando di fare il verso all'Europa, perché questo è il modello con cui dobbiamo confrontarci.
Avventurandoci in un sistema come quello indicato da D'Onofrio, ho qualche perplessità sulla procedura che egli ci propone. Penso che l'esperienza spagnola (mi perdonerete se anch'io richiamo i modelli adottati in altri Stati europei) sia probabilmente quella alla quale è opportuno guardare con più attenzione. Ritengo, in altre parole, che possa essere presa in considerazione l'idea di aprire un confronto serio, un dialogo - non userei il termine trattativa - fra il Governo centrale, il Parlamento nazionale e le singole regioni. Questo significa fare il federalismo-regionalismo a due velocità? Però mi pare anche un problema di realismo. Davvero pensiamo che venti regioni nella situazione italiana (non parlo di nord o di sud, ma delle dimensioni territoriali) siano tutte in grado di amministrare aree così rilevanti di competenze attualmente governate a livello centrale? Davvero, per esempio, riteniamo che la politica per la piccola e media industria - oggi realizzata dal Parlamento e dal Governo nazionali - possa essere affidata alle competenze di tutte le venti regioni italiane, anche di quelle che hanno 5-6-700 mila abitanti?
Più che stabilire un periodo entro il quale tutte le regioni dovrebbero giungere al punto di arrivo, si potrebbe a mio avviso prevedere - come è accaduto in Spagna - un confronto, un dialogo, una trattativa fra il Governo centrale, il Parlamento nazionale e le singole regioni per individuare i poteri che possono essere effettivamente ed efficacemente esercitati da ciascuna regione.
In sostanza, o si modifica il numero delle regioni - come qualcuno autorevolmente ha proposto (ma la cosa mi pare

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difficile) - oppure bisognerà tenere conto della differenza e della diversità, adottando un modello flessibile di decentramento dei poteri dal Governo centrale alle regioni.
Concludo sull'ultimo punto, che riguarda regioni, comuni e province. In proposito ho un'opinione diversa da quella del collega Villone. Si parla tanto di Spagna: chi ha frequentato la Catalogna sa che uno dei punti di principale contrasto riguarda il rapporto non fra il governo locale e governo statale, ma fra la comunità catalana e la municipalità di Barcellona. È questa la complessità che ci regala un'Europa così articolata. Non penso che per il nostro federalismo dobbiamo avere in mente un unico pilastro, cioè le venti regioni. L'Italia ha una storia: ed anche la storia del processo unitario nasce al di fuori dello schema semplice delle regioni. Penso, però, che occorra essere realistici: o in questo processo federalista-regionalista si individua un punto di riferimento vero e chiaro oppure si rischia di creare un grande stato di confusione. Il Parlamento nazionale ed il Governo centrale devono scegliere un interlocutore chiaro e netto (le regioni lo sono, sono ben individuate, possono anche essere considerate adeguate dal punto di vista della dimensione quantitativa e numerica): se così non sarà, la confusione su questo punto rischia a mio parere di far tornare indietro il processo, piuttosto che farlo progredire. In proposito, a differenza di quanto ha detto l'amico e collega Villone, penso che dovrebbe esservi uno sforzo maggiore da parte della nostra Commissione per individuare nel livello regionale il punto di riferimento principale.

GIANCLAUDIO BRESSA. Credo si possa dire, per quanto riguarda il nostro gruppo, che concordiamo con il dato politico di fondo della proposta del senatore D'Onofrio, che è stato particolarmente esplicito soprattutto nella sua relazione: si tratta di una scelta del federalismo come fatto politico oltre che come fatto costituzionale; una scelta chiara, netta e precisa (per questo noi l'approviamo con convinzione).
Allo stesso modo, siamo convinti che siano condivisibili la formulazione usata dal relatore («nuovo patto di unità nazionale») e la sottolineatura di come la natura dell'intesa finisca con il determinarne il procedimento. Concordiamo, inoltre, con una valutazione frutto della grande onestà intellettuale del relatore: la sua è una delle proposte possibili purché si accetti l'ipotesi federale. Questa, dunque, non sarebbe l'unica ipotesi sul tappeto.
Con queste premesse, riteniamo che il testo proposto possa essere utilmente adottato come testo base. Per parte nostra, accediamo alla logica di presentare ad esso emendamenti.
Vengo al merito della proposta e del testo, cominciando naturalmente dal primo articolo. Condividiamo la scelta precisa compiuta laddove si dice che la Repubblica è costituita dai comuni, dalle provincie, dalle regioni e dallo Stato. In questa dizione sono contenute due proposte molto forti delle quali siamo convinti: innanzitutto il riconoscimento che nel federalismo italiano esistono tre poteri che devono essere ugualmente forti (lo Stato, le regioni ed i comuni), ed è questa probabilmente la particolarità del federalismo italiano più evidente e cospicua. Vi è poi un'altra affermazione molto forte che, pur condividendo l'osservazione del senatore Rotelli, credo vada ribadita in questa seconda parte della Costituzione. Il relatore, per fugare eventuali dubbi, ha chiarito che in questo articolo si fa riferimento non allo Stato-comunità, ma allo Stato-ordinamento; ebbene, con il riconoscimento che si mette mano allo Stato-ordinamento si rafforzano in qualche modo anche l'alterità e la superiorità dello Stato-comunità come luogo dell'unità nazionale che non deve e non può essere messo in discussione. Vi è una sorta di riconoscimento dell'inevitabilità di interessi nazionali superiori e comuni che, anche quando si mette mano allo Stato-ordinamento, debbono essere salvaguardati.


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Se questo è vero, credo non possa restare implicito, ma deve esserci un richiamo esplicito all'interesse nazionale come ad un diritto di cittadinanza nazionale proprio perché, nel momento in cui si fa riferimento all'inevitabilità di porre mano allo Stato-ordinamento, questo principio deve essere ribadito. E poco importa se vogliamo seguire il modello tedesco e parlare di equivalenti condizioni di vita, o ispirarci al modello spagnolo e al principio di armonizzazione di quella Costituzione; quello che importa è che appaia evidente l'indicazione di un interesse nazionale che equivalga a definire i nuovi diritti di cittadinanza comuni, direi quasi diritti di cittadinanza sociale comuni, che pongono e portano con sé la definizione di livelli equivalenti comuni per alcuni diritti fondamentali dello Stato nazionale, quali quelli che riguardano l'istruzione, la sanità, la previdenza.
Questo non significa che queste funzioni debbano appartenere allo Stato, ma che si debbano garantire dei diritti di cittadinanza comuni. Proprio per questo credo che debba scattare il legame esplicito con la prima parte della Costituzione, perché l'identità nazionale risiede nei principi, cioè nella cultura della democrazia, e non già nei suoi assetti istituzionali, anche se è evidentemente molto chiaro che è il buon funzionamento dello Stato a consentire il radicamento dello spirito nazionale.
Credo vadano condivisi anche il richiamo esplicito al principio di sussidiarietà e la garanzia accordata alle autonomie funzionali. Riterrei però utile una specificazione, nel senso che il principio di sussidiarietà venga inteso anche in senso orizzontale in una formulazione più rotonda, nella quale la distribuzione delle funzioni e dei compiti, che non possono più utilmente essere svolti dall'autonomia dei privati, venga articolata fra Stato, regioni e comunità locali secondo il principio della sussidiarietà ed anche della differenziazione nel rispetto delle autonomie funzionali. Credo vadano anche ribaditi gli importantissimi criteri dell'omogeneità e adeguatezza delle strutture organizzative alle funzioni ed ai compiti attribuiti.
Ritengo utile essere meno laconici quando si parla di sussidiarietà per evitare alcune interpretazioni di tale criterio che potrebbe non essere accettato da tutti o addirittura ribaltato: si potrebbe cioè ritenere che alle comunità più vicine ai cittadini vanno solo i poteri residuali.
L'altra importante questione che va chiarita è che la proposta D'Onofrio non garantisce pienezza di autonomia ai comuni, su questo si sono soffermati anche i senatori Villone e Marchetti. Credo che i poteri ordinamentali ai comuni debbano essere garantiti dalla Costituzione, lasciare tutto allo statuto crea problemi di non poco conto in una realtà come quella italiana in cui la dimensione delle comunità locali è peculiare e molto significativa. Le competenze amministrative e regolamentari nel testo presentato vengono annunciate in via troppo generale e sono poi determinate dagli statuti regionali senza che vi sia una precisa garanzia da questo punto di vista.
Un altro problema che deve essere affrontato sempre in questo articolo è quello della dimensione comunale. Nel momento in cui si afferma un'attribuzione generale di competenze amministrative ai comuni - che noi condividiamo - dobbiamo porci il problema se i cosiddetti «comuni-polvere» possano esercitarla pienamente o se non sia il caso di riprendere il principio di differenziazione per cui solo i comuni di una certa dimensione possono essere titolari della pienezza delle loro attribuzioni, mentre per gli altri questa dovrebbe essere subordinata al loro esercizio in forma associata. Di questo abbiamo lungamente discusso in comitato e rimando al testo che abbiamo presentato in quell'occasione per chiarire quanto ho detto.
Il secondo articolo è accoglibile nella sua interezza. Si tratta di valutare se la soglia di due milioni che viene posta per la creazione di nuove regioni sia accettabile, ma questo ci serve soprattutto per valutare se la dimensione regionale sia un

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problema reale oppure sia una sorta di mito che ci è arrivato addosso nella discussione. Su questo rimando a cose che ho già detto, ma vorrei che la Commissione nel suo complesso riflettesse ancora.
Veniamo infine all'articolo 3, quella che potrebbe essere considerata la norma fondamentale della proposta D'Onofrio, rispetto alla quale il relatore con grande onestà intellettuale ha ammesso che potrebbero esserci almeno altre due soluzioni equivalenti, ferma restando la scelta non rinunciabile della opzione federalista, come lui l'ha chiamata.
Cercherò di spiegare perché riteniamo sia preferibile una soluzione diversa, pur dentro questa logica, partendo da una chiarificazione che credo sia necessaria. La proposta è passata come una sorta di visione italiana del modello spagnolo ma, a ben guardare, non è esattamente così: nella Costituzione spagnola del 1978 vi è stata una notevole decostituzionalizzazione di alcuni degli elementi che potrebbero essere considerati come essenziali per una struttura territoriale dello Stato. In essa, infatti, vi è una chiara delega al legislatore delle principali responsabilità dell'istituzionalizzazione in via definitiva dell'assetto dello Stato spagnolo. Lo schema costituzionale spagnolo è uno schema aperto nel quale la flessibilità è la nota dominante; vi è un equilibrio tra due principi, da un lato quello dispositivo per cui vi è una grande possibilità per le singole regioni di attingere a quello che viene chiamato «il piatto dei formaggi» per prendere le cose che sono pronte per essere realizzate dalla regioni (non dobbiamo però dimenticare che nel 1978 in Spagna non esistevano le regioni, eccezion fatta per le tre comunità storiche: i Paesi baschi, la Galizia, la Catalogna). L'altro principio è quello di unità, che demanda alla cosiddetta legge di armonizzazione la definizione di cosa sia interesse generale e di come il Parlamento possa intervenire al riguardo. In questa tensione tra principio dispositivo e principio di unità sono gli statuti - e non la Costituzione - a determinare la concreta portata dell'autonomia regionale. Stiamo attenti anche a non confondere un fatto fondamentale: nella Costituzione spagnola gli statuti hanno un livello di protezione costituzionale cosiddetto secondario, che impedisce la Parlamento di modificarli, ma non sono approvati con legge costituzionale. Credo che in proposito vada svolta un'osservazione importante anche per il nostro lavoro: se in questa fase, in cui si ammette che nel periodo iniziale il potere ed il protagonismo sono a carico dell'ambito territoriale locale, mettendo in ballo una dimensione nazionale, in questo caso parlamentare, per l'approvazione di quegli statuti, rischiamo di svuotare completamente l'autonoma iniziativa territoriale. Prestiamo attenzione perché questo è vero non solo per la Spagna, ma rischia di essere terribilmente vero anche nel nostro caso.
Vi è quindi necessità di grande flessibilità che dall'introduzione degli statuti cosiddetti costituzionali viene in qualche modo negata perché, attraverso questa scelta, si pone una rigidità forte alla nostra Costituzione, anche per quanto riguarda il fondamentale potere di revisione costituzionale.
Una volta che lo statuto regionale avrà definito l'ambito delle competenze, che è - non dobbiamo dimenticarlo mai - anche l'ambito delle competenze statali con riferimento ad un certo territorio e ad una determinata popolazione, questo non potrà essere modificato se non attraverso una successiva negoziazione tra le parti, cioè neppure con legge costituzionale; si tratta di un elemento di rigidità per una Costituzione e per i poteri di revisione costituzionale che ritengo difficile da accettare così come viene presentato.
Un'altra considerazione molto importante riguarda il fatto che, nella proposta avanzata, vi è un massimo di opportunità di federalismo, ma nessuna garanzia di federalismo, neppure rispetto ad un nucleo minimo di funzioni, così come, invece, si potrebbe desumere dall'elenco delle materie e delle competenze nazionali; un elenco che, d'altra parte, il

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senatore D'Onofrio aveva puntualmente presentato nel corso dei lavori del Comitato.
Se non dimentichiamo l'esempio spagnolo in cui alla fine l'ultima parola può essere in capo al Parlamento, stiamo attenti perché questo sistema rischia di svuotare l'iniziativa regionale dalle fondamenta. Credo che lo statuto debba essere approvato dalle assemblee regionali: l'autonomia statuaria deve essere da questo punto di vista piena prerogativa delle assemblee regionali.
Un'altra questione che si potrebbe sollevare rispetto alla proposta presentata è che, come già alcuni colleghi hanno fatto notare, si rischia un risultato «a macchia di leopardo» (cioè, si avrebbero venti situazioni diverse sul territorio nazionale), che avrebbe per di più delle controindicazioni funzionali: si pensi, ad esempio, rispetto alla riallocazione delle funzioni amministrative, in qualche modo sottovalutata, che, se non fosse uguale in tutto il territorio nazionale, potrebbe dare esito a funzioni amministrative residuali in capo allo Stato ed addirittura al mantenimento di alcuni ministeri, che potrebbero occuparsi solo di queste funzioni per alcune regioni.
Al di là di questa controindicazione funzionale, vi è una controindicazione politica, che credo debba essere presa in considerazione: l'esasperazione dualistica di dar luogo a venti trattative tra venti regioni e lo Stato è sicuramente un modello originale, ma rischia di essere molto pericoloso. Lasciare una negoziazione di questa portata ai contatti plurimi tra lo Stato ed ogni singola regione significa il caos delle soluzioni istituzionali ma, sul piano politico, rischia la frantumazione irreversibile del paese. Facciamo un esempio non tanto banale: se il Veneto chiede 100 ed il Parlamento gli concede 10, cosa può accadere? Se moltiplichiamo quest'ipotesi per le venti trattative che le venti regioni certamente faranno con lo Stato, ci rendiamo conto che il rischio non è più e non è tanto quello della secessione di una parte del paese, ma è quello della frantumazione del paese, che sarebbe molto peggiore e molto più grave della secessione.
Come anche la pagliacciata di ieri ci fa immaginare (anche se non vanno sottovalutati i problemi ed i disagi all'origine di quella protesta) Ieri, per effetto dell'immaginazione creativa di un giornalista, hanno votato a favore della secessione Pellico, Maroncelli e Caterina Corner, ma non è questo il problema; il problema è più profondamente politico: poiché non esistono storicamente (e la Padania storicamente non è mai esistita e non esiste neppure oggi), non debbono esistere nemmeno politicamente motivi che minaccino l'unità nazionale del paese.
La crisi del nord, la crisi del Mezzogiorno richiedono poteri veri ed una grande autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria, ma nessuna pretesa di autodeterminazione. Il federalismo è lo strumento politico per rendere l'Italia più forte in Europa, per rispondere al fallimento dello Stato centralistico e per migliorare la qualità della vita e della democrazia nel nostro paese, non per spaccare il paese e per renderlo insignificante rispetto alla costruzione dell'Europa unita.
Non dobbiamo dimenticare gli esempi anche recenti e troppe volte ricordati a sproposito; il tanto conclamato modello catalano (che non esiste, perché è un modello spagnolo che definisce la posizione della Catalogna) fa riferimento al diritto all'autonomia delle nazionalità e delle regioni (articolo 2 della Costituzione spagnola), ma questo riferimento all'autonomia ed alle nazionalità ha un valore simbolico, non immediatamente giuridico. Non è perché qualcuno si dichiara nazione anziché regione che ha maggiori poteri rispetto agli altri. Storicamente, nel corso di questi anni, la Catalogna ed i Paesi baschi hanno fatto pesare politicamente il loro potere contrattuale perché contavano nel Parlamento nazionale spagnolo e per questo hanno portato a casa più poteri; tant'è vero che l'altra regione storica, la Galizia, non avendo questo potere contrattuale, è rimasta su livelli molto inferiori di autonomia. Quindi, non

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confondiamo i piani, soprattutto non confondiamo il piano costituzionale con quello politico.
Tuttavia, non ci si può nascondere che in Spagna, proprio perché vi è questo maggior potere di contrattazione politica nelle regioni storiche, l'omogeneizzazione del federalismo non solo non è mai avvenuta, ma mai avverrà. Guardate cosa sta succedendo adesso in sede di discussione della riforma del Senado, che è bloccata perché i catalani non intendono ragioni su questo. La maggioranza dell'80 per cento delle Cortes è favorevole ad una modifica del Senado ma i catalani, esercitando del tutto legittimamente il loro potere e non volendo che le altre comunidades spagnole acquisiscano il loro stessi poteri, stanno bloccando la riforma del Senado. Stiamo attenti a non ripetere, per moda o per semplificazioni, modelli che sono rischiosi.
Una contrattazione regione per regione, statuto per statuto certamente garantisce l'aspetto contrattualistico e processuale del federalismo, ma è debole e pericolosa per i motivi che ho esposto fino ad ora. Faccio un esempio per capirci meglio: nel momento in cui la contrattazione dovesse avvenire in questo modo, è evidente che il potere contrattuale della Lombardia sarebbe enormemente maggiore di quello del Molise ma, se non vogliamo fare sempre contrapposizioni nord-sud, possiamo dire che il potere del Veneto sarà maggiore di quello del Friuli in questo livello contrattualistico e ciò rischia di spaccare non solo istituzionalmente, ma politicamente il paese. Stiamo attenti perché quello che stiamo maneggiando è nitroglicerina, non possiamo agitarla troppo, altrimenti vi è il rischio che esploda! È preferibile, invece, che il sistema delle autonomie, che non consiste solo nelle regioni, ma anche nelle città e nelle comunità locali, tratti complessivamente le ragioni dell'autonomia e possa decidere insieme allo Stato per quanto riguarda il futuro delle autonomie stesse e del federalismo nel nostro paese.
Qui arriviamo alla questione, che affronteremo in altro momento, della seconda Camera, della sua rappresentanza, dei suoi poteri, della sua forma. Credo sia ancora un problema aperto che non deve essere ideologizzato ma deve essere affrontato seriamente perché, se la seconda Camera deve essere una Camera di garanzia, deve esserlo prima di tutto del processo federale, del federalismo.
Molto correttamente nella sua relazione di sintesi il presidente D'Alema aveva posto il problema di come non tutti possano partire allo stesso modo e alla stessa velocità e quindi di una sorta di differenziazione del processo di attribuzione di competenze. Mi pare che si tratti di un problema molto serio, tuttavia nella proposta avanzata dal senatore D'Onofrio, nonostante la sua relazione dica una cosa diversa, la differenziazione che egli ci propone rischia di essere permanente, perché viene cristallizzata negli statuti costituzionali; invece, abbiamo bisogno di tempi diversi, ma di un orizzonte comune.
Ho citato prima l'esempio della Spagna ed il potere di interdizione della Catalogna e dei Paesi baschi; da noi alla fine del processo tutte le regioni devono essere uguali, devono essere tutte speciali, su questo concordo pienamente con l'ipotesi del collega D'Onofrio, ma con un'unica differenziazione riconducibile agli aspetti di specialità etnico-linguistica oppure, visto che adesso va di moda la Spagna, con riferimento a tale paese per le specificità di collocazione geografica di alcune parti di esso. Allora tutto questo è giusto che sia contenuto in una norma transitoria e non in una disposizione definitiva. Per concludere su questo punto specifico - e comunque ho quasi terminato il mio intervento - credo sia più utile per il lavoro della Commissione ritornare alla proposta avanzata dal relatore D'Onofrio in sede di Comitato, e cioè all'elenco delle materie statali e su questo ragionare su come organizzare il modello federale.
Passo ora ad illustrare alcune considerazioni sull'articolo 4, contenente l'argomento fondamentale del federalismo fiscale. Come ricordava il senatore D'Onofrio, viene ripresa quasi integralmente la proposta dell'onorevole Tremonti. Per

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quanto ci riguarda abbiamo preferito, in qualche modo, all'ipotesi presentata da quest'ultimo quella avanzata dall'onorevole Salvati, anche se nella proposta all'esame sono contenute rivoluzioni molto importanti. Ne cito una per tutte: la rivoluzione del demanio, prevista dal sesto comma, in base al quale tutti i beni demaniali appartengono ai comuni nel cui territorio sono ubicati, con l'eccezione degli usi e degli utilizzi per le funzioni sovraordinate a quelle comunali. Si tratta - ripeto - di una rivoluzione molto importante, che condivido in pieno.
Perché preferiamo l'ipotesi ed il modello avanzato dall'onorevole Salvati? Perché essa contiene una proposta più organica e strutturata per quanto riguarda una delle questioni fondamentali, che è quella della perequazione e dello sviluppo. In una realtà in cui vi è una insufficiente base imponibile per le aree meno ricche, rispetto a quelle più ricche - ricordiamoci che tale insufficiente base concerne 16 regioni su 20 e che essa impedisce l'esercizio pieno delle funzioni - diventa necessario integrare le risorse locali: ciò può essere fatto solo attraverso la perequazione e la solidarietà interregionale. La proposta dell'onorevole Salvati, con la previsione di un fondo perequativo in cui l'ammontare è definito in misura non superiore a quanto necessario per compensare le regioni della loro diversa capacità fiscale rispetto alla media pro capite nazionale, ci pare più convincente dell'ipotesi prospettata dal relatore.
L'ultima questione che affronto riguarda la pubblica amministrazione, della quale invece, semplificando e apportando qualche modifica di secondaria importanza, viene accettato ed accolto con molto favore il testo proposto. Si condivide l'impostazione che sostituisce i due articoli 97 e 98 della Costituzione, prevedendo norme di carattere generale sulla pubblica amministrazione, valide - ed è questa la grande novità che noi condividiamo - per tutti i livelli di governo. In conclusione, quindi, il testo ha dimostrato grande coraggio politico e culturale ed esso va considerato opportunamente base per la discussione. Poiché tuttavia ciò era nelle premesse del relatore, e quella da lui presentata non è l'unica delle possibili soluzioni federaliste per il nostro paese, ci riserviamo di presentare emendamenti a tale testo che consentano di strutturare le questioni che in via generale ho illustrato.

NATALE D'AMICO. Desidero innanzitutto precisare, poiché il mio è l'unico intervento a nome del gruppo di rinnovamento italiano e del senatore Ossicini del gruppo misto del Senato, che partecipa ai lavori del Comitato forma di Stato, che quanto dirò è per intero condiviso dal collega senatore Ossicini e da me.
Anche noi apprezziamo la sincera intenzione del relatore nell'avanzare la sua proposta di federalismo, peraltro coraggiosa, e ne condividiamo l'ispirazione di fondo, ma precisiamo subito che nella realizzazione concreta di questa intenzione notiamo alcune ambiguità ed elementi di preoccupazione.
La proposta si presenta, come dire, programmaticamente incompiuta, nel senso che tale incompiutezza viene giustificata con l'argomento della necessità di un patto federale, ritenuto requisito essenziale per il passaggio alla nuova organizzazione territoriale. Il patto federale si realizzerebbe con l'approvazione dei singoli statuti regionali con singole leggi costituzionali.
A me pare che l'argomento del patto federale sia pericoloso: se per patto federale si intende una svolta nell'organizzazione territoriale dello Stato ed un salto di qualità rispetto al regionalismo, allora va bene, ma se si vuole sottolineare una cesura nella continuità costituzionale, in vista di una sorta di nuovo inizio, che avrebbe per protagoniste le regioni, quasi come titolari di sovranità, le obiezioni sono assolute. Tra l'altro, che il relatore si renda conto di questo pericolo pare dimostrato dal fatto che alla fine il nuovo patto costituzionale finirebbe per scomporsi in 20 piccoli patti locali fra singola regione e Stato centrale, in modo che ne venga fortemente attenuata la carica dirompente. Il problema tuttavia rimane,


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poiché esso non è solo un problema di principio, ma è anche legato alle procedure.
Come è stato ricordato da alcuni colleghi, bisogna chiedersi cosa succederebbe se anche una sola delle regioni non raggiungesse l'accordo con lo Stato, se cioè il patto non si concludesse, visto che di patto stiamo parlando: allora forse la secessione è nelle cose. Si potrebbe sostenere, al contrario, che la regione, la quali rinunci a concludere il patto, resterebbe quell'ente di decentramento statale che oggi è, ma allora questo richiamo forte ad un nuovo patto di unità nazionale rischierebbe di essere puramente retorico.
In verità, a me pare che D'Onofrio abbia generosamente tentato di giustificare il passaggio al sistema federale, partendo da un presupposto che egli esplicita nella sua relazione, e cioè che il vero federalismo nei fatti è quello statunitense, mentre quello per disaggregazione sarebbe una forma puramente spuria, fittizia di federalismo. Questo renderebbe necessario un atto simbolico, una finzione che surroghi la mancanza di un reale trasferimento di sovranità da parte degli Stati che si federano. In realtà, a noi bastano i numerosi esempi storici di federalismo per disaggregazione, quali quelli dell'Austria, del Belgio, del Canada, dell'Argentina e del Brasile. Quindi, a nostro avviso, la costruzione di uno Stato federale su percorsi diversi, sarebbe impossibile. Allora, alludere a questi patti fondativi rappresenterebbe forse solo un elemento di pericolo nella nostra discussione e, d'altra parte, in proposito sarei piuttosto netto. Se veramente non si crede che il federalismo possa nascere da un'esperienza unitaria, è inutile cercare di riprodurne le condizioni in modo fittizio.
Come è stato ricordato anche in questo dibattito, liberata quest'aula di solennità, la soluzione dell'autonomia differenziata ha un preciso referente nel diritto comparato, cioè la Spagna. Ricordiamo innanzitutto, anche se mi sembrava implicito nelle argomentazioni del collega Bressa, che la Spagna non è considerato uno Stato federale, bensì regionale, il che mi pare indichi con chiarezza la sproporzione tra proclamazione federalistica ed esiti in termini concreti.
Se la Spagna è il nostro modello, occorre confrontarsi con quell'esperienza. Ricordiamo peraltro che non vi sono altri paesi che hanno adottato tale tecnica: se quello è il modello prescelto - ripeto - allora bisogna confrontarsi con esso.
Senza entrare nei dettagli, bisogna altresì ricordare che quella che gli spagnoli chiamano la soluzione del «vassoio dei formaggi», da cui ogni comunità attinge le proprie competenze, è il frutto di una situazione in larga parte storico-istituzionale irriproducibile. Da noi non esiste la radicale diversificazione tra regione fortemente nazionalistiche e regioni senza alcuna esperienza di autonomia. In nessuna regione italiana esistono partiti nazionalistici maggioritari, né lingue regionali egemoni. Inoltre il regionalismo spagnolo è vissuto sul ruolo del tutto particolare del Tribunale costituzionale, che non sarebbe così facile da riprodurre nel nostro paese. In Italia poi le regioni a statuto speciale non costituiscono - diciamocelo pure - un bel precedente, visto che di fatto sono costrette ad inseguire le autonomie delle regioni a statuto ordinario.
Vi è un'altra ragione per la quale il modello spagnolo non può essere, secondo noi, auspicato: è l'estrema complicatezza dell'articolazione delle competenze. Ogni comunità autonoma ha le sue competenze, che virtualmente non coincidono con quelle di nessun altra comunità autonoma.
Come è stato sottolineato, può capitare che il Parlamento nazionale legiferi, perché una sola comunità autonoma non ha competenza sulle materie oggetto del processo legislativo; a me pare che questa sia una strada per complicarci la vita.
Noi abbiamo presentato una proposta seriamente federalista, ma in definitiva dobbiamo porci la domanda per quale motivo siamo federalisti: per semplificare questo Stato centrale, per avvicinare le decisioni ai cittadini e non per creare un'architettura ancora più complessa e

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forse anche più burocratizzata di quella di cui disponiamo oggi.
Inoltre, il problema più serio di tutti, forse, è che il modello spagnolo, come quello proposto dal nostro relatore, è caratterizzato dall'imprevedibilità degli sviluppi, rischia di accrescere le divisioni piuttosto che attenuarle. Ogni regione, infatti, è costretta a giocare per sé, con la prospettiva di non incontrare limiti alle proprie pretese. È stato rilevato di recente da uno studioso spagnolo che in un sistema siffatto i partiti nazionalisti si vedono obbligati per definizione ad una lotta costante con il potere centrale, reclamando per la loro comunità un livello di competenza e di risorse ogni volta più alto. In questa ragione, conclude lo studioso Encinar, nel non aver stabilito una volta per tutte un limite chiaro a queste rivendicazioni, risiede la maggiore debolezza del modello spagnolo di decentramento; né mi pare che il limite minimo possa essere costituito (ci tornerò più avanti) dalle materie citate nell'articolato dal nostro relatore.
Questa è la maggiore preoccupazione che suscita la proposta D'Onofrio: essa rappresenterebbe la vera vittoria della lega, perché le garantirebbe inesauribili spazi politici, inesauribili poteri di interdizione e di ricatto. L'idea che il federalismo italiano si sviluppi a geometria variabile è infatti doppiamente pericolosa, perché risponde inevitabilmente alla logica di uno Stato debole con i forti e forte con i deboli. Il meccanismo proposto dal relatore, cioè l'approvazione dello statuto con legge costituzionale, si presta ottimamente a tale scopo: solo con chi non ha capacità di pressione lo Stato potrà rifiutarne l'approvazione, costringendo lo regione ad un negoziato di compromesso. Dietro l'idea suggestiva secondo cui l'autonomia dovrebbe essere data a ciascuno secondo i suoi bisogni, si cela la realtà probabile di venti braccia di ferro per la cessione di competenza, con la verosimile prospettiva che alla maggiore e virtualmente enorme autonomia delle regioni ricche del nord faccia da contraltare un federalismo di serie B per le regioni che non hanno la forza contrattuale della Lombardia o del nord-est, le quali dovranno accontentarsi di un decentramento ancora funzionale allo Stato centralistico e burocratico.
Questa idea della meridionalizzazione dello Stato centrale, secondo un modello che ha storicamente nuociuto al sud, che farebbe dello Stato una sorta di Cassa per il Mezzogiorno, dalla quale solo chi può si chiamerebbe fuori, non mi pare proprio un gran servizio alle ragioni dell'unità e alla lotta per evitare la secessione, senza considerare che, come molti ricorderanno, quella che forse è l'unica vittoria concreta dello spirito leghista è stata ottenuta proprio sul terreno dell'abolizione della Cassa per il Mezzogiorno. Non sarebbe difficile per tendenza del tipo di quelle leghiste reclamare l'abolizione di uno Stato centrale ridotto ad una sorta di supercassa per il Mezzogiorno.
Per quanto riguarda poi alcuni aspetti particolari del progetto che ci ha presentato il relatore, vorrei fare osservare che le competenze dello Stato (ovviamente è tutto chiaro in Commissione, a differenza dal modo in cui è stata presentata la proposta sui media) non sono le poche che vengono indicate nell'articolo 3 della bozza: ad esse vanno aggiunte quelle che allo Stato conserveranno i singoli statuti regionali. Poiché però l'assetto finale risulta imprevedibile, non ci si può non preoccupare dell'assenza di alcune materie da quell'elenco costituzionale, materie che si trovano in ogni Costituzione federale. Ne ricordo alcune, ma sono davvero numerose: attività creditizie e finanziarie sovraregionali, misure anticongiunturali, espatrio, immigrazione, emigrazione, protezione civile (almeno per quanto riguarda l'interesse nazionale), diritto della concorrenza (ci è stata ricordata dai rappresentanti delle categorie economiche che abbiamo ascoltato in Commissione la richiesta che venga previsto un diritto dell'impresa e della concorrenza di carattere nazionale), le fonti di energia di interesse nazionale. Ci pare preoccupante anche il fatto che venga esclusa qualunque competenza in materia di istruzione (inferiore,

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media, superiore): per esempio, l'autonomia nell'istruzione superiore deve essere probabilmente delle università, e non delle regioni.
La seconda questione specifica riguarda la tecnica di riparto delle competenze e più in generale il modello federale prescelto; malgrado il richiamo un po' rituale al principio di leale collaborazione, il imodello in realtà sembra costruito sullo schema del federalismo duale: ad ogni ente le sue competenze, che verranno stabilite dallo statuto (ciò che vale per le materie vale anche per le finanze). A noi continua a sembrare un modello del tutto obsoleto nel panorama comparatistico, dove viceversa si osserva il fiorire di meccanismi di collaborazione e cooperazione. Ma queste ultime non possono essere lasciate alla naturale e spontanea iniziativa degli enti coinvolti e, se non specifichiamo la leale collaborazione in istituti e procedure, essa resterà un'idea romantica. Bisogna invece prevedere raccordi organizzativi e procedimenti che consentano tale collaborazione, garantendo effettivamente i vari soggetti coinvolti. Per questo vanno previsti istituti di coordinamento verticale Stato-regioni e orizzontale fra regioni: di tutto ciò non v'è traccia nella bozza del nostro relatore, con la possibilità ancora una volta che venga lasciato tutto agli assetti darwiniani dei singoli rapporti di forza.
Lo stesso discorso vale per la sussidiarietà, che è un principio accattivante ma anche pericoloso perché per sua natura ambiguo. la sussidiarietà è un'arma a doppio taglio, perché può servire a decentrare ma può anche giustificare l'accentramento ove si ritenga che una certa funzione non possa essere adeguatamente svolta ai livelli più bassi. Ciascuna decisione deve essere presa al livello più basso compatibile con la sua natura: ma allora bisogna decidere qual è questo livello. Chi è però che decide qual è il livello di competenza adeguato, nello schema che abbiamo in mente? Chi ha la competenza sulla competenza? Su questo bisogna dire qualcosa, o per lo meno bisogna prevedere procedure che consentano di rispondere a questa domanda.
A me pare che tutte queste obiezioni si esaltino rispetto all'articolo sulla fiscalità. Chi decide quali sono i tributi locali e come si coordinano, onde evitare la doppia imposizione? Qual è il principio che stiamo adottando: chi prima arriva sul cespite ha il diritto di tassazione e la regola dell'esclusione della doppia imposizione lo difende? Qual è il criterio che stiamo adottando? Chi decide, per esempio, se le imposte sulla casa sono locali, comunali, provinciali, regionali o statali? Abbiamo in mente un luogo nel quale si decide ciò? Questo non ci è chiaro. E come si risolvono gli eventuali conflitti? Come funziona in concreto il meccanismo della perequazione regionale e nazionale?
Una sola cosa vorrei fare osservare sulla questione della pubblica amministrazione: siamo un po' stupiti dalla norma sul rapporto di impiego. Abbiamo due possibili alternative: una è quella verso la quale questo paese sembrava orientato, cioè la tendenziale privatizzazione del rapporto di impiego. Se capisco, la strada che sceglie il relatore è esattamente quella radicalmente opposta, perché nella sua proposta si ipotizza addirittura di costituzionalizzare un elemento della retribuzione dei dipendenti pubblici, legandolo ai risultati ed alla produttività. Si può essere o meno d'accordo su forme di remunerazione anche dei dipendenti pubblici legate alla produttività, ma a me sembra che sia l'ipotesi radicalmente contraria a quella che questo paese sembrava aver scelto, cioè la sostanziale, o almeno tendenziale, privatizzazione del rapporto di impiego. Non dirò altro sulla pubblica amministrazione, che pure meriterebbe un discorso più ampio (lo faremo eventualmente in sede di esame degli emendamenti).
In conclusione, l'intenzione di imboccare la strada di un federalismo serio è assolutamente condivisibile: a noi pare che il problema della bozza alla nostra attenzione sia che essa non ci garantisce che a tale risultato si giunga effettivamente e, al contrario, renda probabile (o

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almeno possibile) il rischio di un federalismo asimmetrico (di serie A e di serie B). Rispetto ad esso lo Stato, lungi dall'alleggerirsi, finirebbe per conservare tutto il proprio peso burocratico, ma solo a danno di alcune regioni. Siamo troppo consapevoli del dissesto della nostra pubblica amministrazione per non capire quale abbraccio mortale finirebbe per legare Stato centralista e regioni meno avanzate: è invece necessario, a nostro avviso, che questa classe politica si assuma fino in fondo e seriamente le proprie responsabilità, facendo una proposta, che sia anche molto coraggiosa ma per un modello coerente ed unico. Ciò che si può prevedere - in questo D'Onofrio ha assolutamente ragione - è eventualmente un arco di tempo entro il quale le singole regioni possano adeguarsi gradualmente al nuovo assetto: due, tre, sei anni, come avevamo proposto. Ci deve essere però, al termine di questo periodo, un punto di arrivo uguale per tutti. Rinnovamento italiano ha fatto una delle proposte più avanzate in materia, per cui non può essere accusato di tiepidezza, ma una cosa è il federalismo, anche spinto, ed altra cosa il regionalismo a geometrie variabili: il primo ha comunque la funzione di unire ed evitare lacerazioni successive, il secondo - temo - costituisce l'anticamera della secessione.
Noi dunque apprezziamo il lavoro svolto dal relatore e le sue intenzioni; riteniamo tuttavia che il testo proposto dal senatore D'Onofrio meriti un'attenta e vasta riconsiderazione. In particolare, crediamo che occorrerà mantenere flessibilità nella velocità con la quale le singole regioni potranno appropriarsi delle nuove competenze e dei nuovi poteri. Ma occorre che questa Commissione si faccia carico di disegnare con chiarezza il quadro finale, che non potrà che vedere una distribuzione di poteri e competenze fra Stato centrale e regioni uniforme su tutto il territorio nazionale.
Occorrerà inoltre che quella leale collaborazione, citata nell'articolato dal senatore D'Onofrio, tra Stato, regioni ed enti locali venga chiarita, individuando sedi istituzionali e procedure che la possano rendere effettiva.

AGAZIO LOIERO. Signor presidente, signori deputati e senatori, a nome della mia formazione politica ringrazio il senatore Francesco D'Onofrio per l'ottimo contributo che ha dato ai nostri lavori. La sua relazione ha posto con forza la questione della nuova forma di Stato che deve assumere la Repubblica: uno Stato federale che superi la visione, ormai in crisi, del puro decentramento amministrativo per tornare all'autonomismo di Sturzo e di Cattaneo, per il quale si batterono invano all'Assemblea costituente i democristiani di De Gasperi e i militanti del partito d'azione.
Oggi non si tratta soltanto di liberarsi dal peso dell'accentramento burocratico e amministrativo, ma di dare voce e strumenti all'autogoverno locale, partendo dai comuni e risalendo via via alle province e alle regioni; rafforzando le autonomie vogliamo rafforzare l'unità e l'indivisibilità del paese.
Il senatore D'Onofrio ci ha ricordato che il nostro compito è reso più difficile da una circostanza del tutto particolare: non ci troviamo di fronte ad un insieme di Stati che confluiscono in una federazione, com'è avvenuto con la nascita della democrazia americana e della gran parte degli Stati federali. Se avessimo la temerarietà di seguire il modello americano, in condizioni storiche, geoeconomiche e culturali così diverse, faremmo nascere un mostriciattolo di staterelli che non avrebbero alcun peso in Europa e che si troverebbero presto in conflitto tra loro. Ritengo indispensabile la difesa del principio che i nuovi vastissimi poteri dei comuni, delle province e delle regioni vengano fissati e derivino dalla Costituzione. Non si può immaginare che la regione Liguria decida di volersi occupare della scuola e - in ipotesi - la Puglia no; la libertà della scuola, il suo carattere pluralistico devono essere garantiti per tutta l'Italia, né si può immaginare che lo Stato possa disinteressarsi del tutto della ricerca scientifica e della tutela del patrimonio


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artistico e culturale, che appartiene all'intera nazione.
I cittadini devono sapere quali sono i loro poteri, i poteri dei loro comuni, delle loro province e delle loro regioni. Si deve archiviare lo statalismo che invade e opprime e corrompe le coscienze, ma si deve scongiurare il rischio che esso si riproduca localmente secondo gli umori di opportunità e di utilità politica di una maggioranza. Non dobbiamo perdere di vista, parlando della forma di Stato, l'insieme dei problemi che hanno indotto il Parlamento a lavorare per far nascere un nuovo ordine costituzionale.
Sono lieto, signor presidente, che lei abbia accolto l'invito del Polo a discutere globalmente i progetti di riforma; eviteremo così, tra l'altro, di dare l'impressione che discutiamo di tanti problemi che abbiamo di fronte accelerando o frenando a seconda che elementi esterni ci spingano in una direzione o in un'altra, sicché diamo l'impressione di voler anticipare, come Commissione, la discussione sul federalismo perché una squadraccia ha occupato il campanile di San Marco o perché la lega ha organizzato la farsa del suo referendum, o che ci occupiamo di giustizia condizionati dalla sortita di un pubblico ministero nervoso o che ipotizziamo una certa forma di governo solo per favorire uno schieramento sull'altro.
Le nostre idee di riforma nascono dalla convinzione che una democrazia che non si coniuga con il liberalismo può fare dello Stato, ma anche di una regione o di un comune, uno strumento di oppressione. Tutto il senso del pensiero liberaldemocratico poggia sull'idea che vi è un arco di valori, di beni, di diritti che non sono nella disponibilità di una maggioranza e che essi sono garantiti da una Costituzione, beni che devono essere ugualmente garantiti a Milano come a Catanzaro. Questo insieme di valori costruisce la cornice di una civiltà: a quelli più antichi, come la vita, la dignità della persona, la libertà di studiare, il lavoro, la tutela dell'infanzia e della salute, se ne aggiungono oggi altri venuti prepotentemente alla ribalta sotto la spinta delle disuguaglianze sociali e territoriali e del progresso scientifico e tecnologico: penso alla solidarietà verso le zone e i ceti più deboli e ai confini superati i quali l'ingegneria genetica può partorire mostri.
D'altra parte, signor presidente, alcune scelte di fondo collimanti in maniera simmetrica con la linea tracciata la scorsa settimana dal senatore D'Onofrio sono rinvenibili nella nascita della nostra formazione politica: in un documento del 30 dicembre 1993, coloro che stavano per dar vita al centro cristiano democratico, che sarebbe nato di lì a pochi giorni, indicavano nell'ispirazione cristiana, nella scelta liberista e solidarista, nell'accettazione della sfida federalista, nel completamento presidenzialista della riforma elettorale uninominale e maggioritaria nata dal referendum dell'aprile 1993 la base politica e programmatica del nostro nascente impegno istituzionale. L'ispirazione cristiana, dunque, rappresentava e rappresenta il filo solidissimo di continuità tra l'impegno politico dei cattolici vissuto nell'esperienza storica della democrazia cristiana e l'impegno politico posto all'origine del nuovo partito che di lì a qualche giorno sarebbe nato.
La relazione del senatore D'Onofrio, dunque, non parte dall'anno zero, non piomba improvvisa sui nostri lavori come fosse un asteroide impazzito, ma è il frutto di un lungo e paziente lavoro, di un'osservazione attenta della realtà che ci circonda. Ma noi dobbiamo avere chiaro, dopo questa relazione, dove vogliamo approdare: se vogliamo, con il federalismo, esaltare l'autonomismo e rinsaldare, anche attraverso la solidarietà, l'unità della nazione, o se magari confusamente, sotto la spinta di movimenti comunque minoritari e irrazionali, diamo corpo ad una serie di staterelli che, invece di ampliare gli spazi di libertà dei cittadini, finiscono per restringerli con altri divieti ed altra burocrazia.
Credo che anche per questo il senatore D'Onofrio abbia fatto bene, nella sua relazione, ad insistere sul ruolo primario e decisivo dei comuni nel processo di autonomia. Anche sulla giustizia - lo dico

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per incidens
- dobbiamo scegliere: o ripristiniamo, dov'è necessario, la civiltà giuridica propria di uno Stato di diritto, oppure è meglio lasciar perdere, poiché interventi pasticciati e contraddittori servirebbero solo a complicare le cose (ma di questo parleremo domani).
Signor presidente, mi consenta di aggiungere infine qualche parola sulla forma di governo, che è fortemente intrecciata a quella di Stato. Noi sosteniamo le ragioni del semipresidenzialismo, di un presidente eletto dal popolo, non solo perché questa figura costituzionale sarebbe il logico contrappeso unitario in uno Stato federativo, ma anche per consentire che al vertice dello Stato vi sia una personalità certo espressione di uno schieramento ma sottratta al condizionamento dei partiti e a sua volta non in grado di interferire sul loro funzionamento. Nel nostro progetto immaginiamo un Capo dello Stato con poteri simili a quelli del Presidente della Repubblica in Francia, ivi compresa la nomina del primo ministro il quale, tuttavia, deve ottenere la fiducia del Parlamento. È per noi indispensabile garantire un bilanciamento di funzioni, coniugare l'efficienza dell'azione di governo con un reale potere politico del Parlamento, senza del quale si può aprire la strada a forme di autoritarismo pericolose e non tollerabili.
Ciò che nel nuovo ordinamento va evitato è il rischio del trasformismo e dei ribaltoni. Se una maggioranza che ha vinto le elezioni si sfalda, la parola deve tornare agli elettori; invece, nel modello del cosiddetto premierato forte si ipotizza addirittura che il premier possa sciogliere le Camere dopo essere stato sfiduciato dal Parlamento.
Dico queste cose perché considero necessario uscire fuori dal garbuglio e dalla confusione in cui ci siamo cacciati in questi giorni. Ma non si può uscire dalle difficoltà attuali se non attraverso un limpido ritorno alla politica; il che vuol dire che le riforme che intendiamo realizzare non debbono essere un insieme slegato di norme, ma debbono, al contrario, nascere da una visione comune, quella di voler costruire insieme le regole di fondo di una società ricca di campanili, di voci e di diversità e, tuttavia, unita nell'ansia di vedere finalmente la fine della lunga crisi politica ed istituzionale che la ostacola e la intralcia nella sua voglia di sviluppo e di serenità.
Si è sostenuto da più parti che una serie di cattive riforme sarebbe preferibile a nessuna riforma. Non sono d'accordo e dico sommessamente che cambiare lo Stato per peggiorarlo non è un'impresa che possa esaltare le persone ragionevoli. Credo fermamente che possiamo, invece, fare un buon lavoro; ma occorre recuperare l'autorevolezza ed il coraggio che debbono avere organi investiti di compiti costituenti. Dico con franchezza che questa autorevolezza e questo coraggio ci sono in parte mancati, quando non abbiamo saputo o potuto respingere con chiarezza pressioni esterne sui nostri lavori; il riflesso di questa negligenza ha investito inevitabilmente tutta la politica o quel che ne è rimasto.
Nella sua autobiografia apparsa in questi giorni nelle librerie, Bobbio ha ricordato che Calamandrei, a proposito di certe scelte dell'Assemblea costituente, diceva che, a furia di compromessi, la nostra Costituzione si sarebbe ridotta come un signore di mezza età cui un'amante vecchia strappa i capelli neri e un'amante giovane i capelli bianchi, lasciandolo alla fine completamente calvo. Si tratta di un rischio che stiamo correndo, come forze istituzionali, anche noi. Basti pensare alla modifica all'articolo 513 del codice di procedure penale, votata da una vastissima maggioranza al Senato e giudicata opportuna dalla stragrande maggioranza dei magistrati, e poi rimessa subito in discussione non appena un singolo pubblico ministero ha alzato la voce. Che dire poi del tentativo, dopo i fatti di S. Marco, di trovare un punto di mediazione, peraltro impossibile, tra le istanze federaliste e quelle secessioniste? Se qualcuno a Napoli occupasse il Maschio Angioino e chiedesse il ritorno dei Borboni, cosa faremmo? Ci metteremmo ad inseguirlo per mediare?

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Il federalismo fa parte della migliore tradizione della cultura democratica di questo paese; il secessionismo no: è un'altra cosa! Esiste dunque una parte di società italiana che non si può inseguire sulla sua strada insurrezionale e senza ritorno. Nessuno vuole abbindolare quella parte, ma c'è un mondo, come sospeso, nel nord, che invece ci riguarda e ci deve riguardare moltissimo. Oggi il Corriere della Sera ha pubblicato un riquadro illuminante sul referendum immaginario promosso dalla lega. In particolare, ha rivolto una domanda-sondaggio nelle regioni del nord, fondata su tre opzioni. Anzitutto, ha chiesto: «La secessione rappresenta una prospettiva vantaggiosa ed auspicabile?». Il 19 per cento degli intervistati ha risposto affermativamente. Inoltre, ha chiesto: «La secessione rappresenta una prospettiva inaccettabile e disastrosa?». Per fortuna, il 55 per cento degli interpellati ha risposto di sì. Ha infine rivolto una terza domanda: «La secessione rappresenta una prospettiva vantaggiosa ma non auspicabile?». Lasciamo da parte le prime due domande e prendiamo in considerazione la terza, quella che mette insieme le persone per le quali la secessione rappresenta una prospettiva vantaggiosa ma non auspicabile. Si tratta di un mondo nel quale, come spiegava uno studioso serio qual era Mannheimer, la secessione viene vista in una dimensione etico-politica: un mondo incerto, disorientato, che non crede più allo Stato accentratore, ma non ha alcun desiderio, per storia, educazione e cultura, di spingere il proprio malessere fino al limite estremo dell'insurrezione. Quel mondo ci interessa; per quel mondo la relazione di D'Onofrio sul federalismo rappresenta sicuramente una piattaforma, per la prima volta realistica, fatta di strumenti non elusivi né estremamente mediati, come invece abbiamo visto in passato. Certo, si tratta di uno strumento da cui partire, nel senso che questo non significa che quella relazione non debba essere riguardata, arricchita e corretta. Io stesso, come rappresentante della stessa formazione politica del senatore D'Onofrio, in questa Commissione, presenterò emendamenti per migliorare la relazione. Sono infatti convinto che, rispetto ad un tema così a lungo lambito ed aggirato, questa relazione può anche assumere per molti di noi un aspetto traumatico, come del resto qualcuno ha detto oggi in quest'aula.
Voglio aggiungere a tale proposito che serbo, senza alcun timore di cadere in contraddizione, uno straordinario rispetto per le posizioni di netto rifiuto della bozza espresse dal senatore Fisichella. Tutti i grandi temi della modernità sono ormai diventati, alle soglie del 2000, infinitamente complessi e postulano per tutti il diritto alla contraddizione. Ma se noi continuiamo a non dare risposta a questi immaginari referendum, ben presto questi referendum diventeranno reali nella coscienza del paese.
Leggiamo sulla stampa di oggi che l'ipotesi di un ritorno della lega in bicamerale viene addirittura dileggiata da Bossi: era nelle cose, non fosse altro che per evitare di privare di senso il suo referendum! La lega, che ormai conosciamo a fondo, non poteva che reagire così, ma non per questo il nostro impegno di forza istituzionale viene meno, un impegno finalizzato ad offrire strumenti, occasione di confronto, proposte, soluzioni concrete che siano valide al sud così come al nord.
Il senatore D'Onofrio, con la sua relazione, ha offerto un progetto, il più avanzato possibile, di federalismo. Si tratta di un progetto che, secondo l'intento dello stesso autore, è aperto al contributo di tutte le parti politiche, compresa la lega. È ovvio, tuttavia, che la discussione non può partire dal secessionismo.
Che sia d'altra parte un progetto aperto è dimostrato dal tono dei primi interventi che ho ascoltato questa sera in quest'aula. Alcune critiche sembrano arrivare dalla coalizione politica del senatore D'Onofrio e stranamente, gli incoraggiamenti sembrano arrivare dall'altra parte. Il presidente D'Alema ha certo alta capacità politica; gli auguro ed auguro a

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tutti noi di riuscire ad indirizzare i nostri lavori verso uno sbocco unitario. Ma deve essere chiaro che per noi c'è un accordo globale per costruire una società più libera in un sistema istituzionale più efficiente; oppure, non c'è alcun accordo.
Nei primi decenni di questo secolo l'Europa e l'Italia hanno vissuto un destino tragico: ideologie imbevute di nazionalismo e di totalitarismo prevalsero sull'umanesimo cristiano e sembrarono poter uccidere persino il sentimento della pietà. Nel secondo dopoguerra, il ritorno della ragione coincise con la riscoperta della solidarietà. È paradossale che, non solo in Italia ma in tutta l'Europa, la minaccia più insidiosa alla pacifica e laboriosa convivenza tra diversi venga non dai meno fortunati e dai più deboli ma dai più favoriti e dai più forti. Per vincere l'egoismo esasperato ed estremo, per riaggregare la società italiana come parte della società europea, bisogna immaginare e realizzare il disegno federativo all'interno di una vasta rigenerazione democratica, liberale e solidarista, ma dell'interna nazione.

MICHELE SALVATI. Chiedo scusa ai colleghi se, per utilizzare al massimo il tempo a mia disposizione, leggerò un testo a grande velocità.
Vorrei trattare solo di uno degli articoli della bozza D'Onofrio, l'articolo 4, che sostituisce l'articolo 119 della Costituzione vigente, e che riguarda l'argomento che gli economisti convenzionalmente denominano con l'espressione «federalismo fiscale». Giustifico questa scelta apparentemente restrittiva con tre considerazioni.
La prima, e la meno importante, è che questo è un argomento nel quale la mia incompetenza è relativamente minore. Gli economisti si sono estesamente occupati di federalismo fiscale e posso rendere conto delle loro principali conclusioni.
La seconda, e molto più importante, è che l'argomento è uno dei cardini di un disegno federalista. Una frase spesso ripetuta in letteratura è che «il federalismo o è fiscale o non è», e condivido appieno il giudizio in essa contenuto; lo condivide anche l'onorevole Bossi, se è vero quanto i giornali riportano, e cioè che solo di questo vuole occuparsi la lega nella bicamerale e in Parlamento. Credo però che il giudizio sia uniformemente condiviso. L'autonomia delle risorse è ciò che fa la differenza tra una semplice delega o decentramento di funzioni e una vera autonomia politica di impianto federalistico.
La terza ed ultima considerazione preliminare è che non si tratta, dopo tutto, di un argomento così limitato. In via diretta o per implicazione, gran parte dei caratteri di un disegno federalista toccano i problemi del federalismo fiscale o in esso hanno la loro cartina di tornasole.
Prima di passare ad un esame dell'articolo è necessario identificare alcuni problemi cui la disciplina costituzionale deve prestare particolare attenzione. Ne abbiamo parlato molto in Comitato ma è il caso di riportarli brevemente in Commissione.
Il primo riguarda il concetto stesso di autonomia in materia finanziaria e fiscale. Se le parole hanno un senso proprio, autonomia significa che un soggetto è libero di disciplinare come ritiene opportuno la materia. Nel caso nostro, è libero di stabilire imposte e tasse, determinare le basi imponibili e le aliquote, provvedere direttamente alla riscossione, identificare i servizi a pagamento offerti al pubblico, fissarne le tariffe, attuare qualsiasi manovra che le leggi e le pratiche del mercato finanziario consentano. È questa l'autonomia che vogliamo concedere a regioni, province e comuni?
Prima di affrontare la seconda domanda, vorrei introdurre un altro concetto, quello di autosufficienza. Un ente territoriale, un livello di democrazia locale può essere autonomo ma non autosufficiente poiché le sue basi imponibili ed i servizi che offre sul mercato non gli consentono di finanziare i compiti istituzionali che esso svolge. I comuni ricadono tipicamente in questa categoria, in ispecie se essi vedranno estesi i compiti attribuiti. Ma vi ricadono in generale anche le regioni meno prospere, a meno che non si


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vogliano definire le loro funzioni in stretta corrispondenza con la loro capacità fiscale. In questi casi sono necessari trasferimenti. Da dove provengono? Come vengono stabiliti?
Terzo problema è quello della unitarietà, semplicità ed efficienza del sistema fiscale nazionale, che si tratti di uno Stato accentrato o federale non ha importanza. Lo Stato non deve rendere la vita troppo difficile ai propri cittadini, deve rispondere come Stato nel suo complesso a gran parte delle obbligazioni contratte internazionalmente, deve sobbarcarsi l'onere del debito pubblico (poiché è impraticabile la strada di redistribuirlo a livello subnazionale), e deve vivere in un contesto europeo nel quale saranno sempre più forti le spinte all'armonizzazione fiscale.
Questo vuol dire, in pratica, che le grandi imposte sul reddito e sugli affari dovranno rimanere di competenza dello Stato e che l'intera materia fiscale dovrà essere soggetta ad uno stretto coordinamento. Come si rende compatibile autonomia e coordinamento? L'unica risposta è quella di prevedere una sede nella quale si svolga un processo negoziale continuo, e questa mi sembra una delle ragioni più forti che stanno alla base di una Camera delle autonomie o di una Conferenza Stato-autonomie, o di un qualsiasi organo in cui si svolga un colloquio permanente tra Governo centrale e governi delle autonomie.
Un quarto problema ci fa tornare alla questione dei trasferimenti, in particolare di quelli perequativi interregionali. Qui si pongono varie domande alle quali deve essere data una risposta. La prima: trasferimenti verticali o orizzontali, cioè trasferimenti devoluti direttamente dall'insieme delle regioni più prospere a quelle meno prospere o trasferimenti provenienti da un fondo perequativo stabilito a livello centrale?
In linea di massima, gli economisti propendono per la prima soluzione e proprio perché essa genera in modo palese un conflitto di interessi. L'idea è che quest'ultimo stimoli l'efficienza. La scelta tra le due soluzioni diventa assai meno drammatica se esiste una Camera delle autonomie o un organo analogo. Anche se il fondo perequativo è di natura verticale - ed è quindi disciplinato dallo Stato - l'insieme delle regioni può intervenire sia sulle regole di destinazione del fondo sia sul controllo del suo uso.
Altra domanda: su che basi e per quali motivi si fanno trasferimenti perequativi? Sicuramente per compensare - in presenza di compiti analoghi - la diversa capacità di produrre gettito fiscale delle singole regioni, che da ultimo deriva dal loro diverso reddito pro capite; sicuramente per compensare il diverso costo dei servizi in diverse realtà locali, costo dovuto a fattori oggettivi (struttura del territorio, composizione demografica della popolazione e simili).
Sono da considerare trasferimenti perequativi anche quelli destinati a politiche di sviluppo? A me questo non sembra; essi sono ammissibili, anzi sono da sollecitare, ma dovrebbero ricadere in una categoria apposita, soggetta a discipline straordinarie deliberate dal Parlamento e approvate dalla Camera delle autonomie o da organo analogo.
Ultima domanda sulla perequazione: come si calcola l'ammontare della stessa? Non è forse opportuno stabilire in Costituzione la previsione di standard di efficienza per le regioni destinatarie di trasferimenti perequativi? La perequazione è un momento molto delicato, in cui si incontrano motivi di solidarietà e motivi di competitività e di efficienza: nessuno dei due motivi deve prevalere sull'altro né deve essere dimenticato.
Ultimo problema, e delicatissimo, riguarda le regole di bilancio degli enti finanziariamente autonomi. Il rischio di una perdita di controllo della finanza pubblica è molto elevato e credo che sia opportuno stabilire in Costituzione regole di bilancio molto rigide, specie se si vogliono lasciare a livello nazionale compiti importanti di politica macroeconomica. Il giunto di flessibilità dovrebbe rimanere a livello nazionale, mentre a livello subnazionale le regole devono essere rigidissime.

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Ho molto semplificato la lista dei problemi cui deve rispondere un buon dettato costituzionale di federalismo fiscale. La domanda è: l'articolo 4 della bozza D'Onofrio dà una risposta adeguata a questi problemi? Se la desse, dopo una sua lettura noi dovremmo avere un'idea chiara: dei principi fondamentali del federalismo fiscale; della sua struttura, cioè di quali fonti fiscali appartengono a quale livello di autonomia e di come nel dettaglio esse sono determinate e coordinate in un sistema fiscale coerente; dei principi della perequazione; delle regole di bilancio.
Anche se l'ispirazione dell'articolo è condivisibile, questa idea chiara sui quattro punti che ho appena indicato non riesco ad averla. Procederò ora ad una rapida lettura dell'articolo 4, comma per comma.
Il primo comma parla di «completa autonomia finanziaria»: per tutti e quattro i livelli? Questo è molto impegnativo se autonomia vuol dire quello che ho spiegato prima. Che cosa vuol dire? Autosufficienza per tutti? Completa libertà di determinare basi imponibili e aliquote per tutti? Se si vuole veramente un regime di federalismo fiscale, non è forse il caso di separare nettamente la situazione delle regioni da quella degli altri enti locali e affermare subito che è il sistema delle regioni che deve essere finanziariamente autosufficiente? Oppure che lo devono essere le regioni più prospere e che dunque i trasferimenti perequativi valgono solo per le regioni più povere? Bisogna comunque separare i due aspetti: come si fa a dare «completa autonomia finanziaria» a tutti i livelli?
Nel secondo comma, stabiliti i principi, si dovrebbe passare alla struttura. Questa è molto scarna e si limita alla distinzione tra «tributi locali» e «altri tributi». Quali sono i tributi locali? Se c'è «completa autonomia finanziaria» dovrebbero determinarlo le autonomie locali stesse, cioè comuni, province e regioni. A dire il vero, il dettato di D'Onofrio dice «i tributi locali sono applicati»: che cosa vuol dire? Che è solo il potere di esazione che spetta alle autonomie? A me sembra che l'attuale dettato oscilli tra un completo vincolo all'autonomia locale (tutta la finanza locale è disciplinata da legge dello Stato) e potenziali difficoltà come conseguenza di una vera autonomia e che la clausola del divieto di doppia imposizione - di per sé ragionevole - poco giovi a sciogliere il dilemma. Qui una elencazione di massima delle fonti finanziarie di ogni livello di autonomia e l'esplicito rinvio ad una legge che abbia ricevuto l'assenso della Camera delle autonomie o organo analogo a me sembra indispensabile. Solo in questo modo - lo ripeto - si riesce a contemperare autonomia e coordinamento, che sono doti essenziali di un sistema fiscale decentrato.
Il terzo comma è quello sul quale il mio consenso con D'Onofrio è maggiore, così come maggiore sarà il dissenso con le autonomie subregionali, abituate da tempo ai trasferimenti statali. A me e a D'Onofrio sembra logico che così non debba essere: stimolato al massimo lo sforzo fiscale locale, a livello nazionale si provvede alla perequazione tra regioni, mentre a livello regionale si procede alla perequazione tra comuni e province. Ma assai poco di quanto è logico si applica in questo nostro mondo istituzionale: temo quindi che questa proposta verrà fortemente avversata.
Il quarto comma spiega che cosa fa lo Stato del gettito fiscale che benevolmente le regioni sono disposte a concedere. Apro una parentesi: secondo l'articolo 3, la materia tributaria e fiscale non è tra quelle appartenenti necessariamente alla potestà legislativa dello Stato, dunque può trovare disciplina negli statuti o nelle leggi a cui gli statuti rinviano: mi sbaglio? Con questo gettito benevolmente concesso lo Stato finanzia quelle funzioni che, con analoga benevolenza, gli sono state lasciate. Paga gli interessi e l'ammortamento del debito, immagino, restituendo il resto ai comuni, alle province ed alle regioni di provenienza. Apro un'altra parentesi: secondo il comma precedente, la perequazione a livello comunale e provinciale non era forse di spettanza regionale? O per i

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comuni e le province esiste un doppio sistema di trasferimento, ossia i trasferimenti ordinari disposti dallo Stato e quelli perequativi disposti dalle regioni?
Chiudo la parentesi e torno alla restituzione. Il concetto di restituzione è molto forte ed implica una sovranità fiscale originaria degli enti locali, la cui introduzione in Costituzione mi auguro sia discussa con l'impegno che merita. La bozza della Commissione De Mita-Jotti si spingeva fino a considerare come entrate proprie delle regioni - e solo di queste - «quote del gettito prodotte dal territorio da imposte erariali». Personalmente non sono contrario all'utilizzo di questa espressione compromettente, anche se la inserirei in un contesto diverso.
Ultima osservazione: a che cosa servono questi «parametri oggettivi, fondati sulla rispettiva capacità di produrre gettito»? Non è il caso di essere un po' più specifici? Questa dizione si concilia con la possibilità che, poiché la Calabria è povera, le si lascia il 50 per cento del gettito dell'IRPEF, mentre alla ricca Emilia se ne lascia il 20. È questo che vogliamo? Questo è il significato del comma? Se è così, si fa confusione tra fonti di finanza propria e fonti di finanza perequativa, tra cui invece la distinzione deve essere netta e trasparente. E poi, chi determina questi «parametri oggettivi»? Il Parlamento? La legge regionale sulla base degli statuti? Di nuovo, non avrebbe un ruolo cruciale di coordinamento una Camera delle autonomie e, quindi, le leggi bicamerali che questa coopera a definire?
Lo smilzo comma quinto è dedicato ad un argomento di grande complessità e delicatezza: la perequazione. Eliminate le possibili fonti di confusione che derivano dal comma precedente, la perequazione necessita in Costituzione di un dettaglio assai maggiore di quello previsto dal comma in esame. Il punto politico e istituzionale è che deve stabilirsi un netto contrasto con il passato, ossia con il sussidio implicito e nascosto che sinora hanno ricevuto le regioni a minor reddito, scaturente dal fatto che a parità di servizi pro-capite forniti dal settore pubblico corrispondevano gettiti fiscali pro-capite molto diversi. Ora, il grosso dei servizi viene decentrato e, in condizioni di autonomia fiscale, appare evidente ciò che prima era nascosto, cioè che alcune regioni sono tributarie nette del sistema fiscale complessivo: è per superare questa differenza che si dispongono trasferimenti perequativi.
Non è solo una questione di dettaglio: che cosa vuol dire che lo «Stato provvede»? Chi lo decide? E che cosa succede se, nella propria autonomia e nel proprio statuto, la Lombardia e l'Emilia non vogliono fornire fondi? E poi, perché si menzionano esplicitamente le isole e il Mezzogiorno? Sono forse destinate in eterno a restare aree sottosviluppate? Questo è quasi insultante!
Ancora: perché si mischia la perequazione - che è un trasferimento ordinario dovuto ad una differenza tra compiti svolti e gettito fiscale - con i trasferimenti straordinari dovuti ai programmi di sviluppo? Non è meglio tenerli distinti?
E infine, come si determinano esattamente questi trasferimenti? Finirei con il solito ditirambo sulla Camera delle autonomie che, invece, vi risparmio. Vorrei concludere brevemente, anche se gli ultimi due commi sono importanti...

SERGIO MATTARELLA. Con il permesso del presidente, vorrei porre una domanda al collega Salvati. Questa attenzione sulla perequazione non andrebbe prestata anche alla restituzione? Restituire cosa, a chi? Fiscalmente che cosa si restituisce? In base a cosa emerge fiscalmente il reddito, dove nasce?
Ciò rischia di innescare un'impropria ed inopportuna battaglia in Parlamento. Tra l'altro, non so se sia materia da inserire in Costituzione: è un problema che va affrontato.

MICHELE SALVATI. Ultime due osservazioni. L'esigenza cruciale emersa dall'analisi svolta è quella di conciliare autonomia vera con coordinamento sistemico: il sistema fiscale deve essere coerente, semplice, trasparente, unitario.


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Questo, mi sembra, pone come assoluta necessità... (ritornerei al discorso della Camera delle autonomie, che vi risparmio).
La seconda è che il federalismo fiscale prevede una miscela trasparente e ben dosata di solidarietà da un lato e di competizione tra sistemi regionali e di controlli di efficienza dall'altro. Competitività ed efficienza non sono soltanto amare medicine che le regioni più povere devono trangugiare perché è venuto meno il senso più forte di solidarietà nazionale, esistente anche in passato. Competitività ed efficienza sono armi straordinarie di sviluppo civile e sociale, ancor prima che economico. È per questo che vedo con preoccupazione - oltre all'attuale formulazione del quinto comma - l'intera filosofia della geometria variabile permanente: sarebbe un fallimento dell'intero disegno se molte regioni, e tra queste le meno sviluppate, si sottraessero alla grande avventura dell'autonomia.

RENATO GIUSEPPE SCHIFANI. La proposta del senatore D'Onofrio in buona parte ricalca l'esito delle varie correnti di pensiero dibattute nell'ambito del Comitato sulla forma di Stato. Dico in buona parte perché mi soffermerò, in conclusione, sull'articolo 3 che notoriamente costituisce la novità introdotta dal relatore al termine dei lavori del Comitato.
Apprezzo la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà così come l'impianto della proposta che, in linea con un processo di scivolamento verso il basso di compiti e funzioni dello Stato e dell'amministrazione, consente alla macchina statale di avvicinarsi sempre di più al cittadino. Non vi è solo, ripeto, uno scivolamento di funzioni e di competenze legislative, ma anche un riconoscimento generale di funzioni in favore dei comuni.
Ho delle perplessità che sottopongo all'attenzione del relatore perché constato che non si è sciolto definitivamente un nodo emerso dal dibattito sulla sussistenza o meno dell'organo intermedio provincia.
Per quanto riguarda le province non mi pare che la soluzione sia definitiva, cioè l'ipotesi di un organo intermedio, ma flessibile, capace di affidare alla concertazione tra regioni e comuni l'individuazione di un livello a cui attribuire funzioni e ambiti geografici, nell'ottica del controllo amministrativo del territorio, che privilegia ormai sempre di più l'amministrazione di aree omogenee, metropolitane. L'aver previsto la costituzionalizzazione delle province e l'attribuzione di funzioni con legge - non sappiamo se statale o regionale, se scaturisca o meno dalla concertazione o meno con i comuni - ritengo rappresenti un problema insoluto, meritevole di ulteriori approfondimenti.
Così come apprezzo l'impianto del testo del relatore sulla pubblica amministrazione, molto coraggioso. Lamento che forse si sarebbe potuto fare qualcosa di più allorquando si è tentato di costituzionalizzare il principio dell'obbligatorietà di definizione dei procedimenti amministrativi che aveva fatto capolino in una proposta del relatore presentata in Commissione, tanto che il sottoscritto ebbe ad insistere perché si accompagnasse all'introduzione di questo principio anche l'affermazione di un ulteriore parallelo principio di grande levatura amministrativa e giuridica quale quello del silenzio assenso.
Al di là di queste considerazioni che non mutano le valutazioni sulla bozza del relatore, credo che essa, anche se contiene notevoli spunti apprezzabili e condivisibili, meriti un approfondito esame e richieda una modifica in ordine al tema nuovo introdotto dal senatore D'Onofrio relativo agli statuti speciali per le singole regioni.
Si era dibattuto a lungo sul livello di autonomia da riconoscere alle regioni e si era individuato un percorso nell'ambito del quale la quasi unanimità dei componenti del Comitato propendeva per il rovesciamento dell'articolo 117 della Costituzione, l'individuazione analitica delle funzioni da riconoscere allo Stato con norma di chiusura per le funzioni regionali ed eventualmente l'introduzione di una norma transitoria come geometria variabile per consentire alle regioni di adeguarsi nel tempo in relazione alla loro


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capacità di autoregolamentazione, di autodeterminazione, di adattamento al nuovo processo di autonomia, senza quindi una temporalizzazione perentoria e una scadenza inderogabile.
Questo è il concetto accennato in Comitato, mentre oggi ci troviamo dinnanzi ad una novità che introduce la flessibilità del modello spagnolo, il quale però obbedisce ad una realtà diversa dalla nostra e privilegia il principio della volontarietà della riforma rispetto a quello della regionalizzazione imperativa. In sostanza, in Spagna il processo avviene spontaneamente, dal basso verso l'alto, in relazione alla capacità di aggregazione di volontà di riforma degli enti locali che scelgono momenti, tempi e procedure per arrivare ad una forte autonomia con l'istituzione delle famose «comunità». Vi è anche un passaggio differenziato tra la forte autonomia prevista dall'articolo 151 della loro Costituzione e un'autonomia più morbida, prevista dall'articolo 143, che può preludere ad una forte autogestione dopo cinque anni dall'approvazione del modello morbido. Tutto è privo di perentorietà, di termini e di procedure.
Invece, il principio introdotto dal relatore da un lato mutua l'idea della concertazione tra regione e Stato nella stipula degli accordi pattizi, che si trasformano in statuti speciali, e dall'altro individua dei tempi che rischiano di appiattire la fase di concertazione tra regione e Stato. Si presume infatti che tutte le regioni tenderanno ad ottenere da parte dello Stato il riconoscimento del maggior numero di funzioni e quindi ad arrivare ad un modello che massimalizzi nella stragrande maggioranza dei casi le potestà regionali, con ciò intasando l'attività del Parlamento, che dovrà concentrarsi per alcuni anni nell'esame e nell'approvazione dei testi di legge costituzionali di approvazione degli statuti, e dando luogo ad una forma di regionalismo frutto di una corsa contro il tempo e non di un processo di maturazione autonomo come avviene nel sistema spagnolo.
La soluzione prospettata che ritengo possa essere privilegiata è quella di consentire alle regioni di dotarsi di piena autonomia con statuti approvati con legge regionale interna seguita da referendum confermativo. Questo modello consente alle regioni tra l'altro di evitare l'ingessatura nella quale verrebbero a trovarsi laddove i loro statuti dovessero essere approvati con legge costituzionale. Si tratta quindi di un modello più elastico che potrebbe effettivamente, con una gradualità di scelte anche nel tempo, consentire ad ogni regione di scegliere tempi e modalità per arrivare all'autonomia con grande serenità e senza quella perentorietà di tempi che potrebbe penalizzarle.
Per quanto riguarda il sistema degli enti locali, devo notare come la forte connotazione delle autonomie regionali rischi di subordinare gli enti locali minori e di relegare in secondo piano il ruolo unificatore e coordinatore dello Stato. Per evitare un'eccessiva dispersione delle materie riservate alla competenza regionale ed una disgregazione intrinseca dello stesso potere centrale, potrebbero essere previste più materie da riservare alla competenza statale (quindi, non le sole undici elencate) al fine di garantire una maggiore omogeneità di scelta ed un raccordo funzionale migliore tra le regioni stesse. Inoltre, appare troppo forte e netto il distacco tra Stato e regioni sulle materie di competenza dell'uno e delle altre, dimenticando che spesso le competenze si intrecciano e necessitano di un raccordo istituzionale tra i differenti livelli di Governo. Vi è quindi la necessità di un più intenso raccordo istituzionale tra Stato e regioni, anche al fine di evitare la nascita di statuti estremamente eterogenei tra loro, che altro non farebbero se non accentuare la divisione tra le varie comunità locali. Occorrerebbero, quindi, leggi di armonizzazione - così come previsto dalla Costituzione spagnola - per rendere omogeneo l'assetto costituzionale unitario.
Appare pacifico, infine, che per l'efficace svolgimento di un sistema istituzionale come quello delineato dalla proposta di riforma occorra individuare prioritariamente,

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nell'ottica di un sistema costituzionale forte ed equilibrato, l'assetto della forma di Governo migliore per il progetto federalista. Più viene concesso, infatti, potere autogovernante agli enti locali, più emerge l'esigenza di dotare lo Stato centrale di un corrispondente ed adeguato potere gestionale che sappia controllare e tenere a bada tendenze di prevaricazione delle stesse regioni. Per questo occorre fondare il potere centrale su una forte legittimazione popolare, espressa nell'unitarietà di un voto che rappresenti il valore della maggioranza degli elettori, un potere centrale forte nel quale si realizzi l'unità nazionale.

FRANCESCO SERVELLO. Onorevole presidente, onorevoli colleghi, spero che la sintesi del mio intervento non penalizzi la chiarezza delle idee che mi accingo ad esprimere.
Ricordo innanzitutto che il Polo, nel suo programma politico del marzo 1996, per venire incontro alle giuste rivendicazioni degli italiani in ordine al buon andamento dell'amministrazione, accolse il termine «federalismo», ma limitandone la portata per non intaccare il principio di unità e indivisibilità della Repubblica e della sovranità dell'unico popolo italiano. Il programma del Polo per le libertà dice chiaramente: «Al rafforzamento dell'esecutivo centrale, da conseguire mediante riforma in senso presidenzialista, dovrà corrispondere un ampio decentramento dei poteri fino a trasformare la nostra forma di Stato in senso federalista, con soluzioni che non mettano in discussione l'unità e l'indivisibilità della Repubblica. E ciò con la ristrutturazione dei livelli di Governo» e non - aggiungo io - con la separazione della sovranità tra Stato centrale e regioni. La proposta D'Onofrio si muove in questa direzione? O si spinge oltre l'obiettivo programmato dal Polo? Per rispondere a questi interrogativi devo innanzitutto rilevare che il federalismo - in regresso in tutto il mondo - viene presentato dalla lega e dagli ambienti più disparati come la soluzione di tutti i nostri problemi: una specie di dogma da non discutere nemmeno.
Se ci confrontiamo con gli Stati Uniti, possiamo rilevare che lo Stato centrale si trova in una posizione superiore rispetto agli Stati federati, in quanto, oltre ad avere una serie di competenze di gran lunga più numerosa di quella prevista nell'ultima proposta D'Onofrio, fruisce del principio secondo il quale se in una qualsiasi materia si riscontra l'interesse generale la legislazione federale prevale su quella federata.
Nella stessa Germania l'attuale Legge fondamentale imposta dai vincitori (non è una Costituzione, perché questa i tedeschi se la devono ancora dare) prevede all'articolo 31 che «il diritto federale prevale» - letteralmente «brichet», che vuol dire «rompe» - «sul diritto del land».
La stessa lega ha gradualmente abbandonato il federalismo possibile non perché le toglierebbe la ragione di esistere e spunterebbe le sue rivendicazioni, ma perché avendo visto con quanta facilità è riuscita a far accettare il federalismo prova ora a fare accettare anche la secessione (i fatti della Serenissima ed il referendum di ieri ne sono una palmare prova, che la dice lunga rispetto ad una classe politica quanto meno disorientata e ad una opinione pubblica senza una guida sicura). Ecco perché i leghisti affermano di aprire un dialogo da osservatori in bicamerale sul federalismo senza rinunciare al programma secessionista ed anzi considerando l'approccio federalista come occasione per un'ulteriore fuga in avanti.
Non intendo qui farmi forte dei giudizi di opinionisti come Sartori, Bocca, Bassolino ed altri, ma non posso evitare di mettere sul tappeto in termini reali la proposta D'Onofrio. Il mio timore è che essa, nell'attuale stesura, non fornisca assicurazioni di principio rispetto alla salvaguardia dell'unità dello Stato nazionale, neppure con la semplice attribuzione di competenze allo Stato. Altri colleghi lo hanno già rilevato. In realtà si tratta di una proposta tanto sintetica da creare i presupposti di fatto della formazione di un reticolo di interessi frazionati e di


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spinte centrifughe. In altri termini, mancano poteri e strumenti dello Stato centrale che siano in grado di monitorare quei fenomeni neutralizzandoli al loro sorgere. Confido che il senatore D'Onofrio orienti le modifiche alla propria proposta in questa direzione.
Un altro dubbio riguarda il termine «Stato», che nella proposta in esame appare come mero apparato burocratico, non emergendo in questa sede alcuna indicazione di un'autorità superiore allo Stato, così riduttivamente concepito, nonché alle altre attività territoriali, per assicurarne il coordinamento e scongiurare il pericolo dell'intensificarsi di spinte centrifughe. La manifestazione dei prefetti rappresenta, onorevoli colleghi, una significativa denuncia del declino incipiente di uno Stato.
La proposta D'Onofrio non prevede leggi-quadro intese a dare un minimo di uniformità all'amministrazione nazionale, né contiene norme di indirizzo capaci di assicurare la certezza del diritto nell'ambito della funzionalità e della effettività del nostro ordinamento politico-giuridico.
In molti commenti è diffusa la preoccupazione che la riduzione delle norme e delle fonti giuridiche rimanga una chimera, specie nelle procedure che riguardano gli operatori amministrativi ad ogni livello e gli stessi utenti delle pubbliche amministrazioni. Il disegno tracciato da D'Onofrio può indurre ad una proliferazione delle fonti giuridiche ad ogni livello territoriale: sicché la varietà delle procedure conseguenti, non esclusa l'introduzione di una pluralità di principi, potrebbe far sì che il cittadino di ciascun ente finisca di fatto per divenire straniero in tutti gli altri enti, specialmente regionali, della medesima nazione, creando così i presupposti della formazione di tante aree geopolitiche reciprocamente separate ed isolate.
Onorevoli colleghi, onorevole D'Onofrio, temo fortemente che non siano le pretese diversità locali in atto a provocare l'esigenza di un pluralismo amministrativo, ma che il pluralismo amministrativo possa creare esigenze artificiali tali da rendere ingombrante l'unità dello Stato e da far rientrare dalla finestra quel principio secessionista che ci si illudeva di aver fatto uscire dalla porta.
Su tutta questa materia mi riservo insieme con i colleghi di studiare una serie di proposte di modifica, che riguardano soprattutto le competenze dello Stato e le funzioni delegate; con l'augurio che possano essere sostanzialmente accettate. Si tenga presente che se il quadro rimanesse inalterato il cosiddetto «premierato forte» verrebbe a perdere di fatto ogni significato, in quanto il capo del Governo nazionale non si troverebbe in una posizione gerarchicamente superiore a quella di un presidente di regione, ma pressoché in posizione di parità. Da qui la riconosciuta esigenza di un confronto e di una votazione contestuale per la forma di Stato, per la forma di Governo e per il Parlamento.

KARL ZELLER. Vorrei innanzitutto esprimere un riconoscimento al relatore, senatore D'Onofrio, che a mio parere ha compiuto un notevole sforzo per arrivare ad una proposta di riforma con un indirizzo più spiccatamente federalista. Elementi positivi di questa proposta sono a mio parere: l'introduzione del principio di sussidiarietà; l'eliminazione del visto governativo sulle leggi regionali; l'eliminazione dei controlli sugli atti amministrativi; la soppressione della figura del commissario di Governo; l'abolizione della distinzione tra competenze primarie e secondarie, con conseguente esclusione della possibilità di leggi-quadro o leggi organiche statali. Condivido altresì la riduzione dell'elenco delle competenze statali e la distinzione netta da quelle regionali. In questo senso il relatore ha accolto una parte non indifferente delle richieste delle forze autonomiste e ciò non può che trovarmi consenziente.
Vorrei a questo punto soffermarmi, però, sui profili della bozza D'Onofrio sui quali non mi trovo d'accordo ed, anzi, manifesto il mio netto dissenso. Il rilievo più importante è costituito dal fatto che gli statuti regionali devono essere sottoposti


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all'approvazione del Parlamento nazionale. Già nel testo della Costituzione sono tassativamente previste le competenze statali: non vedo alcuna necessità di questo ulteriore passaggio, che presenta il non trascurabile rischio che il Parlamento costringa le regioni ad accettare ulteriori limiti all'autonomia non previsti in Costituzione.
L'approvazione da parte del Parlamento nazionale, inoltre, non è compatibile con un sistema federale vero e serio. Tutti i bundeslander austriaci, quelli tedeschi, gli stessi cantoni svizzeri hanno la potestà di darsi i propri landesverfassungen con proprie leggi costituzionali regionali, senza la necessità di un controllo ulteriore da parte di un organo politico nazionale. A mio parere questa potestà statutaria con legge costituzionale regionale va riconosciuta anche alle regioni italiane.
Inoltre, non obbligherei le singole regioni ad assumere tutte le competenze a loro teoricamente assegnate, ma lascerei una certa possibilità di scelta, evitando così un appiattimento che non tiene conto delle diverse realtà esistenti.
Per quanto riguarda la particolare autonomia della provincia di Bolzano, per me è assolutamente inconcepibile che la potestà statutaria venga attribuita alla regione Trentino-Alto Adige e non, invece alle due province autonome di Trento e di Bolzano, che di fatto da venticinque anni sono vere e propri regioni ed esercitano pressoché tutte le competenze. Affidare la delicata scelta della potestà statutaria alla regione, affinché decida su competenze non sue, oltre ad essere non senso dal punto di vista concettuale violerebbe gli accordi internazionali sui quali si basa l'autonomia sudtirolese e riaprirebbe un nuovo contenzioso internazionale.
Vorrei ricordare lo scambio di note italo-austriaco del 1992 in occasione della chiusura del pacchetto e della vertenza davanti alle Nazioni Unite. In quell'occasione il Governo italiano assicurò che eventuali modifiche dello statuto di autonomia sarebbero potute avvenire solo con il consenso della popolazione sud tirolese e non di quella dell'intera regione.
Evidentemente, come ho già sottolineato, non condivido la mancata previsione di Alto Adige e Trentino come due distinte regioni autonome. Nell'elenco del relatore la regione Trentino-Alto Adige continua infatti a figurare, mentre da sempre noi riteniamo che questa regione sia una scatola vuota e una fonte di inutili sprechi che andrebbe abolita o comunque profondamente ristrutturata. Ritengo altresì assai penalizzante la previsione dell'articolo 2 che pone il limite di almeno due milioni di abitanti per la costituzione di nuove regioni.
In merito all'elenco delle competenze non condivido l'assegnazione allo Stato di tutte quelle relative alla previdenza, alla sicurezza personale, alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, in quanto di solito negli Stati veramente federali esse sono attribuite alle regioni, almeno per quanto riguarda gli interessi regionali. D'altra parte, già ora le regioni a statuto speciale sono deputate a legiferare in materia di ambiente e di paesaggio, mentre con questa riforma perderebbero tali competenze. Ciò non mi sembra ragionevole.
Rispetto al federalismo fiscale proposto dal relatore, che non appare concepibile che sui tributi non locali, che rappresentano la maggior parte del gettito, decida unilateralmente lo Stato; a maggior ragione se, come purtroppo si prevede, non verrà istituito il senato delle regioni quale contrappeso. A mio parere va assolutamente garantita una potestà di codecisione da parte delle regioni perché senza fondi le più ampie competenze diventano cartacee ed inutili.
Vorrei infine riproporre di modificare la denominazione di «Stato» in quella di «federazione» per dare, anche dal punto di vista formale, un segnale forte che si vuole costruire un sistema federale vero e serio.
In sintesi, ritengo che la proposta D'Onofrio sia un passo in avanti e costituisca una base accettabile per il prosieguo dei nostri lavori, sia pure con la

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riserva di presentare emendamenti per le modifiche poc'anzi accennate.

PRESIDENTE. Onorevole Mussi, il suo gruppo dispone di venti minuti e deve parlare ancora l'onorevole Spini, la prego di tenerne conto.

FABIO MUSSI. In forma assai sintetica, vorrei esporre le ragioni di qualche sincero apprezzamento (sulla linea già esposta da Villone), di qualche riserva (per il mio gruppo Salvati ne ha fatte di molto argomentate sull'articolo relativo al cosiddetto federalismo fiscale) e di qualche dubbio o contrarietà per la bozza di D'Onofrio.
D'Onofrio è accompagnato dalla fama di essere uomo cavilloso: forse è immeritata, perché qualche cavillo in più nel testo presentato non sarebbe stato fuori luogo. Trovo questioni complesse ancora troppo sommariamente esposte e qualche volta anche un po' tagliate con l'accetta, che magari con un approfondimento ed un'integrazione diventerebbero formulazioni convincenti. Il nostro gruppo si prepara a presentare, quando saremo in quella fase, emendamenti al testo, invito però il relatore a prendere in considerazione le osservazioni di questa giornata per offrire al lavoro emendativo un testo già corretto e più elaborato. Credo che questo sia un passaggio ragionevole che potrebbe essere utile a tutti.
Naturalmente ci sono anche aspetti di dottrina che riguardano le più alte formulazioni del testo, molto impegnative sotto il profilo dei principi. L'articolo 1 recita: «La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle regioni e dallo Stato». Naturalmente qui si fa riferimento allo Stato-ordinamento, che diventa un quarto ente: però non è più così scontato che la categoria di Stato possa ridursi alla sua funzione ordinamentale. Non è necessario essere seguaci di Hegel e di Gentile e pretendere una visione dello Stato etico, come anima di tutto, basta anche una tradizione di stampo più classicamente liberale che va da Montesquieu a Kelsen per essere insoddisfatti di una riduzione della categoria di Stato al puro aspetto ordinamentale. È qualcosa su cui dobbiamo forse fermarci ancora a riflettere, perché queste sono definizioni che restano scolpite come parole nel bronzo.
Intanto la scelta federalista della proposta di D'Onofrio è molto netta e chiara, è inequivocabile ed il gruppo di cui faccio parte la condivide. Parliamo di un federalismo che non sale verso l'alto, ma scende; di una cessione di potere non da parte di singoli Stati verso una federazione sovrana, ma di una cessione verso il basso e verso la periferia da parte di uno Stato sovrano che, per ragioni storiche di complessità e fragilità nella formazione dello Stato unitario, presenta forti caratteri centralistici (bisogna anche ricordare il perché di questo centralismo, altrimenti sembra nato casualmente). Una volta si era detto che è un federalismo octroyé che pone problemi complessi, ma non è la prima volta che questo avviene; altri Stati che si sono mossi dal centralismo verso una forma di Stato fortemente regionalista e decentrato hanno compiuto lo stesso nostro percorso. Non è quindi un caso raro e originale e non dobbiamo spaventarci di fronte a questo compito che è nuovo per noi, ma non è nuovo in assoluto in Europa.
Il federalismo di questo testo si incardina intorno a due valori, anch'essi condivisibili, che sono anche sistemi di funzionamento e principi. Per quanto riguarda il principio di sussidiarietà, anch'io ritengo che si debba scrivere meglio la parte relativa alle autonomie locali e ai comuni; tuttavia, quando si identifica nei comuni il luogo di detenzione integrale del potere amministrativo, si compie un bel passo. Va scritto meglio, va forse meglio specificato, ma tutto sommato quello che viene chiesto da parte di molti sindaci non è in contraddizione con quanto è scritto nel testo.
In secondo luogo, mi riferisco al principio di un'allocazione distinta di poteri e risorse, non di un decentramento «a cascata» dallo Stato alle regioni, da queste alle province ed ai comuni, ma di un'allocazione distinta e chiara, di tipo


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orizzontale già nel testo costituzionale. Credo si tratti di due cose buone, di due punti di vista positivi, che ci consentono di compiere un cammino.
Gli interrogativi riguardano due ordini di questioni. In primo luogo, il principio di autonomia che innerva il federalismo si esprime concretamente nella costituzionalizzazione degli statuti autonomi, questo è il meccanismo chiave; esso è abbastanza ardito, ma forse questa proposta si può accettare, si può lavorare attorno a tale tema. La costituzionalizzazione degli statuti comporta un work in progress, una progressione nella formazione dell'ordinamento ed anche un diverso ritmo, una differenziazione della velocità e degli approdi. Penso che i meccanismi debbano essere molto chiari perché la progressione sia ordinata e perché questa differenziazione sia chiaramente componibile nel quadro dello Stato federale unitario. Vi è una soglia al di sotto della quale diventa pura frantumazione e credo - d'accordo con il collega Salvati - che dobbiamo stare attenti a non dar luogo ad una geometria variabile permanente: il processo deve esservi, così come debbono esservi i ritmi diversi, ma gli approdi devono essere chiari.
In questo senso non vi è solo il tema del patto delle regioni con lo Stato, ma anche quello del patto delle regioni tra loro; è necessario, cioè, che questo dato pattizio non sia semplicemente la disordinata corsa all'accordo di venti regioni con un'entità unica superiore, in quanto non si possono gettare sul tavolo, come una manciata di dadi, le venti regioni (che non sono venti Stati) sperando che il caso o la buona volontà dei giocatori faccia loro comporre le parole «Italia federale», perché questo potrebbe non avvenire.
Chiedo allora che siano più chiari il modello ed il processo. Perché ciò avvenga, collega D'Onofrio, ho l'impressione che dobbiamo ridurre quella zona che ingiustamente viene chiamata grigia e che io propongo di chiamare zona pattizia, una zona che, se è esageratamente ampia, credo renda disordinata la progressione ed incolmabili le differenze. Quindi, bisogna lavorare per mantenere comunque ampie ma allo stesso tempo ridurre nella misura del possibile le materie che compongono questa zona pattizia.
In secondo luogo, credo che in Costituzione debbano essere forti, fortissime le garanzie dell'unità nazionale, le garanzie dell'universalità dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini dell'Italia federale proprio perché noi lavoriamo a costruire una nazione più forte, su basi radicalmente riformate, lavoriamo a ricollocare l'Italia, così radicalmente cambiata, nella storia d'Europa, non cerchiamo espedienti per dare soddisfazione agli avventurieri della secessione. Per questo garanzie di unità nazionale e garanzie di universalità dei diritti e dei doveri debbono forse essere scritte meglio di come non siano nel testo che ci è stato presentato.
Ciò vuol dire ampliare l'arco delle materie il cui potere ricade sotto lo Stato, sotto la Repubblica federale ed anche indicare qualche meccanismo di compensazione, di armonizzazione, qualche riserva di potere. Per spiegarmi voglio concludere proprio con un riferimento alla Spagna, visto che nel testo che ci è stato presentato vi è un qualche sapore di flamenco, come Il ciclone, vi è qualche principio ispiratore dedotto dalla più recente delle Costituzioni europee.

GUSTAVO SELVA. D'altronde, il flamenco non è catalano, è sivigliano.

FABIO MUSSI. Non è catalano, è andaluso, ma è comunque apprezzato anche nelle regioni autonome.
Nel suo primo articolo - che recito a memoria - la Costituzione spagnola sancisce che lo Stato è organizzato territorialmente in municipi, province e comunità autonome; tutti gli spagnoli hanno gli stessi diritti e doveri in qualunque parte del territorio dello Stato. Non dobbiamo certo copiare da questo testo, ma cerchiamo ispirazioni e confronti che ci consentano di misurare anche il rapporto tra le nostre aspirazioni e le realtà effettuali dell'Europa politica di questi anni, di questo secolo.


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Sempre con riferimento alla Costituzione spagnola, trovo che, per esempio, negli articoli 146 e 151 sia molto sviluppata l'indicazione delle procedure anche nei processi pattizi che consentano un differenziale di velocità tra una parte e l'altra del paese; le procedure sono indicate e specificate molto dettagliatamente, mentre nel testo che ci è stato presentato esse sono ancora ad uno stadio un po' troppo sommario per non farci «tremar le vene e i polsi» di fronte ai rischi che si incontrano.
Quanto ai poteri di riserva dello Stato nazionale, vengono indicate nella Costituzione spagnola 32 materie, contro le 13 individuate da D'Onofrio, e per di più con l'aggiunta di due commi: «Senza pregiudizio delle competenze, lo Stato, considerata l'attività svolta al servizio della cultura...» (comma 2); al terzo comma si stabilisce che: «Lo Stato, le cui norme prevarranno in caso di conflitto su quelle delle comunità autonome »; vi è poi l'integrazione dei successivi articoli 150 e seguenti, i quali stabiliscono che lo Stato potrà emanare le leggi che stabiliscano i principi necessari per armonizzare e dove perfino si prevede (articolo 155) che, qualora una comunità autonoma non adempia gli obblighi imposti dalla Costituzione o da altre leggi o agisca in modo da attentare gravemente all'interesse della Spagna, il Governo... e così via.
Voglio dire che nella Costituzione che viene indicata come quella che maggiormente si è spinta verso un decentramento forte, vero, verso un regionalismo ai limiti del federalismo vi è una preoccupazione espressa in norme che garantiscono processi di unificazione e di armonizzazione nazionale che forse anche noi dovremmo tenere più presenti.
In conclusione, materie, procedure per l'evoluzione del modello federalista, poteri del governo del processo e di garanzia unitaria: credo siano tre aspetti su cui la proposta avanzata da D'Onofrio merita di essere approfondita ed emendata, e noi faremo uno sforzo per dare un contributo positivo in questo senso.

ERSILIA SALVATO. A differenza dei colleghi che mi hanno preceduta, non farò l'elogio del testo D'Onofrio e cercherò di sottrarmi ad una pratica, molto diffusa qualche tempo fa nei vecchi partiti, ma che vedo ancora oggi presente: quella di iniziare l'intervento dichiarando il proprio assenso e poi nei fatti esprimere opinioni così divaricanti rispetto a ciò su cui si è detto essere d'accordo, che alla fine rimangono sul terreno soltanto dubbi, interrogativi e poco si riesce a capire su come procedere e sulle ragioni vere del contendere.
Da ultimo anche l'onorevole Mussi, indicando i tre punti su cui erano tornati altri colleghi del suo gruppo, ha in gran parte demolito l'asse portante della proposta D'Onofrio; ma evidentemente ognuno sceglie per sé modi di esprimersi e di lavorare. Io, invece, voglio esprimere ad alta voce una profonda preoccupazione per il contenuto di questo testo, soprattutto nell'approccio politico-culturale con cui si è pervenuti ad esso e con cui si cerca di reagire - se posso usare questo termine - ad una offensiva, quella leghista, che è particolarmente forte e che forse in parte lo diventa di più anche per le nostre difficoltà ed esitazioni.
Sostenere che la proposta D'Onofrio sia una accettazione della filosofia leghista sarebbe andare oltre le righe, pretendere troppo; tuttavia, in una certa misura, non mi sembra un testo coraggioso, come hanno sostenuto alcuni colleghi (il senatore D'Onofrio mi scuserà, ma dico questo con tutto il rispetto) ma superficiale, e ciò veramente mi inquieta.
Credo che dovremmo (forse) ancora darci, pur nei tempi così ristretti, l'aggio di una riflessione non soltanto su quello che è accaduto, e continua ad accadere nel resto del mondo sulla questione del federalismo, sulle risposte che sono state avanzate, sui rischi concreti che esso si trasformi in secessione, come in realtà è accaduto, ma soprattutto riflettere sulla domanda della lega che, a mio avviso, è una richiesta di secessione, da contrastare con grande forza, innanzitutto sul terreno politico e poi anche su quello costituzionale,


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visto che a noi tocca riscrivere la seconda parte della Costituzione. Ritengo che la domanda dalla quale dovremmo partire è se riusciremo, riscrivendo la seconda parte del testo costituzionale, a tradurre in norme un'esigenza che altre volte ho sentito echeggiare negli interventi di altri colleghi in questa Commissione. Ritengo altresì che si debba dare una risposta ad una domanda forte di coesione sociale, che nel nostro paese ormai da tempo non esiste più; anzi molti sono i rischi di disgregazione, che dovremmo tentare non dico aprioristicamente di non rimettere in campo, ma su cui lavorare per mettere insieme elementi di coesione sociale.
La sua bozza, senatore D'Onofrio, che a questo punto del dibattito temo possa diventare il testo base della Commissione, a mio avviso non dà risposte a tale domanda, alla ricerca di coesione sociale, ma anzi - lo dico in modo forse rozzo - costituzionalizza la disgregazione già in atto ed i rischi che in tal senso già esistono nel nostro paese. Ciò perché nei fatti essa opera una scelta, quella di fondo, che è la cancellazione dello Stato. Anche questa cosiddetta separazione tra Stato - ordinamento e Stato-comunità, che in dottrina può operarsi ed è giusta, non coglie - secondo me - l'inquietudine che c'è nel nostro paese e la domanda di fondo rispetto ad un «deperimento» dello Stato-comunità. Mi chiedo attraverso quali norme, quali strumenti e scelte costituzionali lo Stato-comunità abbia una sua soggettività politico-culturale e costituzionale. Tra l'altro, anche guardando l'esperienza federalista degli altri paesi, constatiamo che esso, soprattutto quando nasce (così come sta nascendo nel nostro paese) non perché vi siano etnie già formate o perché, come accade a volte, vi sia una sorta di invocazione di etnie dall'esterno, come quando si inventa la Padania; quando esso nasce non perché vi siano altre ragioni storiche, culturali e di linguaggio, ma per motivi di carattere squisitamente economici, e quindi il federalismo ha la caratteristica di fondo di inserirsi non in un progetto di inclusione (che è poi quello del nostro spirito costituente, il cui «deperimento» porta anche a ciò), ma in un progetto di esclusione, per cui le regioni automaticamente in modo diretto, in una logica di polarizzazione che esiste a livello mondiale, si rivolgono all'Europa e negano lo Stato-nazione, lo Stato-comunità; ebbene, quando questa filosofia non viene accettata e condivisa, ma addirittura diventa la traccia per la riscrittura della Costituzione, si fa una scelta del tutto legittima (può darsi), ma a mio avviso da contrastare fortemente. Quindi, noi presenteremo un altro testo a partire da quell'articolo 1 in cui lo Stato viene cancellato, perché aver previsto che la Repubblica è costituita da regioni, comuni e province, anche se lei sostiene che la sua proposta fa riferimento allo Stato-ordinamento, nei fatti avviene la cancellazione dello Stato-comunità.
Credo che si debba andare verso il federalismo, ma andarci in modo vero. Se realmente vogliamo guardare altri modelli (in questa Commissione si fa riferimento sempre a quelli vigenti in Spagna ed in Francia), dobbiamo fermarci anche ad osservare quello adottato in Germania per capire quali pesi e contrappesi, anche in materia di legislazione rispetto allo Stato-nazione, allo Stato-comunità ed anche ai lander, sono stati ipotizzati e sperimentati; sappiamo che hanno dato qualche risultato, anche se vi sono problemi aperti che non dobbiamo nasconderci.
Dobbiamo allora partire da qui, ma quando lei illustra un elenco di materie così arido e striminzito, per cui finisce per riproporre soltanto il vecchio Stato liberale, precedente persino alla nascita dello Stato nazionale, dello Stato repubblicano, anche in questo caso lei compie una scelta legittima, ma che accentua ancora di più ed acuisce la scissione tra questione sociale e questione istituzionale.
Nel riscrivere la seconda parte della Costituzione, dovremmo tradurre la socialità e l'uguaglianza in strumenti tali da garantire, anche attraverso leggi che rimandino allo Stato nazionale, l'uniformità di principi e di criteri. Voglio sottolineare

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che, per quanto riguarda la questione delle materie, alcune di esse sono state ricordate anche dal collega Villone nel suo intervento introduttivo questo pomeriggio; per quanto riguarda le altre potremmo soffermarci su ciò che è dello Stato nazionale e su ciò che è invece delle regioni. Contesto in modo assoluto soprattutto la costituzionalizzazione dei venti statuti, che non so perché vengono chiamati speciali, visto che dovrebbero essere tutti "normali". Si tratterebbe di venti staterelli, che dovrebbero contrattare con lo Stato nazionale e soprattutto stringere un patto tra loro: siamo nel campo dell'utopia o in quello delle velleità; sicuramente ci troveremo nel campo dei conflitti aspri tra regioni e regioni, tra quelle forti e quelle deboli.
Ciò che viene messo in discussione con la sua proposta è anche la scelta che in fondo, rispetto alla questione della sovranità, perdiamo in alto ed in basso. Questo ragionamento coinvolge lo Stato-comunità e lo Stato-nazione, nel quale vi è anche una sottovalutazione delle autonomie locali, che invece possono essere l'altro tassello su cui costruire oggi il federalismo in maniera complessivamente diversa. La sua è una scelta che in realtà da una parte può riprodurre centralismi, quelli regionali, e dall'altra non darebbe risposte in basso al federalismo, se è vero che esso dovrebbe essere soprattutto una lettura dei processi positivi in atto in tanta parte del nostro paese, ai quali peraltro dare con originalità anche altri poteri.
Il collega Salvati ha fatto prima riferimento al federalismo e soprattutto alla capacità a livello di autonomie locali (dei comuni) di ridisegnare la riforma fiscale, da cui si deve partire; però nella sua proposta, senatore D'Onofrio, questo punto non mi sembra trattato in modo sufficiente.
Quindi lavoreremo per presentare un altro articolato, con un'altra definizione ed un altro equilibrio tra Stato nazionale, regioni e comuni, ma soprattutto con un'altra ambizione, che non so se riusciremmo a tradurre in norme. Non mi nascondo le difficoltà, che sono quelle di tentare di contrastare, anche attraverso il nostro lavoro in questa Commissione e più ancora in Parlamento, la disgregazione ulteriore del nostro Stato, in cui i diritti di cittadinanza, i diritti fondamentali, sono non soltanto messi in discussione, e su cui pendono una serie di domande aperte, molto spesso negative, ma sui quali vi sono anche una serie di potenzialità forti (le nuove soggettività).
Esse oggi non trovano nel patto costituzionale, così come era stato scritto nel 1948, una possibilità concreta di autodeterminarsi in senso positivo. Qualcuno ha osservato che parliamo di autonomie, e non di autodeterminazione: posso convenire, perché la parola autonomia è più forte ed è anche più rispettosa, visto che nel suo ambito rientrano limiti, responsabilità, capacità di coordinamento. Nel contempo, l'autodeterminazione è diventata per molti l'anticamera della secessione: per la mia cultura e per quello che ho imparato, anche nell'autodeterminazione possono esservi risposte positive ma a questo punto è forse meglio usare la parola autonomia.
Sul federalismo fiscale, dopo aver ascoltato Salvati, credo vi sia bisogno di rimettere le mani in modo molto concreto, per tentare di capire di più e meglio. Certo una parte dei tributi deve rimanere laddove nasce e si può quindi partire dal comune: tuttavia, si pone il problema dei sistemi reali per poter avere perequazioni. Si pone altresì la domanda dell'onorevole Mattarella: come, dove, quando si fa la redistribuzione? A questa e ad altre domande bisogna dare risposta.
Per quanto attiene alla pubblica amministrazione, posso unirmi agli altri che hanno già sollevato alcune questioni. Innanzitutto, penso che vi dovrebbe essere sobrietà nel costituzionalizzare (lo dico per questa come per altre materie). Per esempio, in questo ambito, si prevede una costituzionalizzazione del diritto di licenziare che lascia un po' sgomenti: vorrei capire come e perché, cosa scriveremo concretamente, cosa pensiamo della pubblica amministrazione. Mi sembra che a questo riguardo siano state scritte norme

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- mi scuso ancora una volta - con qualche leggerezza, cogliendo un'ansia che giustamente vi è non soltanto nella società ma anche nelle forze politiche. Tuttavia, la risposta da costruire deve essere equilibrata, misurata, affinché la pubblica amministrazione possa svolgere in modo diverso il proprio lavoro, superando finalmente il burocratismo. Tuttavia da qui a scrivere le cose che sono state scritte ce ne corre molto.
In conclusione, senatore D'Onofrio, le ripeto la nostra contrarietà alla sua relazione: presenteremo un nostro testo e lavoreremo sugli emendamenti. Il mio auspicio - mi sia consentito esprimermi in questo modo - è che il suo testo possa essere completamente stravolto. Lei ha detto che un coro di critiche, in fondo, corrisponde ad un'attenzione: certamente è così, ma io penso che nel nostro lavoro, quando vi è un coro di critiche così trasversali e forti, non solo di chi fa politica ma anche di tanti opinionisti e cittadini allarmati rispetto ai loro diritti di socialità, che non vengono garantiti dalla sua proposta, bisognerebbe poter fare qualche riflessione. Mi auguro di poterla fare insieme.

GUIDO DONDEYNAZ. Signor presidente, signor relatore, è rilevante l'impronta federalista del progetto presentato dal senatore D'Onofrio sull'ordinamento della Repubblica, che ha nel primo comma dell'articolo 3 il suo punto focale, prospettando il «rovesciamento» - essenziale allorché si voglia dare serio contenuto ad un'impostazione volta a superare il modello dello Stato regionale - della logica che presiedette alla formulazione dell'articolo 117 della Costituzione. Si legge, infatti, in tale comma che allo Stato sono riservate soltanto le materie (o gruppi di materie) ivi elencate.
Molta attenzione va posta sull'attribuzione agli statuti regionali del potere di stabilire le (ulteriori) competenze dello Stato (vedi articolo 1, comma 5; articolo 3, comma 3, nonché, di riflesso, la seconda disposizione transitoria e finale). In altre parole, saranno le regioni a stabilire gli «ambiti di competenza legislativa statale».
Sull'articolo 2, va detto che il secondo comma rende evidentemente più difficile la costituzione di nuove regioni rispetto a quanto dispone attualmente l'articolo 132 della Costituzione; senza voler sottolineare che in uno Stato federale può essere discutibile la posizione di limiti del genere. Viene peraltro da chiedersi se si sia valutata l'opportunità di inserire una formula come quella dell'articolo 145, comma 1, della Costituzione spagnola o quella dell'articolo 7, comma 1, della Costituzione svizzera, ove si ritenga di evitare il sorgere di «macroregioni».
Perfettamente in linea con l'orientamento federalista sono i primi due commi dell'articolo 3; il terzo comma può suscitare perplessità. La prima - di certo, molto affievolita rispetto a quella a suo tempo ingenerata dalla iniziale stesura del documento, quando si proponeva la deliberazione degli statuti da parte del Parlamento - riguarda l'approvazione da parte del Parlamento degli statuti deliberati dai consigli regionali: si riterrebbe preferibile una verifica di conformità con la Costituzione - o quanto meno con le disposizioni costituzionali contenenti i princìpi fondamentali, i diritti e doveri dei cittadini e le competenze riservate allo Stato - da parte della Corte costituzionale.
Si concorda pienamente sul conferimento di forza (o meglio di rango) di legge costituzionale a tutti gli statuti regionali, con procedura che si limiti a tenere conto, nei singoli casi, del giudizio della Corte costituzionale. L'altra perplessità riguarda la previsione esplicita, nei singoli statuti regionali, «degli ambiti di competenza legislativa statale»; sarebbe preferibile prevedere che gli statuti definiscano gli ambiti di competenza legislativa delle singole regioni, che potranno essere ben differenti fra loro, senza però determinare una eccessiva variabilità, ma anche una certa indefinitezza di che cosa lo Stato, in generale, possa o debba fare.


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Il quarto comma dell'articolo 3 si occupa degli attuali statuti speciali, prevedendone la revisione con gli obiettivi e le procedure che si propongono per tutti gli statuti regionali in generale. Al riguardo, sembra opportuno precisare che: le attuali disposizioni statutarie restano, comunque, intatte - salvo, ovviamente, che la regione stessa intenda parzialmente rinunziarvi - anche allorché vengano recepite dal nuovo statuto deliberato dal rispettivo consiglio regionale; modifiche migliorative che, in qualche regione e proprio per la peculiarità di essa, dovessero, in qualche modo, non essere perfettamente coerenti con le parti della Costituzione non intaccabili in generale dai singoli statuti regionali (in presenza, ad esempio, di gruppi linguistici non italofoni) potranno aver luogo soltanto con apposita legge costituzionale, deliberata dalle Camere (su proposta della regione interessata).
L'articolo 4 appare farraginoso, con tutto un andirivieni di risorse fra i vari soggetti titolari di potestà impositiva, e poco chiaro laddove fa riferimento alla «capacità di produrre gettito» da parte 7delle regioni, delle province e dei comuni. Si condividono, comunque, i princìpi della perequazione e della solidarietà.
Nella seconda disposizione transitoria e finale, il termine di cinque anni (che riecheggia quello previsto nella Costituzione spagnola, per situazioni invero non analoghe) può determinare, per il combinato disposto con l'articolo 3, terzo comma, vari differenti risultati: primo, regioni che acquisiscono subito il massimo disponibile; secondo, regioni che acquisiscono subito soltanto parte del massimo disponibile; terzo, regioni che temporaneamente non acquisiscono nuovi poteri.
Nel secondo caso, poi, potrebbe aversi l'espansione dei poteri entro il quinquennio, oppure no; nel terzo caso, l'acquisizione rinviata potrebbe avere ad oggetto il massimo disponibile, oppure no. Il quadro appare davvero un po' caotico.
Sul piano generale, infine, ritengo di sottolineare che tra i motivi che avevano determinato la concessione dell'autonomia speciale alla Valle d'Aosta vi era una situazione di bilinguismo totale unica in Italia, che ha consentito, fra l'altro, di evitare contrapposizioni di gruppi linguistici e, sviluppandosi nel solco della tradizione della Valle, ha favorito l'armonica convivenza di tutte le componenti della popolazione della regione.
È evidente che questi motivi, oltre ad essere persistenti, sono pienamente validi: anzi, per quanto riguarda la condizione linguistica, rappresentano un esempio di come la convivenza in un ambito particolarissimo possa assumere caratteri di armonia. Ritengo, quindi, che la regione Valle d'Aosta mantenga appieno le sue prerogative, sancite, appunto, nella legge costituzionale di adozione dello statuto speciale.
Ciò, ovviamente, non pregiudica l'attribuzione di un ampio potere costituente, in linea con quanto si vorrebbe stabilire per tutte le regioni. La Valle d'Aosta si avvarrebbe di tale potere, emanando - come tutte le altre regioni - un proprio statuto, il quale, nel pieno rispetto dei princìpi fondamentali della Costituzione e dei principi generali che la Costituzione medesima pone per l'ordinamento regionale, disciplini la propria organizzazione e le competenze ad essa spettanti; mentre la legge costituzionale, anch'essa rispettosa dei princìpi fondamentali della Costituzione, continuerà ad essere un'integrazione di questa per garantire, attraverso lo statuto speciale, la tutela dei caratteri peculiari della Valle, vale a dire dei persistenti motivi della sua «specialità».
Ritengo infine che il testo D'Onofrio possa essere il testo base, a cui mi riservo di presentare eventuali emendamenti conseguenti alle perplessità espresse.

GIUSEPPE VEGAS. Ritengo che il testo del relatore D'Onofrio presenti caratteristiche di flessibilità e innovazione. Con particolare riferimento all'articolo 4, in materia di risorse finanziarie, credo tuttavia che il testo sia meritevole di qualche ulteriore affinamento.
In primo luogo, esiste una sorta di asimmetria, con riferimento al comma 2,


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per quanto riguarda lo Stato e le regioni: da una parte, infatti, queste ultime dovranno attuare un'azione di perequazione al loro interno, mentre lo Stato non condurrà un'operazione di perequazione altrettanto - oserei dire - matematica. In sostanza, dovrebbe venire meno la differenziazione che esiste in realtà, per esempio, tra province ricche e province povere o tra comuni ricchi e comuni poveri nella stessa regione. È quindi necessario, forse anche nell'ambito più ristretto della regione, trovare il giusto equilibrio tra la perequazione e le istanze, per così dire, individualistiche presenti.
Una questione di grande interesse contenuta nell'articolo 4 è quella della bipartizione, che probabilmente andrà effettuata con legge ordinaria, fra tributi locali e tributi statali. Il relatore sostiene che i tributi locali saranno quelli destinati allo svolgimento di funzioni locali, salva la distinzione fra tributi regionali, comunali ed eventualmente provinciali. Se però si ragiona sulla base dell'esistente, quindi considerando gli attuali tributi locali, si può constatare, per esempio, che la futura IREP, anche ipotizzando un'aliquota del 4 per cento, coprirebbe circa la metà della spesa sanitaria. Quindi, allo stato attuale i tributi locali sono insufficienti per consentire di assolvere le funzioni attualmente svolte dalle regioni e quelle che saranno loro attribuite in futuro. Ne consegue che occorre assicurare alle regioni qualche altra ipotesi.
Su questo punto non si deve, a mio avviso, trascurare il problema della parità di trattamento dei cittadini: infatti, dovremmo più opportunamente consentire alle regioni di utilizzare quote delle imposte erariali (la legge deciderà se dovrà trattarsi dell'attuale IRPEF, ILOR, IVA, IRPEG o quant'altro), perché in sostanza queste ipotesi potranno essere gestite con meccanismi più egualitari, tali da evitare il fenomeno, che invece potrebbe verificarsi in caso di gestione da parte della regione, di una sorta di evasione competitiva tra regioni.
Credo che queste imposte locali potranno essere gestite applicando il principio di competizione e il principio di efficienza. In sostanza, stabilito che lo Stato dovrà detenere una certa aliquota, una certa percentuale delle attuali imposte erariali, la regione avrà il compito di decidere l'aliquota sulla restante parte, destinata alle proprie funzioni, sulla base di una duplice scelta: innanzitutto, potrebbe fissare il livello dell'aliquota (per esempio, dell'IRPEF o dell'IVA, questo si potrà valutare in seguito) in funzione del costo del servizio che la regione sarà chiamata a rendere. Ma credo che essa potrà anche scegliere se e come rendere il servizio: in sostanza, la regione potrà decidere se sia il caso di rendere un determinato servizio o lasciare i cittadini liberi di acquistarlo per conto proprio sul mercato, oppure se eventualmente rendere un servizio più costoso ma di qualità migliore, incentivando così i cittadini a utilizzarlo.
Con questo meccanismo, gli stessi cittadini sarebbero in grado di giudicare e di scegliere: una visione, per così dire, illuministica indurrebbe ad affermare che i cittadini potrebbero scegliere con i piedi e decidere in quale regione andare ad abitare; forse il nostro paese è ancora un po' indietro in questo tipo di scelta, ma sta di fatto che i cittadini sarebbero liberi di scegliere tra un livello impositivo più basso e servizi migliori. Questo sarebbe già un passo in avanti rispetto all'attuale meccanismo più automatico.
Per quanto riguarda le imposte statali, il testo prevede sostanzialmente che esse debbano essere destinate a tre finalità, due delle quali sono certamente condivisibili: una è costituita dal mantenimento dello Stato centrale e delle connesse spese, l'altra è quella della perequazione. Sotto questo profilo, credo siano abbastanza convincenti le osservazioni svolte anche dall'onorevole Salvati.
Il terzo indirizzo dell'imposizione statale, quello relativo alla restituzione, fa sorgere in me alcuni dubbi, per una serie di motivi, ed innanzitutto perché la restituzione implica di per sé dei costi di transazione: queste imposte andrebbero dalla regione allo Stato e poi da quest'ultimo

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dovrebbero tornare indietro alla regione, per cui si avrebbe una serie di costi aggiuntivi che francamente si potrebbero anche evitare. Ma non solo: in sostanza, questa restituzione costituisce una sorta di moltiplicatore automatico dell'imposizione, in quanto nessuno - né lo Stato né le regioni - sarebbe incentivato a ridurre la spesa, dato che la restituzione avverrebbe in base al reddito prodotto, indipendentemente dai risparmi nell'erogazione dei servizi.
Con questo sistema, si introduce un meccanismo che impedisce un abbassamento delle aliquote e tende a far crescere nel tempo queste ultime e parallelamente la pressione fiscale, come fossero una sorta di variabile indipendente. Tra l'altro, il meccanismo della restituzione potrebbe essere anche non necessario, considerato che i soldi provenienti dalla restituzione delle imposte possono essere utilizzati per migliorare il numero o la qualità dei servizi resi dalle singole regioni (questo, in sostanza, avverrebbe tramite l'utilizzo della quota regionale delle imposte erariali) oppure per ridurre la pressione fiscale in una determinata regione; poiché si tratterebbe di una sorta di restituzione al contribuente, converrebbe farlo direttamente, consentendo alle regioni di esercitare una pressione fiscale meno elevata.
La conseguenza è che, se si rimuovesse questa parte relativa alla redistribuzione mantenendo imposte di carattere locale e imposte di carattere statale e tenendo conto della necessità di porre i cittadini nella stessa condizione per quanto riguarda l'obbligo di soggezione all'imposta, allora sarebbe opportuno ipotizzare che un'aliquota delle imposte erariali andasse direttamente allo Stato e fosse utilizzata per le finalità proprie e per la perequazione. Tale aliquota potrebbe essere stabilita sulla base di una sorta di parametro capitario di questo tipo di bisogni da parte della popolazione, che sarebbe una misura di carattere tutto sommato aritmetico e quindi relativamente semplice.
La restante parte dell'aliquota erariale, da decidere nel livello, nel quantum da parte delle regioni, potrebbe servire a finanziare le funzioni che sono trasferite alle regioni dalla Costituzione.
A questo punto, sorge un problema: come funziona questo meccanismo nello schema D'Onofrio, considerato che esso prevede un insieme di funzioni variabili, il che ovviamente complica un po' il meccanismo? È chiaro che, se si ripartisse semplicemente il gettito dei tributi tra Stato e regioni, queste ultime avrebbero interesse ad acquisire, checché se ne dica, meno funzioni e comunque solo quelle più remunerative, scartando e lasciando allo Stato le funzioni più sgradevoli, quelle che comportano costi maggiori o che sono comunque deficitarie. Si potrebbe verificare la fattispecie in cui una regione impone determinati tributi per assolvere proprie funzioni e quelle stesse funzioni sono svolte in un'altra regione con tributi tratti dalla fiscalità generale; quindi, i cittadini della regione A pagherebbero due volte le stesse imposte, una volta per le funzioni svolte nella propria regione, un'altra volta sotto forma di imposta statale per le funzioni svolte in altre regioni da parte dello Stato. Questo sarebbe un effetto di carattere paradossale e non condivisibile.
D'altra parte, il meccanismo plurincognite previsto nel testo D'Onofrio non sarebbe di facile definizione se si dovesse ripartire la spesa pubblica secondo le funzioni e le regioni. In sostanza, se ipotizziamo - propongo un esempio a titolo meramente esemplificativo - cinquanta funzioni che possono essere svolte dalle regioni, moltiplicando il numero delle funzioni per venti regioni dovremmo dare soluzione ad una equazione con mille incognite, che andrebbe al di là delle capacità sia programmatorie sia attuative di qualsiasi politico, anche se dotato di capacità superiori alla media.
A questo punto, la soluzione ipotizzabile non può che essere quella, da un lato, di salvaguardare la contrattazione, che però dovrebbe svilupparsi in due sensi (tra Stato e regioni e tra queste ultime e Stato), e, dall'altro, di evitare che siano contemporaneamente innescati i meccanismi

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redistributivi di carattere puramente erratico. Per lasciare libere le regioni di scegliere le funzioni da esercitare effettivamente, si potrebbe anzitutto stabilire che tutte le funzioni non comprese nel comma 1 dell'articolo 3 della bozza D'Onofrio siano direttamente affidate alle regioni; dopodiché, si potrebbe definire una sorta di prezzo per ogni tipo di funzione, cosa che sarebbe relativamente facile perché, avendo riclassificato il bilancio dello Stato per centri di costo e per funzioni, si potrebbe fissare una sorta di costo standard per funzione, divisibile su base capitaria. Si tratterebbe di un'operazione relativamente complessa ma comunque facilmente attuabile utilizzando gli strumenti a nostra disposizione.
In conclusione, le regioni possono essere lasciate libere di esercitare in proprio la funzione, che sarebbe dalle stesse automaticamente acquisita, oppure si potrebbe prevedere di fare esercitare tali funzioni a pagamento, con versamento di un certo costo standard da parte dello Stato. In questo modo si realizzerebbe una sorta di meccanismo di pesi e contrappesi, in base al quale le regioni avrebbero la possibilità di decidere se privilegiare la qualità del servizio oppure l'economia di scala che deriverebbe dalla funzione esercitata dallo Stato che, essendo un'entità più grande e dotata di migliori strumenti, potrebbe far costare lo stesso servizio meno di quello che costerebbe alla regione. Potrebbe anche accadere il contrario, qualora la regione fosse più efficiente.
Con questo meccanismo, che è più semplice di quanto potrebbe apparire, si potrebbero ottenere alcuni risultati che invece l'attuale formulazione del testo proposto non consentirebbe di conseguire. Innanzitutto, ne deriverebbe in ogni caso un meccanismo che tenderebbe a far scegliere comunque il servizio meno oneroso (si procederebbe, quindi, verso l'efficienza del sistema); inoltre, si incentiverebbe la razionalizzazione dello svolgimento delle funzioni amministrative, con l'obiettivo di conseguire minori costi per il contribuente e, contemporaneamente, si consentirebbe di far conoscere quanto costa effettivamente ciascun servizio.
Come corollario di questa prospettiva, va ovviamente considerata la competizione fra Stato e regioni e tra queste ultime tra di loro, sia sui prezzi sia sulla qualità dei servizi. In conclusione, sarebbe mantenuta una libertà di scelta giocata sulla qualità e sul prezzo, che potrebbe effettivamente dar luogo al miglioramento complessivo della qualità dei servizi pubblici, alla diminuzione del costo per la collettività ed eventualmente, in seconda battuta, ad un alleggerimento della pressione fiscale o, se si preferisce, ad un migliore utilizzo delle risorse.

MAURIZIO PIERONI. Anch'io cercherò di attenermi al sentimento della pietà evocato dal collega Loiero, evitando di pesare troppo...

PRESIDENTE. Io, che sono l'unico ad aver seguito tutti i lavori, non drammatizzerei!

MAURIZIO PIERONI. Cercherò, comunque, di essere breve.

PRESIDENTE. Il dibattito, a tratti, è stato anche interessante.

MARCO BOATO. Presidente, perché dice di essere l'unico ad aver seguito i lavori?

PRESIDENTE. Perché sono l'unico che è rimasto seduto qui dall'inizio alla fine. Lo dico - diciamo così - perché mi sono visto, non perché si tratti di una mia opinione.

MAURIZIO PIERONI. Presidente, esordirei dicendo che per il gruppo dei verdi il testo proposto dal relatore è accettabile come testo base. In tal modo stabiliamo un elemento politico, lo stesso che in un certo senso ci ha orientato ad essere più favorevoli ad un percorso che attenesse ad un esame del testo stesso nella maniera più ravvicinata possibile. Avremmo preferito cominciare a lavorare fin da ora sugli


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emendamenti, perché il rischio che il dibattito possa sfilacciarsi è assai elevato.
Nel contempo, debbo sottolineare gli elementi di distinzione. L'elemento di distinzione sostanziale riguarda l'ipotesi, peraltro precipitata nel dibattito in maniera un po' estemporanea rispetto ai lavori del Comitato, della statutarizzazione costituzionale degli statuti regionali. I motivi di diffidenza rispetto a tale ipotesi sono stati posti in evidenza da molti colleghi che mi hanno preceduto. Mi limiterò, pertanto, a sottolineare due aspetti fondamentali. Anzitutto, vedo in questo tipo di impostazione un modello più statico che dinamico; credo che, se procedessimo secondo il modello proposto dal relatore, ci troveremmo di fatto a non invertire l'attuale struttura dell'articolo 117 della Costituzione. Avremmo, anziché un elenco ristretto delle competenze regionali, un elenco articolato in venti cassetti, ma nella sostanza ci troveremmo di fronte ad un modello che individuerebbe le competenze regionali, lasciando una vasta area di determinazione che di fatto sarebbe esercitata dallo Stato, visto che nelle istituzioni e in politica non sono ammissibili vuoti. Poiché non stiamo scrivendo norme che valgano per questi giorni ma che, invece, hanno l'ambizione di guardare avanti, per lo meno da qui a qualche decennio, di fronte alla continua emergenza di tematiche dalle quali ogni giorno siamo toccati (ricordo tutto ciò che non è rinvenibile nel precedente testo costituzionale rispetto a questioni che oggi ci troviamo ad affrontare, dalla manipolazione genetica a tutta un'altra serie di problematiche che non potevano essere apprezzate all'epoca), mantenere un modello rigido, improntato più su uno schema fotografico che su una dinamica di movimento, ci appare pericoloso e poco adatto per l'avvenire.
La seconda ragione di perplessità è legata al ruolo di arbitro dello Stato, tesi che abbiamo sostenuto con convinzione nel corso del dibattito svoltosi presso il Comitato forma di Stato. Abbiamo sempre sottolineato come a nostro avviso, lo Stato dovesse fissare le regole, dettare le misure del campo da gioco e stabilire le regole del gioco, lasciando poi alle regioni e alle autonomie locali il compito di giocare. Uno Stato investito di elementi di contrattazione tanto forti ha difficoltà ad esplicare questo ruolo. Quando parliamo di diritti di cittadinanza - io direi di nuovi diritti di cittadinanza, perché forse questo è l'elemento più suggestivo del nostro lavoro, quello cioè di aprire una frontiera di tematiche nuove che ci sono state sottoposte nel corso delle audizioni, segnatamente in quella dei rappresentanti del mondo associativo -, quando pensiamo agli standard di produttività e di efficienza citati dal collega Salvati, ebbene, perché lo Stato sia garante di questi nuovi diritti di cittadinanza, dobbiamo pensare ad uno Stato che, nella dinamica con gli altri soggetti costitutivi della Repubblica, abbia un ruolo di terzietà, di arbitrato, cioè che non sia direttamente coinvolto in una quotidiana contrattazione, che di fatto lo priverebbe di quel ruolo.
Ovviamente, ci misureremo con la riformulazione che il relatore vorrà riproporre alla Commissione sulla base delle indicazioni emerse nel dibattito. Qualora il testo rimanesse negli stessi termini di oggi, ci troveremmo costretti a presentare una serie di emendamenti sostanzialmente imperniati su una questione già sottolineata dall'onorevole Mussi: l'individuazione precisa, attraverso un elenco il più possibile ampio ed esauriente, delle competenze statali, cosa tutt'altro che antagonista rispetto ai modelli federali o addirittura confederali. Mi permetto di ricordare che la Costituzione svizzera - cioè quanto di più confederale riusciamo ad ipotizzare - arriva a prevedere 91 competenze della confederazione. Questo ci sembra il passaggio in qualche modo dirimente, accantonato il quale ci sentiamo - pur aprendo poi dibattiti specifici - di poter convenire con l'oggetto della proposta.
Un ulteriore elemento di correzione forte va secondo noi introdotto nel rapporto tra le regioni e le autonomie locali. Ci sono, all'interno dell'articolato, elementi

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di gerarchizzazione che contrastano con gli assunti stessi del relatore rispetto sia all'articolo 1 sia alla sua relazione. L'idea delle regioni che dettano i sistemi elettorali dei comuni del loro territorio finisce per eliminare quell'elemento di pariteticità istituzionale che dovrebbe essere invece uno degli aspetti fondanti del modello che andiamo a licenziare.
Da questo punto di vista, proprio invocando quel ruolo di terzietà e di arbitrato dello Stato, riteniamo che la collocazione di certi poteri vada orientata verso lo stesso Stato, mentre ovviamente le regioni sono soggetti autonomi per quel che riguarda la loro capacità di dotarsi di regole nel quadro statutario. Altrimenti finiremmo inevitabilmente con lo stabilire una gerarchia di fatto che altera gli equilibri che abbiamo posto alla base della nuova scelta.
Due altri elementi di distinzione su cui presenteremo emendamenti sono relativi, in primo luogo, alla questione delle province, per come essa è stata introdotta. Non sono per l'abolizione delle province tout court; sono anzi un fermo assertore della necessità di enti intermedi di gestione del territorio. Ritengo però che se dobbiamo essere obiettivi e pensare ad un patto fondativo in cui interagiscano soggetti istituzionali paritetici nello stesso territorio, l'ipotesi che in quest'ultimo vi siano due soggetti - regioni e comuni - mi pare sostenibile, mentre che ve ne siano addirittura tre mi sembra poco realistico da immaginare nella sua funzionalità.
Ciò non significa che non debbano esistere enti intermedi - chiamiamoli pure province - o che non debbano essere elettivi; ho forti perplessità sul loro inserimento tra i soggetti costitutivi della nuova Repubblica, un po' per le ragioni che ho già detto, di ordine funzionale e costituzionale, ed un po' anche per motivi storici. È ovvio pensare allo Stato come ordinamento o alle regioni (perché questo abbiamo) oppure ai comuni, perché la nostra storia è comunale; ma che i distretti napoleonici si pongano nella storia di questo paese in modo paritetico ai comuni mi sembra difficile concederlo.
Certo, le province debbono essere strumenti più flessibili; ma entriamo anche qui nel tema delle gerarchie. Condivido pienamente la parte dell'articolato nella quale si individua la capacità di flessibilizzazione degli strumenti e quindi si parla di ridefinizione dei territori e delle comunità. Tutto ciò mi sembra più che logico ma mi pare difficilmente attuabile tra soggetti istituzionalmente paritetici dal punto di vista costituzionale.
Un'ultima osservazione: non riapro il dibattito in tutte le sue connessioni, ma mi limito a denunciare la diffidenza ed il sospetto verso il richiamo che riemerge in continuazione circa la Camera delle autonomie o Senato delle regioni, sotto varie forme, perché una delle ragioni principali che dovrebbero indurci a questa scelta federalista è la necessità di mettere in campo un meccanismo di inversione rispetto alle dinamiche oggi presenti. Non ho un'ostilità preconcetta o di principio, né essa deriva dal mandato senatoriale; ho seri timori su un luogo di concertazione il quale, anziché contribuire a modificare la realtà del paese, la stratifichi in via definitiva.
Un federalismo brutto di fatto già lo abbiamo: basta prendere il treno per andare da Roma a Milano e ci troviamo in un paese ferroviario; se prendiamo il treno da Bari a Napoli, ci troviamo in un paese completamente diverso. Temo che un luogo di concertazione con situazioni acquisite che siano già forti finirebbe per stratificare in via definitiva questa realtà di fatto e quindi per disinnescare quel meccanismo di competizione che dovrebbe liberare nuove energie.
Se il relatore su questi argomenti vorrà riarticolare le sue proposte ne saremo sicuramente lieti. In ogni caso, su questi fronti ci prepariamo a svolgere il nostro lavoro emendativo, ringraziando comunque lo stesso relatore per aver dato l'opportunità alla Commissione di misurarsi su una base sostanzialmente accettabile.


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VALDO SPINI. Signor presidente, onorevoli colleghi, credo che quello che accade attorno alla bicamerale ci consigli di lavorare al massimo per il suo successo. Basterebbe guardarsi intorno, agli pseudoreferendum in atto oppure al fatto che domani si riuniscono un gruppo di regioni che ha come vertice nord la Toscana e come vertice sud l'Abruzzo; qualche giornale impropriamente commenta: «Centronia: voglia di contare di più».
Siamo di fronte ad una serie di fenomeni per i quali dovremmo effettivamente fissare punti di riferimento precisi. Anch'io voglio quindi compiere uno sforzo per dare un breve contributo - credo che i minuti a mia disposizione siano pochi - e cercare di dire al relatore due cose con molta franchezza.
Anzitutto, vorrei lodare il suo sforzo. È noto che non si impara a nuotare senza bagnarsi; però può anche succedere di bagnarsi molto nuotando. Egli, con grande merito, ha prefigurato un federalismo e credo che con altrettanto merito debba recepire i contenuti di un dibattito che penso possa fortemente arricchire il testo.
In primo luogo, non dobbiamo parlare in astratto ma pensare che le nostre ricette debbono applicarsi all'Italia del 1997. Non siamo a Filadelfia, delegati degli Stati che poi si sono federati negli Stati Uniti, né siamo i lander tedeschi che si costituirono separatamente e poi si unificarono. Noi siamo parlamentari italiani eletti nella bicamerale per realizzare un federalismo come work in progress, consistente cioè in un trasferimento di potere e di competenza che si attua cambiando marcia ad un motore in corsa, e non fermando il motore della macchina Italia.
Da questo punto di vista, vorrei - anche se mi manca il tempo - spiegare da che prospettiva proporrei modifiche partendo da un minimo di analisi della situazione italiana: mi riferisco al rapporto tra Stato, regioni e comuni. In estrema sintesi, le attuali venti regioni italiane sono il punto di riferimento del progetto di D'Onofrio ed hanno talune competenze che vogliamo ampliare; le stesse competenze di oggi vengono gestite negli spazi piuttosto limitati riconosciuti da uno Stato troppo spesso invadente nella legislazione e nell'amministrazione, un'invadenza che oggi però mi pare temperata dall'approvazione dei disegni di legge Bassanini che indubbiamente, nell'ambito infracostituzionale, hanno inciso.
Tuttavia, abbiamo riconosciuto che queste venti regioni non hanno il potere di esercitare le loro competenze attuali e le molte altre che vogliamo attribuire loro.
Vediamo poi che vi è un forte potere politico delle grandi amministrazioni comunali, prive però di un'effettiva autonomia sia dal punto di vista dell'utilizzo delle risorse proprie, sia da quello dei loro poteri rispetto a regioni e Stato.
Vi è poi uno Stato che sarebbe anche centralistico ma che, quando è chiamato ad effettuare grandi progetti (infrastrutture, eccetera), impiega tempi assurdamente lunghi, il che di fatto comporta gli svantaggi del centralismo assommati a certi difetti del localismo perché i poteri sono stati stratificati e disordinatamente connessi.
Quindi abbiamo una pluralità di fonti normative, spesso invadenti e sovrabbondanti, un sovradimensionamento ed una stratificazione di amministrazioni in cui si moltiplicano i procedimenti ai vari livelli per raggiungere lo stesso obiettivo, una sostanziale irresponsabilità delle pubbliche amministrazioni con riferimento all'impossibilità del cittadino di partecipare e controllare le scelte (chi veramente ha voluto l'alta velocità, chi vi si è opposto?). Ciò provoca il distacco dello stesso cittadino.
Questi sono i complicati rapporti tra i vari livelli. In tale schema il suo progetto, senatore D'Onofrio, pur lodevole in via teorica, se non è corretto e precisato rischia di portare non più razionalità e decentramento - e quindi più partecipazione dei cittadini e, se mi è consentito, anche minori spese, perché se continuiamo a inframettere sempre più livelli di responsabilità sicuramente la pubblica amministrazione costerà di più - ma ulteriori stratificazioni, differenziazioni e

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quindi ulteriori irresponsabilità per la pubblica vamministrazione.
Se si condivide l'analisi delle difficoltà, delle sofferenze del rapporto Stato-regioni-comuni, credo si debba procedere in sede di comitato di coordinamento - perché mi è sembrato di capire che sul testo base unificato si potranno apportare modifiche e riformulazioni da parte dei relatori - all'approfondimento di almeno tre punti.
Innanzitutto, ed è il primo punto, è giusto che i poteri delle regioni siano ampliati in modo sostanziale, procedendo in vari modi: precisando i poteri dello Stato come ha suggerito l'onorevole Mussi, oppure, come aveva indicato la Commissione De Mita-Jotti, ampliando gli elencati poteri delle regioni. Un altro modo, più flessibile, è quello presentato dal senatore D'Onofrio che non prevede obbligatoriamente gli stessi poteri per le stesse regioni; in questo caso, però, deve esistere una sede in cui la devoluzione di competenze dallo Stato alla regione sia programmata comunemente. Questa non può essere decisa unilateralmente dai singoli consigli regionali e ratificata dal Parlamento, perché sarebbe estremamente imbarazzante per il Parlamento porre questo stop, questo semaforo. Se vogliamo evitare un regionalismo parziale e la riproposizione di uno Stato che dovrebbe aver devoluto alle regioni le competenze ma che di fatto è tuttora centralista, deve esistere, ripeto, una sede in cui il trasferimento avvenga in modo programmato, di comune intesa per evitare frazionamenti e spezzettamenti territoriali di competenze. Altrimenti, a chi spetterebbe il rammendo del tessuto? Tra l'altro, così facendo i cittadini non soffrirebbero di ulteriori aumenti dei costi dei servizi - pensiamo al costo di ministeri che dovrebbero lavorare solo per sette o otto regioni perché le altre ne farebbero a meno - o di disservizi della pubblica amministrazione. Non si dimentichi che dietro la tematica del federalismo vi sono due domande precise, dato che si vuole risparmiare nelle spese ed avere più efficienza, chiarezza, responsabilità e maggiore partecipazione.
Il primo punto è dunque non procedere alla ricucitura ex post delle deliberazioni dei singoli consigli regionali, bensì prevedere una sede in cui vi sia una programmazione comune dell'attribuzione di responsabilità.
Con il secondo punto credo di sfondare una porta aperta. Non v'è dubbio che si deve modificare la parte seconda della Costituzione senza creare uno squilibrio con la prima. Vi potrebbe essere, infatti, uno squilibrio tra il testo D'Onofrio e l'articolo 5 secondo il quale «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali»; così come vi potrebbero essere squilibri relativamente agli articoli 33 e 34 in materia scolastica, posto che all'articolo 33 si sancisce che «la Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi» (non richiamo, per brevità, il contenuto dell'articolo 34). In proposito avanzo una proposta concreta, come del resto faranno altri colleghi: all'articolo 3 del testo D'Onofrio proporrei di inserire, dopo le parole «elezione del Parlamento europeo; bilancio ed ordinamenti contabili propri», le parole «riserva di legge connessa ai diritti fondamentali di cui alla prima parte della Costituzione». Con tale precisa dizione risulterebbe chiaro che questa non è materia di contestazione o di contrattazione tra Stato e regioni, perché vige una riserva di legge statuale. Naturalmente da ciò discenderebbero una serie di conseguenze nei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose, e così via, sempre nell'ambito dei diritti fondamentali.
Il terzo punto che mi pare emerga dal dibattito lo collego all'articolo 5 dell'attuale Costituzione «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Secondo il senatore D'Onofrio la Repubblica è formata da comuni, province, regioni e Stato; il che corrisponde al vero. È altrettanto vero però che rimane pur sempre la dizione «una e indivisibile» che contrasta con l'idea di attribuire agli enti locali poteri differenziati. Meglio, una soglia minima di poteri agli enti locali, alle città ed alle

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aree metropolitane deve essere definita a livello nazionale, attribuendo alle regioni la libertà di concederne di più; non credo si possa sancire la libertà di darne di meno. Ciò alla luce sia del dettato costituzionale, sia del fatto che il dibattito in ambito locale è proseguito e la nostra risposta è tuttora insufficiente: si pensi alle aree metropolitane, di cui tutti avvertiamo l'esigenza, ma che non sono mai decollate perché le stesse regioni, alle quali era stato attribuito il compito di realizzarle - ce lo ricordiamo! -, non l'hanno eseguito. Mi domando se questo non sia un tema di carattere generale, sul quale è interesse di tutti prevedere delle soglie e applicare correttamente l'articolo 5 della Costituzione.
Mi sembra sia anche sfuggito il referendum nazionale, perché si parla di attribuzioni di carattere elettorale relative al funzionamento delle istituzioni dello Stato, ma il referendum di per sé non attiene al funzionamento dello Stato; così come alcuni aspetti di carattere elettorale potrebbero essere ampliati. Forse quanto sto per dire contrasta con taluni principi, ma da uomo della strada mi chiedo: è bene che la regione siciliana continui ad avere la proporzionale pura e non si sia inserita nell'ambito della riforma più generale, che ha pervaso l'insieme degli ordinamenti? Sono temi sui quali converrebbe procedere ad un approfondimento. Capisco che forse sarebbe opportuno e utile una esposizione più lunga e dettagliata, però mi sembra di essere stato chiaro, pur nella sinteticità della trattazione, anche perché mi sono ricollegato a quanto affermato dai colleghi appartenenti al mio stesso gruppo - penso all'aspetto finanziario trattato dal collega Salvati o a quanto dichiarato dall'onorevole Mussi - affinché si compia un'operazione che abbia una reale tenuta. In altri termini, che si delinei un processo capace di diventare veramente un punto di riferimento per la crisi che attraversa il nostro paese.

LEOPOLDO ELIA. Il testo del relatore ha suscitato interventi molto vivaci che dimostrano come il punto di partenza sia valido; dimostrano cioè che senza una forte reazione al centralismo attuale si rischia di fare opera autolesionistica dal punto di vista delle prospettive che potrebbero svilupparsi non solo nel nord, ma anche nel sud. Tensioni gravi che dobbiamo prevenire.
In senso opposto sarebbe autolesionista che talune scelte prescindessero dall'esperienza storica degli Stati federali che abbiamo maturato. È indubbio che la banda di oscillazione, che rimane nella proposta D'Onofrio circa i famosi statuti adottati con legge costituzionale, è eccessiva, e rischia di mettere in allarme tutti, sia chi si preoccupa di più dei poteri dello Stato, sia chi si preoccupa della garanzia per le sfere di competenza regionale. Troppo è possibile perché qualcosa sia veramente garantito o assicurato.
Non è tanto una contrapposizione tra decentramento e federalismo che viene in campo, quanto la famosa domanda: quale federalismo? Credo che il nostro federalismo debba essere in larga misura omogeneo, non identico per tutte le peculiarità che abbiamo sottolineato, ma - ripeto - omogeneo, nel senso di tener conto dei criteri generali che possiamo trarre dalle esperienze del federalismo.
Come criterio generale credo che dobbiamo assumere innanzitutto a nostro carico il principio di responsabilità. Ci esporremmo all'accusa di escapismo se scaricassimo sui negoziati futuri tra singole regioni e poteri statali la definizione delle competenze che riserviamo allo Stato centrale e di quelle che, almeno residualmente, attribuiremmo alle regioni. Non sono stato un sostenitore del cosiddetto federalismo dualista o - come è stato chiamato qui - competitivo, che potrebbe meglio chiamarsi dualistico separatistico, perché ho accentuato l'aspetto processuale del federalismo. Però ci vogliono alcune certezze di partenza, senza le quali non è possibile instaurare un processo coerente soprattutto con quello che abbiamo fatto in occasione della legge - sia pure ordinaria - Bassanini. Non possiamo consentire che la sfera del potere


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legislativo dello Stato sia inferiore alla riserva in campo amministrativo, semmai è il contrario, nel senso che le competenze legislative dello Stato possono essere più ampie di quelle amministrative. Non può essere vero il contrario, perché altrimenti non solo cadremmo in una contraddizione seria ma soprattutto andremmo contro una volontà manifestata recentemente dal Parlamento - non importa se in sede di legislazione ordinaria - una volontà che in qualche misura continua a vincolarci.
Non mi soffermo sulle semplificazioni, sulle grandi strutture, sulla tutela dei beni culturali, così importanti per l'Italia: si tratta di una serie di materie che, senza arrivare alle quarantotto che nella legge fondamentale tedesca assommano le competenze esclusive dello Stato con quelle concorrenti, di cornice, ci garantisce una base unitaria. Ciò riguarda non tanto il centralismo quanto l'unità della Repubblica - alcuni richiami in proposito sono stati fatti recentemente - poiché la potestà su tali materie non potrebbe essere attribuita, come variante, ad una disponibilità del rapporto Stato-singola regione, come non potrebbero esserlo (articolo 33, secondo comma) gli ordinamenti generali sull'insegnamento e sui programmi. Infatti questi non possono essere consegnati a chi li userebbe per costituire una base anche propagandistica dell'autodeterminazione.
Quali sono le certezze di oggi? Da una parte questo elenco più corposo di competenze statali su cui c'era e c'è un largo accordo all'interno del Comitato e penso anche della Commissione plenaria. La seconda certezza è data, a mio avviso, dalla legge n. 59 del 1997, la cosiddetta legge Bassanini. Si tratta di una certezza perché opera in anticipo sulla rottura del principio del parallelismo tra competenza legislativa dello Stato e competenza amministrativa, realizzando un salto che sostanzialmente è di natura costituzionale. Dovremmo studiare come comportarci con la legge Bassanini, cioè se costituzionalizzarla sia pure con un rinvio ma comunque costituzionalizzando il principio della rottura del parallelismo tra potestà legislativa e amministrativa. A me sembra che questo sia un punto fondamentale dell'evoluzione verso il federalismo. Questo orientamento che parla di conferimenti e deleghe anticipa largamente la scelta per il federalismo di esecuzione o di amministrazione, una scelta implicita che non sarà a favore delle regioni, come in Germania, ma sarà in buona parte a favore dei comuni, delle province o di altre entità. Si tratta comunque di un orientamento verso il federalismo prevalentemente di amministrazione, come avviene largamente negli stati contemporanei.
Quali sono le zone di incertezza? Sono quelle su cui mi fa piacere abbia convenuto anche il collega Villone, che era forse il più deciso sostenitore di una scelta della nettezza e del rigore. È difficile prescindere in uno Stato contemporaneo da queste zone grigie, come giustamente le ha chiamate. Mi riferisco alla possibilità che all'interno di un elenco più lungo di materie statali ci siano in realtà dei settori che possono essere affidati in parte alla legislazione regionale, come avviene per l'amministrazione, dove anche nei settori riservati dalla legge Bassanini allo Stato vi sono parti che potrebbero essere affidate all'amministrazione regionale a certe condizioni.
Abbiamo quindi due esigenze, quella di affidare a certe condizioni alle regioni una parte di legislazione che in principio sarebbe inclusa nelle materie statali e quella di unificare taluni criteri della legislazione che residualmente spetta alle regioni. Mentre abbiamo un'indicazione chiara per la ripartizione delle competenze amministrative, altra questione riguarda la ripartizione delle competenze legislative. Su questo punto è fondamentale sapere se esista o meno una sede, a livello costituzionale, che consenta di individuare leggi bicamerali codecise. Se la risposta è affermativa e il sistema prevede questa procedura di codecisione non con una singola regione ma con il complesso delle rappresentanze regionali, penso non sia utile elencare le materie legislative statali da un lato e quelle regionali esclusive

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dall'altro, e quindi prevedere nella zona grigia un sistema come quello della legislazione concorrente tedesca. Sarebbe molto più utile stabilire invece due elenchi di materie statali, un primo riservato alla legge statale in assoluto ed un secondo alla competenza statale codecisa (qui porrei clausole relative o all'interesse nazionale generale o ad altri aspetti relativi ad esigenze di carattere unitario); per il resto procederei nel senso che la competenza residua sia tutta del legislatore regionale. In sostanza, il sistema funzionerebbe nel senso di elencare solo e sempre competenze riservate allo Stato: alla legge statale pura e semplice, le prime; alla legge bicamerale - o comunque codecisa -, le seconde. Le regioni avrebbero comunque una competenza generale e residuale.
L'esistenza di un potere statale codeciso potrebbe consentire, poi, che con una legge di codecisione si stabiliscano anche elementi di uniformità per tutti i legislatori regionali. In questo caso si potrebbero eccezionalmente elencare anche le materie: ma io preferirei una residualità non descrittiva, nel senso di non dover aggravare la struttura delle norme con ulteriori elenchi.
Per quanto riguarda i tempi dei trasferimenti e la possibile variabilità, non mi preoccuperei tanto del conferimento della potestà legislativa in sé, quanto del collegamento tra potere legislativo e risorse messe a disposizione delle regioni.
Penso che su questa strada si potrebbe concretamente proseguire, dando un certo spazio a leggi di armonizzazione per l'esercizio dei poteri legislativi regionali quando questi siano già stati esercitati e si debba constatare la necessità di una armonizzazione. Mi regolerei, quindi, sperimentalmente, intervenendo direttamente in corso d'opera.
Il punto decisivo è che l'arrivo sia comune: magari dopo qualche anno, ma comune a tutto il paese. Non possiamo permetterci la soluzione che potenzialmente avrebbe potuto verificarsi in Spagna: punti di arrivo molteplici e diversi. In concreto la Spagna si è omogeneizzata notevolmente, ma è in difficoltà. Mi pare di grande rilievo ciò che è stato detto in proposito da Bressa, da D'Amico e da altri colleghi. Non dobbiamo acriticamente aderire a situazioni di difficoltà; in Spagna - come abbiamo potuto constatare - si è instaurata una rincorsa tra le regioni di punta in base alle norme che consentono di allargare, senza un limite preciso, le competenze.
Su questo punto è stato detto giustamente che la geometria variabile può essere sopportabile nel corso del trasferimento delle competenze; ma alla lunga, specialmente se residuasse alla conclusione del percorso, ci porterebbe a situazioni gravi sul piano dei costi ma anche a possibili eccessive divaricazioni fra le regioni. Singole regioni, infatti, potrebbero delocalizzare imprese industriali o attività economiche e creare più facilmente situazioni di maggior favore e di incentivi (se per alcune di esse rimanessero i ministeri e per altre no), provocando situazioni di ulteriore difficoltà.
Certo non dobbiamo adottare criteri assolutamente rigidi: per esempio, negli investimenti all'interno delle regioni è chiaro che quando l'ambito comunale sia stato superato dovrebbe sussistere lo spazio per un coordinamento regionale. Le regioni dovrebbero poter promuovere la creazione di sistemi-regione in cui convergano problemi - più che di competenze - di policies pubbliche. Si tratterebbe di favorire la convergenza tra interventi della regione, delle province, dei comuni.
Qualcuno ha voluto trarre dalla proposta del relatore una sorta di parallelismo fra il federalismo più spinto e la necessità di adottare una soluzione presidenzialista. Io credo che un parallelismo di questo tipo non esista. Comunque, se esistesse, converrebbe correggere e ridurre - in proporzione alla nostra possibilità - il federalismo, piuttosto che adottare soluzioni che in Francia non a caso non si conciliano con una tendenza federalista. In Francia non c'è federalismo, ma un regionalismo molto difficile. Evitiamo allora questi facili parallelismi, che non hanno riscontro nella realtà storica.

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Oltre a tener conto dei notevoli contributi offerti nel dibattito di oggi (non faccio nomi per non prolungare i tempi del mio intervento) coloro che volessero avere un quadro del lavoro compiuto dal Comitato forma di Stato possono attingere soprattutto al bollettino n. 9 delle sedute dei comitati. Potranno vedere che vi è stato il contributo del relatore e di tutte le componenti del Comitato; non lo dico per dare riconoscimenti o pagelle, ma perché può essere utile rendersi conto della complessità dei problemi che sono stati affrontati. Non tocco l'argomento del federalismo fiscale, ma sottolineo che è utile prendere cognizione delle difficoltà che restano da superare per arrivare ad un testo che sia non pienamente soddisfacente (in questa materia è difficile trovare testi molto soddisfacenti) e non comprometta il processo di federalizzazione credibile della Repubblica italiana.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Relatore sulla forma di Stato. Non utilizzerò tutto il tempo a disposizione, presidente (il dibattito si è concluso prima del previsto), ma svolgerò soltanto alcune considerazioni.
La discussione è stata per me di estrema utilità. Ho molto apprezzato gli interventi dei colleghi del Comitato forma di Stato; avevo già ascoltato le loro opinioni, ma oggi sono state riferite ad un testo presentato come proposta di testo base. Quindi, pur avendole conosciute in precedenza, apprezzo oggi quelle considerazioni in maniera ancora più forte. In questa sede i colleghi hanno manifestato la loro posizione rispetto ad un testo base per il quale, quindi, devono essere chiari i punti che ciascuno di essi intende modificare.
Se non sbaglio, tranne i colleghi di rifondazione comunista, nessun altro ha preannunciato la presentazione di un testo base alternativo. Se così stanno le cose, vi sono due aspetti da considerare distintamente.

PRESIDENTE. Il senatore Rotelli...

FRANCESCO D'ONOFRIO, Relatore sulla forma di Stato. Quello di Rotelli non è un testo alternativo. Le considerazioni del senatore Rotelli sono state esplicitate durante i lavori del Comitato e sono state riprese anche nell'incontro politico del Polo di qualche giorno fa. Da questo punto di vista c'è grande coerenza e non esistono problemi particolari.
Con tutta sincerità, mi sembra che questa sia la conclusione più importante dell'impegnativa giornata di lavori appena trascorsa.
Intanto conforta la decisione del presidente D'Alema di partire dai temi della riforma dello Stato. Poi, conforta anche il fatto che alcune delle obiezioni di fondo preannunciano questioni che riguardano la struttura del Parlamento, in certi casi la struttura del Governo ed in altri casi ancora la struttura delle norme costituzionali in materia di garanzie. Si dimostra che la connessione tra forma di Stato ed altre questioni è un rapporto reale. Più d'uno degli intervenuti ha rinviato lo scioglimento di alcuni dubbi (espressi oggi) alle decisioni che emergeranno in ordine a questi temi. Lo dico perché questa settimana abbiamo un lavoro estremamente concentrato sull'intero arco delle riforme costituzionali: confermo la mia speranza che si termini con la decisione, largamente condivisa in Commissione, di andare avanti sul piano delle riforme e non si concluda invece con una valutazione globale che induca a ritenere che le riforme sono possibili per parti ma non lo sono nell'insieme. Al termine di una giornata molto impegnativa mi sembra opportuno anche indicare un orientamento politico di fondo.
La seconda considerazione che mi sembra importante riguarda le questioni che sono state agitate con più forza, alcune delle quali non ho difficoltà ad assumerle fin d'ora come orientamento nella modifica del testo base, in modo che quando ne verrà presentato uno nuovo sia possibile ridurre gli emendamenti alle questioni rimaste aperte.
Vi sono alcuni aspetti, per esempio tutti quelli che riguardano il potenziamento


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degli enti locali e dei comuni in particolare e la garanzia costituzionale di un federalismo che ho chiamato a tre punte, in relazione ai quali la mia proposta non è sufficientemente forte; è stata sottolineata la necessità di renderla più incisiva e di cambiarla dal punto di vista formale. Il testo che mi accingo a riscrivere dovrà contenere una garanzia tale da non spostare al momento degli emendamenti una questione che è una premessa.
Ho qualche difficoltà in più, invece, ad affrontare un'altra questione che è stata oggetto di critiche diffuse: mi riferisco alla proposta degli statuti speciali regionali. Sono stato costretto ad adoperare un termine - statuti speciali - che nella vita costituzionale attuale ha tutt'altro significato, sono perciò consapevole dell'equivoco che concorro a far emergere: oggi infatti esistono gli statuti speciali delle regioni a statuto speciale, che sono tali rispetto ad un ordinamento che non prevede un'autonomia costituzionale di tipo federale delle altre regioni; vi sono poi gli statuti delle regioni a statuto ordinario che contengono materie che dovrebbero essere oggetto di una totale autonomia.
La questione presenta un aspetto semplice ed uno difficile. Quello semplice è l'integrazione delle materie di competenza statale in modo da rimuovere dubbi, sospetti e preoccupazioni circa il fatto che la brevità dell'elenco delle materie già assegnate allo Stato lasci troppo indeterminata la zona incerta. La questione emersa nel dibattito di oggi è però fortemente intrecciata con quella della struttura del Parlamento. Nel corso dei lavori del Comitato avevo indicato un elenco lungo delle materie di competenza statale, ma si era considerato che soprattutto in riferimento allo Stato interventista del ventesimo secolo fosse estremamente difficile ripartire materie come scuola, sanità e assistenza tra Stato e regioni; occorre quindi ripartire ambiti di funzioni, che è cosa molto diversa, per la quale quella dello statuto speciale è una delle tre ipotesi possibili.
A questo proposito aspetto l'esito del dibattito sulle garanzie e sul Parlamento, perché non vi è dubbio che esso potrà orientare in un senso o nell'altro. Una Camera nella quale le autonomie, le regioni, sono presenti, compresenti, marginali, non ci sono o sono decisive influisce in modo rilevante sull'intero processo di trasformazione federale. Mi permetto quindi di attendere quella giornata e di riservarmi, sulla base delle decisioni che saranno assunte, se apportare modifiche radicali già nel nuovo testo base o se rimetterle alla fase degli emendamenti. Villone e Mussi, per esempio, hanno indicato proposte, che non mi creerebbero nessun problema, che vanno in un senso; altre, come quella del professor Elia, vanno in un senso in parte diverso; altre vanno in un senso ancora diverso. Non vorrei allora assumere una decisione personale su una materia che potrebbe invece essere oggetto di una valutazione molto più larga. Mentre sulla questione della pari dignità costituzionale non può non esserci già nel testo base la certezza che non stiamo andando ad un ordinamento di gerarchia indiretta degli enti locali rispetto alle regioni, dal punto di vista delle materie tutte le soluzioni sono accettabili e ragionevoli, attendo soltanto la valutazione di giovedì.
Su un punto di ordine politico, però, vorrei essere più preciso. Nella relazione ho parlato molto dell'elemento pattizio: nel processo di federalizzazione deve esserci una sede, un luogo, un tempo, una procedura, un istituto che faccia emergere che si stipula un patto costitutivo. Non è una novità: nel 1946-47 le regioni a statuto speciale hanno premuto per una loro speciale autonomia e l'elemento pattizio si è realizzato negli statuti speciali, che sono leggi costituzionali; nel 1976-77, quando si è proceduto in un ordinamento statuale già consolidato ad una forte spinta in senso regionalistico, abbiamo inventato la procedura del doppio passaggio davanti alla Commissione parlamentare per le questioni regionali degli schemi di decreto legislativo adottati dal Governo in seguito alla delega ottenuta con la legge

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n. 382 del 1975. Questo in qualche modo stipulava un patto non tanto tra le regioni e lo Stato quanto tra le forze politiche che con più decisione chiedevano questo trasferimento e quelle che, governando il centro, potevano apparire meno interessate al decentramento.
Quella è una procedura anomala: il doppio passaggio dei decreti legislativi ha rappresentato una forma di consenso politico al decreto n. 616 che ha finito con avere una sorta statuto superlegislativo pur essendo una legge ordinaria.
La questione che pongo - che può non essere risolta con lo statuto perché questo è solo uno degli strumenti - è quale sede avrà la spinta verso un ulteriore e importante fase di decentramento di funzioni legislative e amministrative, con il principio rilevantissimo della non coincidenza fra le due, dal quale risulterà che lo Stato centralizzato in qualche misura è approdato ad un'ipotesi che affermiamo essere di tipo federale. Ho indicato l'ipotesi degli statuti che è stata largamente contrastata: c'è chi la ritiene utile ma transitoria, chi pericolosamente troppo larga, chi utile in sé. Se non è questo lo strumento dell'intesa, deve comunque risultare che non operiamo nella logica della Costituzione concessa, perché anche in passato non si è proceduto così.
È ovvio che lo Stato decide autonomamente e la scelta non gli viene imposta dall'ordinamento di sovrani preesistenti, ma deve risultare in modo trasparente come si tratti di un passaggio condiviso con le realtà istituzionali e territoriali che in qualche modo devono poter dire di aver partecipato alla formazione del nuovo ordinamento costituzionale. Questo è il punto che ritengo decisivo. Lo strumento da me proposto può non essere quello più adatto e non vi è nessuna difficoltà a individuarne altri; è però necessario che nel processo di federalizzazione ci sia questo aspetto pattizio, vi è stato in passato per il decentramento e mi sembra ancora più importante che vi sia in questa fase.
Ringrazio quindi tutti gli intervenuti e assicuro che, ascoltate le relazioni di domani, mercoledì e giovedì, ne trarrò elementi per ulteriori modifiche; certamente vi saranno cambiamenti e il testo che verrà proposto alla fine di questa tornata di lavori sarà diverso da quello attuale. Vorrei però concludere con alcune precisazioni per evitare che rimangano dubbi che sono emersi nel dibattito.
È stata posta la questione della cancellazione dei prefetti: i prefetti non sono nella Costituzione vigente e non si può cancellare ciò che non c'è. La questione dell'ordinamento dello Stato in periferia è aperta e dipende da quale organizzazione periferica dello Stato verrà definita, non vorrei che si facesse una battaglia su un istituto importante della storia civile del nostro paese che, per il solo fatto di non essere in Costituzione, non può essere oggetto di cancellazione. Lo dico per evitare che, dopo la manifestazione di ieri, tra noi vi siano opinioni diverse su un punto che è molto delicato.
Vorrei, altresì, far presente al collega Marchetti che nel testo da me presentato non limito la competenza statale in materia giurisdizionale alle giurisdizioni superiori, ma affermo che la giurisdizione civile e penale è integralmente statale, è la sostanza dell'unità civile del nostro paese; l'ordinamento civile e penale è l'Italia e, quando mi si dice che in Catalogna le competenze riservate allo Stato sono molto più numerose, ma non vi sono quelle riguardanti il codice civile e l'ordine pubblico, è ben chiaro che la qualità delle competenze non è rimessa soltanto al numero delle stesse, ma appunto alla loro qualità. Il fatto che l'ordinamento civile e penale - riguardo al quale credo che nessuno richieda che diventi oggetto di legislazione regionale - rimanga ovviamente nella mia proposta, è bene che venga colto come elemento importante. Se parlo di giurisdizioni superiori, lo faccio in riferimento soltanto alla giurisdizione amministrativa ed a quella tributaria perché, se la stragrande quantità del potere amministrativo andrà verso gli enti locali, mi sembra ipotesi che lo stesso Consiglio di Stato ed i magistrati amministrativi considerano non del tutto stravagante che

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vi sia uno spazio di potestà legislativa di un ordinamento giurisdizionale (nella mia proposta i suoi componenti non vengono certo nominati dal consiglio regionale). Lo stesso vale in materia tributaria, se andremo ad un ordinamento tributario nel quale molto più largamente di oggi vi saranno tributi locali regionali.
Il collega D'Amico ha sollevato la questione dell'approdo comune, questione generale e che riguarda se vi debba essere un punto d'arrivo in un tempo rapido ed eguale per tutte le regioni; vorrei ricordare che ciò è avvenuto negli Stati Uniti ed in Germania, mentre non è avvenuto in Spagna; è materia di cui si può tranquillamente discutere, vedremo se il punto d'approdo finale debba essere ancorato ai trattati europei o alla Costituzione italiana; non è una questione dirimente, è una questione di valutazione politica congiunturale, non certo di principio. Esistono ordinamenti federali ad identità di competenze ed altri ordinamenti senza tale identità. Non è questione di cui non si debba valutare anche la conseguenza in un certo senso strana che potrebbe comportare un permanente approdo non eguale in ordine all'organizzazione amministrativa dello Stato ed alla sua potestà fiscale. Ovviamente sono considerazioni di cui terremo conto.
Al collega Salvati vorrei poi far presente che nell'espressione «bilancio statale», secondo la formula molto sintetica suggerita da Tremonti, c'è certamente la potestà tributaria dei tributi statali; pertanto, non vi è alcuna intenzione di far sparire la potestà tributaria statale, anzi, come sappiamo, vi è il dubbio se l'articolo 23 della Costituzione consenta una potestà legislativa autonoma regionale.
Quanto alla questione dell'associazione nazionale magistrati come organismo collaterale dei partiti, devo dire di non averla neppure pensata; ho voluto in qualche misura provocatoriamente riproporre la questione se il legislatore nazionale debba stabilire limiti all'iscrizione ai partiti per le categorie che la Costituzione in vigore prevede. Se si prevede di lasciare le cose come sono oggi in Costituzione, non vi è comunque alcuna intenzione di rimettere il silenziatore all'attività di queste importanti categorie statali.
Vorrei ora svolgere un'ultimissima considerazione sulla pubblica amministrazione: le proposte sulla pubblica amministrazione nascono dalla convinzione che si debba andare al massimo grado di autonomia organizzativa di ciascuno degli enti; comuni, province, regioni, Stato debbono poter organizzare le rispettive pubbliche amministrazioni come meglio credono. Quindi, vi è la volontà esplicita di ridurre enormemente la riserva di legge oggi esistente. Si può scegliere o meno questa strada, ma non vi è nulla che contrasti con il principio della tendenziale adozione di strumenti di diritto privato i quali, per loro natura, non hanno riserva di legge. Pertanto, la proposta di dare grande autonomia organizzativa alla pubblica amministrazione non contrasta la linea della privatizzazione, che si è affermata nel corso degli ultimi anni.
Concludo sottolineando che avrei immaginato che nel dibattito svoltosi trovasse più spazio il tema della provincia, se essa debba rimanere o meno in Costituzione ed eventualmente in che modo. Nell'ambito del Comitato abbiamo esaminato questo tema in modo molto approfondito e sono emerse tre diverse opinioni: chi vuole totalmente cancellare la provincia dall'ordinamento costituzionale, chi vuole mantenerla ma privarla della garanzia costituzionale e chi vuole mantenerla così com'è. Pertanto, mi sembrerebbe opportuno che tale tema riemergesse, che se ne discutesse nuovamente e che su di esso si votasse. Se dovesse prevalere la linea del mantenimento, vedremo in che modo questo dovrà essere articolato ed altrettanto faremo se la maggioranza si pronuncerà a favore della sua abolizione. Ribadisco di aver avuto l'impressione che oggi questo tema sia rimasto per così dire in ombra e pertanto a questo proposito non me la sentirei di assumere decisioni diverse da quelle già prese, pur sapendo che si tratta di decisioni totalmente rimesse al vaglio della Commissione plenaria.


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PRESIDENTE. Vorrei innanzitutto ringraziare il relatore per i chiarimenti forniti, oltre che per il lavoro iniziale, ed anche per l'apertura con cui ha mostrato di accogliere una parte significativa delle osservazioni e dei consigli venuti dai colleghi.
In questa fase dei nostri lavori raccomanderei uno sforzo di collaborazione: è evidente che la responsabilità della stesura del testo definitivo spetta al relatore, ma penso che egli nello spirito di questa discussione vorrà cogliere suggerimenti e note in modo che si possa arrivare nella maniera più coinvolgente al momento delle decisioni.
È del tutto evidente che, per quanto riguarda alcune questioni importanti, il tipo di federalismo verso il quale andremo dipenderà anche dalle soluzioni che si affermeranno su altri aspetti della riforma costituzionale, aspetti che, d'altro canto, sono stati ampiamente evocati nella discussione odierna.
Anche per questo ritengo che per i relatori il termine per la presentazione dei testi definitivi, che poi saranno oggetto di accoglimento - spero - o di reiezione da parte della Commissione, deve essere fissato alla conclusione, comunque immediatamente a ridosso di essa; bisogna cioè che, entro la giornata di venerdì, il comitato di redazione, che è costituito dai relatori medesimi, dai vicepresidenti e dai presidenti dei Comitati, i quali ultimi poi coincidono con i vicepresidenti della Commissione, riceva i testi definitivi dei relatori, così da poter predisporre il momento dell'adozione dei testi base. Questa visione globale è poi il vantaggio del metodo che abbiamo adottato, che ci consentirà di arrivare con un testo già più formato e coordinato rispetto a ciò che sarebbe accaduto se avessimo proceduto per segmenti. Insisto nel raccomandare una grande puntualità; questa è una settimana cruciale: quanto meglio facciamo nel corso di questa settimana, tanto più semplice e meno dispersivo sarà il lavoro successivo.
Raccomando pertanto un impegno pieno, e sarà pienissimo: domani la Commissione è convocata alle ore 11 per lo svolgimento della relazione del deputato Boato sul sistema delle garanzie; dopo una pausa, il relativo dibattito si svolgerà nel pomeriggio dalle 15.30 per concludersi ad un'ora - spero - ragionevole; così sarà anche nelle giornate successive. Raccomando nuovamente impegno e puntualità, ripeto, in questa settimana cruciale per creare le condizioni che consentano un salto di qualità al nostro lavoro.

La seduta termina alle 20.40.