Comitato forma di governo

RESOCONTO STENOGRAFICO SEDUTA N. 19


PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE DELLA COMMISSIONE

LEOPOLDO ELIA

INDI

DEL VICEPRESIDENTE DELLA COMMISSIONE

GIULIANO URBANI

AUDIZIONI DEL PROFESSORE ORDINARIO DELL'UNIVERSITÀ DI ROMA, STEFANO RODOTÀ, DEL PROFESSORE ORDINARIO DELL'UNIVERSITÀ DI BOLOGNA, AUGUSTO BARBERA, E DEL PROFESSORE ORDINARIO DELL'UNIVERSITÀ DI ROMA, SERIO GALEOTTI





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La seduta comincia alle 12.20.

Audizione del professore ordinario dell'Università di Roma, Stefano Rodotà.


PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professore ordinario dell'Università di Roma, Stefano Rodotà, che saluto e ringrazio per la sua presenza.
Come avrete potuto constatare, non partecipa a questa riunione il presidente del Comitato forma di governo, onorevole Tatarella, in quanto ammalato.
Abbiamo invitato il professor Stefano Rodotà a riferire circa le soluzioni preferibili, evidentemente dal suo punto di vista, in merito alle linee di riforma costituzionale.
Mi auguro che possa giungere in aula quanto prima anche il relatore Salvi, che è particolarmente interessato ad ascoltare l'intervento del professor Rodotà.
Cedo subito la parola al professor Rodotà.

STEFANO RODOTÀ, Professore ordinario dell'Università di Roma. Ringrazio la Commissione - ed in particolare il Comitato forma di governo - per l'occasione che mi è stata offerta, se non altro, di rivolgere loro i miei auguri di successo (successo mancato alle due Commissioni bicamerali di cui ho fatto parte).
Naturalmente non pretenderò di dettare una ricetta su quella che può essere la forma di governo, perché il mio modo di intendere la discussione su questi temi - e lo stesso lavoro parlamentare - è molto lontano dalla precettistica. D'altra parte, mi sembra di poter dare un piccolo contributo cominciando a sottolineare alcune questioni di sistema: quali problemi possono nascere nel sistema nel suo insieme qualora vengano adottate talune soluzioni.
I giuristi non hanno avuto bisogno di aspettare Luhmann per conoscere i vantaggi e l'importanza della dimensione sistemica e degli equilibri che si creano all'interno di un sistema. Aggiungerei una sola considerazione, per chiarire fino in fondo il punto di vista che ho adottato. Sono sempre piuttosto scettico di fronte alla pretesa - molto forte in questo momento (e non da oggi) nel dibattito italiano - di risolvere qualsiasi problema politico con i meccanismi costituzionali, cioè con regole fortemente vincolanti.
I dati di sistema da cui partirò sono tre: il sistema dell'informazione; il sistema del finanziamento della politica; il sistema della giustizia.
Per quanto riguarda il primo tema, è del tutto ovvio che oggi il funzionamento dei sistemi politici ed in particolare la selezione e l'investitura del personale politico siano fortemente influenzati (qualcuno dice determinati) dal funzionamento del sistema dell'informazione. Alla cosiddetta «videopolitica» ha fatto un rapido accenno - nella sua audizione - Giovanni Sartori, il quale ha scritto molto su questo tema (io ho scritto forse altrettanto). Mi ha colpito però la circostanza che, dopo questo accenno, non vi sia stato alcun tipo di riflessione ulteriore. Vorrei sottolineare questo aspetto per una ragione.
Non credo valga fino in fondo la vecchia asserzione per cui se guardiamo all'America conosciamo il nostro futuro, ma è certo che l'attuale discussione intorno al modo in cui il sistema dell'informazione e della comunicazione influenzi il funzionamento del sistema politico è fondamentale. Infatti, sono molto note le distorsioni che possono determinarsi


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in sede di selezione del personale politico, soprattutto quando la selezione riguarda il vertice dell'esecutivo (addirittura una sola persona, che dovrebbe incarnarlo); esse non possono essere dominate (è un'illusione caduta in tutti i sistemi) unicamente con regole antitrust o con discipline sulla par condicio. Nel momento in cui si progetta un nuovo sistema di selezione del vertice dell'esecutivo, cioè si discute della forma di governo, bisogna progettare strutture che in parte neutralizzino - non voglio dire eliminino del tutto - il rischio determinato dall'influenza del sistema dell'informazione; oggi noi lo identifichiamo con la televisione, ma non è questo l'unico aspetto. Che poi la discussione rischi di concentrarsi sui duelli televisivi, come in una sorta di giudizio di Dio dell'opinione pubblica, è un fatto che conosciamo.
Naturalmente questa logica entra in contraddizione con molte cose che vengono dette: poiché ha un effetto di straordinaria riduzione, è contraddittoria con una scelta dei cittadini orientata su programmi. Le possibilità di comunicazione e di discussione critica sono infatti ridotte notevolmente.
Per quanto concerne il sistema del finanziamento della politica, devo dire che in alcune cronache giornalistiche il dibattito in corso negli Stati Uniti è stato banalizzato. Si tratta, invece, di un grande dibattito. Negli ultimi tempi è emerso che proprio questa estrema personalizzazione e questo rapporto dei leader politici e dei candidati alla Presidenza con l'opinione pubblica, rapporto mediato soltanto dai mezzi televisivi, implicano una distorsione che avrete immediatamente colto leggendo quanti inquinamenti siano derivati al finanziamento delle campagne elettorali del Presidente e dei candidati alla Presidenza. La mancanza di ogni filtro, in primo luogo del filtro-partito, è determinante: il Presidente è costretto ad impegnarsi in prima persona nella ricerca dei finanziamenti, addirittura facendo dormire le persone in una stanza storica della Casa Bianca. Questo sta comportando distorsioni molto gravi. Ecco che torna alla ribalta, allora, l'idea (che non è statalista, perché si trova nella Teoria della giustizia di John Rawls) che l'unico modo per disinquinare il funzionamento del sistema elettorale è un finanziamento pubblico paritario di tutti i candidati. È uno dei temi in discussione oggi negli Stati Uniti, perché - come si usa dire - la politica non è più labour intensive, ma capital intensive. È un punto che deve metterci in allarme quando si scelgono le forme di selezione del personale politico.
Terzo problema: poiché la personalizzazione della politica non è una forzatura ma è l'evoluzione della questione della leadership (molto nota, che non nasce oggi), in questo momento ci troviamo di fronte ad una crescente concentrazione di poteri in pochi punti dei sistemi politici, con un bisogno molto forte - dunque - di reinventare condizioni di equilibrio globale del sistema. Non basta soltanto il vecchio discorso sui contropoteri: c'è un problema di equilibri generali nel sistema. Credo abbia particolare rilevanza per la vostra Commissione l'accento nuovo che viene posto sul sistema giudiziario, ritenuto uno dei punti essenziali per il corretto funzionamento di un sistema politico che nel suo insieme conosce fenomeni di concentrazione e di personalizzazione del potere.
Detto questo, passo a considerazioni che ci portano più vicino alla discussione in atto. I miei accenni - come constaterete - non sono pretestuosi, perché da essi cercherò di trarre una morale, una conseguenza per le vie eventualmente percorribili. Non devo dettare precetti, ma sottoporre alla vostra riflessione talune considerazioni, di cui potrete più o meno tener conto.
Per il sistema politico italiano non rappresenta una novità la competizione che si svolge intorno alla scelta del leader, perché le analisi che hanno interessato il funzionamento del nostro sistema nei primi decenni della Repubblica - non uso l'espressione prima Repubblica - si sono spinte al di là dell'ingannevole formula delle cinquanta presidenze, interrogandosi anche sulle ragioni per le quali l'assoluta

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stabilità delle maggioranze coincideva con una notevole variabilità della leadership governativa. Esisteva cioè una lotta per la leadership all'interno di maggioranze sostanzialmente stabili; se posso permettermi un'aggiunta, questo problema ora non è dietro le nostre spalle perché la mia impressione di osservatore è che in questa fase, molte difficoltà dell'attuale maggioranza derivano proprio dalla competizione - in qualche occasione messa deliberatamente sul tavolo - per una leadership, a distanza più o meno ravvicinata. Sono temi da non sottovalutare. Quando evidenzio le problematiche relative alla scelta del leader non voglio semplicemente dire che i nodi vanno sciolti; si tratta di problemi che c'erano, che permangono e che evidentemente devono essere affrontati conciliando questa tendenza non eliminabile. Non credo che si possa polemizzare con i fatti o con la storia, abbiamo il dovere di verificare fino a che punto la spinta verso una scelta della leadership secca, affidata ad un intervento senza mediazioni del corpo elettorale, non possa provocare contraccolpi sia per il funzionamento del sistema, sia per quelli che noi chiamiamo i valori democratici.
In questa sede, così come altrove, le suggestioni del modello francese sono molto forti, hanno percorso - e percorrono - la discussione istituzionale italiana e riemergono con particolare evidenza in determinate situazioni. Devo dire molto sinceramente che il modo in cui il dibattito è stato riproposto non mi convince, non tanto per il punto di vista che ho scelto e che dichiaro, ossia che quel modello non mi piace, quanto perché credo si avverta una preoccupazione nel presentare quel modello allo scopo di renderlo accettabile a chi dovrà decidere in materia. Senza contare, poi, che verrà presentato con modalità che non corrispondono alla realtà di funzionamento del sistema francese.
Lo stesso inventore della formula semipresidenzialista, Maurice Duverger, ha scritto un libro dal titolo La monarchia repubblicana e le formule correnti nella discussione francese, che percorrono l'arco di politici studiosi e che mirano a definire il sistema sono due: secondo la prima, più aggressiva e polemica, si tratterebbe di un sistema bonapartista di regole e repubblicano e parlamentare in via d'eccezione; la seconda, che usa un linguaggio meno aggressivo, sostiene che si tratta di un sistema presidenzialista e ad eccezione coabitazionista (traduco con questa orrenda parola la terminologia adoperata).
Per sfuggire a quello che è un dato obiettivo del sistema francese - che è stato definito da chi lo studia da vicino non semipresidenzialista ma, nelle condizioni ordinarie di funzionamento, ossia della non coabitazione, superpresidenzialista - si è accentuato l'elemento di flessibilità insito nella possibilità della coabitazione. Infatti, in quel sistema, come tutti sanno e come è stato più volte ripetuto, non si copre un arco solo temporalmente ridotto, ma se si considerano le fasi politiche nelle quali si colloca la coabitazione, ci si rende conto che esse sono sostanzialmente ridotte, tali per cui il sistema politico francese era, anche per quanto riguarda i suoi attori, in attesa e la situazione non era ritenuta a regime. Tuttavia, essa veniva accettata e tollerata perché da entrambe le parti, primo ministro e Presidente della Repubblica, si sapeva che era destinata a durare poco. Poiché i comportamenti degli attori politici sono importanti quanto le regole istituzionali, questa è una notazione rilevante.
Rassicurare e dire che, tutto sommato, rispetto ad un eccesso di concentrazione del potere, ad un trapianto del modello francese in Italia, una sorta di terapia immunologica sarebbe rappresentata dall'accentuazione del dato della coabitazione, significa a mio giudizio travisare la realtà del funzionamento del sistema politico francese. Tra l'altro, come è stato notato giustamente di recente, mi pare che in Italia la trasposizione di quel tipo di modello e l'ipotesi di una coabitazione, ci espongono a rischi conflittuali straordinariamente elevati.

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Un altro elemento, emerso ricorrentemente nella discussione svolta in questa sede e al di fuori, è che, tutto sommato, qualcuno ha la maggioranza nel sistema politico francese. Questo storicamente non è vero, perché il sistema francese non garantisce l'esistenza di una maggioranza, nella penultima legislatura il partito socialista era minoranza in Parlamento. Dunque, non esiste una corrispondenza in base alla quale la maggioranza ce l'ha o il Presidente della Repubblica o il primo ministro: può darsi che non l'abbia nessuno dei due. È un'eventualità da considerare perché in questo caso l'attenzione si deve spostare sul sistema elettorale.
In Francia come ha potuto funzionare il sistema con un partito socialista di governo in assenza di una maggioranza parlamentare? Ha funzionato grazie a tre volani (forse potrebbero essere quattro). Il primo è rappresentato dalla mancanza del voto di fiducia; il secondo è il voto bloccato, stabilito dall'articolo 49, terzo comma. I sessanta o settanta casi di cui parla Sartori vanno esaminati dal punto di vista qualitativo, perché con il ricorso all'articolo 49, terzo comma, è stato approvato il bilancio dello Stato. Questo strumento viene usato in situazioni di grande rilievo: i casi possono essere anche dieci, ma se si è trattato di temi straordinariamente rilevanti per la vita politica francese.
Il terzo volano è costituito dalla convenzione politica che dura dalla metà degli anni trenta, in base alla quale i voti della sinistra e della destra non si uniscono (e non si sono uniti neanche in quella fase).
In proposito ricorderò - mi rivolgo a Leopoldo Elia che era presente - che in un'occasione mezza mondana e mezza politica, svoltasi a palazzo Farnese allorché l'ambasciatore convocò tre illustri costituzionalisti per fare una sorta di spot sul sistema politico francese, ad una mia domanda, Georges Vedel che non è l'ultimo venuto, su questo punto diede una spiegazione molto franca e diretta. Al mio quesito «Come si regge?», rispose che alla vigilia di un voto che può mettere a rischio il Governo, in situazioni di minoranza, il presidente della Repubblica convoca un po' di deputati a rischio di rielezione e gli dice che scioglierà l'assemblea nazionale se mancherà il voto; e quei signori, misteriosamente, quel giorno saranno ammalati.

FABIO MUSSI. Qui non lo fa il Presidente della Repubblica, ma è in uso...

STEFANO RODOTÀ, Professore ordinario dell'Università di Roma. Lo so benissimo. Quando leggo che c'è una maggioranza, può anche verificarsi un incidente della storia per cui la maggioranza non c'è più. Dunque, quando si adopera il riferimento ad un modello, esso va considerato in tutte le sue modalità di funzionamento.
Altra considerazione, corrente nel dibattito francese e ricordata da tanti (anche da Chirac nel suo discorso d'insediamento), è relativa al problema del deficit di democrazia, legato al ruolo ormai marginale del Parlamento, per cui è ironico dire che semipresidenzialismo potrebbe anche essere declinato come semiparlamentarismo. In Francia il Parlamento è stato ridotto ad una sorta di pallottoliere che serve per contare i voti e vedere chi dispone della maggioranza. Questo fatto non implica un potere parlamentare, per cui la riflessione, nota e convalidata dai fatti, è che aver sottovalutato il problema della rappresentanza e avere svuotato l'arena parlamentare ha determinato uno spostamento dei conflitti fuori dal controllo del sistema politico, per cui, come sapete, la Francia è assai più spesso del nostro sia pur deprecato sistema politico paralizzata da rivolte corporative - siano esse dei camionisti o dei medici ospedalieri - che non solo mettono a rischio il funzionamento dei servizi ma paralizzano la capacità di riforma da parte delle istituzioni politiche. Io riporto la discussione corrente in Francia; non possiamo immaginare una Francia diversa da quella che è per comodità delle nostre discussioni.
L'osservazione è la seguente: non abbiamo commesso un errore esaltando


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unicamente il momento della decisione e dell'efficienza, azzerando la possibilità di sedi politiche di confronto e ributtando nella società l'intero potenziale di conflitto nel momento in cui si devono operare delle scelte? Non sto dicendo che questo sia un dato; semplicemente registro una realtà. Aggiungo che faccio questa notazione perché non vorrei che poi, nei lavori importanti di questa Commissione, il Parlamento diventasse il grande assente o il grande trascurato. Questo è indubbiamente un problema capitale.
Passo ora a qualche indicazione più puntuale relativa ad alcuni possibili tragitti. D'altronde, credo di aver dato indirettamente qualche spunto da tener presente nelle scelte che dovrete fare.
Ritengo che l'adozione del modello semipresidenziale imponga una lettura fuori da ogni mitizzazione e dunque valutando il fatto che trapiantare un modello di quel tipo in un sistema che ha le caratteristiche e le conflittualità di quello italiano rende estremamente problematica - non voglio dire altre parole - la possibilità di successo. Per le ragioni che ho già indicato, ciò comporterebbe una straordinaria accelerazione di quei processi ai quali ho fatto riferimento all'inizio. Il trapianto secco di quel modello nel nostro sistema accentuerebbe tutti i rischi legati alle modalità di funzionamento del sistema della comunicazione, alle modalità di finanziamento, alla riduzione della politica ad un duello e alla difficoltà di prospettare, in una fase politica come questa, programmi piuttosto che contrapposizioni personali, per quanto di grande rilievo.
La concentrazione di potere d'altra parte è indubbia; anche se, come ho letto tante volte, si vogliono tagliare le unghie a chi ha quel tipo di poteri, la concentrazione è straordinaria, con l'ulteriore elemento (che credo sia stato già rilevato ma che voglio sottolineare ancora) che poi il titolare di un'investitura così diretta e di un potere così forte diventa l'unico possibile riferimento nella discussione politica e sociale. C'è non solo, quindi, una crescita straordinaria di poteri, ma anche una identificazione del potere, per cui ci troviamo di fronte a grandi difficoltà nel momento in cui si devono ricostituire equilibri complessivi nel funzionamento del sistema.
Sapete quali sono stati i tentativi in questi anni: uno dei tentativi parzialmente riuscito, ma che per la situazione francese ha rappresentato una vera e propria rivoluzione, è stata la crescita del ruolo del Conseil constitutionnel. Non vi era alcun paese che avesse maturato dai tempi del libro di Lambert sul governo dei giudici (lì viene inventata la formula) fino quasi ai nostri giorni tanta ostilità verso l'invenzione americana del controllo di costituzionalità, vista come qualcosa che infrangeva il principio giacobino della superiorità della legge. Eppure, ad un certo momento, si è dovuto trovare un punto di equilibrio e attribuire all'opposizione uno statuto, perché il Conseil constitutionnel non nasce come organo politicamente rilevante nel sistema per effetto dell'investitura giudiziaria o dell'intervento dei cittadini (modello italiano, modello tedesco), ma per il fatto che i gruppi parlamentari lo consideravano come un luogo d'appello contro decisioni sulle quali in Parlamento non era possibile una reale dialettica. Questo è il punto, per cui io, pur avendo elaborato in passato una proposta di legge in questo senso, oggi sarei piuttosto ostile al ricorso diretto dei gruppi parlamentari alla Corte costituzionale, vista la delicata funzione che la Corte ha nel nostro sistema. Evidentemente tutto questo suppone la possibilità per i gruppi parlamentari di giocare un ruolo di opposizione in Parlamento e di non vedere il loro statuto di opposizione trasferito fuori, a ridosso di altre istituzioni.
Dico questo perché il problema di ricostituire sedi e punti di equilibrio e di controllo si è posto anche nel sistema francese. Quindi è un punto rilevante, che mi fa ritenere che mantenere al vertice dello Stato un organo di garanzia e un primo ministro abbia la capacità di evitare immediatamente questo tipo di deriva. Naturalmente il problema che si

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pone in Italia - almeno a giudicare dalle discussioni che anche qui si vanno svolgendo - credo sia soprattutto quello di definire le modalità di costituzione della coalizione per evitare sia che si riproducano le situazioni di frammentazione sia che il potere di ricatto o di condizionamento (ho visto che vi è stata un'elegante disputa su questo punto tra il senatore Salvi e il professor Sartori) possa essere esercitato. Le modalità di formazione della coalizione - è stato detto mille volte - sono legate più al sistema elettorale che non alla sola scelta della forma di governo.
Circa il sistema elettorale vorrei affrontare due o tre aspetti; non sono uno specialista della materia per cui non parlerò più di tanto.
Credo che aver mantenuto l'elasticità del sistema elettorale sia stata un'intuizione dei costituenti di cui possiamo riconoscere la fecondità, perché altrimenti non avremmo potuto introdurre neanche gli aggiustamenti che vi sono stati in questi anni, in quanto avremmo dovuto passare attraverso un procedura di riforma costituzionale che, come sappiamo benissimo, non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo. Se volessimo esaminare le condizioni in presenza delle quali la riforma Mattarella è stata approvata, avremmo molte conferme a questa considerazione. Credo sarebbe saggio - ovviamente, si tratta di un'opinione personale - mantenere questo tipo di elasticità, evitando di costituzionalizzare principi in materia elettorale.
Quanto al problema della coalizione, collegato alla legge elettorale, non posso fare a meno di formulare due osservazioni preliminari. Anzitutto, va considerato che i sistemi elettorali - così come ci insegna la Francia - sono usati con grande spregiudicatezza. Mitterrand - e non altri - ha introdotto una modifica alla legge elettorale semplicemente per mettere in difficoltà - parliamoci chiaro! - Le Pen e lo schieramento di destra, e lo ha fatto con molta spregiudicatezza. Ciò dimostra come non vi sia un rapporto di necessità fra forma di governo ed uso degli strumenti elettorali; questi ultimi, infatti, possono essere «piegati» anche per operazioni politiche a breve, operazioni che non sono assolutamente dell'opinione di secondare perché, in sistemi come il nostro, rappresenterebbero ulteriori elementi di «terremoto». Sta di fatto che l'esperienza dimostra come questa possibilità esista. In definitiva, le leggi elettorali possono favorire talune evoluzioni politiche ma non possono sostituire l'azione politica.
La seconda osservazione riguarda il problema della coalizione. A tale riguardo sarebbe auspicabile che fin dall'inizio, si scelga un solo turno oppure se ne scelgano due, la trasparenza nei confronti dell'opinione pubblica e dell'elettorato fosse totale. Quale che sia il sistema che sarà scelto, la coalizione si deve immediatamente presentare con i propri caratteri. Non ci possono essere riserve tra una fase e l'altra, né vi possono essere aggiustamenti. Il doppio turno, come ci insegna l'esperienza di tutti i paesi, non elimina le trattative sotterranee ma le salta. Attenzione a questo aspetto, che credo conosciate tutti! Sapete benissimo che in Francia si scambia Rouen con Marsiglia e che nelle due settimane interessate si svolgono durissimi confronti. Anche in questo caso, quindi, non dobbiamo immaginare qualcosa che non sia in natura.
Se adottassimo una soluzione quale quella proposta da Sartori, con quattro soggetti che passano al secondo turno, ci potremmo trovare ad avere, in termini di mercato politico, una crescita dei soggetti che possono negoziare. Attenzione: i forni, da due, diventano quattro! Nel momento in cui si auspica una riduzione del potere di ricatto e di negoziazione di soggetti minori, si rischia di introdurre nel sistema una serie di moltiplicatori di tale tendenza insieme a strumenti che inquinano - attenzione anche qui! - la trasparenza nei confronti degli elettori. Si tratta di una preoccupazione che avverto con molta intensità.
Vorrei altresì osservare che alcune delle considerazioni che fiduciosamente affidano al secondo turno - vado al di là delle prospettazioni di questo o di quello

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- una possibilità di aggregazione e di riduzione della frammentarietà, a mio avviso, non valutano fino in fondo una novità reale del sistema politico italiano: non ci sono più partiti antisistema e, quindi, non coalizzabili. Tutti, oggi, sono coalizzabili e le cosiddette estreme hanno un peso, dal punto di vista della percentuale elettorale, tale da diventare determinanti nella formazione delle coalizioni. Tale aspetto può piacere o non piacere, ma sottolinea ulteriormente la necessità di avere una fase.
Non scarterei del tutto quindi una riflessione, come mi pare sia avvenuto (credo che chi simula e prepara modelli possa farlo molto meglio di me) sull'ipotesi del turno unico. Non è vero, infatti, che quest'ultima soluzione consenta, di fronte all'elettorato, combinando premio di maggioranza, soglia di accesso e raggiungimento di una percentuale minima da parte della coalizione «vincente», minori chance rispetto a quelle legate al doppio turno.
Quanto al rapporto tra la coalizione ed il premier, vorrei affrontare la questione dei programmi e dell'investitura della personalità. Nella mia preferenza, configuro la presentazione all'elettorato della coalizione come premessa dell'indicazione del premier. Credo che tale orientamento finirebbe per costituire un non decisivo ma sicuramente significativo strumento per attenuare i rischi legati agli eccessi di personalizzazione della politica. Ciò perché la scelta sarebbe effettuata tenendo conto di una realtà necessariamente composita. Inoltre, il giudizio sarebbe pronunciato anche sulla capacità che quella coalizione dimostra di presentarsi come più aggregata, credibile e coesa all'elettorato. Il premier deve essere espressione di tutto questo.
Le difficoltà che incontra il sistema politico italiano e i cambiamenti frequenti di primi ministri, che hanno caratterizzato in un certo momento, con una velocità tipicamente italiana, il funzionamento del sistema politico francese, dimostrano l'effettiva esistenza di un problema che non può essere aggirato. Dal mio punto di vista, credo che si debba stabilire un aggancio molto forte, con forme che possono essere diverse, con il premier; il premier nella coalizione, più che il premier della coalizione. Ciò per porre in evidenza un dato collettivo, cioè che il premier è l'espressione della coalizione ma sta anche in quest'ultima.
Secondo problema. È ovvio, in questa situazione, che, pur mantenendo la figura del Presidente della Repubblica, non sarà più pensabile un passaggio attraverso il Quirinale del futuro primo ministro. Ci sarà una investitura parlamentare necessitata dalla situazione elettorale che si determinerà, e quello sarà il passaggio politico. Ciò per evitare i rischi che ho indirettamente evocato, nel momento in cui ho accennato ad alcune modalità di funzionamento del sistema francese. Quello che preoccupa è evidentemente il dopo.
Il nostro sistema è percorso dalla sindrome da ribaltone. Non vorrei, tuttavia, che questa caratteristica condizionasse a tal punto le scelte che saranno effettuate, da irrigidire il sistema oltre un certo limite. Credo che un effetto stabilizzante - di questo me ne sono progressivamente venuto convincendo - potrebbe essere collegato al semplice fatto dell'introduzione della sfiducia costruttiva, che muterebbe i rapporti parlamentari (ad alcune condizioni, alle quali accennerò) e rafforzerebbe la posizione del Presidente del Consiglio. Posso comprendere la propensione a ritenere che debba essere prevista non più di una sfiducia costruttiva per legislatura, ma credo sinceramente che si tratti di una soluzione bizzarra. In presenza dell'ipotesi che nel corrivo linguaggio la nostra politica è definita «controribaltone», che servirebbe a ricostituire le condizioni in base alle quali la coalizione si era presentata all'elettorato, ad esempio, si creerebbe una situazione bizzarra, nel momento in cui fosse prevista un'unica possibilità di ricorrere alla sfiducia costruttiva nell'ambito della stessa legislatura. In particolare, non sarebbe consentito alla coalizione di ripristinare una situazione scalfita da atteggiamenti

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assunti in contrasto con la volontà dell'elettorato. L'introduzione di un meccanismo rigido precluderebbe un passaggio che, a mio avviso, sarebbe invece ragionevole.
Tutto questo si lega a due dati che hanno costituito oggetto di ampio dibattito. Anzitutto al problema relativo al potere di scioglimento. Credo che quest'ultimo, in una condizione modificata, anche se rimane formalmente imputato al Presidente della Repubblica, debba vedere, da una parte, diminuire enormemente la discrezionalità di questi e, in secondo luogo, attribuire effettivamente al Presidente del Consiglio, o primo ministro che sia, una decisione politica determinante, pur senza imputargliil potere formale di scioglimento. Credo sia giusto ragionare in questi termini, perché non è stato il «Mattarellum» che ha peggiorato la situazione o non ha prodotto tutti gli effetti benefici, come una sorta di bacchetta magica, del mutamento del sistema elettorale. In realtà, si era fatta una scommessa che non poteva essere realizzata soltanto attraverso quello strumento, e non parlo con il senno di poi, perché credo che alcuni degli effetti negativi che si sono riscontrati fossero stati ampiamente previsti. Vi sono passaggi che sono fisiologici e richiedono storicamente i loro tempi.
Ritengo allora che l'imputazione secca al primo ministro, in una situazione come questa, del potere di scioglimento potrebbe addirittura elevare la soglia di conflittualità all'interno delle coalizioni, senza avere effetti reali di stabilità ed efficienza e senza essere uno strumento di dialogo duro con le opposizioni. Infatti, la discussione dura con le opposizioni si fa in altro modo, non brandendo l'arma dello scioglimento possibile (vi mando a casa!), perché questo è sempre stato uno strumento usato contro la propria coalizione. Il problema del Governo in Parlamento è quindi molto importante: evidentemente il passaggio e l'investitura parlamentare del premier lo rafforzano enormemente.
Vi è poi un secondo dato, il potere di scelta e di revoca dei ministri e quello, per esempio, di porre la questione di fiducia direttamente e senza intermediazioni. Questi sono passaggi significativi. Vi è inoltre qualcosa che credo non richieda una costituzionalizzazione: mi riferisco ai regolamenti parlamentari, nei quali evidentemente il rafforzamento non tanto del primo ministro quanto del Governo in Parlamento - come si dice - è un problema fondamentale; in quella sede si può trovare il giusto equilibrio tra poteri anche forti del Governo; basti pensare, per esempio, alla sicurezza del momento della decisione o a strumenti che evitino la mostruosità dei maxiemendamenti, che rendono poi perfino illeggibili o inapplicabili le leggi approvate. Credo che in tale contesto si possano fare cose anche molto incisive, non, per così dire, pagate con uno statuto dell'opposizione, ma creando uno statuto di opposizione che sia un effettivo fattore di equilibrio.
Devo dire con sincerità che fino a quando sono stato in Parlamento l'opposizione, anche se lo diceva, non voleva questo statuto perché, per esempio, non si è mai avvalsa delle norme che già esistono nei nostri regolamenti parlamentari come, per esempio, quelle relative ai tempi che le opposizioni, o meglio i gruppi parlamentari avrebbero potuto chiedere fossero riservate esclusivamente alle loro iniziative; infatti, l'idea della negoziazione e non della prospettazione dura di una posizione era fisiologica in un certo modo di intendere la politica. Quindi, con riferimento allo statuto dell'opposizione credo che i possibili modi siano tanti e se ne è parlato a lungo.
Mi fermo a questo punto ringraziandovi ancora.

PRESIDENTE. Ringrazio Stefano Rodotà per la sua esposizione improntata ad una grande apertura.
Do ora la parola ai colleghi che intendano svolgere considerazioni o porre quesiti.

STEFANO PASSIGLI. Dialogo sempre molto volentieri con l'amico Rodotà e


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quindi lo ascolto sempre altrettanto volentieri; questa volta ovviamente mi ha convinto assai poco (ho detto «ovviamente» considerate le posizioni diverse che spesso ho sostenuto su alcuni di questi temi) e, piuttosto che rivolgergli alcune precise domande, gli muoverò delle obiezioni il che, se si vuole, è una forma diversa di porre una domanda, provocando un'ulteriore espressione del pensiero di Rodotà su determinati temi.
Devo innanzitutto sottolineare la grande coerenza con ciò che Rodotà ha sempre detto fin dai tempi in cui si esprimeva per il no in un certo referendum quando noi ci esprimevano per il sì.

STEFANO RODOTA', Professore ordinario dell'Università di Roma. Ricorderai anche la motivazione.

PRESIDENTE. Ricordo che è stato attivato il circuito chiuso; lo ricordo a tutti, non per ammonire contro le «fassinate»!

STEFANO PASSIGLI. Non mi sembrava di dire nulla di così esplosivo! Ho rilevato che vi è stata coerenza e che Rodotà non ha mutato di molto le sue posizioni, mentre a me sembra che sia cambiato molto il quadro. Se rileggo alcune delle cose che ho scritto cinque o dieci anni fa su questi temi, constato che, quando si pensava ad una razionalizzazione del sistema politico della prima Repubblica, si poteva ragionare in termini di premi di coalizione, di rafforzamento dell'esecutivo grazie a modifiche dei regolamenti parlamentari, con riferimento al Governo in Parlamento, e si poteva pensare al meccanismo della sfiducia costruttiva quando in fondo ci si muoveva nell'ambito dell'assunto secondo cui il sistema partitico era quello che era e non poteva essere modificato.
Oggi siamo in presenza di un problema diverso, ossia della ricostruzione di un assetto diverso di sistema partitico che possa consentire in futuro di avere esecutivi, sia pure di coalizione, ma di coalizione omogenea e quindi, in quanto omogenea, funzionante. Mi sembra invece - questa è la prima obiezione che muovo - che l'assunto alla base di tutto il ragionamento di Rodotà sia che in fondo manteniamo un sistema molto pluripartitico, con l'evidente conseguenza di avere governi di coalizione disomogenei, e che con questo dobbiamo convivere. Credo invece che si possa essere più audaci e pensare ad un sistema misto di riforme istituzionali ed interventi sulla legge elettorale che consenta anche una semplificazione del nostro sistema partitico.
Mi soffermerò ora su forma di Governo e legge elettorale. Quanto al primo aspetto, al di là di una notazione molto intelligente che riprenderò sui contraccolpi relativi a dove si situa il conflitto, a livello politico o a livello sociale, per quanto riguarda strettamente la forma di Governo, l'obiezione principale mossa da Rodotà al sistema francese è che, salvo i rari periodi di coabitazione, in realtà l'elezione diretta del Presidente non configura un sistema semipresidenziale, bensì un sistema iper o superpresidenziale; si tratta di un'affermazione che era già stata fatta da Elia e da molti altri.
Il punto su cui invito Rodotà a riflettere ed a farci conoscere ulteriormente il suo pensiero è questo: è chiaro che in certi momenti, o anche nella maggior parte degli anni dell'esperienza francese, il sistema presidenziale francese ha funzionato così, ma l'ha fatto quando e in quanto il presidente godeva di una maggioranza, era leader di uno schieramento di maggioranza. Se è così, è superpresidenzialista l'Inghilterra e lo è anche la Germania federale: nel momento in cui c'è un leader che è capo dell'esecutivo e controlla una solida maggioranza parlamentare, il sistema funziona in maniera super o iperpresidenziale (se vogliamo definirlo così); in realtà, vi è una solida ed effettiva maggioranza che è tale fino alla nuova consultazione elettorale. Non credo quindi che una simile obiezione si possa muovere al sistema francese se si applicherebbe ugualmente al modello Westminster inglese o a quello tedesco.


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Il vantaggio dell'elezione diretta è quello di avere un effetto aggregante sull'assetto del sistema dei partiti e quindi di spingere nella direzione della possibilità di costruire maggioranze omogenee; su questo punto vorrei un commento. Il premio di coalizione, invece, non garantisce questo, ma semplicemente il fatto che una coalizione disomogenea abbia la maggioranza di seggi in Parlamento; ma ciò non garantisce affatto la governabilità e l'efficacia nel tempo di quella forma di Governo. Credo che nessuno voglia allargare lo spazio della coabitazione, ma mi sembra che questi interrogativi siano rilevanti.
È vero quanto affermava Rodotà, ossia che in Francia si è governato con tutte le procedure e gli istituti previsti dal titolo V della Costituzione, e questo anche quando non vi è maggioranza.
Bisogna essere molto chiari: consideriamo un più o un meno nel funzionamento di un sistema il fatto che quando non vi sono stabilizzate maggioranze parlamentari si possa, per limitati periodi di tempo, governare comunque in attesa di una consultazione elettorale? Preferiamo o no un continuo ricorso alle elezioni anche se queste non producono maggioranze parlamentari?
Io mi dichiaro nettamente favorevole ad un sistema nel quale, ovviamente laddove non si riescano ad avere maggioranze alternative, vi sia la possibilità di governi di minoranza che possano godere di vantaggi procedurali e che garantiscano la permanenza nel tempo; preferisco questo piuttosto che il ricorso continuo alle elezioni. Forse non è il funzionamento ideale di un sistema maturo, ma mi sembra un'ipotesi da esplorare in una fase di transizione. Certo, non ci sono antidoti contro la mancata formazione di una maggioranza, perché nessun sistema istituzionale ed elettorale può garantire il formarsi di solide maggioranze omogenee, vi sono però sistemi che diminuiscono le conseguenze negative dell'assenza di maggioranze ed altri che invece le massimizzano o le lasciano invariate.
Era invece molto interessante - e vorrei che fosse ulteriormente sviluppata - la notazione che il conflitto non mediato a livello politico si trasferisce a livello sociale. Nel confronto tra la Francia e l'Italia mi viene da pensare che, a volte, nel nostro paese il conflitto sociale è meno apparente semplicemente perché a livello istituzionale si è - se mi è consentita questa espressione poco elegante - «sbracato» prima nei confronti dell'esigenza di trovare mediazioni; quindi il conflitto sociale non si determina perché a livello istituzionale si è mediato forse anche troppo. La conseguenza dell'eccessiva mediazione politica è la non decisione e mi sembra che il professor Rodotà abbia teorizzato quello che, applicato al caso italiano, è sostanzialmente un governo debole, un modello che ha funzionato egregiamente per molti decenni della nostra vita repubblicana, ma che non ci porta fuori dalla transizione in cui siamo in questo momento.
Dobbiamo ricostruire degli equilibri complessivi, e per farlo dobbiamo inevitabilmente concedere qualcosa, in questa sede e mi auguro anche in Parlamento, alle posizioni altrui. E questo modello, che sul piano logico si tiene al di là delle riserve che ho espresso, non concede nulla agli altri; è quindi un brillante modello teorico su cui difficilmente vedo convergere un'ampia maggioranza nella Commissione bicamerale oggi o domani nel Parlamento. Credo invece che ci dobbiamo porre il problema di varare una riforma istituzionale che consenta a tutti di sentirsi non vinti né vincitori.
Quanto al sistema elettorale, la principale argomentazione critica adottata da Rodotà nei confronti del doppio turno tutto sommato è quella dell'eccessiva negoziazione che si apre tra il primo e il secondo turno. Mi sembra che questa obiezione derivi dalla vecchia logica dei sistemi a suffragio ristretto, nei quali la contrattazione avveniva tra singoli notabili, proprietari o aspiranti proprietari di un collegio; credo che essa potrebbe avere un peso molto minore se pensiamo ad una contrattazione fra forze politiche. Da qui

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l'esigenza di scegliere sistemi elettorali che permettano il ricostruirsi di un sistema di partiti e non esasperino alcuni dei difetti tipici del maggioritario uninominale, quali il localismo e l'eccessivo peso del singolo parlamentare. È vero, infatti, che non ci sono più partiti non coalizzabili perché sono cadute tutte le pregiudiziali, però vi sono dei vincoli molto precisi provenienti dall'elettorato; nella logica bipolare che inevitabilmente incoraggeremmo con il doppio turno, le forze politiche che potranno permettersi di guardare a due forni saranno pochissime e saranno solo quelle marginali e minori. Non credo quindi che si arriverebbe al mercato delle vacche e ad una assoluta libertà di comportarsi come si vuole collegio per collegio.
Vorrei poi un altro chiarimento. È vero che presentare all'elettorato la coalizione come elemento forte e il premier come elemento di risulta ridimensiona i rischi della personalizzazione, questo però è possibile solo a condizione che il premier sia espressione di una forza debole della coalizione; se è il leader del partito maggiore della coalizione, come normalmente si presume dovrebbe avvenire, francamente non vedo il peso della coalizione nei suoi confronti. Invece un premier «nella» e non «della» coalizione rischia di essere schiacciato, e un esecutivo debole mi sembra sia quello che nessuno vuole, nemmeno il professor Rodotà.
Queste sono le riserve che mi sono state ispirate dall'esposizione del professor Rodotà e su di esse vorrei, se possibile, un ulteriore commento.

STEFANO RODOTÀ, Professore ordinario dell'università di Roma. Ho fatto due volte parte di Commissioni di questo tipo, ma oggi sono venuto con un altro spirito. Stefano Passigli ha ragione nel sostenere che quando si deve arrivare ad una soluzione legislativa in sede parlamentare si deve mediare, ma io oggi non sono qui nella veste di chi deve mediare, anzi ho accentuato volutamente la prospettazione netta di alcune possibili posizioni e problemi perché credo fosse questo quello che mi chiedevate. Mi sono quindi calato in un ruolo diverso da quello che ho ricoperto per molto tempo.
Parto dalle ultime osservazioni, che mi sembrano importanti e sulle quali credo sia utile un chiarimento da parte mia perché mi pare che su questo ci sia minore distanza.
Sono sempre stato convinto che, nella prospettiva di coalizione, fosse innaturale e legato a condizioni da superare il fatto che la leadership venisse assunta da rappresentanti di minoranza. Quando questo avveniva, ho scritto molte volte che, pur consentendo nel breve termine il superamento di qualche difficoltà politica e dando una parvenza di alternanze all'interno del sistema, era un elemento di corruzione (uso la parola in senso politico) del funzionamento del sistema, perché in qualche modo tradiva le scelte dei cittadini. Ricordo bene che Bettino Craxi, per esempio, era consapevole di tutto questo, tant'è che alcune volte venne in Parlamento dichiarando di rappresentare il 12-13 per cento dell'elettorato, ma sottolineando che i sondaggi davano alla sua presidenza un gradimento del 60 per cento; si rendeva quindi perfettamente conto dell'anomalia di una leadership affidata a chi non aveva una legittimazione popolare adeguata.
Su questo, quindi, sono assolutamente d'accordo. Quando parlo del leader nella coalizione penso proprio al leader del partito più forte, perché è questa la condizione perché la coalizione possa presentarsi all'elettorato in modo trasparente. Sto, quindi, rovesciando l'argomento portato da Passigli: si dice che bisogna scegliere un determinato leader perché altrimenti non si vincono le elezioni; quel tipo di leadership rispetto alla quale la coalizione sfuma e il leader soltanto è la condizione del successo indica, però, una debolezza che si trasferirà poi alla coalizione in Parlamento. Al contrario, la coalizione riconosciuta e la leadership attribuita al rappresentante del gruppo, del partito più forte è proprio la


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condizione perché in Parlamento vi sia maggiore stabilità (Commenti del deputato Calderisi).
So bene che si sostiene che Prodi ha consentito la vittoria elettorale dell'Ulivo, e mi pare un fatto importante. Ma fin dall'inizio del mio intervento ho esortato a cercare di uscire da quello che da molto tempo definisco l'uso congiunturale delle istituzioni. Qui si scrive una Costituzione, non si sta compiendo un'operazione di breve periodo che può essere misurata sull'insofferenza per rifondazione comunista o su un determinato giudizio su Romano Prodi; se si scrive così una Costituzione, si scrive una cattiva Costituzione, che reggerà veramente una sola stagione politica e diventerà un elemento di instabilità del sistema politico italiano. Sono d'accordo con Passigli che il problema è quello di un Governo forte; quando ho ipotizzato un Governo forte in Parlamento, legittimato non soltanto attraverso la figura del Presidente del Consiglio o primo ministro, ma attraverso una coalizione che si dichiara dal primo momento all'elettorato, avevo in mente proprio questo e non è vero che io non abbia riflettuto - forse l'ho fatto meno di Passigli - sulle mie posizioni del passato. Sono stato molto ostile ai premi di maggioranza, alle soglie d'ingresso; mi rendo conto che oggi la razionalizzazione del sistema nel senso che credo stia a cuore a tutti richiede il ricorso a questi strumenti. In passato ero critico verso l'uso della sfiducia costruttiva non per l'istituto in sé, ma perché in quelle condizioni parlamentari, sapendo benissimo quale fosse il rapporto tra maggioranze e minoranze, la non legittimazione dell'opposizione di sinistra all'accesso al potere, evidentemente si trattava di un gioco che non ci avrebbe portati da nessuna parte. Oggi, invece, tutto questo diventa uno strumento importante.
Non dimentichiamo che in realtà il primo elemento di stabilizzazione del sistema tedesco fu non la sfiducia costruttiva parlamentare ma la sentenza della Corte costituzionale che escluse il partito comunista dalla possibilità di partecipare alle elezioni. Quindi, il gioco è sempre molto complesso. Oggi ho cambiato idea su quegli strumenti ai quali in passato non credevo: non che fossi ostile ad essi ideologicamente, ma ritenevo che in quel contesto fossero degli alibi o dei diversivi, mentre oggi sono strumenti importanti e su questo intendo mettere l'accento.
Per esempio, sono d'accordo con Passigli quando dice che, tutto sommato, è preferibile un sistema in cui un Governo di minoranza evita il continuo ricorso alle urne; si tratta evidentemente della situazione francese, che però è garantita soltanto - lo ripeto - a determinate condizioni: il giorno in cui il PCF avesse deciso di votare con giscardiani ed altri, quella condizione sarebbe stata cancellata; voglio dire che vi è una sorta di lealtà politica che ha consentito tutto questo. Allora, io vado oltre e dico che quando ci troviamo in quel tipo di condizione introduciamo lo strumento ulteriore di razionalizzazione costituito dal premio di maggioranza, che consente a quella minoranza di non essere alla mercé di uno smottamento improvviso che faccia precipitare il Governo. Di questo sono assolutamente convinto; evidentemente non sto dando risposte, sto solo cercando di tessere un minimo di dialogo.
Quanto all'iperpresidenzialismo ed al riferimento alla Germania ed all'Inghilterra, di sicuro lì il premier ha un grande potere, ma bisogna prestare attenzione al fatto che da noi vi sono due mediazioni che in Francia sostanzialmente non vi sono: mi riferisco alla mediazione del partito, e sono partiti forti tanto in Inghilterra quanto in Germania (Dio sa quanto lo sono in Germania, mentre in Francia nell'ultimo settennato vi è stata la cancellazione del partito del Presidente; il modo in cui il partito socialista arriva alle elezioni è abbastanza indicativo). Mi riferisco, inoltre, alla mediazione rappresentata dalla sede parlamentare: il Parlamento tedesco è certamente molto più forte, per certi versi, di quello inglese, a parte il gioco con il Bundestag. Quindi, è vero quanto Passigli afferma che, quando il premier ha una forte maggioranza,

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amplissimi sono i suoi poteri, però le condizioni per l'esercizio di questi poteri sono profondamente diverse, perché vi è un mediatore sociale che è rappresentato dal partito e perché vi è un luogo di controllo che è il Parlamento; due condizioni che il Francia non vi sono.
Quanto poi all'effetto aggregante dell'elezione diretta, questo vi è certamente, ma poi si ripropone il problema a livello di legge elettorale, cosa che infatti ci dimostra la storia francese. Quindi, torno a quel profilo.

GIORGIO REBUFFA. Credo innanzitutto di poter usufruire dell'antica consuetudine con il professor Rodotà per esprimere con molta franchezza le sensazioni che il suo intervento mi ha provocato. La mia opinione è che egli abbia fatto un discorso molto arcaico, nel senso che mi sarei aspettato che nell'atteggiamento dialogico non vi fosse questa rappresentazione del sistema francese che - lo devo dire - trovo francamente bozzettistica. Essa mi ha fatto tornare alla mente un episodio noto, raccontato anche recentemente da Scoppola: quando, negli anni sessanta, Martinet venne alla casa della cultura di Milano a tenere una conferenza sulla situazione politica francese, l'uditorio di sinistra gli chiese cosa intendesse fare la sinistra francese per mobilitarsi contro il fascismo in Francia e Martinet rispose che l'unica cosa che faceva la sinistra francese era prepararsi a vincere le prossime elezioni.
Fatta quest'osservazione di carattere generale, debbo dire che ho notato subito nell'intervento del professor Rodotà una grande contraddizione, una contraddizione di metodo che, proprio per ragioni di chiarezza, desidero porre in luce. Resto convinto che anche nel nostro dibattito esista l'illusione di risolvere i problemi politici con gli strumenti giuridici e costituzionali e, d'altra parte, per citare il già citato Georges Vedel, è proprio lui ad averci detto tante volte che la regola di diritto è uno strumento povero, ma è l'unico che abbiamo a disposizione. La contraddizione sta nel fatto che una modificazione della regola di diritto nello scenario delineato dal professor Rodotà è apparsa provocatrice di disastri che francamente non sono ipotizzabili da nessuno degli angoli visuali da cui ci possiamo porre.
Dopo aver rilevato questa prima contraddizione, passo ora ad una serie di domande. In primo luogo, non ho capito in alcun modo il collegamento tra la prima parte dell'intervento, quella sulla cosiddetta personalizzazione della politica, e la proposta (ammesso che una proposta sia stata avanzata). In secondo luogo, non ho ben compreso quale sia stata la proposta, perché il professor Rodotà ha sviluppato un discorso molto critico nei confronti di idola quali sono stati i sistemi francese ed americano, ma non ho capito cosa dobbiamo proporre.
Vorrei, allora, chiedere al professor Rodotà alcune cose precise. In primo luogo, conviene egli sul fatto che abbiamo una situazione di storia delle nostre istituzioni che parte da una forma di governo parlamentare distorta, in cui l'essenza del governo di gabinetto ci è mancata? In Italia, cioè, per varie ragioni, abbiamo trasformato il sistema parlamentare in un sistema che è stato sostanzialmente assembleare ed in alcune fasi una franca - uso un'espressione senza darle troppe connotazioni valutative - dittatura d'assemblea. È così o no? Se è stato così, cosa possiamo fare per rovesciare questa situazione? È un punto centrale: conveniamo sul fatto che abbiamo avuto un sistema parlamentare assolutamente distorto? Se è così, ed è stato così (credo che al riguardo vi sia un giudizio, certo non unanime ma molto condiviso, che va da destra a sinistra), allora alcuni problemi che sono stati posti lateralmente hanno bisogno di essere chiariti. Il professor Rodotà, per esempio, ha parlato incidentalmente del mantenimento di un Presidente della Repubblica organo di garanzia; chiedo, allora: stiamo parlando anche qui della law in the books? La dinamica effettiva dei rapporti tra Presidente, Assemblea ed esecutivo nel nostro sistema, infatti, ci dice tutto meno che la Presidenza


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della Repubblica sia stata integralmente un organo di garanzia, fin dai tempi di Luigi Einaudi, Presidente certamente non sospettabile di interventismo.
Passando ad una seconda questione, un organo di garanzia - credo che Rodotà lo comprenda forse meglio di me - non è una costruzione meccanico-normativa ma è il prodotto di un sistema di conflitti organizzato e regolato. Questa è la ragione per cui il temutissimo presidenzialismo (mi fermo solo a questo giudizio apodittico) è in realtà un meccanismo molto più liberale, capace di suscitare (come Rodotà sa meglio di me, avendo studiato bene le dinamiche delle istituzioni giuridiche degli Stati Uniti d'America) conflitti ed equilibri più di quanto lo sia stato, nel nostro sistema, il grande velo del governo d'assemblea.
Con una terza osservazione giungo a quello che mi sembra il cuore del problema. È forse vero che non abbiamo più partiti antisistema, quindi in teoria tutti i partiti sono coalizzabili; la domanda è: perché alcuni dei partiti presenti nello schieramento politico italiano non sono intenzionati a coalizzarsi? A questa domanda, do la seguente semplice risposta: perché preferiscono mantenere la rendita di posizione data dalla non coalizzabilità nel sistema dei partiti, che consente loro di sfruttare al meglio la posizione che l'attuale sistema elettorale accompagnato all'attuale sistema costituzionale assicura.
Veniamo alla questione adiacente a questa, cioè quella della premiership. Ho avuto la sensazione, ascoltando il professor Rodotà, che persino la legge n. 400 del 1988 possa configurare alcune linee di autoritarismo: lo dico ovviamente con la scherzosità che la cosa richiede, ma certamente un premier nella coalizione cosa configura? Esattamente il contrario di quello di cui abbiamo bisogno. In realtà, abbiamo bisogno in primo luogo di una trasformazione del sistema pseudoparlamentare (uso una formula che Rodotà conosce, perché è antica nella dottrina italiana) in un sistema parlamentare. Il cuore di un sistema parlamentare, da quando il Parlamento è tale, è uno solo: chi guida il processo legislativo; o il processo legislativo è guidato da un soggetto, oppure vi è un governo d'assemblea.
I sistemi democratici (mi scuso se sto a questo livello dottrinale, ma d'altra parte l'impostazione data è questa) richiedono che la guida del processo legislativo sia affiancata ad una responsabilità di tale processo di fronte agli elettori: questo è semplicemente il meccanismo britannico. Allora, se vogliamo avvicinarci a tale principio, dobbiamo per lo meno cominciare a ripensare a quanto osservavano alla fine dell'ottocento i costituzionalisti inglesi, polemizzando con i costituzionalisti americani e profetizzando, per così dire, le argomentazioni di Fabbrini e dei teorici del governo diviso; essi osservavano quanto fosse diviso e debole il sistema di governo americano, mentre consideravano il loro efficiente, perché fondato, parole testuali, «sull'elezione plebiscitaria del primo ministro». Non voglio dire che dobbiamo arrivare all'elezione plebiscitaria del primo ministro, ma abbiamo bisogno della soluzione di questo problema per correggere il nostro sistema parlamentare.
Abbiamo poi bisogno di un'altra cosa; lo dico anche perché è qui presente il presidente Cossutta. Sono d'accordo: fare una Costituzione pensando ai problemi dell'oggi sarebbe una miopia folle ed infatti stiamo pensando non ai problemi dell'oggi, ma a quelli di cinquant'anni di esperienza repubblicana, la quale ha costruito quello che ha costruito, per cui non vi è nessuna antipatia. Abbiamo però bisogno di rendere il sistema, oltre che responsabile con la guida della legislazione, anche bipolarizzato. Da questo non si sfugge, perché un sistema bipolarizzato è l'unico che può consentire l'uscita da questa transizione infernale in cui rischiamo di affondare.
Il sistema bipolarizzato - sono d'accordo anch'io - è una scommessa: concordo sul fatto che in Francia non è il meccanismo elettorale a doppio turno che lo garantisce, altrimenti la terza Repubblica non ci sarebbe stata, né ci sarebbe stata la cosiddetta Costituzione Grévy, o

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tutta l'esperienza che conosciamo. Il sistema bipolarizzato, allora, è garantito a causa del tipo di elettorato soltanto da un'elezione diretta del vertice dell'esecutivo. Per varie ragioni, che sono state qui rappresentate a mio avviso in modo ineccepibile, il sistema più adatto è quello semipresidenziale, sapendo che certamente abbiamo di fronte non la ricetta magica, ma solo una strada. Se conveniamo su questi problemi, spero che un giorno converremo anche sulle soluzioni.

STEFANO RODOTÀ, Professore ordinario dell'Università di Roma. Se volessi stare al gioco dell'arcaicità, potrei rovesciarlo facilmente, perché potrei dire: di fronte ai problemi nuovi che la democrazia pone in tutti i paesi alla fine del secondo millennio, ci si rifugia in quella che fu la risposta che diede De Gaulle alla crisi dell'Algeria nel 1958. Ma questo gioco non mi piace, perché credo che non sia utile; ho dunque messo le mani avanti: lungi da me l'idea di dire che il sistema francese è fascista. Voglio però citare testualmente il messaggio al Parlamento del Presidente Jacques Chirac del 19 maggio 1995: «È necessario un giusto equilibrio tra i poteri e rimettere il Parlamento al suo vero posto, un posto centrale, permettendo di restaurare i legami fra i cittadini e i loro dirigenti, dal momento che il sistema francese soffre di un deficit di democraticità».
Non si può dare una rappresentazione caricaturale di quello che ho detto; le critiche che ho rivolto, le considerazioni che ho fatto, i riferimenti che ho portato qui riflettono ciò che in Francia dicono coloro che stanno seriamente analizzando il funzionamento di quel sistema alla fine del secolo. Mi sembra singolare e anche un po' grottesco che prendiamo come modello un sistema senza tener conto della discussione che in questo momento è in atto in Francia e che è stata aperta dal Presidente della Repubblica francese: mi sembrerebbe un controsenso.
Così come mi sembra caricaturale la rappresentazione di cinquant'anni di storia repubblicana in termini di governo d'assemblea e di produzione soltanto di inefficienza. Attenzione: questo paese è radicalmente cambiato; avendo alle spalle la deprecata Costituzione del 1948, si è trasformato da paese agricolo in una delle prime nazioni industriali del mondo e ha superato la guerra fredda con enormi rotture attraverso l'espediente - definitelo come volete - del patto costituzionale, che ha fatto in modo che forze che in quel momento erano agli antipodi trovassero una ragione di non divisione. Questi sono fatti che non possiamo ignorare.
Dopo di che, figuriamoci se non convengo sulle degenerazioni che sono avvenute. Trovo assolutamente grottesco giudicare, per esempio, ciò che avvenne nell'Assemblea costituente con il parametro del consociativismo, perché vuol dire non avere letto. Non sto polemizzando con lei, onorevole Rebuffa, ma poiché gira nell'aria che il compromesso costituzionale sarebbe la stessa cosa delle manfrine che si sono avute in certi momenti su un po' di finanziamenti a pioggia, credo che dobbiamo operare alcune distinzioni.
Le regole di diritto sono certamente importantissime, non lo nego. Dico solo che rischiamo di vivere l'illusione che bastino le sole regole di diritto, che non sia più sufficiente la chiarezza dei comportamenti politici e che si possa dire che alcune cose vanno male perché la regola è inadeguata e non perché l'uomo politico non è in grado di compiere la sua scelta e condurre una sana e dura opera di azione politica. Questo è ciò che voglio dire. So benissimo quanto è importante, perché se non fossi convinto di questo non mi troverei su certe posizioni di difesa della Costituzione e potrei dire «la Costituzione è indifferente, cosa me ne importa».
Allora, quale proposta? È molto semplice e l'ho delineata: un sistema all'interno del quale una coalizione che si è formata indica il premier agli elettori, si presenta alle elezioni, le vince, si reca in Parlamento e investe il premier, il quale rimane in carica fin quando non vi è una sfiducia costruttiva. In questo modo risulta depurata da una delle funzioni che


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hanno consentito una forte interferenza del Presidente della Repubblica, cioè la sua funzione di garanzia. Nel momento in cui il Presidente della Repubblica è fuori dal circuito dell'investitura del Governo, infatti, dal punto di vista sia informale sia formale, recupera un'effettiva terzietà. In questi anni, in quali momenti il ruolo del Presidente della Repubblica è stato fondamentale? Nella scelta del premier, nel sostegno alle coalizioni, nelle riunioni a tre con i Presidenti delle Camere che avevano una funzione di sostegno al Governo in momenti difficili. Ebbene, tutto questo verrebbe meno. È una rappresentazione idilliaca? È possibile, ma è semplicemente coerente con quanto ho detto poco fa.
E il problema del Presidente suscitatore di conflitti in questa sede a me sembra malposto. Chi ha la funzione di suscitare conflitti, infatti, e che dovrebbe suscitarli nella sede propria, cioè nella sede parlamentare in primo luogo, è il Presidente del Consiglio. Non ritengo affatto che la legge n. 400 del 1988, di riforma della Presidenza del Consiglio (Commenti del deputato Rebuffa) No, no, su quella legge sono stato molto critico in quanto ritenevo che vi fosse un'illusione giuridicista che bastasse la legge per risolvere, per esempio, il problema delle esternazioni dei ministri. Nella legge è scritto a chiare lettere, ma le esternazioni sono continuate. Ecco dove dico che la regola giuridica è insufficiente.

CESARE SALVI, Relatore. Sono continuate e sono addirittura aumentate in progressione geometrica.

STEFANO RODOTÀ, Professore ordinario dell'Università di Roma. Esatto.

CESARE SALVI, Relatore. E si sono aggiunti i sottosegretari.

GIORGIO REBUFFA. Ma in base alla regola non avrebbero potuto esternare.

STEFANO RODOTÀ, Professore ordinario dell'Università di Roma. Avviandomi alla conclusione, dico che non è che ci sia mancato il governo di gabinetto o che vi sia stata soltanto una gestione assembleare: si sono avuti dei momenti in cui questo è potuto accadere, ma attenzione, perché in certi momenti le gestioni assembleari o quelle che definiamo in questo modo sono state un forte strumento di stabilità. Poi possiamo anche valutare se la stabilità abbia prodotto effetti negativi, per esempio sulla spesa pubblica; ma lo dico perché il bene della stabilità non può essere perseguito a discapito degli obiettivi perseguiti attraverso la stabilità stessa.
So benissimo che il problema esiste, ho detto io stesso che qualcuno deve guidare il processo legislativo, che sono necessari da una parte un premier nella coalizione e dall'altra un Governo in Parlamento: sono due formule che io ho adoperato. Ma ho detto che questa è solo in parte materia di Costituzione e molto - credo che questa flessibilità la dobbiamo mantenere - questione di regolamenti parlamentari, sui quali, tra l'altro, mi pare si stiano compiendo passi significativi. Non credo, perciò, di parlare su qualcosa che si trova sulla luna: è proprio lo statuto dell'opposizione a legittimare un più forte potere del Governo in Parlamento. Esco dalla logica, che è stata anche la mia, di dire che alcune prerogative parlamentari sono intoccabili. Come Giuseppe Calderisi ricorderà, ci siamo trovati su posizioni di contrasto, e del resto ero in contrasto anche con l'area in cui ero stato eletto in Parlamento, perché ritenevo che in quel momento il bene fosse rappresentato dal mantenimento delle prerogative parlamentari. Queste prerogative parlamentari sono state mortificate dal prosieguo della dinamica politico-parlamentare; quindi credo che possano essere meglio restaurate attraverso il gioco del Governo in Parlamento con poteri di guida del processo legislativo, ma non guida esclusiva. Del resto, questa non esiste in alcun paese, perché i private bills del governo britannico qualcosa almeno ci dicono. Di qui la necessità dello statuto dell'opposizione, che ha anche una sua possibilità di governare il processo legislativo, se non


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altro per rendere evidenti di fronte all'opinione pubblica alcune proposte che la maggioranza ha respinto: questo è un aspetto importante, perché ci si può presentare alle elezioni sottolineando che la maggioranza non solo non ha fatto alcune cose, ma ne ha addirittura bocciate altre. Questo è uno straordinario strumento di trasparenza e di evidenza del ruolo parlamentare.

CESARE SALVI, Relatore. Ho molto apprezzato il contributo critico fornitoci dal professor Rodotà in particolare sul modello semipresidenziale. Credo che la logica delle audizioni sia questa. Naturalmente, chi è radicalmente contrario a questo modello potrà rafforzarsi nei suoi convincimenti, mentre chi ritiene che esso debba essere, qualora adottato, adeguato alla realtà italiana, potrà individuare e valutare gli aspetti più criticabili che lo stesso Presidente Chirac - come ha ricordato il professor Rodotà - ha segnalato.
Mi permetto di dire ai colleghi, del resto, che non credo che il nostro compito sia quello di convincere gli illustri studiosi che riceviamo che le nostre opinioni sono giuste e le loro sbagliate. Stasera sentiremo altri due autorevolissimi professori, che ci diranno cose diversissime da queste e diversissime fra loro, ma la comunità scientifica è bella per questo. Persino nel campo delle scienze esatte si dubita della possibilità - credo dagli anni venti, dal principio di indeterminazione di Heisenberg - di poter avere l'assoluta certezza della verità scientifica: figuriamoci in questo campo! Quindi, per questa ragione vorrei porre due domande specifiche su cose molto interessanti e che mi è sembrato, dato il genere di discussione che abbiamo condotto finora, abbiano posto problemi nuovi, con riferimento al tema della videocrazia e a quello del finanziamento della politica.
Poiché, quale che sia la forma di governo prescelta (il premier, la coalizione, o il semipresidenzialismo), vedremo certamente sempre più campagne elettorali mediatizzate, inevitabilmente mediatizzate intorno ad una persona, vorrei chiedere al professor Rodotà se ritenga che su questi punti debba esservi una disciplina costituzionale, che oggi manca, e quali caratteristiche possa avere. Mi riferisco all'uso della risorsa televisiva e della risorsa denaro nella competizione per il Governo nazionale, prescindendo dalle sue caratteristiche poiché credo che, tra i due modelli, da questo punto di vista, differenze vi siano certamente, ma non enormi.

STEFANO RODOTA', Professore ordinario dell'Università di Roma. Sono convinto si tratti di due questioni molto importanti.
Dovendo rispondere un po' a caldo, devo dire che vedo qualche difficoltà nel costituzionalizzare questi due temi.

CESARE SALVI, Relatore. Con una riserva di legge.

STEFANO RODOTA', Professore ordinario dell'Università di Roma. Sì.
Con riferimento all'incidenza del sistema della comunicazione e del sistema del finanziamento si può dire che alcuni problemi possono essere resi, in un certo senso, meno drammatici mediante alcuni meccanismi: per quanto riguarda il finanziamento, si possono ipotizzare diaframmi tra il candidato ed il finanziatore; non per ipocrisia, ma perché evidentemente il ruolo del candidato come unico protagonista della campagna per approvvigionarsi delle risorse necessarie crea un'esposizione maggiore e rende più difficile lo stesso controllo. Questo vale per un candidato alla Presidenza degli Stati Uniti o per il candidato primo ministro o, ancora, per il candidato Presidente della Repubblica (se si sceglie un modello presidenziale o semipresidenziale). Il Presidente non può agire in prima persona, quindi si deve fidare di collaboratori e di intermediari.
In sostanza, la problematica mi sollecita una considerazione di carattere generale. In questi anni abbiamo esaltato - secondo me oltre il giusto - il valore immediato della società civile, mentre


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abbiamo in larga misura depresso l'importanza dei mediatori sociali (i partiti). Certamente oggi nessuno ha nostalgia del partito così come si è andato configurando negli anni passati, ma nello stesso tempo ci rendiamo conto che una qualche mediazione è necessaria. Mi dispiace di non aver potuto discutere con Stefano Passigli su questo punto: quando è intervenuto, ha detto che il passaggio tra il primo ed il secondo turno non è un mercato delle vacche fatto da notabili locali sulla spinta di interessi specifici, ma è un'occasione di discussione tra le grandi forze. Quindi, la sensazione che questa ricostituzione di identità collettive sia necessaria è presente un po' in tutti.
Ecco perché ho usato il gioco di parole «premier nella coalizione»: per identificare un dato collettivo che include il problema della leadership o della premiership (chiamatela come volete), ma non si esaurisce in questa dimensione.
Naturalmente la videocrazia è ineliminabile. Gli strumenti sono tantissimi: dai sondaggi di opinione all'uso delle reti. E sono tanto più incisivi nella direzione della personalizzazione della politica (quindi, della sua riduzione all'immagine o al «morso» - come dicono gli americani - cioè allo slogan, alla formula, e non al ragionamento) quanto più c'è una puntata secca su una persona: va investita una sola persona che risolva tutti i problemi; non nel senso che ha la bacchetta magica, ma perché in quel momento la partita si gioca sulla persona. Se si gioca sulla coalizione, invece, evidentemente la persona rimane, ma il giudizio va esteso: i soggetti che devono e possono essere evocati sono più numerosi. In presenza di sistemi più ricchi come le reti, nelle quali la gente può parlare di più, i cittadini possono domandare informazioni al di là della bella immagine che è stata presentata loro: gli schieramenti dovranno rispondere su tutta una serie di persone che sono state candidate. È chiaro che ciò articolerà in maniera molto più complessa il dialogo con l'elettorato.
Come può avvenire questo? Probabilmente una difficoltà deriva dal fatto che la prima parte della Costituzione non è in discussione - a mio giudizio provvidamente - in questa sede. Se così non fosse, alcune norme nell'articolo 21 (libertà di manifestazione del pensiero, mezzi di comunicazione) potrebbero dire qualcosa. Si potrebbe magari prevedere una riserva di legge per l'uso...

CESARE SALVI, Relatore. Scusa l'interruzione. Non si potrebbe, per esempio, fare riferimento ad una riserva di legge finalizzata a questo scopo nelle norme sull'elezione del Presidente della Repubblica o sull'elezione del premier insieme con il governo?

STEFANO RODOTA', Professore ordinario dell'Università di Roma. Certamente.

CESARE SALVI, Relatore. Questo non sarebbe in conflitto con la necessità di non intervenire sulla prima parte della Costituzione.

STEFANO RODOTA', Professore ordinario dell'Università di Roma. Esattamente: ne sono convinto.
Per certi versi più complessa, invece, è la questione del finanziamento della politica. In materia abbiamo una legislazione recente non felicissima, che è stata un contributo alla frammentazione; anche un singolo parlamentare, infatti, può godere del finanziamento. Questo strumento non basta. Credo sia necessario ridiscutere il problema, in maniera abbastanza spregiudicata.
In Italia abbiamo avuto i referendum e l'esperienza negativa del modo in cui i partiti si sono approvvigionati di denaro pubblico e privato: quindi è difficile riaprire davanti all'opinione pubblica la discussione sul finanziamento pubblico dei partiti. In realtà «pubblico» può voler dire molte cose. Ho fatto riferimento a Rawls proprio per dire che nel momento in cui tutti si sentono liberaldemocratici il «papa» di questa chiesa nel 1971 ha scritto una paginetta molto chiara in merito alla questione; ha detto che, poiché il potere del denaro diventa sempre più


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forte, l'unica via d'uscita è addirittura il finanziamento eguale di tutti i candidati. Ho citato provocatoriamente queste parole, ma sta di fatto che il problema è argomento di discussione negli Stati Uniti, sono state avanzate proposte e potranno essere svolti referendum. D'altra parte, le grandi reti televisive, che a volte hanno più naso dei politici, durante l'ultima campagna elettorale hanno messo a disposizione dei candidati gratuitamente spazio nel prime time, in prima serata, perché si sono rese conto che si stava andando verso una situazione di distorsione, in cui sarebbe stata evidente la forza del potere congiunto del mezzo di comunicazione e del denaro (perché il prezzo per accedere ai programmi di prima serata è elevatissimo).
Se ipotizziamo il passaggio ad un sistema di comunicazione nel quale i privati abbiano largo spazio, allora, questi problemi dovranno essere posti congiuntamente.
In conclusione, sul primo punto la riserva di legge può funzionare. Sul secondo credo si debba innanzitutto aprire una difficile discussione davanti all'opinione pubblica.

ARMANDO COSSUTTA. Ho apprezzato e condiviso l'acuta analisi di Rodotà in riferimento alle questioni che ha posto all'inizio della sua relazione e che ha ripreso poco fa in risposta alle domande di Salvi. Su questi aspetti (trasparenza, finanziamenti e via dicendo) effettivamente occorre una riflessione aggiornata e seria da parte di tutte le forze politiche.
Ho apprezzato l'intervento, le indicazioni e l'analisi di Rodotà in particolare su due punti. Innanzitutto egli ha criticato il sistema di tipo presidenziale o semipresidenziale, con particolare riferimento all'esperienza francese. Non intendo in questa sede polemizzare con il collega Rebuffa, ma l'osservazione di Rodotà è stata attualissima e modernissima: la stessa esperienza francese all'interno della realtà di quel paese pone - o impone - la necessità di una revisione di quei meccanismi.
Non è un caso, d'altra parte, che il collega Fisichella, di idee notoriamente monarchiche, lealmente professate, abbia simpatia per un sistema come quello della Francia, dove pure la monarchia è stata ghigliottinata...

CESARE SALVI, Relatore. Fisichella infatti è contrarissimo: è per l'elezione del premier, del «monarca»...

ARMANDO COSSUTTA. Non è un caso - dicevo - che oggi il collega Fisichella sostenga la possibilità della «monarchia repubblicana» (come dicono gli stessi francesi).
Comunque, non ho bisogno di insistere, perché mi pare che le indicazioni di Rodotà siano pregnanti: mi auguro che vengano ascoltate e meditate da tutti i colleghi.
Per quanto riguarda la sua critica al doppio turno, più ci rifletto, più mi pare implichi gravi rischi perché tra il primo ed il secondo turno si possono aprire le trattative non trasparenti (è inutile qualificarle in quanto tutti sappiamo cosa può succedere). È normale che sia così, perché al primo turno è presumibile la presentazione di singole forze politiche, con propri simboli ed identità, che non induce ad espliciti schieramenti e coalizioni, le quali invece verrebbero a coagularsi tra il primo e il secondo turno al di là, al di fuori o al di sopra del responso degli elettori. Questo può comportare quello che considero un grave pericolo per il presente o per il futuro, ossia che una formazione, che nel primo turno abbia una maggioranza relativa - con il primo turno non si vince se non in casi eccezionalissimi, ma si può raggiungere una maggioranza relativa pari al 22-25 per cento dei voti - finisca al secondo turno, al fine di esigere la recessione dalla battaglia di altre forze politiche, per imporre volutamente o non volutamente o obiettivamente il proprio predominio.
È una situazione che può portare una forza anche minoritaria, sia pur di maggioranza relativa, a detenere un potere pressoché totale o assoluto rispetto alla direzione politica del paese.


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Al fine di evitare che la stessa organizzazione uninominale del sistema elettorale induca - come ha portato fino a questo momento - la proliferazione dei raggruppamenti politici, si deve introdurre l'antidoto di una fortissima quota proporzionale con uno sbarramento del quattro per cento, o di un'altra percentuale, o della sfiducia costruttiva, che per l'Italia sarebbe estremamente importante.
Nella storia italiana, a differenza di quanto si è verificato in Francia, dove per tradizione non vi è mai stata fusione di voti tra destra e sinistra in opposizione ad un governo, si è sempre verificata questa fusione, almeno da quando la destra - il movimento sociale - siede in Parlamento, ossia dal 1948. Mi riferisco ai due più forti partiti, o meglio al grande partito comunista ed a una forza minore, come era il movimento sociale: comunisti e missini tante volte si sono trovati uniti nel voto di opposizione. Ma tutto questo, con la sfiducia costruttiva, non sarebbe più possibile o tale da mettere in crisi il Governo.
Questo strumento rappresenterebbe un forte antidoto rispetto ai rischi di ingovernabilità. Ad esso aggiungo il premio di maggioranza che può determinarsi in presenza di una forte e limpida rappresentatività nell'arena parlamentare; rappresentatività che può essere data se esiste una elevata quota di rappresentanza proporzionale, com'è quella vigente nell'attuale sistema per le elezioni regionali.
Pur non essendo una questione costituzionale, essa potrebbe essere tenuta presente per i futuri regolamenti parlamentari al fine di evitare il rischio di «ribaltoni». Nessuno può impedire ad un gruppo di scindersi o ad alcuni deputati e senatori di fuoriuscire dal gruppo nel quale sono stati eletti, ma la formazione di gruppi parlamentari potrebbe essere consentita soltanto se i parlamentari abbiano avuto una presentazione esplicita di fronte agli elettori; altrimenti dovrebbero confluire nel gruppo misto. Diversamente si indurrebbe una proliferazione ed una ingovernabilità assolutamente insostenibili.

STEFANO RODOTÀ, Professore ordinario dell'Università di Roma. Non ho risposte da dare, anche perché ritengo che lavorerete sulle simulazioni e sui modelli elettorali che sono in corso di preparazione.
Credo che il problema della percepibilità da parte dell'elettorato, fin dal primo turno, delle reali possibilità di coalizione rappresenti un contributo alla chiarezza, mancando il quale la premessa di tanti discorsi comuni rischia di essere tradita.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Rodotà e tutti i colleghi intervenuti.

La seduta, sospesa alle 14.5, è ripresa alle 15.55.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
DELLA COMMISSIONE GIULIANO URBANI

Audizione del professore ordinario dell'Università di Bologna, Augusto Barbera.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del professore ordinario dell'Università di Bologna, Augusto Barbera.
Presiedo la seduta in sostituzione del presidente Tatarella che è indisposto.
Mi scuso per il ritardo e per l'altro gesto di maleducazione che sarò costretto a fare tra un'ora, quando cambierò sala: il Comitato sistema delle garanzie deve iniziare i propri lavori e non c'è un vicepresidente che possa sostituirmi. Chiederò al presidente Elia di fare una staffetta (Commenti). Vi ringrazio per questa vivacità, ma devo ricordarvi che è in funzione la ripresa televisiva a circuito chiuso: questa informazione è forse rilevante.
Ringrazio il professor Barbera per la sua presenza e per le parole che ci dirà. Gli do subito la parola.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Ringrazio la Commissione per l'onore che mi viene


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fatto. Prendo la parola con un po' di commozione perché ho già partecipato ai lavori di due Commissioni bicamerali (vedo l'onorevole De Mita, mio presidente nella passata legislatura). Spero come cittadino che la terza Commissione bicamerale possa produrre un esito, perché non è dato a questo Parlamento fallire l'obiettivo.
Credo che sul tema della forma di governo, sul quale mi devo trattenere, occorra partire dai processi politici. Non ci è dato verificare - per usare l'espressione di un noto concorso - quale «dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia» (mi rivolgo al professor Rotelli, perché questo fu il concorso indetto dall'amministrazione generale della Lombardia nel 1797, su suggerimento di Napoleone). Come dicevo, dobbiamo partire dai processi politici, che hanno avuto un'accelerazione con i referendum elettorali, sia il primo sia il secondo, e tutto quello che ha accompagnato, preceduto e seguito quei due importanti appuntamenti istituzionali. Questi processi politici in parte sono positivi, anzi per gran parte lo sono, però permangono elementi di insoddisfazione e fibrillazione del sistema politico.
Quali sono gli elementi positivi, a mio avviso? Il primo è la bipolarizzazione del sistema politico. Non dobbiamo dimenticare che questo è il punto importante: ci si divide finalmente fra centro-destra e centro-sinistra e non come prima tra cattolici e laici, fascisti e antifascisti, comunisti e anticomunisti.
Il secondo aspetto positivo è la destrutturazione di un centro immobile. In un sistema maggioritario, nel nostro sistema, gli elettori di centro contano tanto perché possono determinare la vittoria dell'uno o dell'altro schieramento, ma non ci sono partiti di centro che possono pretendere di far ruotare il sistema politico attorno a sé.
Un altro aspetto positivo ritengo sia la deradicalizzazione degli schieramenti politici che si è venuta a determinare: il movimento sociale che si trasforma in alleanza nazionale, la stessa rifondazione comunista che, con il patto di desistenza elettorale, vuole fare i conti con il Governo.
Ultimo punto da sottolineare come processo positivo è il delinearsi di schieramenti alternativi e di candidati alla Presidenza del Consiglio.
Accanto a questi aspetti positivi, che dobbiamo tenere presenti e da cui bisogna partire, ve ne sono di negativi. Essenzialmente sono due: il primo è la contrattazione nei collegi, sui collegi e per la loro distribuzione. Avevamo puntato su un elettore che contasse di più nella scelta dei candidati e invece abbiamo assistito ad una distribuzione dei collegi sulla base di accordi tra i partiti.
Il secondo elemento negativo, che è stato sottolineato in modo particolare da questa Commissione - quindi non dico nulla di nuovo, ma desidero richiamarlo come premessa del mio discorso -, è costituito dalle alleanze fragili e non omogenee. È accaduto la prima volta in cui è stato utilizzato il sistema maggioritario, con l'alleanza tra forza Italia, alleanza nazionale e lega nord e, nonostante l'attuale maggioranza sia ancora in piedi, non vi è dubbio che vi siano dei problemi, i quali si sono manifestati anche nelle scorse settimane.
Da questi aspetti, positivi e negativi, bisogna partire per cercare di risolvere i problemi, non per demolire quanto di positivo è stato fino ad oggi costruito. Sotto questo profilo, a mio avviso, bisogna mantenere ferma la scelta del collegio uninominale maggioritario, dal momento che gli obiettivi positivi sono stati resi possibili proprio da questa formula (parlo di «collegio uninominale maggioritario» e non, genericamente, di sistema maggioritario). A mio parere, sarebbe negativo un trasferimento a livello di sistema nazionale della legge elettorale regionale, come pure è auspicato in qualche proposta. Ciò perché quel sistema determina il massimo di concorrenza tra i candidati della medesima coalizione, per cui la candidatura e l'alleanza comune diventano una saldatura troppo fragile per affrontare i problemi ai quali ho fatto riferimento. Al

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contrario, nel collegio uninominale maggioritario (vedremo poi se a turno unico o doppio), il candidato unico nel collegio determina una situazione per cui si consente, tendenzialmente (pur nella consapevolezza che nella prima sperimentazione ciò non è avvenuto), non di assemblare elettorati separati ma di esprimere i candidati che più accomunano la coalizione. Credo sia questo il punto fermo dal quale partire.
Questa Commissione - si tratta di un aspetto sul quale ritengo si debba insistere - è chiamata non soltanto ad affrontare i problemi di efficienza e di riforma dello Stato e della forma di governo, ma anche quelli - il che è più doloroso - connessi alla ristrutturazione del sistema partitico. Si tratta di un dato che va sottolineato nel momento in cui, dopo anni di «picconate» esterne (la lega, i referendum elettorali, Tangentopoli, eccetera), le forze politiche prendono in mano il processo di riforma. A mio avviso, quindi, va mantenuta ferma questa esigenza di ristrutturazione del sistema politico.
Uno degli effetti negativi che potrebbero determinarsi, quello della contrattazione nei collegi senza una verifica preventiva del corpo elettorale, può essere superato adottando il sistema del collegio uninominale a doppio turno, così come è stato proposto da Sartori. Non intendo tuttavia enfatizzare questa scelta perché, come avrò modo di chiarire meglio nel prosieguo del mio intervento, è possibile recuperare (tenterò di trovare una soluzione che possa venire incontro ad esigenze diverse) in una competizione al secondo turno dell'intera coalizione quanto di positivo il secondo turno può darci, senza gli elementi negativi che possono essere temuti da qualche forza politica. Ciò nella consapevolezza che il collegio uninominale a doppio turno, di per sé, non produce effetti positivi, perché, se così fosse, non avremmo avuto l'esperienza dell'Italia umbertina (in cui era stato adottato il sistema uninominale, tranne una breve parentesi negli anni ottanta del secolo scorso), né la situazione di debolezza della Terza Repubblica francese.
Il collegio uninominale a doppio turno produce effetti positivi se accompagnato dall'elezione diretta del premier o anche del Presidente della Repubblica. Se manca il collegamento con l'elezione diretta del vertice dell'esecutivo, il sistema del collegio uninominale a doppio turno potrebbe diventare un elemento di trasformismo, un elemento di esasperata contrattazione, perché mancherebbe la possibilità di orientare le desistenze e le alleanze sulla base di una omogenea scelta nazionale.
L'altra condizione perché si verifichino effetti positivi è che l'uninominale a doppio turno operi in un «ambiente» tendenzialmente maggioritario. Mi limito a questa breve considerazione, senza entrare nei minimi particolari, anche perché ho consegnato alla Commissione una relazione scritta, che mi consente di poter essere sintetico. Sarei anzi grato al presidente se disponesse affinché la relazione possa essere integralmente pubblicata in calce al resoconto stenografico della seduta.

PRESIDENTE. Sta bene, professor Barbera. La sua relazione sarà allegata al resoconto stenografico della seduta odierna.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Dicevo che un sistema uninominale a doppio turno dovrebbe operare in un «ambiente» nel quale le composizioni siano non dominate da una logica proporzionalistica. Se l'unica competizione effettivamente maggioritaria dovesse essere quella della Camera dei deputati, il doppio turno non darebbe buoni frutti! Ovviamente si può fare un'eccezione per il sistema elettorale europeo, perché in quel caso si tratta di rappresentare al massimo tutte le pieghe della società; ma mi preoccupa - anche se potrebbe darsi che si tratti soltanto di un chiacchiericcio dei giornali - veder emergere l'idea di eleggere l'altra Camera addirittura con il sistema proporzionale. Ne deriverebbe che una Camera - che


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dovrebbe dare la fiducia - sarebbe eletta con il sistema maggioritario e l'altra con il criterio prevalentemente proporzionale. In questo modo si metterebbero insieme, sia pure per eleggere organi che avrebbero una funzione diversa, sistemi differenti che finirebbero per inquinarsi vicendevolmente.
Quanto detto a proposito del collegio uninominale maggioritario mi porta a ritenere non più praticabile una formula per la quale ho «fatto il tifo» negli anni ottanta, e che era stata portata avanti nella Commissione Bozzi dall'allora segretario della democrazia cristiana, Ciriaco De Mita, quella cioè di un'elezione proporzionale con premio di maggioranza. Tale sistema in quegli anni avrebbe potuto consentire un inizio di ristrutturazione del sistema politico, ma in questo momento mi pare superato dalla rapidità dell'evoluzione degli eventi. All'epoca, il problema era di assicurare la stabilità delle coalizioni politiche, stabilità messa in crisi dalla contrattazione tra partiti o tra correnti all'interno dello stesso partito. Non dobbiamo dimenticare che quelli erano gli anni nei quali era considerata eversiva perfino la innocua legge sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio, che approvammo con fatica, dopo quasi quarant'anni, nel 1988. Oggi il problema è legato non soltanto alla stabilità dei governi ma anche all'omogeneità delle coalizioni, per i motivi che ho indicato in precedenza.
Il sistema uninominale a doppio turno potebbe essere accompagnato da alcune correzioni. Il professor Sartori si è già intrattenuto su quello che potremmo definire il «diritto di tribuna». Si tratta di un'affermazione facile da enunciare, anche se in concreto è difficile strutturare tale diritto (a questo proposito ho cercato di fornire delle indicazioni nel testo della relazione che ho depositato agli atti). Non a caso, in Francia la commissione Vedel ha lanciato questa idea ma essa non ha poi avuto seguito. Il grosso problema - come sapete - è costituito dalla mancata rappresentanza in Parlamento del Fronte nazionale di Le Pen. Ripeto: è difficile configurare una strutturazione concreta del «diritto di tribuna». Ho quindi cercato di indicare alcune ipotesi, che lo stesso Sartori non ha configurato, essendosi mantenuto sulle generali.
Per quanto riguarda la forma di governo e, in particolare, la strutturazione del sistema elettorale, credo si debba partire da una constatazione. Negli anni cinquanta il club Jean Moulin, in particolare Duverger (in una prima fase, Vedel) furono indotti a constatare come il sistema che avesse funzionato meglio fosse quello di gabinetto, ossia il sistema Westminster, il sistema inglese. È il modello che ha consentito un'evoluzione del sistema parlamentare in governo del primo ministro senza mettere in crisi le libertà parlamentari e l'evoluzione del sistema inglese. Esso ha consentito contemporaneamente, in circa trent'anni, in quel paese, il massimo di socialismo e il massimo di liberismo; con il governo Attlee si è avuta la nazionalizzazione dell'industria pesante, delle banche, il servizio sanitario nazionale, il Welfare State...

CESARE SALVI, Relatore. Adesso si tratta invece, a quanto pare, di togliere tutto questo.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Si è avuta la decolonizzazione dell'impero in quattro-cinque anni e si è avuto il massimo di liberismo con la signora Thatcher, che fece quanto lo stesso Reagan non aveva osato fare negli Stati Uniti d'America. Quel sistema ha retto. Tuttavia, il problema è che quello stesso sistema si fonda sul bipartitismo, ormai da due secoli insediato in quel paese. Com'è possibile - questa è la domanda che fu posta negli anni cinquanta - importare le istituzioni inglesi non potendo importare i partiti inglesi? La conclusione alla quale pervennero allora il Club Jean Moulin ed anche Mortati negli ultimi anni, oltre a Galeotti, che ascolterete oggi, e cui è pervenuto qualcuno di noi, è che è possibile tentare di riprodurre quel sistema attraverso il collegio uninominale a doppio turno e l'elezione diretta del primo ministro, razionalizzando,


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rendendo regola, rendendo sistema costituzionale ciò che in quel paese è invece il frutto di un'evoluzione secolare. Mi rendo conto che questo non è facile, ma a mio avviso si può tentare.
La formula classica prevede l'elezione contestuale, lo stesso giorno e con scheda separata, del Parlamento e del primo ministro. Eleggendosi lo stesso giorno Parlamento e primo ministro, essendo eletto il Parlamento con un sistema fortemente selettivo (quello uninominale a doppio turno senza quota proporzionale, in quelle proposte), adottando un sistema di candidature che garantisca alle forze politiche che presentano candidati in Parlamento la legittimazione a presentare candidati a premier, evitando dissociazioni, tentazioni plebiscitarie, circostanze in cui vi siano personaggi posti al di fuori dei processi politici che si candidano, si confida che si possa arrivare ad una coincidenza di maggioranze, nella consapevolezza che se questo non dovesse realizzarsi (potrebbe accadere ma normalmente non dovrebbe) vi sono strumenti perché un governo di minoranza possa governare, com'è accaduto anche in Francia con il governo Rocard, che aveva, appunto, gli strumenti per governare; infine, se questo non dovesse essere possibile, vi sarebbe la sfiducia da parte del Parlamento nei confronti del Presidente del Consiglio o la presentazione delle dimissioni da parte dello stesso Presidente del Consiglio e quindi il ricorso a nuove elezioni.
Si tratta di un sistema che questo Parlamento ha tentato di tradurre nel momento in cui, con le correzioni apportate, si è introdotto il sistema di elezione diretta dei sindaci. Si tratta esattamente di questo sistema, con qualche variante: si eleggono contemporaneamente una coalizione ed un candidato sindaco, che sono costretti a convivere; se non vi è possibilità di convivenza, il consiglio comunale decide la sfiducia o il sindaco si dimette. Credo che per chi si muove all'interno della premessa che il sistema migliore è quello inglese, ossia il modello Westminster, sia possibile tradurre a livello nazionale un sistema analogo a quello per l'elezione diretta del sindaco, con una correzione a mio avviso importante: l'elezione diretta dei sindaci poggia su un sistema proporzionale (liste più voto di preferenza e premio di maggioranza) ma non credo che sia possibile, per i motivi di cui ho parlato all'inizio, trasferire questo sistema a livello nazionale, perché sarebbe un passo indietro rispetto ai collegi uninominali. È però possibile innestare quel sistema su collegi uninominali.
Se si volesse seguire questa strada, ciò sarebbe possibile attraverso le seguenti fasi, che elenco rapidamente: vi sarebbe la facoltà di collegarsi a un candidato premier, associando il nome di quest'ultimo accanto al simbolo nella scheda da parte dei singoli candidati nel collegio uninominale; l'elettore, votando il candidato, vincolerebbe, con un unico voto, il candidato stesso a sostenere il candidato premier cui è collegato; verrebbe considerata conclusa la competizione qualora uno schieramento ottenesse la maggioranza assoluta dei seggi; se questo non dovesse avvenire, si procederebbe ad una competizione tra i primi due candidati e vincerebbe quello che otterrebbe più voti.
Vi sarebbe inoltre la possibilità per il Parlamento di negare la fiducia - questa è una variante rispetto all'elezione diretta del sindaco - attraverso la sfiducia costruttiva. Anche in questo caso, come ha giustamente rilevato il collega Cheli, sarebbe riconosciuto al premier il potere di provocare lo scioglimento delle Camere. Poiché l'ha detto bene - lo ripeto - il professor Cheli, non tornerò su questo punto; mi limito a sottolineare molto rapidamente che ormai sono ben pochi i casi di scioglimento affidati al Capo dello Stato con funzioni di garanzia: infatti, gli scioglimenti sono da ricondurre direttamente, in maniera formale o informale, alla decisione del Presidente del Consiglio, come avviene in Svezia, dove il primo ministro decide lo scioglimento, oppure rappresentano un atto dovuto del Capo dello Stato rispetto ad una proposta del

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Presidente del Consiglio. Quindi, non sarebbe un fatto sconvolgente: probabilmente, avendo presente la tradizione italiana, può sembrare sconvolgente che sia il primo ministro a chiedere ed ottenere lo scioglimento, ma così non è, a parte il fatto che anche in Italia - su questo punto mi limito ad aprire una parentesi - in realtà gli scioglimenti delle Camere, tranne gli ultimi, non sono mai stati decisi dal Capo dello Stato, ma dalle forze politiche all'interno dello stesso Parlamento.

ACHILLE OCCHETTO. Il Capo dello Stato tende a non sciogliere.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Lo decidevano le maggiori forze politiche, soprattutto quando c'era l'accordo tra democrazia cristiana e partito comunista.
In questo caso, sarebbe possibile ottenere il risultato positivo di mettere insieme proposte che vedo presenti nei progetti e che tra loro sembrano incompatibili: per quanto concerne, per esempio, la contrapposizione tra designazione ed elezione, con questa proposta si avrebbe al primo turno la designazione ed al secondo turno l'elezione vera e propria. Analogamente, per quanto riguarda il doppio turno o turno unico, il sistema sarebbe innestato su collegi uninominali a turno unico, ma l'elezione del premier avverrebbe a doppio turno: infatti, in caso di mancato raggiungimento della maggioranza fin dal primo turno, la competizione sarebbe tra i primi due candidati ed il vincitore otterrebbe in premio la maggioranza assoluta dei seggi.
Io stesso mi faccio un'obiezione in maniera problematica, perché credo che si debbano sempre valutare le questioni nelle loro luci ed ombre: mi chiedo se questo sistema, che va bene per l'elezione diretta dei sindaci, possa andare bene per l'elezione del Parlamento, tenuto conto che vi sarebbe un gruppo di deputati i quali avrebbero una legittimazione sostanzialmente diversa dagli altri, in quanto sarebbero il premio che è stato conquistato dal candidato alla Presidenza del Consiglio. Ho constatato però che anche il collega Elia, il quale è sempre stato molto cauto su questo punto, si è recentemente dichiarato favorevole - così mi è sembrato di capire - alla possibilità di prevedere dei premi. Io stesso, comunque, avanzo dei dubbi.
Tengo a sottolineare che, a mio parere, bisognerebbe evitare l'espressione «governo del premier», perché con essa è possibile intendere le cose più diverse. Ci si può riferire all'elezione diretta vera e propria, con scheda separata, del primo ministro, ma anche ad una soluzione - contenuta in alcuni progetti - che preveda la sola indicazione del premier agli elettori, senza neanche la formalizzazione sulla scheda, ed il voto di sfiducia costruttiva. Sono due cose totalmente diverse tra loro, quindi sarebbe opportuno, anche per aiutare la comprensione del dibattito da parte dei cittadini, uscire da questo equivoco e ricorrere ad espressioni più pregnanti. Questa è una raccomandazione che rivolgo affettuosamente in modo particolare a quanti politicamente mi sono più vicini.
A proposito della indicazione del premier e del voto di sfiducia costruttiva, vorrei capire che cosa cambierebbe rispetto ad oggi. Un'indicazione del primo ministro da parte degli elettori c'è già stata nel caso di Berlusconi e nel caso di Romano Prodi, ma il voto di sfiducia costruttiva avrebbe senso se in Italia - e in Europa - i governi cadessero per un voto del Parlamento. Nel nostro paese, invece, i Governi non sono mai caduti per un voto di sfiducia del Parlamento, le crisi sono sempre state extraparlamentari e non si sono verificate perché aveva vinto l'opposizione ma perché si era sfaldata la maggioranza. E questo vale anche per altri governi europei in sistemi a parlamentarismo debole.
Di fronte a questo, che significato avrebbe il voto di sfiducia costruttiva? Temo che faremmo finta di fare la riforma senza averla fatta. Naturalmente la sfiducia costruttiva può essere utile insieme ad altri elementi, ma da sola non


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servirebbe a nulla, semmai sarebbero utili strumenti per assicurare la presenza di Governi di minoranza.
Complessivamente credo che il governo del primo ministro con elezione diretta del premier, almeno al secondo turno, sia la soluzione migliore; tuttavia considero una buona carta di riserva anche il sistema semipresidenziale, purché siano precisate alcune cose, siano apportati dei correttivi e si guardi senza furore ideologico ai vantaggi ed agli svantaggi dell'una e dell'altra soluzione.
Lo svantaggio del sistema francese non credo sia l'iperpresidenzialismo, perché il vertice dell'esecutivo è anche il punto di riferimento della maggioranza in tutti i paesi a parlamentarismo forte. In Inghilterra il premier è il capo della maggioranza ed ha poteri di gran lunga superiori a quelli del presidente in un sistema presidenziale e lo stesso vale per il cancelliere Kohl. La differenza sta nel fatto che, laddove il capo del Governo è anche il capo della maggioranza, il Parlamento conta di più perché ha la possibilità di rimuoverlo, cosa che non può fare in un sistema semipresidenziale. In secondo luogo, nel sistema francese c'è un Presidente della Repubblica che esercita poteri di governo, sia pure limitati alla politica estera e alla difesa, ed influisce sui poteri del governo senza che il Parlamento abbia la possibilità di esercitare un controllo, di promuovere indirizzi e di avere la presenza fisica del vertice dell'esecutivo per fargli sentire l'impeto stesso dell'opposizione.
Mi pare che questo sia un punto di debolezza del sistema semipresidenziale ed un punto a vantaggio dell'elezione del premier. Mi rendo conto però che anche il sistema semipresidenziale ha dei vantaggi, in primo luogo la flessibilità; la possibilità, cioè, per un presidente, di frapporre un Governo fra sé e il Parlamento; in secondo luogo la possibilità di avere un esecutivo bicefalo e quindi risolvere problemi di coalizione o addirittura i problemi interni di un partito (lo si è visto recentemente in Portogallo). Inoltre, contrariamente a quello che si pensa, il sistema semipresidenziale è più in linea con la tradizione italiana di quanto non sia l'elezione diretta del primo ministro perché si collega ad una tradizione che trae le proprie origini dalla monarchia costituzionale. Quando c'è l'impossibilità per la maggioranza di esprimere un Presidente del Consiglio, il Presidente della Repubblica italiana interviene e lo ha sempre fatto; nei momenti di forza della maggioranza, invece, il Capo dello Stato si comporta come il vertice di una monarchia. Lo stesso Einaudi dovette intervenire in un momento di debolezza della maggioranza, così dovettero fare Gronchi e Pertini, così ha dovuto fare l'attuale Presidente. L'elezione del Presidente del Consiglio, invece, rappresenta la rottura di una tradizione assemblearista e comporta una scelta fortemente maggioritaria e bipolarizzante, al limite tendenzialmente bipartitica.
La domanda di elezione del Governo emersa in questi ultimi anni, mi pare che verrebbe soddisfatta meglio dall'elezione diretta del primo ministro che non da quella del Presidente della Repubblica, perché quest'ultima non porta all'elezione di un Governo, ma di un organo autorevole che può influire sul Governo, e non assicura stabilità di governo, come dimostrano le decine di governi francesi che si sono succeduti negli ultimi anni. Teniamo presente inoltre che la coabitazione non è un elemento positivo, come è stata considerata in qualche intervento; in Francia è stata anzi considerata un elemento di patologia, solo che, per fortuna, è intervenuta per soli quattro anni in circa quarant'anni di vita della Quinta Repubblica e alla fine dei mandati presidenziali.
Non mi soffermo su quali sarebbero i correttivi da apportare se si dovesse andare all'elezione diretta del Presidente della Repubblica con un sistema di tipo francese, perché li ho visti emergere in tanti dibattiti; raccomanderei invece che vengano tenuti fermi alcuni punti. Decisivo mi pare quello dello scioglimento delle Camere senza controfirma del primo ministro, perché se questa dovesse essere richiesta il sistema non funzionerebbe.

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Non dobbiamo dimenticare che Mitterrand è stato eletto per ben due volte, nel 1981 e nel 1988, da una maggioranza di centro-sinistra e si è trovato di fronte un Parlamento ed un Governo eletti sulla base di un vecchio orientamento dell'elettorato con una maggioranza di centro-destra. Ha potuto sciogliere ed ha potuto rimettere in moto il sistema, se non avesse potuto farlo il sistema sarebbe entrato in crisi, come è avvenuto in Bulgaria. Vorrei ricordare rapidamente una vicenda degli ultimi mesi. In Bulgaria hanno previsto un sistema semipresidenziale, però per lo scioglimento hanno voluto anche la controfirma del Primo ministro. Il Presidente della Repubblica è stato eletto da una maggioranza di centro-destra, ma il Parlamento, che esprime invece un Governo di sinistra, non voleva concedere lo scioglimento. Come sappiamo, i cittadini sono scesi in piazza - vi sono stati anche incidenti e feriti - perché credevano di aver eletto chi li avrebbe governati ed invece si sono accorti di aver dato vita a due governi diversi, uno non più gradito alla popolazione e l'altro a seguito dell'elezione diretta del Capo dello Stato.
Quanto alla differenza tra la soluzione dell'elezione diretta del premier e la soluzione francese, vi sono vantaggi e svantaggi; personalmente continuo a preferire l'elezione diretta del Primo ministro nella formula classica oppure in quella che mi sono permesso di proporre come eventuale mediazione tra posizioni contrastanti, cioè fra designazione ed elezione, o fra un turno e il doppio turno. In ogni caso, quale che sia il sistema prescelto, bisogna arrivare necessariamente ad alcune modifiche della nostra forma di Governo su punti specifici: ordine del giorno, voto bloccato, possibilità di porre la questione di fiducia, ma intendendosi in questo caso il testo approvato e la fiducia accordata solo se i voti contrari non siano pari alla maggioranza assoluta dell'Assemblea per consentire governi di minoranza, che vi sono in tutta Europa (Commenti del senatore Passigli). Non proprio, in Francia vi è la ghigliottina, che costituisce una provocazione al Parlamento perché presuppone che, se il Parlamento non dà la sfiducia su un determinato testo, quel testo s'intende approvato.

CESARE SALVI, Relatore. La ghigliottina è un istituto tipicamente francese.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Si cita spesso la Costituzione tedesca parlando di cancellierato e di federalismo; inviterei a citare l'articolo 113 della Costituzione tedesca, che stabilisce che senza consenso del Governo non si possano prevedere nuove spese o diminuire le entrate. Con due milioni di miliardi di debito pubblico e con i problemi che abbiamo in Europa, sarebbe assai positivo se venisse mandato un segnale in questo senso. Bisognerebbe avere il coraggio di farlo.
Il presidente De Mita lo ricorderà: la Commissione Bozzi fallì perché non vi fu il coraggio di procedere ad una riforma elettorale, non si trovò un accordo tra i due maggiori partiti su questo terreno. Tuttavia, almeno formalmente, la Commissione Bozzi cadde su un punto: sulla deliberazione di spesa ed il voto segreto. Una parte del Parlamento - ahimè, facevo parte in quel periodo di quel gruppo parlamentare - ritenne che fosse contrario ai principi costituzionali prevedere il voto palese sulle semplici deliberazioni di spesa. Non avemmo il coraggio allora; io credo che questo Parlamento dovrebbe avere questo coraggio, anche perché allora la democrazia era bloccata ma, per fortuna di questo paese, adesso siamo nella normalità democratica.

PRESIDENTE. La speranza è ovviamente quella che noi siamo in condizioni di dimostrare la validità di questa sua affermazione.
Il primo iscritto a parlare è il senatore Rotelli.

ETTORE ANTONIO ROTELLI. Ho qualche difficoltà a parlare di Augusto Barbera come professore dimenticando che appartengo alla stessa università, alla stessa facoltà, allo stesso dipartimento,


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allo stesso schieramento regionalista almeno dal 1968, ma ho visto che questa mattina altri colleghi si rivolgevano al professor Rodotà con una certa familiarità. Ho comunque chiesto d'intervenire soltanto in quest'audizione in tema di forma di governo, pur avendo chiesto di poter prendere la parola anche in Comitati diversi da quelli ai quali ciascuno di noi è stato assegnato.
Devo dire anche di più: visto che vi è stato un attimo di commozione iniziale di Augusto Barbera, devo dire che mi aspettavo di trovarlo componente di questa Commissione, oltre che di questo Parlamento. Ritengo cioè che sia mancato un interlocutore fondamentale e forse non avrei neppure preso in considerazione l'ipotesi di entrare a far parte di questa Commissione se avessi saputo che la partitocrazia non avrebbe consentito ad Augusto Barbera di essere presente. Tuttavia, Augusto Barbera sa con altrettanta precisione che a questi sentimenti si accompagna una contrapposizione di opinioni.
In quest'occasione egli ha naturalmente ribadito gran parte delle cose che era venuto elaborando e proponendo. Non mi soffermerò sui dati di analisi da lui proposti, ma per esempio non è così pacifico aver dato come positivo il fatto che sia in atto o che si sia sviluppato un processo di bipolarizzazione. Vi è un partito che accetta - lo fa anzi volentieri - di definirsi di destra, che si chiama alleanza nazionale; vi è un partito che contiene la parola «sinistra» nella sua denominazione, ed è il PDS; vi è poi il partito di rifondazione comunista che, ritenendo che l'aggettivo «comunista» sia collocabile nell'alternativa tra destra e sinistra, pure accetta di ritenersi di sinistra. A parte questi punti, tutto il resto per quanto mi riguarda è del tutto impregiudicato.
Augusto Barbera ha sempre sostenuto la tesi del premierato; vi è stata una fase in cui, prendendo atto del dibattito, ha mostrato anche di accedere al semipresidenzialismo, ma in questa ulteriore fase considera nuovamente il premierato la scelta migliore.
Per il fatto che questa volta egli non fa parte della Commissione bicamerale, devo dirgli che le sue responsabilità sono enormemente aumentate. Infatti, prima poteva dire: nel contesto politico dato si è ottenuto ciò che poteva essere ottenuto o si è proposto ciò che aveva possibilità di essere ottenuto. Tuttavia, nel momento in cui non fa più parte della Commissione bicamerale, ha il dovere di comportarsi secondo schemi che definirei scientifici.
Questa fase è caratterizzata dall'esaltazione di due bastardi: uno è il premierato, l'altro è, sia pure con qualche anno in più, il sistema presidenziale francese; figli illegittimi sono il sistema parlamentare ed il regime presidenziale. Il sistema parlamentare è quello in cui il Governo può essere revocato dal Parlamento; il regime in cui il Governo non è revocato dal Parlamento è o la monarchia costituzionale pura, cui prima lo stesso Barbera accennava, oppure il regime presidenziale. Non ho difficoltà a dire che i sostenitori del regime semipresidenziale alla francese non sono riusciti a dimostrare la sua validità. L'unica cosa che sappiamo è che, se per alcuni decenni (tre o quattro decenni) si coniuga un sistema ad elezione diretta del Presidente alla maniera francese con un sistema elettorale alla maniera francese, si può ottenere un effetto di bipolarizzazione; quest'ultimo, tuttavia, è ancora oggi sostenuto da un'elezione presidenziale di un certo tipo: è del tutto evidente, infatti, che se si dovesse tornare - anche con il sistema politico così strutturato - ad un sistema parlamentare probabilmente il bipolarismo non resisterebbe a lungo.
Dal mio punto di vista, quindi, tutti coloro che hanno preso il testo della Costituzione francese ed hanno apportato qualche opportuno taglio (in parte coincidente con quelli qui esposti da Barbera) hanno compiuto un'operazione assolutamente non sostenibile. Si poteva prendere qualcosa, molto, dal sistema presidenziale francese (non passo a dire cosa avrei proposto io); questa presentazione del

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sistema semipresidenziale francese (da una parte con le suddette correzioni, dall'altra con il cosiddetto premierato: due soluzioni ritenute pressoché equivalenti o comunque entrambi suscettibili di un giudizio positivo dal punto di vista politico democratico) non è sostenibile.
Prendo atto che per la prima volta (poi mi dirai che non è così) ti vedo fare questa affermazione. Possiamo usare un linguaggio edulcorato, ma non è nel mio stile: il sistema del premierato è un regime; comunque lo si voglia configurare, è un regime in cui il Parlamento - già oggi mortificato (la maggioranza più ancora dell'opposizione) - subirebbe un'ulteriore mortificazione, poiché non vi è la divisione dei poteri.
Tu hai la responsabilità enorme di avere sostenuto che la divisione dei poteri fra Governo e Parlamento non è più il dato rilevante, poiché secondo la tua valutazione è necessaria la presenza di un Governo e di un'opposizione, di una maggioranza e di una minoranza, che si alternano. Ora, a parte il fatto che non si alternano poi così tanto, questa affermazione è abbastanza vera ad una sola condizione: che il sistema politico sia già bipartitico. In sostanza la contrapposizione tra Governo ed opposizione non sostituisce la divisione dei poteri se il sistema politico è ben lungi dall'essere bipartitico. Questa è la maggiore responsabilità culturale di Augusto Barbera: di non dichiarare - in un contesto come questo - i rischi esistenti.
Qui, però, hai fatto un'affermazione esplicita. Ti sei domandato: questo sistema non blinderebbe il premier così tanto da far correre il rischio di indebolire eccessivamente il Parlamento minandone l'autonomia? Mi dirai che non è la prima volta che lo dici: è, però, la prima volta che lo noto. Hai detto: si può correre il rischio di avere in Parlamento deputati eletti direttamente dagli elettori ed altri trascinati dal meccanismo. Qui si sta celebrando il concetto di egemonia gramsciana; io preferisco termini più tecnici, come «regime senza dialettica Governo-Parlamento».
Di fronte ad un regime di questo tipo mi sembrerebbe preferibile il ripristino del regime parlamentare. Sono convinto, d'altra parte, che l'Assemblea costituente riteneva di aver elaborato un regime parlamentare: non pensava nemmeno di aver scritto che il Capo dello Stato a sua discrezione potesse scegliere il primo ministro o potesse sciogliere il Parlamento.
Da tutto ciò derivano (discendono, comprensibilmente, dalla tua battaglia politica) una serie di giudizi . Il giudizio classico, secondo cui la legge di elezione diretta del sindaco è funzionale, non è pacifico, e comunque non è da me condiviso. Innanzitutto vi è la questione di principio: i consiglieri comunali non sono eletti in quanto tali, ma solo perché hanno seguito il sindaco eletto direttamente (il cittadino è costretto ad eleggere un certo sindaco per avere un certo consigliere comunale oppure, viceversa, ad eleggere un determinato consigliere comunale per avere un determinato sindaco). Tu stesso dici, infatti, che questo schema non è riproponibile a livello nazionale. In secondo luogo, il sistema non ha funzionato: è vero che il sindaco di Milano è stato in carica per quattro anni, ma non ha fatto proprio niente. Ci sono, inoltre, casi in cui il sindaco eletto direttamente non è durato nemmeno due anni (Pavia, tanto per non fare nomi). Sta di fatto che, anche laddove è durato a lungo, non ha funzionato: naturalmente quando si parla di tornare ad elezioni, ognuno valuta se in quel momento è conveniente esporsi ad una consultazione dei cittadini.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
DELLA COMMISSIONE LEOPOLDO ELIA

ETTORE ANTONIO ROTELLI. In definitiva, devi assumerti la responsabilità di dichiarare che un sistema di premierato non rappresenta l'inizio di un regime.
Già l'andamento di questa legislatura lo mostra con precisione: il Governo è debolissimo sempre (perché in qualsiasi momento può essere mandato a casa), ma finché non viene mandato a casa è fortissimo sempre, perché costringe il Parlamento


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a fare quello che lui vuole; per esempio, ad approvare una legge in uno dei due rami e poi sentirsi dire che nell'altra Camera la legge sarà modificata ad iniziativa del Governo stesso (parlo della legge sui concorsi universitari, in discussione questa mattina al Senato).
Il punto di riferimento, allora, è la necessità di garantire la stabilità del Governo, mettendo il Governo al riparo dalla possibilità di essere mandato a casa. È un regime presidenziale, che può essere considerato una variante del semipresidenzialismo francese, ma che non è una variante costruita con la semplice traduzione in italiano della Costituzione francese. Basta prevedere alcuni meccanismi elementari, da te stesso indicati: far coincidere l'elezione del Parlamento con il secondo turno dell'elezione del Presidente della Repubblica; stabilire che il Presidente della Repubblica così eletto non prende alcuna decisione, in quanto le decisioni sono assunte dall'organo collegiale Governo da esso stesso costituito.
Le tue responsabilità sono aumentate. Ti invito a prenderne atto.

ARMANDO COSSUTTA. Le analisi e le proposte di Barbera sono conseguenziali ad una premessa che contesto in linea di fatto, non soltanto in linea di principio. In Italia il bipartitismo non c'è e del, resto, ci sono voluti due secoli per confermare quel sistema in Inghilterra, a parte il fatto che se vinceranno i laburisti, come mi auguro, anche quel sistema dovrà cambiare dal punto di vista elettorale.
In Italia non vedo alcuna possibilità di introdurre un sistema di bipartitismo e intravedo nel ragionamento di Barbera una certa confusione tra bipartitismo e bipolarismo, o una stessa coincidenza. La realtà italiana è cosa ben diversa, lo dico a chi conosce certamente bene la storia e la tradizione italiana come il professor Barbera. In Inghilterra non esiste il movimento politico dei cattolici, così come non esiste l'estrema destra, da sempre esistita in Italia; in Inghilterra non c'è una sinistra plurale, non voglio dire due sinistre. Vi sono componenti della realtà italiana che non hanno raffronti in altri paesi, quindi non si può partire da una premessa astratta dalla realtà per trarre delle conseguenze.
Dunque, occorre tener conto di quanto ho detto e di quanto mi sono permesso di sottolineare in altre circostanze, ossia che in altre parti d'Europa la situazione è diversa e non possiamo circoscrivere una parte della realtà né nel bipartitismo, né nel bipolarismo assoluto.
Esistono, piacciano o non piacciano, il movimento federalista e quello ambientalista - che sono presenti in tutta Europa - e queste componenti non sono riducibili, in modo meccanico, forzoso, in un sistema bipartitico o bipolare. Si deve tener conto di una realtà che può riassumersi nell'indicazione del premier, affinché ci sia la massima garanzia di governabilità, non nell'elezione diretta del Presidente della Repubblica e tanto meno in quella del premier stesso. Ripeto, una indicazione sorretta da una forza parlamentare, da una potenzialità parlamentare che consenta il dispiegarsi del pluralismo italiano, altrimenti le questioni saranno fuori dal Parlamento ma dentro la società, dentro il paese e non troveranno alcuna reale possibilità di soluzione.
D'altra parte io stesso sostengo quello che anche Barbera ha sottolineato, cioè la sfiducia costruttiva, uno strumento importante mai esistito nella storia parlamentare italiana, lo sbarramento del quattro o del cinque per cento, come esiste in Germania, e il premio di maggioranza. Quest'ultimo, nel secondo turno e una volta garantita una forte rappresentatività proporzionale, è da assegnare alle forze politiche che intendano coalizzarsi per sostenere un certo presidente del Consiglio.
Sicuramente ci sono opinioni diverse, ma ho voluto rappresentare la mia affinché risultassero le mie obiezioni alle tesi del professor Barbera, che pur rispetto.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Rispondo a queste due forti obiezioni.


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So bene che il bipartitismo in Italia non c'è e non è, in tempi ravvicinabili, conseguibile; direi anche che il bipartitismo è un po' monotono.

ETTORE ANTONIO ROTELLI. E non sarebbe neanche auspicabile.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Credo invece che occorra dare atto - ho iniziato dai processi politici proprio per questo - dell'esistenza di una tendenza verso la bipolarizzazione. Le riforme elettorali, i referendum elettorali e le vicende della transizione politica italiana stanno portando ad una ristrutturazione in senso bipolare degli schieramenti politici, perciò mi sono posto il problema di assecondare tali processi. Se vogliamo assecondare questo processo, le regole elettorali e le regole istituzionali, o meglio più le regole elettorali, meno quelle istituzionali, ma contemporaneamente le une e le altre, possono farci conseguire l'obiettivo di una compiuta bipolarizzazione.
Se questo è l'obiettivo, ha senso ragionare insieme; se al contrario l'obiettivo non è questo, conviene cambiare tutto e, per molti aspetti, converrebbe compiere dei passi indietro e tornare alla proporzionale.
Secondo la mia opinione, in un sistema maggioritario bisogna assecondare la bipolarizzazione, ma occorre anche che le forze politiche assumano un certo atteggiamento: o partecipano alla coalizione e si assumono responsabilità apportando, in maniera originale, un contributo oppure - so che l'hai definita una visione leninista - c'è un diritto di tribuna, nel senso che ci si assicura una nicchia ecologica in cui si portano avanti certe contestazioni (Interruzione dell'onorevole Cossutta).

CESARE SALVI, Relatore. Perché dai del voi a Barbera?

ARMANDO COSSUTTA. Non è il «voi» che si usava in altri regimi; il «voi» si riferisce ad un insieme di posizioni di cui Barbera è uno degli interpreti.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Dicevo, o si partecipa alla coalizione, con tutto l'apporto originale necessario e magari anche conflittuale, oppure c'è un diritto di tribuna.
Per quanto riguarda l'Inghilterra, voglio ricordare ad Armando Cossutta (mi consentirai di chiamarti per nome) che il sistema uninominale inglese e le regole di quel paese - certo, di lunga tradizione - hanno consentito alla sinistra fin dal 1924 di andare al governo; quando in Italia la sinistra si divideva di fronte al fascismo e ci si apprestava all'Aventino in queste stanze, con MacDonald la classe operaia andava al governo. Aggiungerei che ci andava fisicamente perché molti ministri erano operai: Thomas macchinista, Henderson operaio di fonderia. (Commenti dell'onorevole Cossutta).
La democrazia cristiana ha rappresentato una grande tradizione, una grande realtà, ma ora non c'è più, mentre ci sono elettori cattolici che si spostano su uno schieramento o su un altro. Esistono anche partiti di ispirazione cristiana dislocati uno nel centrodestra, l'altro nel centrosinistra: non vorrei che, accanto alla nostalgia per il vecchio partito comunista, si avesse nostalgia anche per la democrazia cristiana.
Per quanto riguarda Rotelli, devo dire che personalmente ho fatto qualche lieve modifica e qualche riconoscimento, ma anche Ettore Rotelli ha operato qualche correzione, perché in altre occasioni ha accusato sia me sia Pasquino di inventare congegni elettorali in grado di far vincere la sinistra. Anzi, più Pasquino che il sottoscritto.
Mi darai atto che se vi è un dubbio che posso avere, come persona che milita nella sinistra, nell'Ulivo, è che il sistema da me immaginato, che prevede la vittoria al secondo turno del candidato che conquista più voti, avrebbe fatto vincere il candidato di centrodestra. Sotto questo profilo faccio mia una frase di Stefano Rodotà, secondo la quale «bisogna evitare l'uso congiunturale delle istituzioni».


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GIUSEPPE CALDERISI. L'ha detta anche questa mattina.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. È una frase giusta, perché bisogna essere in grado di saper andare al di là del proprio naso. Per esempio, la democrazia cristiana nella passata legislatura, lo dico perché è presente Ciriaco De Mita che era contrario, scelse il collegio uninominale pensando che con questo collegio, a un turno, avrebbe vinto le elezioni (Commenti dell'onorevole De Mita).

GIUSEPPE CALDERISI. L'ha spiegato.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. D'accordo.
Passo ora all'elemento dottrinario, che ha componenti politiche, individuato da Rotelli con accenti originali che non ho colto nel dibattito, ossia la rivendicazione del principio della separazione dei poteri. In maniera molto chiara e netta sottolineo che il principio della separazione dei poteri ha una grande validità per quanto riguarda la distinzione tra potere politico, potere giudiziario e potere delle garanzie; spero che da questa Commissione non vengano conclusioni che possano attentare a questo principio forte di garanzia e di separazione. Per quanto riguarda invece potere legislativo ed esecutivo, in Inghilterra, la madre del regime parlamentare, la confusione, la fusione dei poteri c'è ed è benefica.

ETTORE ANTONIO ROTELLI. Sì, ma i partiti sono due!

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Il primo ministro ed il Governo sono il comitato direttivo della maggioranza. D'altro canto, mi darà atto il senatore Rotelli che il sistema presidenziale americano - che egli da tempo considera un valido modello - era la «fotocopia» del sistema inglese della fine del diciottesimo secolo; i coloni americani, volendo riprodurre un sistema, scelsero quello di separazione dei poteri tra il parlamento e la monarchia, che c'era nel momento in cui vi era una divisione del potere sociale tra aristocrazia e borghesia. Ritengo che quel modello non sia valido, che la vera divisione dei poteri oggi sia tra potere politico e potere giudiziario, nonché tra maggioranza ed opposizione. In un sistema ben congegnato la garanzia delle libertà, rispetto alla quale anche Montesquieu guardava all'Inghilterra della fine del diciottesimo secolo, viene assicurata dalla distinzione netta tra maggioranza ed opposizione; da qui l'importanza di uno statuto dell'opposizione, di evitare pratiche di confusione tra maggioranza ed opposizione.

ETTORE ANTONIO ROTELLI. Non ha detto se questo premierato non diventi un regime.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Non ho capito, non ho risposto per questo; non ho capito in che senso dovrebbe essere un regime. Sarebbe un regime così come il sistema di gabinetto in Inghilterra dà poteri al Governo; è un sistema forte, non c'è dubbio.

CESARE SALVI Relatore. Dobbiamo dare atto a Barbera di essersi posto il problema.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. È un sistema forte, mentre quello americano è debole, perché, come abbiamo visto, mentre Attlee e Thatcher hanno potuto attuare i loro programmi, Clinton non è riuscito a realizzare neppure la riforma sanitaria.
Comunque, io stesso mi pongo l'interrogativo - mi pare corretto farlo - se un sistema che ritengo validissimo per i comuni, ossia quello del premio di maggioranza trascinato dalla competizione al secondo turno tra i due candidati sindaci, sia valido anche per il Parlamento. Mi pongo questo dubbio, ma per avere un conforto, nel senso che vorrei superarlo.


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PRESIDENTE. Invito i colleghi a rivolgere domande in modo piuttosto sintetico.
Sono iscritti a parlare gli onorevoli Nania, Armaroli...

PAOLO ARMAROLI. Ho ceduto prima la parola all'onorevole Cossutta, consentendogli di intervenire prima di me; ero il secondo!

PRESIDENTE. Avendo prima ceduto la parola all'onorevole Cossutta, credo possa prenderla subito.

PAOLO ARMAROLI. Sarò comunque molto breve.
Il senatore Salvi molto saggiamente invitava a venire ai giorni nostri, io addirittura vengo alle ore, ai minuti nostri: è notizia di qualche minuto fa che il Governo ha posto la questione di fiducia sul disegno di legge sulla semplificazione amministrativa, il «Bassanini due, la vendetta», cosa piuttosto anomala...

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. La vendetta contro chi?

PAOLO ARMAROLI. È un titolo cinematografico...

CESARE SALVI, Relatore. Vedrai quando arriverà il «Bassanini tre»!

PAOLO ARMAROLI. Questo depone a favore della correttezza ineccepibile del Governo visto che, come tutti sanno, il ministro Bassanini è capolista del partito democratico della sinistra a Milano. È dunque una forma di pubblicità gratuita che il ministro incassi un proprio provvedimento alla vigilia delle elezioni, alla faccia di quella par condicio (Interruzione del senatore Passigli)! La prego di non sostituirsi al presidente...

PRESIDENTE. Date modo all'onorevole Armaroli di intervenire.

PAOLO ARMAROLI. Per quanto riguarda le analisi compiute in questa sede, l'altra notizia che ci interessa riguarda l'ultima dichiarazione resa dal presidente della Commissione bicamerale, l'onorevole D'Alema, il quale proprio oggi ha sostenuto - siamo tutti un po' stupefatti come componenti della bicamerale - che dovendo scegliere tra Governo e riforme costituzionali, opterebbe per il primo. Per carità, si può benissimo sparare sul quartier generale, ma poi ritengo che bisogna assumersene anche le responsabilità. Non capisco questo attacco di Kramer contro Kramer, francamente mi lascia stupefatto.
Ma veniamo alle cose che diceva il professor Augusto Barbera. Devo brevissimamente ripetere quanto dissi, almeno in un punto, per l'audizione del professor Cheli: il neo del neoparlamentarismo del professor Barbera è appunto il neoparlamentarismo. Francamente il fatto che egli auspichi - auspicio legittimo - di andare ad immergerci oltre Manica, di andare sulle rive del Tamigi è encomiabile, ma ho il dubbio che si vogliano fare, come si dice a Firenze, le nozze con i fichi secchi. Arrivare infatti ad un modello Westminster senza che sussistano le condizioni mi pare - d'altra parte il professor Barbera lo ammetteva con grande onestà intellettuale - difficile.
Se il professor Cheli indicava la via di una riforma elettorale «da cavallo», una riforma ipermaggioritaria, quella del professor Barbera, se me lo consente, è un po' la ricetta del dottor Spock: si può prescindere dal sistema elettorale ad un turno, venga pure il sistema elettorale a doppio turno e addirittura - perché no? - un diritto di tribuna. È uno stemperamento continuo; arrivare in queste condizioni non dico al bipartitismo ma ad una forma di bipolarizzazione è molto difficile.
Capisco che la sua ricetta si completa perché gli interventi che egli non vuole fare - come dicono i sociologi falliti - a monte, vengono da lui previsti a valle con tutta una serie di accorgimenti nei rapporti del Governo in Parlamento.
A questo punto mi domando se sia possibile varare una ricetta di questo genere, anche perché il difetto del premierato


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è che, se si imbocca questa strada, prevarrà poi necessariamente l'indicazione o, come ha detto l'ex Presidente della Repubblica Cossiga, il sussurro del Capo del Governo, piuttosto che la franca elezione del Capo del Governo. Perché? Perché è notorio che sia a sinistra sia in altre formazioni politiche vi è la paura dell'uomo nero, cioè la paura della bestia nera incarnata ora in questo ora in quel personaggio, che adesso non ci interessa molto identificare. E siccome il professor Barbera ha affermato che potrebbe dire certe cose o altre, a seconda che il suo cliente sia questo o quello, per cui ci ha offerto un quadro equilibrato delle luci e delle ombre dei due sistemi in lizza, tutto sommato, anche per la sua flessibilità e per il fatto che il nostro bipolarismo sarebbe meglio soddisfatto da un semipresidenzialismo alla francese, dove la dislocazione della quadriglia si potrebbe modulare con il sistema francese, a me sembra che sul premierato o sul modello Westminster, che dir si voglia, faccia premio il modello semipresidenziale alla francese.

DOMENICO NANIA. Professor Barbera, condivido la sostanza e l'impostazione del suo intervento, perché mi è sembrato fondamentale partire dai processi politici, soffermarsi sulla destrutturazione del sistema politico e sulla necessità di interrogarsi su come ristrutturarlo e indicare come obiettivo quello della bipolarizzazione. Sono rimasto colpito proprio dalla chiarezza, da questo punto di vista: lei dice, professor Barbera, che se vogliamo raggiungere il bipolarismo stiamo qui a discutere, diversamente è meglio tornare al proporzionale, e la partita è chiusa.
Dico subito che ragiono all'interno di questo contesto scartando il discorso sul semipresidenzialismo, che considero il più compatibile con la nostra tradizione, tant'è che, da questo punto di vista, il professor Sartori ci ha ben chiarito come si potrebbe egualmente definire quel sistema semipresidenzialismo. Ragiono, professor Barbera, sul sistema da lei proposto apportandovi una correzione frutto di una mia ricerca all'interno di tale schema. Sulla proposta che sto per formulare chiederò poi il suo parere. Ragiono dentro l'ipotesi, da lei avanzata, del candidato indicato nella scheda, quindi ragiono sul versante opposto a quello del Polo...

CIRIACO DE MITA. Degli infedeli.

DOMENICO NANIA. La proposta cara...

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Il premier è indicato nella scheda al primo turno; il secondo turno (eventuale) è un ballottaggio tra i primi due candidati.

DOMENICO NANIA. Dicevo, dunque, che ragiono sullo schema degli altri, su una proposta che è cara al PDS o a una parte di esso - al gruppone del PDS -, che è accettata dai popolari e che, tutto sommato, potrebbe andare bene anche a rifondazione comunista. Quindi, ragiono su una proposta altra. E perché questa proposta è cara ai popolari e a coloro che si dichiarano preoccupati delle degenerazioni plebiscitarie di una eventuale riforma? È cara ai popolari perché essi sostengono, con un ragionamento che dal loro punto di vista è ben coerente, che in tal modo la scelta dell'elettore è concentrata sullo schieramento, sui partiti più che sull'uomo. Quindi, semmai un effetto è da immaginarsi, immaginiamolo di trascinamento della coalizione dei partiti sul candidato. Diciamo che si fa perno sulla coalizione dei partiti più che sulla scelta diretta di chi deve governare. Questa impostazione, che elimina ogni forma di elezione diretta e che suscita il gradimento di chi sta dalla parte contrapposta al Polo, può anche lasciare in piedi l'attuale legge elettorale, la quale, come ben si capisce, è qualcosa su cui i verdi, rifondazione comunista e - perché no - anche i popolari giocano molto, perché vi è la capacità di interloquire con i partner all'interno della coalizione prima del voto


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anziché dopo. Sono tutti elementi che hanno importanza ai fini della riforma che si va a realizzare.
Questa riforma, però, ha un difetto che io riscontro anche nella sua proposta, professor Barbera, cioè quello di accogliere la tesi del cosiddetto valore aggiunto (l'Ulivo) e non rispondere alla famosa obiezione D'Alema. Anche con il sistema abbozzato da lei, cioè del candidato premier indicato sulla scheda, designato, scelto - usiamo l'espressione che più ci aggrada - resta il fatto che quel candidato è scelto dalla coalizione dei partiti e, dunque, dai partiti. Cosa comporta questo schema? Che tutte le volte che il candidato premier viene scelto dai partiti che formano la coalizione dei partiti, per ovvie ragioni e considerazioni è vincente la tesi del valore aggiunto: i progressisti da soli - teorema sicuramente bipolare, teorema che dopo una sconfitta poteva portare ad un'autentica sinistra di governo, teorema che guardava lontano ma che, comunque, non garantiva il governo immediato - perdono nel 1994 contro il Polo; nasce la teoria del valore aggiunto; la sinistra rinuncia a vincere in nome e per conto proprio e si affida al soggetto politico che porta l'ultima percentuale, quella che occorre per vincere e che, in questo caso, si chiama Prodi. Ma se giochiamo questa simulazione sul Polo, ci accorgiamo che esso perde nella competizione con l'Ulivo perché resta bipolare, paradossalmente perché ripete l'errore dei progressisti: in uno schema siffatto, ovvero quando il premier è indicato dalla coalizione dei partiti, chi è bipolare perde, mentre invece vince chi candida il portatore finale della percentuale che occorre per vincere. Nel 1996, se il candidato premier del Polo fosse stato Dini anziché Berlusconi, probabilmente sarebbe stato il Polo a vincere le elezioni, così come è stato con Prodi nell'Ulivo.
Ma tutto questo comporta quanto dice D'Alema, nel senso che in Italia si verifica ciò che non accade in nessun altro sistema al mondo di tipo bipolare impiantato sia sul proporzionale (Germania) sia sul maggioritario secco all'inglese (Gran Bretagna); in nessuno dei due sistemi è pensabile, per esempio, che il leader dei verdi diventi il premier di governo; in Germania chi può pensare che il leader del partito liberale diventi cancelliere? È ben ovvio, perché in una cultura bipolare diventa premier il leader del partito che ha o che prende più voti.
Invece - ecco il punto del ragionamento - con l'impostazione che abbiamo, in un sistema che è a tendenza maggioritaria, e a maggior ragione anche con l'indicazione nella scheda, se proviene dalla coalizione dei partiti, sanciamo un effetto interno antibipolare che scontiamo sul Governo attuale. È ben ovvio che Prodi cerchi una sua forza, una sua originalità, una sua consistenza. Ed è dunque ben ovvio che in una coalizione, dove il partito che non rappresenta il partito maggiore e che, per fatto naturale, tenderà ad allargarsi, ad impiantarsi, di fatto si contesterà l'egemonia o, comunque, la consistenza del partito più grosso.
Signor presidente, sto formulando quesiti cercando di risolvere il problema sul tappeto; sto ragionando sul vostro versante, quindi non mi faccia il segnale di stringere; semmai avrebbe dovuto farlo a Rotelli o ad Armaroli, perché io pongo un quesito specifico, come adesso dimostrerò al professor Barbera.
Ho lavorato molto in questa direzione e mi sono chiesto come si possa fare, in un sistema con l'indicazione del premier sulla scheda, ad ottenere un risultato di tipo bipolare. Per rendere il concetto molto chiaro, ecco qual è la proposta Nania: inserire gli effetti delle primarie nella indicazione della scheda. Cioè a dire: diamo per scontato che abbiamo l'elezione per ogni collegio del candidato, quindi dell'eletto in Parlamento, accettando l'impostazione base dei popolari e di tutti coloro che si riconoscono nella maggioranza dei seggi per eliminare il rischio dell'outsider; però all'interno di ogni coalizione consentiamo l'indicazione di due candidati premier. Con questo che cosa si ottiene? Innanzitutto ciò risponde alla struttura bipolare del sistema. Faccio un esempio ricorrendo ad una simulazione

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concreta: si vota nel collegio di Bologna per il professor Barbera come deputato al Parlamento (cosa della quale saremmo tutti contenti), ma contemporaneamente si inseriscono Prodi e D'Alema, rappresentanti del centro-sinistra, rispettivamente il candidato del centro e il candidato della sinistra. È ben ovvio che l'elettore, nel momento in cui vota per il professor Barbera come rappresentante al Parlamento può indicare qual è il candidato premier di quella maggioranza che preferisce. Questo cosa significa? Significa innanzitutto che colui che arriva secondo diventa il vicepremier, realizzando in tal modo una solidità di maggioranza che anche in termini di vita politica fa sì che nel post-elezioni non si possano creare le condizioni per il cosiddetto ribaltone; ma significa soprattutto che il corpo elettorale sceglie come premier, con effetti bipolari, il candidato che ritiene più importante.
In questo caso i candidati vanno al ballottaggio non sulla base dei voti che prendono (cosa di cui si preoccupano sempre i popolari nelle loro analisi politiche), ma sulla base della maggioranza dei seggi. Quindi, va al ballottaggio il candidato indicato che è agganciato ad una coalizione di partiti e che prende più seggi. Si elimina così il rischio dell'outsider, perché costui comunque non è agganciato ad una coalizione che vince sul territorio, e si ottengono gli effetti bipolarizzanti della scelta.
Conclusione: si lascia in piedi, evidentemente, il sistema elettorale attuale. Perché si ha un vantaggio con questo sistema? Perché, lasciando in piedi il sistema elettorale che c'è attualmente, se si dovesse arrivare al secondo turno sulla base dei due candidati che hanno preso più seggi, sostanzialmente per attingere al plafond necessario per arrivare alla maggioranza assoluta (arrivo alla sua proposta, professor Barbera, che accolgo, perché la ritengo importante ai fini degli effetti bipolarizzanti), si avrebbe la seguente situazione: tra le due coalizioni vi sarebbe uno scarto di voti non molto elevato, il che significa che tutti i partiti della coalizione, in presenza di un numero ampio di seggi, sono rappresentati. In tal modo non viene vulnerato lo stesso concetto della proporzionalità.
Ritengo importante anche la sua proposta per un effetto finale, quella del ballottaggio sui seggi che mancano, perché ciò consente di decongestionare e recuperare l'elettorato della lega. Non dimentichiamo che oggi vi è un problema politico nazionale. Un sistema soltanto parlamentare, che crea la governabilità sull'assegnazione dei seggi, di fatto determina una condizione particolare nel sistema politico italiano (ecco il richiamo ai processi politici): la presenza della lega, che fa per così dire implodere ogni soluzione soltanto parlamentare. Una competizione sul territorio nazionale riassorbe invece quell'elettorato, lo istituzionalizza, perché indirettamente impone a quell'elettorato di scegliere chi deve governare l'Italia: o il candidato premier di una parte o il candidato premier dell'altra. Una competizione che comunque chiami complessivamente il corpo elettorale ad una scelta di tipo nazionale rappresenta quindi anche una clausola di salvaguardia ai fini dell'unità nazionale.
Vorrei sapere cosa pensa di questo correttivo, dell'introduzione dell'effetto delle primarie nel suo sistema.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Rispondo innanzitutto alla domanda dell'onorevole Armaroli. Il problema dell'outsider, del personaggio che viene fuori all'improvviso, dell'uomo nero (come lo chiamava l'onorevole Armaroli, evidentemente non volendo riferirsi... all'uomo di Montenero) in effetti esiste. In questo caso è possibile risolvere il problema, evitando quindi l'eccesso di personalizzazione, per esempio con il sistema francese, dove non può candidarsi alle elezioni qualunque candidato ma solo un candidato proposto da un certo numero di grandi elettori (in Francia, se non ricordo male, deve essere proposto da 500 grandi elettori, parlamentari, consiglieri regionali e consiglieri generali, purché distribuiti in 30 dipartimenti). In Italia si potrebbe prevedere, per


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esempio, il sostegno di forze politiche che abbiano presentato candidati in non meno di un certo numero di collegi, ad esempio in non meno di due terzi dei collegi. In tal modo credo sia possibile evitare quell'inconveniente.
Per quanto riguarda il problema posto invece dall'onorevole Nania, quando ho parlato di vantaggi e svantaggi delle due soluzioni, elezione diretta del premier e sistema francese, ho detto che il sistema francese presenta un duplice vantaggio. Innanzitutto consente di risolvere i problemi di concorrenza nelle coalizioni ...

DOMENICO NANIA. Io non ho parlato del semipresidenzialismo.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Parlavo in generale, del modo in cui risolvere i problemi, che possono esistere ovunque, di concorrenza all'interno delle coalizioni. Vediamo come vengono risolti questi problemi in Francia. Nel centro-destra, al primo turno si sono presentati sia Chirac che Balladour. Poi si è visto qual era il candidato più forte ed alla fine si sono concentrati i voti sul primo. A parte il fatto che in quel sistema, come ho già detto, vi è un'altra valvola di sfogo: il sistema bicefalo.

CESARE SALVI, Relatore. Però il meccanismo del governo del premier è più complicato.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Certo!

DOMENICO NANIA. Il sistema francese non elimina il problema dell'outsider.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. No, lo ha eliminato, perché 500 grandi elettori non è facile trovarli.
Per quanto riguarda invece la concorrenza di leadership all'interno della coalizione, i sistemi di elezione diretta risolvono questo problema al primo turno: Balladour e Chirac erano tutti e due del centro-destra e si sono candidati entrambi. Con il sistema dell'elezione diretta del primo ministro, per esempio, se cioè si andasse ad elezione diretta con scheda separata, si può risolvere il problema: al primo turno si possono candidare anche più candidati della stessa coalizione mentre al secondo turno i voti si concentrano sul candidato che ha ottenuto più voti al primo turno o che comunque non si è ritirato.
Per quanto riguarda invece il sistema che io indicavo, che in effetti non risolve questo problema, ebbene, si può ricorrere alle primarie. Assieme all'onorevole Occhetto ci siamo resi promotori dell'introduzione del sistema delle primarie per l'elezione nei collegi uninominali, ma questo sistema può essere valido anche per la scelta del candidato alla premiership. Per esempio, all'interno dell'Ulivo la prossima volta sarebbe auspicabile che abbiano luogo le primarie per la scelta del candidato (sarebbe riconfermato Prodi, sarebbe eletto D'Alema o qualcun altro: non lo so). Potrebbe essere utile (Commenti del deputato De Mita).
Per quanto riguarda, invece, il cosiddetto valore aggiunto, questo c'è sempre nei sistemi maggioritari. Nel sistema maggioritario si tende a presentare dei candidati che possano catturare il voto degli elettori di centro. Per questo dicevo che nel sistema maggioritario non c'è spazio per i partiti di centro ma c'è molto spazio per gli elettori di centro: essendo questo un elettorato più mobile ha la possibilità di spostarsi ora sull'uno ora sull'altro schieramento; questo porta inevitabilmente alla scelta di un candidato che abbia certe caratteristiche che siano in grado di assicurare quel certo valore aggiunto, valore aggiunto che non è detto debba essere posseduto da chi è portatore di istanze di minoranza (se il sistema si ristruttura, può darsi che vi sia una coincidenza in futuro tra premiership e leadership di partito). L'introduzione del sistema delle primarie può essere una soluzione.


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STEFANO PASSIGLI. Seguirò lo schema dell'intervento scritto che il professor Barbera ci ha consegnato, perché così sarò più rapido.
Ho trovato molto interessante tutta una serie di considerazioni anche tecniche che il professor Barbera fa in materia di legge elettorale, ma come lo stesso Barbera dice giustamente alla fine ciò attiene proprio alla legge ordinaria e quindi sono questioni che andremo ad esaminare quando ci occuperemo della stessa. Credo che a livello di Costituzione a noi interessi semmai scegliere appunto un principio, poi vedremo come attuarlo, tenendo conto di tutti i problemi tecnici sollevati, che sono problemi reali ma non irrisolvibili a valle della decisione sul tipo di sistema elettorale.
Per quanto riguarda il tipo di sistema elettorale, mi sembra che emerga chiaramente una preferenza per l'uninominale a doppio turno, che io ovviamente condivido, con le considerazioni che venivano fatte (adesso che l'onorevole Cossutta è andato via lo posso dire) sul diritto di tribuna, cioè sul mantenimento di una limitata quota proporzionale.
Quello che avrei voluto maggiormente, e che forse Barbera può adesso chiarire meglio, è un giudizio sull'uninominale maggioritario a turno unico. A pagina 3 della sua relazione egli sostiene di non volere enfatizzare la scelta perché l'uninominale maggioritario a un turno potrebbe funzionare se accompagnato con il doppio turno nell'elezione dei candidati a premier. A me sembra che anche in tal caso non funzionerebbe - questa è la prima domanda - perché aumenterebbe il rischio di uno scontro tra la maggioranza che si determina e il premier;ciò anche perché se non vi fosse nessuno nel turno unico non si eliminerebbe il rischio della proporzionalizzazione del maggioritario, che conosciamo e che Barbera stesso ha più volte denunciato, e quindi non aumenterebbe minimamente l'omogeneità delle coalizioni di maggioranza. Non aumentando l'omogeneità delle coalizioni di maggioranza, si determinerebbe il rischio di uno scontro premier-maggioranza o comunque di una crisi all'interno della maggioranza. Non è il caso di dire che comunque il doppio turno è preferibile, anche in caso di meccanismo di elezione diretta del premier?
Per quanto riguarda l'elezione diretta del premier, in maniera molto interessante Barbera configura due varianti: la versione classica e quella italiana. Non prende invece, a mio avviso, in sufficiente considerazione la designazione del premier che gli appare (non è spiegato perché) variante più debole. Io la considero soluzione non preferibile rispetto al semipresidenzialismo, ma rispetto all'elezione diretta la considero sicuramente versione preferibile, perché l'elezione diretta in entrambe le versioni avrebbe l'inconveniente di una notevolissima rigidità. Vorrei sottolineare che siamo in una fase di transizione, in un sistema partitico in movimento, in assestamento, addirittura in ricostruzione, una fase in cui è abbastanza facile prevedere che vi possano essere - come dimostra l'esperienza - nell'uno e nell'altro schieramento tensioni che possono sfociare in crisi. Quindi, prevedere rigidamente, in caso di elezione diretta, che si torna comunque alle urne - questo è il portato delle due varianti - può avere l'effetto o di continue correzioni oppure di ingessare maggioranze, governi a maggioranza inefficace, proprio per evitare lo scioglimento (potrebbe essere un Parlamento che consente a certe cose e non ad altre, per cui la capacità di produzione di politica del Governo ne risulta diminuita). Questo è un rischio non da poco su cui avrei voluto che Barbera ci intrattenesse. A me pare che tale rischio possa essere evitato solo se introduciamo meccanismi di flessibilità.
Con l'elezione diretta è impensabile che si possa arrivare ad un altro premier se non vi è un'altra fonte legittimata di potere. Nel semipresidenzialismo l'abbiamo, abbiamo l'elezione diretta del Presidente che lo legittima a tentare di costruire maggioranze di un certo tipo all'interno delle indicazioni del corpo elettorale. Il rischio diventa la coabitazione. Ma questa - siamo alla seconda domanda

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- è sicuramente diminuita in caso di elezione contestuale del Presidente e del Parlamento. Certo si può ipotizzare che anche in quel caso si abbiano maggioranze diverse, ma francamente è abbastanza difficile per l'effetto non solo di trascinamento ma di compattamento che l'elezione diretta del Presidente della Repubblica ha sul sistema dei partiti, aspetto questo forse meno sottolineato ma più importante. L'elezione diretta infatti dà un contributo essenziale allo stabilizzarsi delle coalizioni, in previsione delle ulteriori elezioni presidenziali. In caso di semipresidenzialismo, come giudica Barbera la possibilità di elezione contestuale? Ovviamente il vantaggio del semipresidenzialismo è quello del secondo motore del meccanismo di superamento delle crisi.
Tornando all'elezione diretta del premier, occorre vedere come possibile rischio, in un paese che ha conosciuto fasi pronunciate di consociativismo di fatto, che, in caso di crisi della maggioranza, si vada non allo scioglimento ma al formarsi di governi di maggioranza consociativa che consentono il permanere in carica del premier eletto direttamente, che modifica quindi attraverso questo meccanismo la sua maggioranza parlamentare. Ciò è esattamente l'opposto di quello che si vuole conseguire attraverso l'elezione diretta, cioè il bipolarismo secco. Non escluderei affatto che introducendo elementi di rigidità, in caso di crisi, si ricorra alla via consociativa, che è maniera classica di uscire da una crisi.
Ultima domanda: se vogliamo conservare da un lato la designazione in sede di votazione da parte dell'elettorato del Governo e dall'altro un minimo di flessibilità, come giudicherebbe Barbera una soluzione in cui il corpo elettorale, votando i parlamentari, vota anche un premier designato? Nello stesso momento vota un Presidente della Repubblica eletto contestualmente, il quale non ha il potere di nomina del premier in sede di prima battuta - perché questo viene designato dall'elettorato - ma è legittimato, in caso di crisi della maggioranza a cui esso stesso appartiene (ipotizzo l'elezione contestuale), e potrebbe funzionare da secondo motore. Non avremo i vantaggi di entrambi i sistemi senza avere alcuno degli svantaggi, oppure minimizzandoli.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Quella della contestualità è un'ipotesi suggestiva, proposta inizialmente da Vedel: si eleggono nello stesso giorno il Presidente della Repubblica e il Parlamento. Avevo indicato questa ipotesi all'interno del documento di Liberal come eventuale soluzione da prendere in considerazione; poi l'ho messa da parte - credo che per lo stesso motivo sia stata messa da parte in Francia - perché farebbe perdere quelle caratteristiche di flessibilità che sono il pregio della soluzione semipresidenziale. Infatti, il Presidente della Repubblica deve poter sciogliere il Parlamento, ma per mantenere la contestualità, nel momento in cui si scioglie il Parlamento anche il Presidente della Repubblica deve considerarsi dimissionario, quindi si dovrebbe andare a nuove elezioni sia del Parlamento sia del Presidente della Repubblica. Mi è stato giustamente obiettato che, in realtà, attraverso la strada del semipresidenzialismo si vuol tornare all'elezione diretta del primo ministro perché a quel punto il Presidente della Repubblica avrebbe poteri di governo e assieme con il Parlamento realizzerebbe quella stretta fusione che porta al simul stabunt simul cadent.

STEFANO PASSIGLI. Prima di arrivare allo scioglimento abbiamo l'arbitro della crisi. Certo che se non riesce a risolverla si torna al corpo elettorale. Però vi sarebbe la possibilità di tentare la soluzione della crisi con forte legittimazione a farlo.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Sì, ma sarebbe ugualmente costretto a dar vita a governi di minoranza, se non c'è la coincidenza delle maggioranze. In ogni caso dopo nuove elezioni non potrebbe sciogliere immediatamente ma dovrebbe aspettare almeno un anno come previsto nella quinta Repubblica.


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L'ipotesi introduce elementi di rigidità, per cui tanto vale optare per l'elezione sfalsata, non contestuale. Il pregio più importante del sistema semipresidenziale viene meno con la contestualità. L'ipotesi infatti era stata sostenuta non a caso dagli stessi ambienti che hanno sostenuto l'elezione diretta del primo ministro.
Vi è poi l'obiezione secondo cui con l'elezione diretta del primo ministro si può avere un governo che non ha la maggioranza in Parlamento. È vero, però ciò può accadere anche nel sistema francese, come è accaduto alcuni anni fa con il governo Rocard. Come sottolineavo, quale che sia la forma di governo che si sceglie, bisogna trovare dei sistemi che consentano ai governi di minoranza di reggere in Parlamento. Lo dico non per un uso congiunturale delle istituzioni, come potrebbe sembrare tenuto conto delle vicende parlamentari italiane di questi ultimi mesi, ma perché è così in Svezia, in Norvegia, in Danimarca, in Francia: i governi devono poter governare anche se non hanno la maggioranza, come previsto dalla costituzione tedesca (vi sono poteri enormi in capo al cancelliere), ipotesi questa comunque mai realizzatasi.
Per quanto riguarda il doppio turno...

STEFANO PASSIGLI. Scusa, ma su questa linea non vedi un rischio di consociazione, come conseguenza...?

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Più che un rischio di consociazione, direi che il bipolarismo, in quel momento, viene posto in discussione, viene sospeso ed è sollecitato negativamente. Tutti i governi di minoranza hanno bisogno di non essere necessariamente in minoranza e, quindi, cercano di convergere anche su singoli provvedimenti della maggioranza. Il bipolarismo non è un dato permanente ma è una linea di tendenza di un sistema politico ben funzionante.

CESARE SALVI, Relatore. Se ho ben compreso, questa deve essere prevista come ipotesi eccezionale.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Esatto.
Quanto al doppio turno, se avrete la bontà di leggere la relazione che ho rassegnato agli atti della Commissione, potrete constatare come il sistema da me preferito sia, in linea di principio, quello dell'elezione diretta del primo ministro, con scheda separata, nello stesso giorno, contestualmente all'elezione del Parlamento, lo stesso giorno, attraverso collegi uninominali a doppio turno, con forte clausola di accesso al secondo turno. Nella proposta che illustro nel documento sto tentando di avanzare una possibile mediazione tra quanti, pur aderendo alla linea del governo del premier, esprimono tuttavia posizioni tra loro assai diverse (che vanno dalla designazione all'elezione diretta). Nella mia ipotesi il doppio turno è configurato non nei collegi ma riferito alla competizione tra i due candidati le cui coalizioni, a livello nazionale, abbiano conseguito il maggior numero di seggi; in questo caso, la competizione si traduce in una vera e propria elezione.
È chiaro che, in questo modo, la coperta viene tirata da una parte ma rimane aperto il problema al quale ha fatto riferimento Passigli, cioè che nel collegio non sarebbe eliminata la contrattazione. Forze che non hanno grande consistenza, che con il doppio turno vedrebbero messa a nudo, in maniera trasparente, la scarsezza della loro consistenza elettorale nei singoli territori, in quel caso potrebbero agire per contrattare. Anche in questa ipotesi, se si va al turno unico, sarebbe importante prevedere un sistema di primarie, in qualche modo incentivate, se non proprio primarie di Stato, che potrebbero consentire a ciascuna coalizione di eleggere un candidato non espressione di elettorati tra loro divisi e separati ma di elettorati che tendenzialmente tendono ad unificarsi nella coalizione. Il che significherebbe introdurre un bipolarismo che, sia pure in una prospettiva molto distante, è destinato ad essere qualcosa di più di una mera coalizione. Ad esempio, per quanto riguarda la coalizione che ci accomuna, ciò significherebbe considerare l'Ulivo non


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soltanto una mera alleanza o un cartello elettorale ma un qualcosa di più.

GIUSEPPE CALDERISI. Ringrazio il professor Barbera per il contributo estremamente puntuale e propositivo fornito alla Commissione, un contributo che nasce da una precisa analisi della situazione concreta del nostro sistema politico.
La prima domanda che intendo rivolgere è finalizzata a mettere meglio a fuoco uno dei problemi principali al nostro esame, quello della bipolarizzazione del sistema, collegato all'obiettivo di creare un bipolarismo maturo con maggioranze, schieramenti e coalizioni omogenee e coese. A tale riguardo, oltre a diversi altri problemi, si pone un ostacolo, rappresentato da due minoranze che, nonostante - per carità! - nessuno voglia escludere, per propria scelta tendono a non coalizzarsi. Addirittura una di queste minoranze, la lega, ha deciso di non partecipare ai lavori della Commissione bicamerale. Si tratta di due minoranze diversissime; incorreremmo quindi in errore se ritenessimo che esse pongono gli stessi problemi. Rifondazione comunista è una minoranza consistente diffusa su tutto il territorio nazionale; la lega, dal canto suo, è una minoranza consistente che, pur avendo pressappoco gli stessi voti in ambito nazionale, è territorialmente concentrata in alcune zone del paese. Appare quindi evidente come si pongano problemi diversissimi per quanto riguarda queste due minoranze.
Se queste ultime faranno la scelta di coalizzarsi, tanto meglio e tanto di guadagnato. È chiaro che dovremo trovare meccanismi che invoglino a coalizzarsi e che, nello stesso tempo, siano in grado di risolvere il problema qualora queste minoranze, od altre, non volessero coalizzarsi. Condivido l'osservazione del professor Barbera, nel momento in cui sostiene che il meccanismo elettorale del doppio turno non è assolutamente sufficiente a risolvere il problema. È quindi necessario prevedere un meccanismo di elezione diretta che porti ad un ballottaggio tra i due candidati alla carica di massimo responsabile dell'esecutivo. Solo in questo modo, con una competizione nazionale tra due soggetti, possiamo pensare di arrivare ad una bipolarizzazione. Se consentiamo a tutti gli elettori che formano lo spettro politico considerato a 360 gradi di partecipare al voto utile per il Governo... Con il sistema del doppio turno consentiamo probabilmente di fronteggiare il problema degli elettori di rifondazione comunista ma non quello degli elettori della lega. Ad esempio, se introducessimo il sistema a doppio turno con il premier designato, in tutti i collegi del nord avremmo, con molta probabilità, tre candidati, uno del Polo, uno dell'Ulivo e uno della lega. È evidente che ognuno designerebbe un diverso premier. Ne deriverebbe che, al secondo turno, tutti i cittadini italiani si troverebbero di fronte a tre candidati premier. Come si fa a bipolarizzare, se in televisione ci saranno stati tre candidati premier?
In definitiva, questa strada non ci porterebbe alla bipolarizzazione e non riusciremmo a risolvere il problema di rendere bipolare il sistema politico italiano. Ecco perché è necessario che tutto l'elettorato, anche quello della lega, si ponga il problema del voto utile per una scelta di governo.

CIRIACO DE MITA. Anche se avessimo un sistema bipolare, non è escluso che si avrebbero più di due candidati!

GIUSEPPE CALDERISI. Non sto chiedendo meccanismi che diano certezze: stiamo parlando di meccanismi che favoriscono certi processi. Per quanto mi riguarda, è necessario arrivare ad una situazione nella quale tutto l'elettorato possa operare una scelta in chiave bipolare. Con il doppio turno nei collegi questo risultato non lo si ottiene, nel modo più assoluto!

CESARE SALVI, Relatore. Infatti, anche in Francia molto spesso il voto è espresso per tre o quattro candidati...

GIUSEPPE CALDERISI. A mio avviso il sistema francese è preferibile, perché si prevede la preventiva elezione del Presidente della Repubblica, con un ballottaggio


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a due. Sartori ha coniugato i due elementi, non ha parlato soltanto di doppio turno ...

CESARE SALVI, Relatore. Si riferisce all'elezione del vertice dell'esecutivo?

GIUSEPPE CALDERISI. Sì.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Questo stesso effetto non si potrebbe ottenere, così come ipotizzavo, prevedendo la competizione al secondo turno tra i due candidati?

GIUSEPPE CALDERISI. Se nel secondo turno avviene il ballottaggio tra i due candidati a premier i cui schieramenti al primo turno... In questo caso, se ho capito bene, il sistema elettorato è fondato su collegi ed è ad un turno.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Certo.

GIUSEPPE CALDERISI. In questo caso si avrebbe lo stesso effetto.
Vorrei ora formulare una seconda domanda, collegata alla prima, con particolare riferimento al premio di maggioranza. Prescindo dal problema relativo al fatto se il premier debba essere designato, eletto o indicato. Mi riferisco al concetto di premio di maggioranza e vedo con piacere che il professor Barbera ha dedicato accenti critici e problematici alla questione del premio e del trascinamento che questo comporta. Al riguardo, nella proposta di legge costituzionale dei popolari, che reca la firma dell'onorevole Mattarella e propone di costituzionalizzare alcuni elementi del sistema elettorale, si legge: «La legge elettorale della Camera dei deputati prevede strumenti idonei a garantire che al partito o alla coalizione di partiti i quali abbiano ottenuto la maggioranza relativa dei seggi in percentuale non inferiore al 40 per cento sia assegnata la maggioranza assoluta dei seggi». La mia, evidentemente, non è una domanda di matematica, ma il calcolo aritmetico è banale: se c'è uno schieramento che ha ottenuto il 40 per cento dei seggi, ciò vuol dire che gli altri schieramenti, necessariamente almeno due, hanno conseguito il 60 per cento almeno di quella parte di seggi che è stata assegnata per effettuare questo calcolo. Questo significa inevitabilmente che tale sistema funziona pensando ad un premio che arriva al 20 per cento, che colma questa differenza; tutto ciò con qualunque sistema, a prescindere dal fatto che il premier sia designato, indicato, o eletto. Ne deriva - non so quanti parlamentari prevederemo - che l'ordine di grandezza è di cento parlamentari.
Devo dire sinceramente di essere estremamente perplesso e ricordo di aver tentato - peraltro fallendo - di fare il relatore sulla legge elettorale regionale, cercando di introdurre un sistema di premio, con l'elezione diretta del presidente della regione mediante il sistema uninominale a un turno, due turni, un turno e mezzo (abbiamo tentato tutte le strade possibili). Ricordo altresì (lo ricorderà anche il collega Elia, così come il ministro Bassanini) che ogni volta in cui si prevedeva un premio inserito addirittura sui seggi, con un doppio meccanismo maggioritario, ero oggetto di critiche terribili. Ora vedo che nel progetto firmato anche dal senatore Elia figura questo meccanismo.
Mi auguro allora che, se si dovesse scegliere questa strada che non considero la più idonea, il premio di questa natura sia dato almeno sui voti, com'è previsto nella proposta «Barbera B».

CESARE SALVI, Relatore. Oppure che non sia dato affatto e si usi un altro sistema.

GIUSEPPE CALDERISI. In alternativa, si potrebbe adottare il sistema del semipresidenzialismo francese, che non ha bisogno di premi di maggioranza.
Passando all'ultima domanda, mi sembra di capire dalle considerazioni del professor Barbera, ma anche da quelle di Cheli, che il sistema del premier (a parte


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la questione dell'elezione e così via) spinga verso un sistema bipartitico. Mi sembra altresì di capire che non vi sia l'intenzione di andare verso un sistema bipartitico, perché questo rappresenta una semplificazione che allo stato delle cose vedo con difficoltà e che tutti tendenzialmente escludono.
Allora, considerato che nel nostro paese si è affermata la cultura della divisione del potere (abbiamo avuto addirittura lo sminuzzamento di un potere irresponsabile, per cui occorre prevedere meccanismi di responsabilizzazione per attuare il principio di responsabilità politica), mi chiedo se sia più adatta al sistema italiano una situazione del premier che veda un accentramento dei poteri in un'unica figura oppure se a questa cultura si adatti meglio un sistema di divisione in due del potere, sempre con meccanismi molto responsabili, come nel sistema semipresidenziale francese.
Come corollario a questa domanda, mi chiedo come si dovrebbe configurare un Presidente della Repubblica garante; alcuni, infatti, ipotizzando il premierato, lascerebbero al Presidente della Repubblica alcuni poteri addirittura in relazione allo scioglimento e alla nomina: in questi casi la figura di garante salta completamente. Ma anche qualora egli non avesse affatto poteri sulla nomina e sullo scioglimento, si riuscirebbe a vedere un Presidente della Repubblica eletto a maggioranza dei due terzi, quindi con una legittimazione maggiore rispetto a quello attuale, che avrebbe probabilmente tutti i poteri relativi alle authority, in questo ruolo di garante, di notaio? Ho qualche dubbio su questo e tale considerazione mi induce a ritenere preferibile, anche per questa ragione, la soluzione del semipresidenzialismo francese. Non riesco infatti a vedere bene, nel sistema del premier, questo ruolo del Presidente della Repubblica come notaio; lo vedo con difficoltà perché immagino le inevitabili possibilità di interferenza con il premier.

CIRIACO DE MITA. Quando è stata discussa la legge istitutiva della Commissione bicamerale, mi sono permesso di dare un suggerimento, ossia di ipotizzare una sorta di commissione consultiva di esperti (parlavo di esperti per non fare riferimento solo ai professori universitari). L'esperienza di queste audizioni mi conferma che sarebbe stata una cosa utile, perché questo dialogo che si svolge tra personalità che hanno maturato un'analisi e una convinzione sulle questioni istituzionali si riduce a domande brevi e risposte rapide, per cui rischia di rivelarsi come un rituale inutile piuttosto che un dialogo che possa accompagnare la nostra riflessione prima della decisione.
Conosco comunque le sue opinioni, professor Barbera; qualche volta le condivido ed altre volte no, ma mi sembra di cogliere un elemento di debolezza nell'impostazione seguita, non solo da parte sua: mi riferisco al fatto che la nostra attenzione, le proposte che articoliamo sono tutte rivolte sul piano dell'efficienza del potere; si parla di contrappesi, di equilibri ed ho sentito il collega Nania fare riferimento alla ristrutturazione del sistema politico, un fatto che può essere vero ma anche rischioso, se si ipotizza di sovrapporsi ai comportamenti liberi dei cittadini con meccanismi che non sollecitano ma si sostituiscono.
Allora, tra l'elezione diretta e l'indicazione del premier sono a favore dell'indicazione, che non è meno forte dell'elezione, per due ragioni, la prima delle quali è di ordine - si potrebbe dire - giuridico astratto, perché non è ipotizzabile che un premier eletto possa essere sfiduciato. Avendo il Parlamento e il Governo fonti dirette di legittimazione, sarebbe difficile ipotizzare la sfiducia ad un Presidente del Consiglio eletto direttamente. Tuttavia, anche lei, professor Barbera, ipotizza la sfiducia, perché altrimenti ci avvieremmo verso forme rigide.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Nel sistema israeliano è previsto che la sfiducia al Presidente equivale al ricorso a nuove elezioni dirette; viene detto in maniera chiara.


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CIRIACO DE MITA. Mi sembra una previsione rigida. A mio avviso, l'esperienza che stiamo facendo deve indurci a riflettere sul fatto che queste decisioni, quando c'è una difficoltà, non mi pare che denotino un'istituzione forte.
In secondo luogo, l'elezione diretta, lo si voglia o no, può introdurre, recepire, raccogliere forme di plebiscitarismo (è il meccanismo che lo comporta). La mia preoccupazione non riguarda il plebiscitarismo come tale; è mia convinzione che il problema delle democrazie moderne, più che una domanda di decisione (io sono per la stabilità, ma mi pare che tutti i meccanismi ipotizzati portino ad essa), riguarda una carenza di domanda di partecipazione. È come voler ipotizzare un surrogato: quando sento parlare di Governo omogeneo, mi chiedo che senso abbia. Il Governo omogeneo non è l'accentramento intorno ad una persona della facoltà di decidere; il Governo omogeneo lo si recupera con la capacità di chi governa di essere elemento di riferimento per la capacità di proposta che ha, non per il potere che esercita. Infatti, una decisione del genere porterebbe verso forme di riduzione del processo democratico che secondo me sono all'origine della crisi dei sistemi liberaldemocratici.

ANTONIO SODA. Rispetto alla riflessione appena sviluppata da De Mita, vorrei semplicemente osservare che in tutto ciò che egli ha detto viene sottovalutato il fatto che nelle democrazie delle società complesse è importante il principio di responsabilità: che si sappia quale sia il programma presentato agli elettori, quanto di esso sia stato attuato, in quali condizioni e perché si richieda eventualmente la fiducia al corpo elettorale e si venga premiati o puniti.
Al sistema coerente delineato dal professor Barbera si muovono alcune contestazioni; in particolare, ci si domanda se, in caso di errore nell'indicazione, nella scelta o nell'elezione del premier, il sistema si chiuda immediatamente e quindi non sia troppo rigido? Tenendo conto del collegamento al potere di scioglimento e quindi senza vie d'uscita, in un sistema politico ancora frammentato come il nostro tutto questo non crea ilrischio di precipitare costantemente in elezioni? Quanto al correttivo introdotto nella proposta della sinistra democratica (è questa la terza osservazione e domanda che desidero porre al professor Barbera), cioè di prevedere l'istituto della sfiducia costruttiva, ma una sola volta, ci si chiede se questo meccanismo non renda più forte il secondo premier, quello eletto in Parlamento dopo che sia stato sfiduciato il primo scelto ed indicato dagli elettori.

AUGUSTO BARBERA, Professore ordinario dell'Università di Bologna. Molto rapidamente, visto che il tempo è davvero esaurito, vorrei osservare che l'obiezione di De Mita si capiva benissimo; egli ha detto che forse sarebbe stata incomprensibile, invece è stata comprensibilissima. Ad essa credo che abbia risposto Soda quando ha detto che la democrazia richiede partecipazione, ma anche responsabilità, nel senso che vi sono cittadini che vogliono partecipare e cittadini che vogliono essere sovrani anche non partecipando, ma giudicando chi ha governato. Bisogna dare spazio agli uni ed agli altri. Sarebbe sbagliato, comunque, se ci limitassimo solo alla forma di governo, ed infatti credo che questa Commissione bicamerale dovrebbe occuparsi anche - come certamente si occuperà - di strumenti di democrazia diretta, non per disperderli in maniera disordinata, ma per incanalare energie popolari non chiudendo questo strumento diretto di partecipazione. La struttura autonomistica, decentrata, federalista dovrebbe servire anche ad accrescere le forme di partecipazione dei cittadini. È un tema che va tenuto presente e va sottolineato.
Per quanto riguarda invece le questioni sollevate da Calderisi, che si collegano strettamente a quelle poste da Soda, non ho ben compreso in che senso siano state indicate le percentuali del 40 e del 60 per cento: se una coalizione ha raggiunto il 40 per cento dei seggi, bisogna attribuirle un premio che le consenta di raggiungere il


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50 più 1 dei seggi o il 55 per cento (mi rendo conto che sarebbe un premio alto), quindi non il 60 per cento.
È chiaro, comunque, che si tratta di meccanismi che vanno a distorcere un'espressione di volontà. Di questo mi rendo conto benissimo. Tuttavia, non accade lo stesso quando, con il meccanismo del secondo turno, si obbliga sempre, comunque, quale che sia il sistema, l'elettore a votare per il meno peggio dei due candidati, non per quello che preferisce, ma per quello che considera il meno peggio? Non accade la stessa cosa quando si prevedono governi di minoranza? Credo che qualunque intervento su un sistema rigidamente proporzionale provochi sempre delle possibili correzioni. Del resto - basti pensare alla Spagna - la stessa dimensione delle circoscrizioni elettorali non altera i dati proporzionali? Comunque, ho trovato molto interessante quanto diceva Calderisi, che cioè quel sistema andrebbe bene se venisse accettato il doppio turno nel senso in cui lo indicavo io, cioè una competizione tra i due candidati delle coalizioni che hanno raggiunto il maggior numero di seggi, quindi una competizione diretta.
Perché è importante la legittimazione diretta? È importante, almeno al secondo turno, perché dà forza al premier; ormai in tutte le democrazie moderne ed anche nella teoria delle forme di governo parlamentare il potere di scioglimento è un deterrente nelle mani del premier (talvolta sostanzialmente, talvolta in maniera formale non è così perché è il Capo dello Stato che agisce su richiesta del premier) proprio per garantire la disciplina della maggioranza in Parlamento.
Quindi, o si passa ad un sistema di separazione dei poteri come quello che veniva ipotizzato da Rotelli oppure, se si vuol raggiungere l'effetto di un Governo forte in Parlamento, è necessario che il premier disponga di questo strumento, uno strumento che tradizionalmente fa da pendant per riequilibrare il potere di sfiducia che ha il Parlamento; proprio in tal modo si realizza quell'equilibrio nel Governo parlamentare che è stato descritto così bene già alla fine del secolo scorso in un volume sul governo parlamentare inglese di Bagehot tradotto dal qui presente professor Rebuffa. In quel volume vi è un'espressione che certamente il professor Rebuffa ricorderà (siamo nel 1872): lo strumento regolatore del sistema parlamentare inglese è il potere di scioglimento in mano al primo ministro. Noi ci stiamo arrivando dopo più di un secolo ed è facile capire il perché, per esempio per distorsioni di tipo assemblearistico e per altri motivi ancora che sarebbe troppo lungo ricordare: ma la storia degli scioglimenti in tutte le forme di governo parlamentare è quanto mai interessante.
Quanto alla possibilità di applicare l'istituto della sfiducia costruttiva una sola volta, come diceva Soda e come si sostiene nel progetto della sinistra democratica, dico che la si può applicare anche più di una volta, l'importante è che il premier abbia in mano la possibilità di provocare lo scioglimento. Pertanto, se egli ritiene che vi siano le condizioni per tornare a votare, che quella coalizione possa avere successo e che egli stesso possa essere nuovamente investito, in questo caso si torna a votare.
È chiaro che, più forte è il premier, più questo deterrente può essere effettivamente minacciato in quanto, se il premier è debole, il deterrente non funziona; sarebbe come avere una pistola scarica in mano. Certo, meglio se vi è la coincidenza tra leadership e premiership, meglio se si tratta di un premier che ha solo dei dissensi marginali nella propria coalizione; infatti, se egli sapesse che non verrebbe comunque ricandidato alle successive elezioni, è chiaro che lo strumento non avrebbe senso.
Tuttavia, quanto noi diciamo ha senso solo se vi sono le condizioni politiche: le regole possono condizionare le forme della politica, ma non possono sostituirsi ad esse, questo mi pare che sia pacifico per tutti. L'ingegneria elettorale ha dei limiti, come quella istituzionale.
Quanto ad un'altra domanda che mi è stata posta, una domanda che indirettamente mi potrebbe rivolgere Sartori, sono

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grato all'onorevole Soda per il fatto di darmi la possibilità di rispondere su questo punto a Sartori, che ha sempre insistito tanto su una circostanza. Infatti, egli si è chiesto cosa accadrebbe se venisse eletto un folle, un matto, un incapace, ma questo vale anche per il Presidente della Repubblica. In ogni caso, a questa domanda gli israeliani hanno trovato la risposta; il sistema israeliano non è il sistema di elezione diretta del premier che ho qui illustrato è, per così dire, un sistema a metà, in quanto «galleggia» sulla Knesset votata con la proporzionale. Però, gli israeliani hanno previsto un'eccezione allo scioglimento automatico in caso di sfiducia: se la maggioranza che ha votato la sfiducia è dei due terzi, in questo caso si considera non più sfiducia al Governo, ma rimozione del Capo del Governo, una sorta di impeachment.
Da ultimo, vorrei rispondere molto rapidamente a due cose che erano rimaste «nella punta della matita». Passigli ha chiesto se sia possibile mettere insieme il sistema della quinta Repubblica e l'indicazione del premier. Per carità! Già vi sono problemi con la legittimazione diretta di un vertice dell'esecutivo: in presenza di una legittimazione diretta di due vertici dell'esecutivo (una più diretta, l'altra meno diretta) il sistema rischia di impazzire. Quindi, se si vuole adottare il sistema francese (con i piccoli correttivi necessari), si mantengano quelle caratteristiche parlamentari che rappresentano l'aspetto positivo e negativo, insieme, di quel sistema.
A proposito delle considerazioni dell'onorevole Nania, devo dire che il tema della concorrenza di leadership all'interno delle coalizioni è importantissimo, che non riguarda solo la congiuntura politica italiana. Uno dei pregi del sistema francese è considerato appunto questo: due vertici dell'esecutivo. Lo stesso vale all'interno del medesimo partito; per esempio, il semipresidenzialismo portoghese ha consentito, proprio recentemente, di risolvere il problema di due leadership all'interno dello stesso partito socialdemocratico (Gutierrez e Sanpajo: uno Primo ministro, l'altro Presidente della Repubblica).
Credo di avere risposto a tutte le vostre domande. Vi ringrazio per l'attenzione e per la cortesia con cui mi avete ospitato.

PRESIDENTE. Ringrazio Augusto Barbera per la sua approfondita esposizione.

La seduta, sospesa alle 18,10, è ripresa alle 18,20.


Audizione del professore ordinario dell'Università di Roma, Serio Galeotti.

PRESIDENTE. Saluto il nostro ospite e gli cedo subito la parola.

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Ringrazio il presidente sia per avermi dato la possibilità di illustrare la proposta di riforma del sistema di governo basata sull'elezione popolare del premier, sia per l'onore ed il riconoscimento fatto alla mia persona per il modesto contributo fornito a questa idea.
È inutile che ripercorra la storia di questa idea che parte da lontano, da Léon Blum, nella terza Repubblica francese, poi è nel club Jean Moulin, nella quarta Repubblica, ed alla fine degli anni cinquanta passa da Duverger e Vedel, coloro che propongono l'idea delle riforme. In Italia, la presentazione dell'idea avviene nel 1966 con la mia comunicazione al primo Congresso di dottrina dello Stato, a Trieste, e poi trova un autorevole consenso nel 1972, dopo le iniziali perplessità, nel famoso dibattito sulla rivista Gli Stati da parte del padre costituente Costantino Mortati (discussione che fu moderata da Jemolo e registrò gli interventi di Vezio Crisafulli, di Sandulli - che si pronunciò in favore -, di Giuseppe Ferrari, i miei e quelli di Antonio La Pergola).
L'idea riceve una formulazione compiutamente razionalizzata nel progetto del gruppo di Milano nel 1983 e da ultimo, con poche varianti, nel testo del Comitato


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per le riforme istituzionali che immagino sia conosciuto, anche se non è stato reclamizzato adeguatamente. Esso fu travolto dalla crisi del governo Berlusconi alla fine del 1994, ma nel documento finale del Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali, che ha lavorato dal luglio 1994 al mese di dicembre, sono contenute sia la relazione riguardante la forma di Stato (stesa da Sergio Ortino), sia quella sulla forma di governo stesa da me. Vi è anche il testo completo del progetto di riforma che presenta due soluzioni alternative: la proposta semipresidenziale presentata dal professor Ciaurro ed ispirata al modello francese con alcune varianti, perché stabilisce la contestualità dell'elezione del Presidente della Repubblica e dell'Assemblea legislativa, e la proposta articolata sull'elezione del primo ministro, da me elaborata.
Ancora un cenno sull'avanzarsi e il maturarsi dell'idea. L'idea forza della riforma, che comportava la fuoriuscita dal proporzionalismo verso il maggioritario e il bipolarismo, aveva trovato il suo grimaldello giuridico nell'idea dei referendum elettorali e di quello sulla legge elettorale del Senato, approvata con una maggioranza netta, plebiscitaria, il 18 aprile 1993. Modestamente quel quesito, su cui gli italiani hanno votato, ebbi l'onore e la fortuna di prepararlo, io stesso di studiarlo e di presentarlo nel movimento Segni fin dal 1988.
Dato finale importantissimo di questo cenno storico dell'idea è quello che smentisce l'obiezione che sia un modello mai sperimentato. Israele ha approvato la riforma nel 1992, ma essa è entrata in vigore solamente l'anno scorso nel 1996; semmai Israele è stato tributario del dibattito dottrinale svoltosi in Francia e in Italia, anziché essere noi tributari di Israele, come inizialmente aveva sostenuto Sartori, il quale poi si è corretto con molta signorilità. Il mio modello non è quello israeliano, perché, come ha riconosciuto, il modello Galeotti pur avendo dei problemi è superiore a quello israeliano.
La prima attuazione del Governo di legislatura, come ormai si riconosce sulla base dell'esperienza generale, si è avuta con la legge 25 marzo 1993 sull'elezione diretta del sindaco: lì vi è la prefigurazione esatta del Governo di legislatura fondato sull'elezione popolare del premier.
Non si dimentichi un particolare: la stessa riforma di Israele (1992) era stata preceduta nel 1975 come battistrada dalla riforma riguardante l'elezione diretta delle autorità a livello locale. Anche in questo caso vi è stata, per così dire, la sperimentazione a livello locale di quella che poi sarebbe stata la grande riforma nazionale.
Che la riforma a livello locale abbia dato risultati di generale soddisfazione e consenso l'abbiamo visto tutti, ma è stato ben notato in un editoriale recentissimo di Paolo Franchi pubblicato sul Corriere della Sera del 9 aprile scorso, nel quale l'autore concludendo quasi sconsolatamente scrive: «Dunque si può cominciare ragionevolmente a dire che bipolarismo e maggioritario non fanno per noi. Oppure (meglio) si può tornare a scommetterci su, ma per davvero, nella bicamerale e fuori. Cominciando con il chiedersi come mai, in tutti i comuni in cui voteremo, i sindaci uscenti siano, a differenza dei premier, gli stessi nominati quattro anni fa, e abbiamo avuto tempo, modo e poteri per governare e lasciarci infine lo sfizio di giudicarli. Non sarà, per caso, anche grazie a una buona legge, e insomma a un po' di sana »ingegneria istituzionale« sorretta dalla spinta dell'opinione pubblica?».
Questo il percorso storico dell'idea, un'idea che ha già trovato una sua attuazione da noi, nella nostra società, nella nostra vita costituzionale e amministrativa, che peraltro sul piano della ingovernabilità soffriva di eccessi che superavano i livelli già elevati dell'ingovernabilità sul piano centrale.
I principi costitutivi essenziali del modello sono già noti; lo stesso professor Barbera - ho visto brevemente la sua relazione - li ha precedentemente illustrati.

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Mi piace tuttavia in questa sede richiamarli semplicemente, enunciarli nuovamente.
Il modello di riforma del sistema di Governo fondato sull'elezione popolare diretta del premier si basa su alcuni principi costitutivi ed essenziali, di cui il primo è l'elezione popolare del premier simultanea e contestuale a quella della Camera, camera politica.
Qui dobbiamo inserire il discorso della riforma del nostro bicameralismo, su cui non posso intrattenermi perché invaderei la materia relativa alla riforma dello Stato; tuttavia nella riforma del nostro bicameralismo c'è luogo ad una trasformazione di una delle Camere per assicurare una presenza vera delle Regioni, con propri delegati a voto vincolato - non la rappresentanza politica delle stesse, che necessariamente si risolve nella mediazione e rappresentanza partitica. Nel modello che ho prospettato fin dal 1983 nell'ambito della proposta del gruppo di Milano veniva già prevista la riforma del Senato come Camera delle regioni sul modello Bundesrat.
Terzo principio fondamentale è la preservazione dell'organo Capo dello Stato, Presidente della Repubblica in funzione esclusivamente garantistica e rappresentativa della comunità nazionale nelle sue due componenti, quella centrale impersonata dallo Stato e quella dei soggetti pubblici periferici ossia degli enti autonomi territoriali.
Sull'elezione popolare diretta del Primo ministro e del suo vice nello stesso ticket elettorale, con una elezione distinta seppure collegata a quella simultanea dell'assemblea legislativa, nel progetto presentato nel comitato Speroni, ho stabilito tale collegamento a livello di presentazione delle candidature, prevedendo così come prevedono - mi sembra - i progetti La Loggia (S. 2059) e Pisanu che quelle alla carica di Primo ministro possono essere presentate soltanto dai partiti e dai gruppi politici che, singoli o coalizzati, si siano presentati con propri candidati in almeno due terzi dei collegi uninominali e in almeno quindici regioni. Tale copertura dell'intero territorio nazionale da parte di queste organizzazioni garantisce non solo contro il fenomeno delle frivolous candidatures, ma anche che la presentazione di una determinata candidatura in prospettiva abbia il sostegno di una vasta cerchia di forze politiche, in modo tale da poter assicurare anche la maggioranza nell'assemblea parlamentare.
La concomitante elezione a suffragio universale diretta della Camera è basata appunto sul principio che è la logica di questa forma di elezione popolare del premier: il simul stabunt simul cadent. Nascono insieme, staranno e cadranno insieme, questi due poteri; nascono entrambi simultaneamente, con eguale ma distinta e autonoma legittimazione dal voto popolare, il che segna un'importantissima differenza rispetto al premier indicato, come vedremo successivamente nel raffronto comparato tra le tre soluzioni di riforma che sono in campo.
Per salvaguardare poi l'effetto di trascinamento aggregativo dell'elezione del premier sul voto della Camera, qualunque sia il sistema elettorale maggioritario adottato, ad unico o doppio turno, le elezioni della Camera non dovranno concludersi prima del secondo turno per le elezioni del premier. Come si vede, pur propendendo io per il doppio turno per l'elezione dell'assemblea parlamentare, la scelta del sistema elettorale nel modello che ho presentato - come già abbiamo fatto all'epoca della ricerca del gruppo di Milano - è relativamente libera nell'ambito delle soluzioni di tipo maggioritario o quantomeno dei sistemi elettorali di carattere selettivo.
Per la storia debbo dire che la mia prima presentazione dell'idea della riforma basata sull'elezione popolare del premier, nel 1966, era associata - così sarebbe poi stata quella di Israele del 1992 - all'elezione dell'assemblea con sistema proporzionale. Nella situazione politica dell'epoca, frammentata, di pluripartitismo estremo, con le divisioni del mondo in due blocchi, i cleavages che attraversavano tutte le questioni fondamentali, era inimmaginabile, e non

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avrebbe trovato alcuna possibilità di ascolto, la stessa idea di una riforma fondata sull'elezione popolare del premier che fosse disgiunta dalla preservazione della proporzionale. (Io allora presentavo l'idea con la lusinga della possibilità per l'elettore di esprimere, da un lato, la scelta du parti du coeur (nel voto per la Camera fatto con la proporzionale) e dall'altro, e contestualmente, la scelta du parti de la raison nell'elezione diretta del premier (che allora proponevo in un unico turno, con voto alternativo trasferibile).
Tuttavia, detto questo, posso aggiungere che la formula Sartori del doppio turno a quattro con quota proporzionale si inserisce benissimo nella nostra proposta. L'elezione popolare del premier è e deve avvenire a doppio turno perché per avere una legittimazione popolare indiscussa, incontrovertibile ci deve essere l'elezione popolare a maggioranza assoluta e poiché questa al primo scrutinio non è sempre garantita, è necessario prevedere il secondo turno. Se questo viene introdotto per l'elezione dell'assemblea parlamentare nulla di meglio, perché ci si sintonizza in pieno: doppio turno per l'elezione del premier e doppio turno per l'elezione dell'assemblea. Quel che raccomando è che la proclamazione dei risultati delle elezioni per la Camera non avvenga prima del secondo turno per l'elezione del premier. Del resto, mi pare che questa avvertenza sia stata tenuta in considerazione nella legge per l'elezione del sindaco, cioè il divieto di dar luogo alla proclamazione dei risultati per l'elezione del consiglio comunale prima che sia resa nota la proclamazione e l'elezione del sindaco.
Una segnalazione che mi permetto di fare, perché mi auguro che la Commissione bicamerale possa giungere ad una riforma della legge elettorale, è la seguente: a me sembra particolarmente importante e necessario che in Costituzione sia sancito che alla legge elettorale debba subordinarsi, adeguandovisi, il regolamento della Camera, così che i gruppi parlamentari o le coalizioni corrispondano alle coalizioni o ai partiti emersi con seggi dalle elezioni; diversamente, potrebbe accadere ancora che gli elettori siano beffati e che i dodici partiti emersi dalle elezioni, per esempio, diventino venti o trenta, cioè tutt'altro da ciò che gli elettori avevano votato e giudicato.
Il significato della contestualità lo abbiamo visto, simul stabunt simul cadent, e in applicazione di tale principio il Parlamento, ossia la Camera dei deputati, avrà sempre il potere di provocare la caduta del premier e del suo Governo con mozione motivata, presentata da una consistente frazione (un terzo o un quarto dei componenti l'Assemblea); l'elezione popolare del sindaco prevede, per esempio, che possa essere sfiduciato solo se la mozione di sfiducia sia presentata dai due quinti - quasi la metà - dei componenti del consiglio e che sia messa in discussione non prima di cinque giorni. E si potrebbe aggiungere, analogamente all'articolo 18 sull'elezione diretta del sindaco, non oltre quindici, venti, trenta giorni, per inserire un margine di flessibilità in questo procedimento. La mozione, infatti, potrebbe anche essere ritirata o potrebbero esservi anche negoziazioni conseguenti che scongiurano la crisi, la votazione della sfiducia. Quest'ultima, oltretutto, deve essere ovviamente votata per appello nominale, ma, stante la maggioranza assoluta e lo stesso principio di contestualità e di simultaneità, il voto di sfiducia provoca, con le dimissioni e la decadenza del premier e del suo Governo, anche lo scioglimento automatico dell'Assemblea.
Faccio presente che nella prima redazione che abbiamo avuto modo di compiere nell'ambito del gruppo di Milano la sfiducia era legata ad una condizione ancora più gravosa ma importante, cioè quella di indicare il contropremier nel capo dell'opposizione, quale primo firmatario della mozione di sfiducia; questi, se la mozione fosse stata votata, diveniva il candidato che avrebbe sfidato il premier, in un unico turno, nelle elezioni successive, aprendo, quindi, una nuova legislatura con l'elezione del premier e dell'Assemblea. Nell'ambito del Comitato Speroni, naturalmente tenendo conto delle

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osservazioni emerse al suo interno, sono stato quasi indotto ad abbandonare questa condizione che taluno potrebbe ritenere troppo rigida e gravosa. Ma ho sentito obiettare da altri che votare la sfiducia senza che vi sia già un leader, o un governo alternativo, significherebbe, in sostanza, voler far risolvere la crisi semplicemente col sottoporla al voto degli elettori. Quindi, da questo punto di vista - non ricordo se l'obiezione fu fatta dall'onorevole De Mita - una sfiducia di questo tipo, che non sia anche costruttiva, nel significato particolare ora chiarito, di sfiducia indicante anche il candidato premier alternativo per le elezioni consecutive, rischierebbe di gettare il paese in una crisi al buio senza indicarne gli sbocchi.

PRESIDENTE. Disse che sarebbe stata incompatibile con l'elezione diretta.

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. E per quale motivo?

PRESIDENTE. Per la differenza dei livelli delle fonti.

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Ma qui, nella sfiducia di cui parlo, la fonte è la stessa: il popolo, il quale elegge il premier e l'Assemblea. Se quest'ultima, che ha pari legittimazione, decide, di fronte a un premier incapace e fallimentare di votargli la sfiducia, facendo così cessare la legislatura...

ANTONIO SODA. De Mita si riferiva alla sfiducia costruttiva nella Camera politica per cambiare leader.

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Allora, in questo significato, che è poi quello della comune accezione di sfiducia costruttiva, concordo pienamente con l'onorevole De Mita: l'elezione diretta del premier, sempre per la logica del simul stabunt, simul cadent, è incompatibile con la sfiducia costruttiva in senso tecnico; non tollera cioè che la sfiducia al premier, anziché determinare il rinvio davanti al popolo di entrambi i poteri, sostituisca al premier già eletto dal popolo contestualmente alla Camera, un altro premier investito dall'assemblea. (Cosa che invece prevedono - se non erro - i tre progetti sul «premier indicato»). Se ciò avvenisse, si infrange il principio di contestualità delle due elezioni, del premier e della Camera, e addio allora al «governo di legislatura».
Sull'altro principio costitutivo di questa formula, cioè la salvezza o specializzazione dell'istanza imparziale e super partes del Capo dello Stato, parlerò più avanti. La formulazione complessiva della proposta di riforma prevedeva e prevede questi altri principi organizzativi, non altrettanto essenziali ma integrativi della proposta: l'incompatibilità tra le funzioni di membro del Governo e il mandato parlamentare; il bicameralismo differenziato - cui ho già avuto occasione di accennare - con la sola Camera dei deputati dotata della pienezza della funzione legislativa e capace di votare la sfiducia al premier; un Senato delle regioni a struttura federalistica sul modello del Bundesrat tedesco; il rafforzamento dei poteri decisionali del Governo nei suoi rapporti con le Camere; statuto dell'opposizione costituzionale e garanzia delle minoranze.
Uno statuto dell'opposizione costituzionale mi induce nuovamente a pensare che la sfiducia, che dovrebbe essere il potere di controllo supremo dell'Assemblea parlamentare nei confronti del premier, debba essere costruttiva nel senso speciale da me chiarito, con l'indicazione di un contropremier, di un controcandidato a premier, in guisa che il popolo si trovi già di fronte a due alternative di governo, a due programmi.
Infine, la nostra proposta prevede, come è noto, lo sviluppo e il potenziamento dei contropoteri, tra cui anche l'iniziativa referendaria, che da abrogativa si allarga per diventare anche propositiva ma con il coinvolgimento iniziale del Parlamento, nonché il potenziamento


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delle garanzie giurisdizionali e costituzionali, in particolare della Corte costituzionale.
Per concludere la mia breve relazione, spendo ancora qualche parola per procedere ad una valutazione di questa formula in base a quattro criteri secondo i quali a me pare possano essere valutate tutte le soluzioni in campo: quella semipresidenziale; quella del premier eletto direttamente dal popolo; quella del premier indicato. Vorrei esaminarle da quattro diversi angoli visuali.
Primo criterio di valutazione: il tasso di democrazia immediata che la soluzione, la riforma proposta realizza, ossia la capacità di decisione, con potere di premio o sanzione, che essa dà al voto dei cittadini rispetto alla scelta del Governo.
Secondo angolo visuale da cui giudicare: quello della governabilità, ossia dell'autorevolezza, della stabilità e dell'efficienza che viene conferita al governante.
Terzo criterio di valutazione: la simmetria tra potere politico, potere governante e responsabilità.
Quarto criterio di valutazione: la controllabilità, il numero e la varietà dei controlli, le garanzie contro il pericolo di prevaricazioni costituzionali o derive autoritarie.
In base al primo criterio, nel sistema del premier eletto dal popolo il tasso di democrazia immediata, cioè la capacità decisionale propria del voto dei cittadini elettori per quanto riguarda la scelta del Governo nella persona del suo premier e del suo vice, è pieno, perché la scelta popolare del governante è diretta e non subisce, durante la legislatura, né interruzioni, né mediazioni, né intermediazioni. Non è così nel sistema semipresidenziale dove, dopo l'iniziale elezione diretta del Presidente della Repubblica, a causa del bicefalismo governativo di quel modello, diviene operativa, per così dire, una scelta delegata (e quindi non più di democrazia immediata) per la nomina dei vari primi ministri durante il settennato, scelta fatta dal Presidente della Repubblica finché egli gode del fait majoritaire in Parlamento o fatta invece dai partiti dell'opposizione quando questi conquistano, nelle elezioni legislative successive, la maggioranza, dando luogo e costringendo il Presidente della Repubblica alla cohabitation. Il primo ministro è alternativamente, nell'esecutivo bicefalo di questo modello, o la seconda testa, cioè il comandante in seconda rispetto al capitano supremo che guida la nave, o la testa principale in caso di cohabitation, una situazione paragonabile in qualche modo al duumvirato romano dei due consoli, in cui però il console più forte, il console che agisce con più forza è il premier, il primo ministro forte della maggioranza delle Assemblee. Questo è quello che evidenziano anche le analisi di Aristide Canepa (Elementi per una analisi della cohabitation, ecc., 1994) dell'Università di Genova, (perché i costituzionalisti di Genova hanno dedicato una approfondita attenzione ai fenomeni della Costituzione francese; non per nulla l'onorevole Rebuffa è autorevole esponente di quella scuola!).
In entrambi i casi, la scelta del primo ministro segna un calo vistoso rispetto alla democrazia immediata che si realizza con l'elezione del premier. In trentatré anni, dal 1959 al 1993, si sono susseguiti venticinque governi. Non ho con me i dati aggiornati relativi agli ultimi governi, ma non farebbero che confermare quanto già detto. Attingo questi dati dal n. 3 degli Working Papers, su «Presidenti e Primi ministri francesi» (1947-1994) - Firenze 1995, pubblicato nell'ambito delle ricerche sulla «leadership democratica» del Centro interuniversitario di sociologia politica (CIUSPO) - università di Firenze e Perugia - diretto dal professor Luciano Cavalli.
Veniamo al secondo punto, quello della governabilità. Abbiamo constatato la superiorità del modello del premier a elezione diretta dal punto di vista del tasso pieno di democrazia immediata; ma tale superiorità si palesa con ancora maggiore chiarezza in base alla governabilità che esso è in grado di assicurare. Qui risulta decisivo il fatto che il premier eletto, a differenza di quello meramente indicato, gode di una sua propria indiscussa legittimazione

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popolare. E la regola della contestualità nella vita dei due poteri azzera con certezza matematica le crisi infraparlamentari ed extraparlamentari durante la legislatura, perché lega la sfiducia al Governo, oltre che alle severe regole per la sua votazione, all'automatico scioglimento dell'Assemblea parlamentare. Ne segue quindi l'autorevolezza piena di cui gode un premier eletto direttamente dal popolo, la massima stabilità, compatibile ovviamente con il fatto che l'Assemblea possa essere guidata alla realizzazione del programma politico su cui il premier ha ricevuto l'investitura dagli elettori e dal popolo, e l'efficienza.
Trovo infondate, e senza effettivo riscontro nel sistema dei sindaci elettivi che è stato sperimentato le obiezioni (del resto lo stesso Sartori le ha rettificate e corrette) che mi mosse il professor Sartori nel dibattito sui presidenzialismi che si tenne lo scorso anno presso l'ISLE: quella secondo cui il premier potrebbe essere «impallinato» ogni giorno da una maggioranza contraria; o l'altra, simile, del rischio di elezioni troppo frequenti (ogni sei mesi od ogni anno) cui darebbe luogo il nostro modello, rectius - ed egli lo ha riconosciuto - cui può dar luogo il modello israeliano, dal quale, peraltro, come riconosce lo stesso Sartori, il mio modello si differenzia sensibilmente, e anzi sarebbe ad esso di molto superiore; il modello israeliano è fondato su questo principio ma la regola della contestualità del simul stabunt simul cadent soffre molte eccezioni per le special elections che possono trovar luogo anche al di fuori del voto di sfiducia: nell'ipotesi appunto di dimissioni, di impedimento del premier e così via.
Ancora, nel sistema semipresidenziale la governabilità, quando non c'è il fait majoritaire, quando si è cioè in regime di cohabitation, è gravida di frizioni e di impasse, di paralisi possibili. È vero che le situazioni di cohabitation hanno rappresentato due pause eccezionali (1986-1988 e 1993-1995), tuttavia vi sono alcuni costituzionalisti francesi che dicono che in fondo la cohabitation riporterebbe la Francia quasi alla situazione della terza Repubblica, sostenendo che in fondo non sarebbe gran male che la cohabitation diventasse quasi la condizione normale, permanente.
Ma veniamo alla soluzione del premier indicato per ciò che riguarda la governabilità. In quel sistema, non avendo il premier indicato una propria costituzionale legittimazione popolare, ma avendo una legittimazione che resta subordinata e per così dire appesa a quella ottenuta dalla maggioranza parlamentare con cui è stato indicato, la sua governabilità non può seriamente paragonarsi a quella del premier elettivo: essendo priva di un suo autonomo fondamento, essa dipende dal grado maggiore o minore di certezza e di coesione della maggioranza. Se la maggioranza non è emersa in modo netto e se è intimamente eterogenea, le conseguenze sono evidenti. Abbiamo sotto gli occhi il caso dell'attuale Governo, nonostante gli encomiabili sforzi prodigati dal nostro Presidente del Consiglio Prodi per presentare il proprio Governo (un governo del premier e del vicepremier Veltroni) come Governo scelto dal popolo, quindi come Governo di legislatura che durerà per cinque anni. Direi che Prodi ha fatto mirabilia, ha, per così dire, superato se stesso nel presentare una situazione che le risorse istituzionali offerte dalle leggi elettorali non garantivano. È stato bravissimo nel dare quasi per scontata una cosa che ancora non esiste, ma che è in movimento ed è nella logica del bipolarismo. Effettivamente, tutta la campagna elettorale di Prodi e di chi lo appoggiava, quel presentarsi come candidato premier col suo vicepremier, corrisponde a questa idea: alla volontà di fare un Governo di legislatura che sia eletto dal popolo. Ma le istituzioni oggi sono quelle che sono, non lo hanno garantito e non lo possono garantire. La condizione del Governo Prodi - mi sia consentito di avvalermi di questa visualizzazione - è stata quasi impietosamente rappresentata in una vignetta di Giannelli apparsa sul Corriere della Sera del 4 aprile: Prodi vi appare penzolante nel vuoto, artigliato dal fondo

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dei calzoni da un'aquila albanese bicipite, figura della sua maggioranza, con le due teste di D'Alema e Bertinotti.
Se questa è, resa icasticamente, la legittimazione di questo premier, ditemi voi qual è la condizione di sicurezza e quale la governabilità che può avere il premier indicato. Ecco perché bisogna dare al premier una sua propria, indiscussa legittimazione popolare.
Sono pronto ad esaminare tutte le possibili obiezioni che possono muoversi contro i rischi dell'elezione popolare diretta: la paura, il complesso del tiranno, la paura della deriva plebiscitaria - lo abbiamo sentito poco fa nell'intervento dell'onorevole De Mita -. In noi della più vecchia generazione, che abbiamo visto il fascismo, il nazismo, le dittature, il complesso del tiranno dorme sempre nel fondo, ma abbiamo cercato di esorcizzarlo in tutti i modi perché per noi quella della garanzia giuridica costituzionale è stata una delle fondamentali esigenze che ci siamo posti quasi agli inizi dell'esperienza repubblicana e agli inizi dei nostri studi, quando ci siamo accostati alla Costituzione. Come garantire che questa Costituzione non sia manomessa, non sia distrutta e dissolta e ci faccia di nuovo precipitare in una notte totalitaria o autoritaria?
Ancora più netta la superiorità del modello fondato sull'elezione popolare del premier rispetto agli altri modelli risulta dal terzo angolo visuale, il criterio della simmetria tra potere politico e responsabilità. Là où il y a le pouvoir là il y a la responsabilité, questo era il principio aureo che un grande maestro del diritto costituzionale, Leon Duguit, insegnava nei primi decenni di questo secolo. Si tratta di un principio fondamentale della democrazia costituzionale.
La soluzione semipresidenziale visibilmente mostra il suo deficit democratico proprio da questo angolo visuale, perché lì è disgiunta la posizione massima di potere politico dalla soggezione alla corrispondente simmetrica responsabilità. Infatti, il Presidente della Repubblica eletto è politicamente irresponsabile nella sua inamovibilità per sette anni, mentre ciò che può fare l'Assemblea è solo votare la censura sul primo ministro, fatto capro espiatorio delle decisioni del Presidente. È stata emblematica a questo riguardo proprio la vicenda storica nella quale, nel 1962, De Gaulle introdusse l'elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica. In quell'occasione, come è noto, le circostanze giustificavano le preoccupazioni per la stabilità dell'ordinamento nel suo insieme, perché De Gaulle era reduce dall'attentato dell'OAS dell'agosto 1962. Ma De Gaulle che fa? Utilizza l'articolo 12 della Costituzione bypassando la via maestra della revisione costituzionale fissata dall'articolo 89. L'Assemblea nazionale subito si innalza protestando e votando una mozione di censura la cui parte centrale recita così: «L'Assemblea nazionale, considerando che la Costituzione della quale è creatore il generale De Gaulle, che nel 1958 egli ha fatto approvare dal popolo francese, prescrive formalmente in un titolo speciale all'articolo 89 che una proposta di revisione della Costituzione dovrà prima essere votata dalle due Camere del Parlamento e poi approvata da un referendum dopo che il popolo francese è stato illuminato dai dibattiti parlamentari; considerando che il Presidente della Repubblica non tenendo in considerazione il voto delle due Camere viola la Costituzione della quale è custode; considerando che in tal modo egli apre una breccia attraverso la quale un giorno potrebbe passare un avventuriero per rovesciare la Repubblica e sopprimere la libertà; considerando che il Presidente della Repubblica ha potuto agire soltanto dietro proposta del Governo, censura il Governo in conformità dell'articolo 49, paragrafo 3». Quella vicenda è stata emblematica e particolarmente illuminante perché si è potuto vedere alla prova criticamente questo modello semipresidenziale.

GIUSEPPE CALDERISI. Ma giust'appunto non era ancora stato eletto!

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. De Gaulle era


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allora il primo Presidente della V repubblica, eletto da un vastissimo collegio elettorale (articolo 6 della costituzione) nel dicembre 1958. Ora, all'occasione della riforma del 1962, si è potuto toccare con mano il pericoloso deficit democratico di questa Costituzione, con la dualità di un esecutivo in cui al potere dell'organo sovrastante (il Presidente della Repubblica, che detiene le tre armi assolute del diritto di sciogliere l'Assemblea, di indire referendum e di ricorrere all'articolo 16 .... poteri eccezionali restando inamovibile nella carica per sette anni) non corrisponde una correlativa responsabilità politica, bensì, in irrazionale asimmetria, solo la responsabilità politica dell'organo secondario.

PRESIDENTE. Paradossalmente è responsabile verso di lui!

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Sì, cosicché il contrappeso della sfiducia parlamentare risulta, in caso di prevaricazione del Presidente, del tutto inefficace.
Trasferiamo l'ipotesi al caso del premier: se egli facesse una cosa di questo genere, sarebbe bloccato dalla sfiducia, dato e non concesso che il premier potesse compiere atti di tale gravità (adesso vedremo il Presidente della Repubblica in funzione di garanzia costituzionale). Il Presidente della Repubblica lo può già bloccare se gli atti sono governamentali soltanto, atti dell'esecutivo.
Nel premier indicato, qual è la situazione della simmetrica responsabilità tra potere politico e responsabilità? Se ci appelliamo a quell'aurea massima che ho citato di Leon Duguit, là où il y a le pouvoir là il y a la responsabilité - ovviamente l'equazione è rovesciabile -, dove non c'è potere politico non c'è neanche responsabilità. Se il premier indicato ha una sua legittimazione incerta, appesa ad una maggioranza traballante, eterogenea, non coesa, non ha potere politico e la responsabilità politica si fa altrettanto evanescente.
Infine, garanzie della controllabilità. Da questo punto di vista emerge la garanzia piena della proposta del premier eletto dal popolo, ma in un quadro costituzionale che preserva il Capo dello Stato, l'istanza neutrale e garantistica rivestita dalla figura del Capo dello Stato. Qui si deve dire che, applicando la legittimazione popolare direttamente al primo ministro e non al Presidente della Repubblica, il governo di legislatura o neoparlamentare consente, azzerando le crisi di governo infralegislatura, di liberare integralmente il Presidente della Repubblica dalle commistioni con la sfera dell'indirizzo politico. Il Presidente della Repubblica non è più un ma|fmtre aux crises. Con la proposta del premier elettivo, collegata alla contestuale elezione dell'Assemblea parlamentare in base al principio del simul stabunt simul cadent, non ci sono e non ci possono essere crisi infralegislatura. Il Presidente della Repubblica, pertanto, non può essere attratto a quei compiti di supplenza con riferimento ai quali corre il rischio di perdere la sua figura di istanza neutrale e super partes, così come è fatalmente accaduto più volte in questa fase di transizione costituzionale, creando controversie e contestazioni. Quella del Presidente della Repubblica resta come figura di istanza neutrale e garante e si valorizza precipuamente la vocazione di organo di garanzia costituzionale. È necessario - rispondo all'onorevole De Mita, con riferimento ai rischi delle deviazioni o tentazioni in senso autoritario; il plebiscitario è la premessa della tentazione autoritaria - che a fianco di un premier eletto dal popolo, forte della legittimazione popolare, sia eretta una garanzia costituzionale che sia contestuale, per l'obbligo della sua firma e per l'emanazione dei principali atti di Governo che vengono sempre intitolati al Capo dello Stato, alla formazione degli atti di Governo, con possibilità di deferire l'atto alla Corte costituzionale.
Nel progetto che ho richiamato alla vostra attenzione, il Presidente della Repubblica riceve anche un'attribuzione che oggi è solo implicita nell'attuale figura: qualora egli si trovasse dinanzi ad atti di Governo o alla richiesta di ratificare un


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trattato o atti di carattere internazionale, ad un decreto avente valore di legge o a qualunque altro atto o dichiarazione sottoposti alla sua firma dal Governo, sospetti per gravi ragioni di incostituzionalità cosicché vi sia oggettivamente il pericolo di coinvolgere la sua responsabilità costituzionale a norma dell'articolo 90, in tali casi il Presidente può deferire l'atto alla Corte costituzionale, la quale si pronuncia entro 15 giorni o, a richiesta del Governo, in casi di urgenza, entro 8 giorni. Si tratta di una garanzia contestuale (puramente giuridica, si dirà); di fronte al cataclisma delle dittature dei colpi di Stato, ovviamente, anche queste garanzie possono essere schiacciate: tutto può essere travolto, tutto può essere distrutto. Ma noi costituzionalisti, noi giuristi, noi costruttori degli organi del potere, dobbiamo congegnarli, come diceva Montesquieu, in modo che il faut que par la disposition des choses le pouvoir arr|frte le pouvoir. Noi dobbiamo dare la disposition des choses adeguata ed appropriata; quando manca quest'ultima, le pouvoir non arr|frte più le pouvoir.
Il Presidente della Repubblica ha una funzione garantistica, più necessaria che mai di fronte ad un'istanza che riceve la sua legittimazione a governare direttamente dal popolo. Nel caso del sistema semipresidenziale, questa istituzione viene perduta. Il Presidente della Repubblica, quando avesse il fait majoritaire, accumula in sé una somma di poteri che ha fatto parlare taluno di iperpresidenzialismo, non di semipresidenzialismo.
Questa garanzia si perde fatalmente nel modello semipresidenziale, perché si tramuta l'organo oggi super partes, l'organo Capo dello Stato-rappresentante dell'unità nazionale, garante della Costituzione, che deve essere, per la sua natura e per le sue funzioni, imparziale e super partes, in organo governante, eletto dal popolo su un programma politico, per cui si tratterebbe della massima pars politica, della più alta parte politica; e se questa parte politica godesse anche del fait majoritaire dell'Assemblea, non avrebbe alcun freno contestuale, tranne quelli riconducibili alla sua persona, alla sua cultura e alla sua coscienza nonché i freni che l'opinione pubblica - penso all'opinione pubblica francese, molto viva e radicata nei principi di libertà - potrebbe porre. A De Gaulle lo sbrego della Costituzione veniva perdonato anche in ragione della sua carica, della sua figura carismatica, del suo passato, del suo valore di personaggio che aveva concorso alla salvezza della libertà e dell'indipendenza della Francia. Eppure, l'Assemblea aveva denunciato una violazione della Costituzione. Quella Costituzione, quel modello consentono questa scopertura asimmetrica del potere politico di vertice rispetto alla responsabilità politica.
In definitiva, nella situazione complessiva, la proposta basata sull'elezione popolare del premier si inserisce in tutto un quadro di regole severe con riferimento anche alle cause di ineleggibilità (ad esempio, dopo due mandati) e di incompatibilità per i candidati alla carica di primo ministro, che rendono tutto il quadro costituzionale di questo modello pienamente equilibrato; in esso, il momento del gubernaculum, per usare una formula cara al presidente Elia, ed il momento della iurisdictio sono adeguatamente equilibrati, sì da renderli sicuri contro ogni rischio di deriva autoritaria.
Mi avvio alla conclusione, utilizzando parole che ho pronunciato pochi mesi fa ad un convegno svoltosi presso l'ISLE, avente ad oggetto una sua relazione, presidente.
Signor presidente, signori della bicamerale, concludo mutuando le parole pronunciate da un alto personaggio, papa Wojtyla, nel momento della sua ascesa al pontificato: non abbiate paura, abbiate il coraggio di realizzare questo salto di qualità necessario per dotare il nostro paese di istituzioni democraticamente elette, autorevoli, che siano credibili e ci rendano credibili di fronte ai cittadini e di fronte ai nostri partner internazionali del Gruppo dei sette! Che nessuno dei nostri partner internazionali abbia la possibilità di dirci, con un misto di commiserazione, forse di affetto o di superiorità, ciò che

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disse De Gaulle, nel 1959, quando venne in visita in Italia per il centenario della seconda guerra di indipendenza, a Solferino e San Martino, dalle mie parti, insomma, nel vechio Lombardo Veneto: L'Italie est un pauvre pais avec un pauvre gouvernement! Si debba invece dire: L'Italie est un grand pais avec un bon, croyable gouvernement!

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Galeotti per la sua esposizione appassionata ma anche molto motivata; del resto, poiché abbiamo il precursore in Italia di questa tesi, non potevamo avere una relazione più impegnata di questa.
Do ora la parola ai colleghi che intendono formulare osservazioni e porre quesiti.
GIORGIO REBUFFA. Innanzitutto ringrazio anch'io il professor Galeotti perché ci ha dato un contributo con una notevole lucidità, che non sempre riscontriamo.
Vorrei porle, professor Galeotti, una domanda specifica ricordando che lei oggi ha sottolineato che l'aspetto principale che ci ha raccomandato è rappresentato dal fatto che il premier ha una sua autonoma legittimazione. Qui vi è un elemento difficile da tradurre in termini giuridici, quasi incalcolabile: la legittimazione del premier che si contrappone a quella della coalizione, per cui il premier diventa la guida della coalizione oltre che del processo parlamentare. Le chiedo soltanto di esplicare ulteriormente questo aspetto che mi sembra di estremo interesse.

NATALE D'AMICO. Mi associo anch'io al ringraziamento rivolto al professor Galeotti per il suo intervento al tempo stesso appassionato e lucido. Il modello che lo stesso professore ci ha presentato ha una sua compattezza e rispetto ad esso mi sembra che vi sia da più parti il tentativo di dire che, anche se quel modello comporta numerosi vantaggi (lei ce ne ha presentati molti), si possono conseguire vantaggi simili senza incorrere in alcuni eventuali rischi insiti nello stesso modello (per esempio, il rischio di deriva plebiscitaria o fatti del genere) attraverso qualcosa che vi si avvicini.
Anche se nel suo intervento mi sembra implicito, vorrei che lei chiarisse questo aspetto: nell'ambito delle tre griglie, dei tre criteri di analisi che lei utilizza (democrazia immediata, governabilità, simmetria tra potere e responsabilità), secondo lei un modello che sostituisca all'elezione diretta del premier un'indicazione di quest'ultimo è un second best oppure no (uso tale espressione da economista)? Mi sembra di capire che non sia così e che a suo avviso il modello cambi radicalmente.
Passando ad altre due questioni più specifiche, ricordo che in questa Commissione è stata spesso sottolineata un'idea che mi pare irragionevole (ma vorrei acquisire la sua opinione) secondo la quale, considerata la situazione di partenza italiana, su cui non mi soffermo, è tanto più necessario rafforzare il Governo in Parlamento quanto meno diretto è il meccanismo di indicazione, di selezione del Capo dell'esecutivo o del Capo dello Stato. Quindi, si è affermato implicitamente da più parti che abbiamo bisogno di rafforzare molto, di dare più strumenti al Governo in Parlamento se ci avviamo verso modelli basati, per esempio, sull'indicazione del premier, mentre abbiamo meno bisogno di tali strumenti in presenza di un'elezione diretta del premier o del Capo dello Stato in un modello semipresidenziale. Ritengo però che non sia così e mi sembra, se ho ben compreso, che anche lei sia di questo avviso, ma vorrei avere una conferma al riguardo.
Passando ad una terza questione, mi piaceva molto la proposta che fu avanzata con il gruppo di Milano (lei oggi l'ha ricordata) relativa al fatto che, nel momento in cui si esprime la sfiducia, si stia indicando anche il candidato alternativo. Ora lei stesso ha abbandonato quella proposta, ma a me sembrerebbe utile, perché uno dei problemi che si pongono con sistemi di Governo forte è che, se un Governo funziona male, dal punto di vista della storia del paese forse sarebbe bene che qualcosa di buono succedesse; mi


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sembra che in un modello siffatto quello che di buono dovrebbe succedere è che nel frattempo si stia formando, in qualche modo selezionando, una leadership alternativa e che quindi si esca da una situazione che dal punto di vista storico (non mi interessa chi stia governando) è andata male per il paese, con la selezione e l'indicazione di una leadership alternativa. In sostanza, chi conduce l'opposizione deve essere anche colui che viene presentato o si sottopone al giudizio degli elettori: per essere espliciti, sembrerebbe strano se oggi in Gran Bretagna sostituissero Tony Blair per candidare un altro.
Lei stesso ha abbandonato quella proposta, che mi pare sia difficilmente proponibile oggi...

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Non abbandonato...

NATALE D'AMICO. Ho visto il progetto del Comitato Speroni.

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Oggi non dico che mi pento...

NATALE D'AMICO. In diverse proposte figura l'ipotesi che venga scelto comunque in Parlamento un capo dell'opposizione. Credo che questo strumento possa assolvere una funzione simile e vorrei conoscere la sua opinione sull'idea per cui in Parlamento venga scelto un capo dell'opposizione.

ANTONIO SODA. Mi associo anch'io al ringraziamento rivolto dal presidente e dagli altri colleghi al professor Galeotti, perché le sue tesi, che si condividano o meno, sono certamente ricche di spunti per tutti.
Poiché lei, professor Galeotti, ha parlato di tasso di democraticità immediata, vorrei che si soffermasse brevemente in sede di replica su chi contrappone al modello i rilievi sulla funzione residuale del Parlamento, sempre in collegamento con la minaccia di scioglimento, sul ruolo e la funzione delle forze politiche e sull'interrogativo relativo all'impoverimento del processo democratico. In sostanza, una volta avviato il sistema, con un alto tasso di democraticità, quando esso si sviluppa e si articola nella vita della legislatura, la legittimazione forte del premier da un lato e il forte potere finale di scioglimento impoveriscono, a suo avviso, la democrazia? Inoltre, quale ruolo assegna alle forze politiche, considerato che ci troviamo fondamentalmente in un sistema pluripartitico, in ordine al quale potremmo ridurre il tasso di esasperata frammentazione ma non ricondurlo, almeno a breve scadenza, a forme bipartitiche nelle quali è concepibile che il livello del dibattito democratico risieda nel partito e non si riproduca nel Parlamento?

GIUSEPPE CALDERISI. Ringrazio innanzitutto il professor Galeotti per il contributo che ci ha dato e per la grande passione da studioso e da cittadino che lo anima sempre in questa direzione. Allo stesso professore desidero porre una domanda specifica relativa alla connessione con il sistema elettorale, ed in particolare con la questione del premio di maggioranza. Vorrei sapere se il professor Galeotti ritenga che un'elezione diretta come quella che ha prospettato abbia una sufficiente capacità di trascinamento automatico di una maggioranza o che comunque il sistema consenta di ricorrere, al limite, a governi di minoranza senza richiedere meccanismi di manipolazione della rappresentanza come sono i premi di maggioranza o almeno sia tale da poter ridurre molto fortemente la consistenza di questo premio.
Le chiedo quindi se, grazie a questa elezione diretta, si possa ritenere di fare sostanzialmente a meno di un meccanismo di premio perché l'effetto di trascinamento, il meccanismo bipolare indotto dalla stessa elezione diretta con il ballottaggio è tale da ridurre fortemente il rischio di non avere una maggioranza in Parlamento.

PRESIDENTE. Aggiungo semplicemente una considerazione, oltre a chiedere


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un'informazione. Nel progetto del Comitato Speroni ed anche nelle riconsiderazioni del professor Galeotti non si riscontra la situazione israeliana della special election nel caso dei due terzi, di quel quasi impeachment presente nella legge israeliana. Anzi, addirittura non si passa ad elezioni se la sfiducia al premier è espressa dai due terzi dell'Assemblea.
Il punto più importante mi pare sia stato sollevato dal collega D'Amico, quando ha ricordato una considerazione fatta da Juan Linz per il sistema semipresidenziale francese, ma che si potrebbe applicare a questo caso. Ove riuscissimo a ricreare, anche con uno sforzo di laboratorio, le condizioni di quadro politico delle democrazie, se non quelle bipartitiche inglesi, almeno quelle di tipo tedesco o spagnolo, potremmo conseguire i vantaggi che si hanno con il sistema francese senza i relativi svantaggi. Il collega D'Amico ha detto che potrebbero esservi delle condizioni di scelta della forma di governo che ci farebbero avere i vantaggi senza i possibili svantaggi. Al di là delle derive, delle tendenze patologiche di tipo autoritario, gli svantaggi possono essere quelli della disfunzione, cioè riprodurre a scala il sistema del Presidente del Consiglio eletto da popolo e Parlamento porterebbe a quel rapporto malsano, malato che si ebbe nel periodo weimariano, una situazione di governo diviso, di non omogeneità, di insufficienza tra la scelta semplificata del Presidente ed invece il corpo di coloro che devono approvare le leggi. Indubbiamente il potere legislativo rimane al Knesset o comunque al Parlamento.
Alla domanda su come si superi quest'eventualità, Sartori sostiene che vi è il pericolo di troppe elezioni, di troppi ritorni di fronte al corpo elettorale, mentre questo non è vero per i sindaci. Il professor Galeotti ha sostenuto che vi sono stati quattro anni di stabilità, è vero, ma qui si apre un altro grosso problema: anche in Germania abbiamo tanti borgomastri eletti direttamente dal popolo; perché anche per il presidente del Land o per il Cancelliere non si passa all'elezione popolare? Non vi si passa perché si ritiene che, mentre disfunzioni a livello comunale siano tollerabili, per così dire, ben più gravi sarebbero le disomogeneità a livello nazionale e quindi si vuole assicurare più direttamente una maggioranza con il premier o con il Cancelliere. È questa l'obiezione che viene più naturale.

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Rebuffa giustamente mi ha posto un quesito; puntualizziamo davvero il valore di quest'autonoma legittimazione che il governante deve avere e che ha nella proposta da me presentata. Credevo di essere stato chiaro, ma è bene che ritorni sul punto. Ho cercato di descrivere la posizione del premier indicato appoggiandomi alla icastica raffigurazione di Giannelli sul Corriere che ho citato. Ora, se Giannelli, che per efficacia espressiva ormai non è più secondo neanche a Forattini, si fosse trovato dinanzi ad un Prodi, realmente e istituzionalmente eletto dagli elettori per durare con la Camera per cinque anni - come intelligentemente il premier ha cercato con le sue parole, prima e dopo il voto, di autorappresentarsi - ebbene avrebbe disegnato non un Prodi sospeso nel vuoto agli artigli della sua maggioranza bicipite di D'Alema e Bertinotti, bensì un Prodi sicuro sul piedistallo imponente dei voti che l'avessero direttamente eletto.
Quindi, l'indicazione del premier è una soluzione starei per dire all'italiana, è pericolosa proprio perché illude, promette e non mantiene. Abbiamo uno scatto di dignità e di coraggio! Attingiamo al profondo della nostra coscienza, del nostro orgoglio, richiamandoci ai valori più alti della nostra storia e della nostra cultura. Facciamo ogni sforzo per fare una costruzione seria, sicura, credibile. Non capisco l'obiezione secondo la quale questo modello rischia di essere troppo rigido: essa mi sembra speciosa perché la parola rigidezza per noi costituzionalisti indica un valore, tant'è vero che tutte le Costituzioni contemporanee moderne hanno questa qualità della rigidezza, cioè la


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sicurezza che alla modifica della Costituzione si procede attraverso un procedimento speciale per poterla emendare o modificare.
In questo caso, rigidezza cosa significa? Se rigidezza vuol dire certezza, sicurezza che il Governo governerà, che non vi saranno due, tre, quattro, cinque, sei crisi durante una legislatura, come vi sono state nella nostra storia e nella nostra esperienza repubblicana (ne ho fatto la statistica), che non vi saranno i tempi morti delle crisi di governo, se significa tutto questo, benissimo, ben venga la rigidezza, perché essa è certezza e sicurezza di governo.
Attraverso la parola flessibilità temo che rischi di volersi di nuovo aprire il varco a quello che è forse un vizio della nostra esperienza non solo repubblicana ma già dell'epoca prefascista: mi riferisco al virus del potere della crisi; non si vuole che il potere della crisi sfugga al Parlamento. Nei progetti che sono circolati, che peraltro non ho letto attentamente, mi pare si fosse ipotizzata la possibilità di consentire la sfiducia al Governo, eletto o indicato dal popolo, ma una sola volta.

PRESIDENTE. Sì, è il progetto della sinistra democratica.

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Lasciatemi fare la facile battuta del semel in anno licet insanire; in questo caso, si dovrebbe dire semel in legislatura licet insanire, ma sempre un'insania sarebbe! Se lasciamo il varco aperto per una sola volta, il virus del potere della crisi s'inserisce e distrugge tutte le certezze che faticosamente cerchiamo di costruire: la certezza della governabilità, l'affidabilità che questo Governo scelto dal popolo governi, possa realizzare il suo programma e poi ripresentarsi al giudizio degli elettori.
Ecco la necessità della legittimazione autonoma ed è per questo che trovo alquanto speciose le osservazioni riguardo alla rigidezza; come dicevo, se si apre il varco ad una crisi infralegislatura, si distrugge il principio del simul stabunt simul cadent: in tal modo la pari legittimazione dei due poteri sarebbe resa vana e non potrei più rispondere delle conseguenze che potrebbe provocare questo modello squilibrato. È una macchina che non è più la mia: non darà più il rendimento promesso.
Per me il premier indicato non è un second best. Se qualcuno volesse riandare ai miei scritti, può forse trovare questa idea del second best. Nei trent'anni nei quali ho coltivato non dico l'illusione, ma l'obiettivo, l'ideale della riforma delle nostre istituzioni per avere un Governo governante scelto dal popolo, ho scritto qualche volta che il Governo di legislatura è la soluzione che può essere raccomandata di più, anche perché può realizzarsi attraverso vie più deboli, le vie deboli del patto di legislatura, del Governo indicato.
Due anni fa avevo prospettato anche una via (cfr. in «Parlamento» 1995, n. 7ss - luglio-ottobre) tutto sommato abbastanza forte: in attesa della grande riforma, si sarebbero potuti accelerare i tempi della transizione con una réformette della legge elettorale attuale. Lavorando sulla legge elettorale esistente, proponevo variazioni, addenda: per esempio, la formazione delle coalizioni a livello nazionale; queste avrebbero dovuto dichiararsi in modo trasparente all'atto della presentazione delle candidature; ciò avrebbe comportato un vincolo di coerenza territoriale, riguardante tutte le circoscrizioni o, almeno, i due terzi delle circoscrizioni. Oggi l'ottica della legge elettorale - come è stato notato - è puramente circoscrizionale: consente collegamenti ed apparentamenti solo a livello circoscrizionale. Nella prima applicazione, infatti (nel 1994), è stato possibile addirittura che il gruppo forza Italia al nord fosse unito alla lega ed al sud...

GIUSEPPE CALDERISI. Nel testo iniziale si prevedeva la possibilità di coalizioni diverse collegio per collegio!

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Ancora peggio!


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Proponevo, inoltre, alcuni incentivi: per esempio, esentare i partiti che si presentassero come coalizione nazionale in almeno due terzi dei collegi uninominali ed in quindici regioni (l'ideale sarebbe che il vincolo di coerenza territoriale della coalizione operasse su tutti i collegi, ma la mia ipotesi serviva a mantenere un minimo di flessibilità) dall'obbligo delle sottoscrizioni da parte degli elettori (1.500, 3.000, anche 4.500 elettori nelle circoscrizioni in proporzionale).
Sono idee di cui si può tener conto ai fini dell'adeguamento della legge elettorale. Tornando al modello del premier eletto nella formula che proponevo e propongo, il motore trainante delle due elezioni era logicamente l'elezione del premier: per assicurare che l'effetto di trascinamento non sia perduto bisogna far sì - dicevo - che le elezioni dell'Assemblea parlamentare non si concludano prima della conclusione di quelle del premier.
L'onorevole D'Amico mi ha posto un'altra domanda: si può superare la debolezza dei governi dotandoli di un carico sufficiente di poteri nei rapporti con l'Assemblea? Non so se ho capito bene...

NATALE D'AMICO. La domanda era questa: secondo lei il problema della forza del Governo in Parlamento si pone qualunque sia il modello prescelto?

SERIO GALEOTTI, Professore ordinario dell'Università di Roma. Certamente il problema esiste. Noi lo affrontammo in sede di Comitato di studio Speroni e indicammo alcune soluzioni.
Il sistema francese per noi non è accettabile nel punto della legittimazione al Presidente della Repubblica Capo dello Stato, perché ci fa perdere l'istanza neutrale, rappresentativa dell'intera comunità nazionale; un'istanza che deve essere rappresentativa sia dello Stato come entità centrale sia della comunità statuale nei suoi soggetti periferici. Solo un Presidente della Repubblica eletto come super partes può avere in se stesso questa qualità rappresentativa dell'intera comunità nazionale nelle sue articolazioni.
Ma il problema dei poteri del Governo in Parlamento è correlativo (e ne dipende) a quello dell'autorevolezza del premier. Sarebbe impresa vana, e comunque insufficiente, dotare di poteri forti in Parlamento un Governo intrinsecamente debole per la sua legittimazione indiretta e precaria. Di quei poteri un Governo siffatto non riuscirebbe, in larga misura, a servirsene.
In ogni caso, il problema dei rapporti con il Parlamento esiste perché attualmente il processo decisionale è lento, defatigante, lungo, inconcludente (non aggiungo altri aggettivi per qualificare le difficoltà di questo processo).
Nel nostro progetto abbiamo proposto varie soluzioni. Per esempio, abbiamo indicato la necessità di rinunciare alle Commissioni in sede deliberante, da cancellare lasciando la sede redigente: il fenomeno della microlegislazione, infatti, è indotto anche dalle Commissioni deliberanti.
Dalla Costituzione francese abbiamo mutuato i poteri di priorità dell'ordine del giorno del Governo, il vote bloqué, l'adoption automatique. Starà poi alla vostra saggezza ed al vostro equilibrio stabilire come questi meccanismi debbano essere graduati e dosati: ma di questi poteri c'è bisogno comunque. Certo, un Governo debole in se stesso può servirsi poco anche di poteri efficienti ed efficaci; se chi incarna l'istanza di governo si sente malsicuro sullo scranno, deve preoccuparsi - anziché del programma - di restare sulla sedia, di tessere trame, di restare invischiato in queste voluttà, in queste «libido» del professionismo politico inteso in senso deteriore.
In realtà, la vita della terza e della quarta Repubblica francese, nonché della Repubblica italiana, dal punto di vista del professionismo politico inteso come carrierismo politico rappresentava il più bel sistema del mondo: consentiva una crisi di governo ogni anno, sei crisi di governo durante la legislatura. Sono tutte occasioni di mercato politico, di redistribuzione delle rendite politiche (così le chiama Miglio), di chiamata a posti nuovi,


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di tessiture di trame. Il gusto per l'intrigo diventava nella vita del nostro parlamentare l'impegno maggiore, la parte maggiore del suo tempo. Ecco perché non può svolgere il lavoro difficile, faticoso e spesso noioso del legislatore, che cerca di uscire da questa farragine di migliaia e migliaia di leggi: non so se siano 150 mila o solo 12 mila come qualcuno ha detto.
Devo rispondere all'amico Soda, o meglio all'onorevole Soda anche se sarei onorato della sua amicizia. In ordine alla tesi della democrazia immediata, lei riconosce che nel mio modello la legittimazione si comunica direttamente, ma domanda se ciò non comporterebbe il rischio di un impoverimento della democrazia. Qual è il ruolo delle forze politiche? Quanto ho detto poco fa, sia pur in modo estemporaneo e forse pittoresco, risponde alla sua domanda: non c'è un impoverimento della democrazia, perché è democrazia governante. I cittadini eleggono i governanti perché governino e facciano buone leggi che favoriscano la vita e lo sviluppo della comunità.
Pochi giorni fa sono rimasto atterrito da un articolo del nostro maggior quotidiano, che ha una diffusione abbastanza capillare, in cui si diceva che erano stati sprecati 100 mila miliardi di fondi europei. Si diceva che l'Italia ha speso solo il 14 per cento di quanto ottenuto; in Campania ha investito solo lo 0,17 per cento del totale; mentre in Portogallo ed in Irlanda quei soldi finanziano il boom economico. Questo accade perché non si governa, non c'è capacità né possibilità di governare; perché il nostro processo decisionale - è un'annotazione che ho fatto tantissimi anni fa e l'amico Leopoldo presidente la ricorderà - è lungo, sterminato, defatigante, pieno di trabocchetti, lento e non conduce mai o lentissimamente, ad una decisione. Ciò a livello nazionale, regionale e comunale. Non ho approfondito adeguatamente la realtà, ma 100 mila miliardi equivalgono a quattro manovre del Governo sulla pelle degli italiani, dei cittadini.
La democrazia deve essere governante; le forze politiche devono fare quello che non hanno fatto adeguatamente in passato, essere cioè medium tra popolo e istituzioni durante la legislatura; essere ente di intermediazione che mantiene aperto il flusso di informazioni, di aspirazioni, di pressioni che salgono dal basso. Ciò pone il problema della democraticità interna dei partiti politici, della loro organizzazione interna, affinché essi siano strumenti attraverso i quali i cittadini concorrono, anche permanentemente durante la legislatura, a far pervenire al potere, sia esso il premier o l'Assemblea, le proprie istanze.
Questa è la funzione dei partiti, non c'è impoverimento. Quanto più è forte la responsabilità politica, tanto più il ruolo delle forze politiche si esalta.
È stato detto, forse con un certo eccesso, che nella prima Repubblica il sistema proporzionalistico aveva condotto praticamente alla impunibilità della classe politica; quest'ultima si riteneva eternamente insediata ai posti di potere, con possibilità di ricambio solo interno, non determinato dal voto dei cittadini, perché la proporzionale stabilizzava, manteneva il potere, dando ai cittadini solo la possibilità di esprimere un voto di appartenenza.
L'onorevole Calderisi si è soffermato sul sistema elettorale che ha una sufficiente capacità di trascinamento. Questa esiste nella elezione popolare diretta del premier, che avverrà con un primo e con un secondo turno, su un programma e su una discussione che i mass media diffondono; ma il grado di personnalisation du pouvoir di cui parlava Duverger, negli anni in cui presentò l'esigenza della democrazia immediata, certamente imprime all'elezione popolare diretta il valore di un voto preminente. Questa è la scelta fondamentale.
Non sono in grado di darti - data l'amicizia, mi consentirai di usare il tu - le dimensioni dell'ampiezza di questa forza di trascinamento e dirti se sia tale da garantire il fait majoritaire: una buona regola di tecnica costituzionale e legislativa consisterà nell'escogitare un sistema elettorale che si incardini in questo quadro,

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garantendo l'evento per impedire che vi sia una maggioranza divisa. La meccanica del mio modello è tale da consentire al legislatore - ed è bene che il legislatore ordinario l'abbia - libertà di scelta; non prendiamo, però, troppi esempi dalla Francia al riguardo, come il cambio della legge elettorale da maggioritaria in proporzionale, fatto da Mitterrand nel 1985 per impedire che la sconfitta del partito socialista fosse più netta e grave (e dopo vi è stato il rigiro). Non vorrei che le leggi elettorali fossero maneggiate da una parte e dall'altra a proprio uso e consumo: lo riterrei ripugnante rispetto al livello di moralità politica che in Italia si è stabilito, nonostante quello che si dice.
Non posso lasciare senza risposta il presidente, il quale mi ha posto due quesiti. Il primo: perché in Germania la formula dei borgomastri elettivi non si trasferisce a livello centrale? Ma semplicemente - rispondo - perché le istituzioni del governo centrale, grazie al formato assunto dal sistema politico dei partiti in Germania, funzionano egregiamente, e non c'è là quel bisogno assillante di assicurare la governabilità che avvertiamo acutamente noi.
Il secondo quesito: se col mio modello non vi sia il pericolo di disfunzioni, evocandosi anche quel tipo malsano di rapporti che produsse Weimar, e come si possano superare. Anzitutto, non generalizzerei facilmente da Weimar; quella era una costituzione semipresidenziale, attuata in un paese prostrato dalla sconfitta e dal dissesto economico, che non è, come modello, assolutamente assimilabile a quello da noi proposto, del premier eletto dal popolo contestualmente al Parlamento. Certo delle disfunzioni possono anche esistere, nessun meccanismo è perfetto; direi che questo escogitato frutto di riflessione, di meditazione, di prove, di ricerche comparatistiche attingendo fior da fiore dalle migliori esperienze del diritto comparato e, quindi, anche dalla Costituzione francese, possa consentire al premier di governare con sufficiente autorevolezza ed efficacia. Egli può portare innanzi il suo programma di governo anche di fronte ad una maggioranza frastagliata, che non sia necessariamente omogenea, e presenti qualche diversità tra le sue componenti. È un sistema che può presentarsi come la risposta ottimale ai mali dell'ingovernabilità ed alle insufficienze della democrazia, per tutte le ragioni che ho motivatamente espresso.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Galeotti e lo prego di inviarci al più presto un testo scritto.

La seduta termina alle 20.


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A L L E G A T O

(Relazione presentata dal professor Augusto Barbera)


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Comitato "Forma di governo" della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali

Audizione del 16 Aprile 1997

INTERVENTO SULLA "FORMA DI GOVERNO"

di Augusto Barbera

Partire dai processi politici

Non ci è dato verificare quale "dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia" ma dobbiamo - io credo - partire dai processi politici. Il che significa, in primo luogo, partire dai processi indotti dalle riforme elettorali (nonchè tenere conto dei processi di unificazione europea e della forte domanda di "federalismo").

I primi risultati del processo apertosi con i referendum elettorali sono infatti, nel complesso, positivi: la bipolarizzazione del sistema politico; la destrutturazione di un centro immobile; la rottura di una paralizzante unità politica dei cattolici; la deradicalizzazione delle estreme chiamate a confrontarsi con il tema del governo (sia l'Msi con la svolta di Fiuggi sia Rifondazione con il patto di desistenza elettorale); il delinearsi di due schieramente alternativi guidati da candidati a Premier.
I problemi esistono (contrattazione sui collegi; alleanze fragili e non omogenee) ma da essi bisogna partire per risolverli non per demolire quanto di positivo fin qui ottenuto.

Tenere ferma la scelta uninominale maggioritaria

Ecco perchè mi pare che debba tenersi ferma la scelta del collegio uninominale maggioritario, che quei risultati ha contribuito a determinare.

E' frequente l'affermazione secondo cui uno degli obbiettivi più importanti della riforma è la ricerca della stabilità. E sappiamo tutti il perchè. Ma sarebbe errato - io credo - concentrare l'attenzione, come spesso si fa, quasi esclusivamente su questo obbiettivo.
La stabilità poteva essere un obbiettivo ambizioso negli anni 80 allorchè si avevano coalizioni omogenee ma dilaniate dalla concorrenza fra partiti e correnti di partito per la conquista della Presidenza del Consiglio (o dei Ministeri - chiave), con i conseguenti effetti di instabilità. In quelle condizioni molti di noi facevano il tifo per leggi proporzionali corrette da premi di maggioranza.


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Oggi il problema si presenta in termini non coincidenti: dobbiamo porci anche l'obbiettivo della omogeneità delle coalizioni (la coalizione Polo-Lega la scorsa volta; quella Ulivo-Rifondazione oggi sono solo l'aspetto più eclatante ma non esclusivo di tale problema).
Per raggiungere l'obbiettivo della omogeneità, vale a dire di un bipolarismo compiuto (omogeneo ma non necessariamente bipartitico) bisogna proseguire con coraggio e tenacia sulla strada della ristrutturazione del sistema partitico.

Rispetto a questo obbiettivo sarebbe controproducente il trasferimento del sistema elettorale regionale alle elezioni nazionali, vale a dire un sistema elettorale con premio di maggioranza. Esso comporterebbe che gli effetti negativi indotti oggi dal 25% di quota proporzionale sarebbero accresciuti in modo corrispondente all'80% della stessa quota.
Il collegio uninominale maggioritario spinge i partiti e le coalizioni a riconoscersi in un unico comune candidato, il sistema proporzionale con premio di maggioranza sollecita invece il massimo di concorrenza fra i partiti della medesima coalizione, per la conquista degli elettori del medesimo bacino elettorale.
In questo quadro il cartello elettorale sottoscritto, il candidato comune a Premier, l'eventuale premio di maggioranza rappresenterebbero un collante troppo fragile per partiti costretti ad esaltare al massimo la propria identità a scapito degli scopi comuni della coalizione. Non solo avremmo una campagna schizofrenica fra partiti insieme concorrenti ed alleati ma questa conflittualità si ripercuoterebbe per l'intera legislatura. Sarebbe la restaurazione del partitismo non la valorizzazione del ruolo dei partiti.
Bisogna invece spingere i partiti a cercare il candidato unico nel collegio che sia in grado non di assemblare elettorati separati ma di esprimere gli elementi che più accomunano la coalizione.
Solo il collegio uninominale maggioritario si presta a questo scopo (non quello proporzionale della legge per la elezione dei Consigli provinciali o del vecchio Senato), meglio se a doppio turno.
Non credo che sarebbe un buon risultato riprendere il compromesso che ha portato (tra l'altro per la fretta indotta dalle elezioni imminenti), nella primavera del 1995, a scambiare dosi di proporzionale con la designazione del Presidente della Regione (ne è venuto fuori un sistema che è stato definito "a presidenzialismo partitocratico").
Sarebbe un errore puntare a un compromesso al ribasso, a uno scambio, per così dire, fra rafforzamento dell'esecutivo (Capo dello stato o Capo del Governo) e recupero di logiche proporzionalistiche: per sistemi politici non strutturati (la Repubblica di Weimar o, oggi, taluni presidenzialismi sudamericani) sarebbe una miscela esplosiva.

Condivido l'opinione (è questo, del resto, il senso della istituzione della "Bicamerale") che i soggetti politici devono assumere in prima persona la definizione di un processo che finora si è mosso attraverso "picconate" esterne (la lega, i referendum elettorali, i giudici).


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Ma ciò significa - questo è il dubbio che talvolta si affaccia all'opinione pubblica - che i soggetti politici porteranno a compimento il processo riformatore apertosi con i referendum del 9 giugno 1991 e del 18 aprile 1993 ovvero che essi subiranno la tentazione "termidoriana" che attraversa tutte le fasi di transizione de-strutturante?

Quale uninominale maggioritario a doppio turno

Per gli scopi prima indicati l'uninominale a doppio turno mi appare la soluzione preferibile, proprio perchè mette insieme spinte aggregative e legittime esigenze di identità dei partiti.

Non voglio tuttavia enfatizzare questa scelta tenuto conto che l'uninominale maggioritario a un turno potrebbe essere accompagnato - come ipotizzerò più avanti - con il doppio turno nella elezione dei candidati a Premier.

Ma perchè l'uninominale a doppio turno possa dare i suoi frutti devono essere presenti alcune condizioni ( non si dimentichi che esso ebbe effetti devastanti nella Terza repubblica francese e nell'Italia umbertina):
1) che sia accompagnato dall'elezione diretta del vertice dell'esecutivo (Presidente o Premier), sia per potenziarne l'effetto aggregante sia per orientarlo su scala nazionale (evitando accordi dettati da spinte localistiche, clientelari o notabilari);
2) che vi sia un'adeguata clausola di sbarramento per l'accesso al secondo turno (da innalzare progressivamente come è avvenuto in Francia dal 5% dei voti validi fino al 12,5% degli aventi diritto al voto: oggi corrispondente circa al 18 per cento dei votanti);
3) che operi in un "ambiente" in cui non siano presenti altre competizioni a logica proporzionalistica (tranne l'elezione europea; dico questo perchè mi lasciano assai perplesso proposte, che sento circolare, che prevederebbero la elezione del Senato con il sistema proporzionale, in quanto "Camera delle garanzie"); 4) che incentivi possibilmente fin dal primo turno la formazione delle coalizioni.

Si può accompagnare il doppio turno con una quota proporzionale che abbia però l'unico scopo di assicurare un "diritto di tribuna" alle forze non coalizzabili e non abbia l'effetto di diluire il principio maggioritario.
Sono da approfondire - Sartori non lo ha fatto - le modalità tecniche con cui assicurare detta quota alle forze minori che abbiano desistito dalla partecipazione al secondo turno (quota fissa o quota variabile e conseguente numero variabile dei membri della Camera? Accesso alla quota proporzionale per chi desiste da ogni competizione al secondo turno o può essere consentita la presentazione in un numero molto ridotto di collegi, ad esempio 4 - 5 collegi? Recupero nei collegi dei meglio piazzati al primo turno o scelta da una lista separata mediante voto separato? E


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deve prevedersi una clausola di sbarramento per l'accesso a detta quota?).

Ma è anche da approfondire un punto: se la quota proporzionale viene riservata solo alle forze non coalizzabili che desistono in tutti i collegi ( o quali) come riuscirebbe la coalizione che vincerà a garantire la governabilità trovandosi di fronte a 63 (calcolo il 10% dell'attuale composizione della Camera) parlamentari pregidizialmente contrari a formare o sostenere maggioranze coese?

Sono problemi non facili di fronte a cui si è trovata (senza risolverli) la Commissione Vedel, che per prima ha proposto l'idea del "droit de Tribune".

Provo a formulare una ipotesi, avvertendo che si tratta di una delle tante ipotesi formulabili (e ovviamente modulabili in forma diversa variando la forma di Governo in cui si inserisce):
1)al "premio di desistenza" attingono le forze che desistono in tutti i collegi (tranne per esempio in 4 - 5 di essi) e che abbiano superato uno sbarramento in voti (per esempio l'attuale 4%);
2) ad un analogo "premio di desistenza" possono attingere anche le forze politiche che abbiano partecipato al secondo turno purchè, in tal caso, abbiano superato anch'essi uno "sbarramento" che potrebbe essere rappresentato da una certa quota in seggi (per esempio 10) vinti al secondo turno.
Lo scopo di questa seconda modalità di accesso al premio di desistenza sarebbe quello di evitare, tra l'altro, la partecipazione al secondo turno a scopo puramente "emulativo", vale a dire minacciando la partecipazione per ottenere dalle forze politiche maggiori una migliore posizione contrattuale fin dal primo turno (come avviene oggi).
I seggi in questo secondo caso verrebbero assegnati a ciascuna forza politica in misura inversamente proporzionale alla partecipazione al secondo turno (quindi in modo commisurato alle desistenze). In breve: più un soggetto desiste più partecipa al recupero proporzionale.
La cifra nazionale si otterrebbe sommando i voti ottenuti dai candidati al primo turno (tranne quelli dei vincenti direttamente al primo turno); il quoziente si ricaverebbe dividendo il numero dei collegi in cui si è desistito e il numero complessivo dei collegi (eccetto quelli vinti al primo turno).
Moltiplicando la cifra nazionale per il quoziente ottenuto si otterrebbe il numero dei voti con cui si partecipa al riparto proporzionale.

Sono dettagli importanti ma che spettano - io credo - più che alla "Bicamerale" al legislatore ordinario (e su cui io stesso intendo riflettere con più attenzione).

Quale forma di Governo


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In relazione ai processi politici aperti come portare avanti il disegno maggioritario anche per quanto riguarda la forma di Governo?

Continuo a ritenere preferibile la strada della elezione diretta del Primo Ministro nella sua versione classica del "governo di legislatura" (non escludendo, come dirò, la variante utilizzata per la elezione diretta dei Sindaci).

L'elezione diretta del Premier non viene inventata dagli israeliani (che peraltro l'hanno attuata a metà avendo mantenuto l'elezione ultra proporzionale della Knesset).
Essa nasce all'interno del c.d. revisionismo della sinistra francese, in alternativa alle fradice istituzioni assembleariste della IV Repubblica e come antidoto rispetto all'incombente presidenzialismo gollista.
Il punto di partenza dei costituzionalisti del Club Jean Moulin, e fra essi in primo luogo di Maurice Duverger, è fornito dal seguente assunto: Il miglior sistema di governo, il più stabile e il più efficace, è il modello Westminster, in cui il Premier, leader della maggioranza, ha poteri ancora più incisivi di quanti non ne abbia il Presidente degli USA. Ma tale sistema si regge su consolidate tradizioni bipartitiche. Poichè, dicevano quei costituzionalisti, e dicono da tempo altri in Italia, non è possibile "importare i partiti inglesi", occorre costruire un sistema elettorale (l'uninominale a doppio turno) e un sistema di governo (la elezione diretta del Premier, leader di una coalizione) che consentano di ottenere lo stesso effetto.

Che poi questa ricetta sia indovinata è materia opinabile (ma in Israele, sia detto fra parentesi, sta dando buona prova: basti pensare alla vicenda di Hebron che sarebbe stata di assai difficile soluzione senza la legittimazione diretta dell'attuale Premier e avrebbe provocato comunque una crisi di governo). E conosciamo le opinioni in proposito di Sartori, il quale batte in particolare sull'assenza di un modello sperimentato di legittimazione diretta del Premier.
D'altro canto se De Gaulle non avesse "inventato" quella forma di governo come avrebbe potuto il prof. Sartori proporlo agli italiani come sistema già collaudato?

A) Versione classica del "governo di legislatura" mediante elezione diretta del Premier

Richiamo per punti come si potrebbe attuare tale modello nella forma classica (quali emergono, fra loro assembleate, dalle citate proposte del Club Jean Moulin, di Serio Galeotti, dell'ultimo Mortati e del sottoscritto):
1) presentazione delle candidature a Premier da parte di raggruppamenti politici che abbiano presentato candidature in almeno 2/3 dei collegi uninominali;
2) elezione contestuale, lo stesso giorno, del Parlamento e del Primo Ministro con schede separate (o voto separato);


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3) ricorso a nuove elezioni in caso di sfiducia del Parlamento al Primo Ministro o dimissioni dello stesso (politicamente motivate e che non diano luogo al subentrodel Vice Premier);
4) nuove elezioni gestite da un "governo di garanzia";
5) possibile destituzione del Primo Ministro con la maggioranza dei 2/3 in caso di "impeachment" o di altre gravi cause senza fare luogo allo scioglimento del Parlamento (così è previsto già nell'ordinamento di Israele);
6) elezione del Premier per non più di due mandati di quattro-cinque anni ciascuno;
7) un forte "Statuto dell'opposizione" che recuperi l'indebolimento della separazione fra Parlamento e Governo con le garanzie offerte da una più favorevole distribuzione di poteri fra maggioranza e opposizione;
8) un Capo dello Stato eletto dalle assemblee parlamentari e regionali con accentuate funzioni di garanzia (e potrebbe in questo suo delicato compito essere assistito da un organismo analogo al "Consiglio di Stato" che affianca, in base all'art. 145 di quella Costituzione, il Capo dello Stato portoghese);
9) ovviamente una sola Camera politica, sia per la titolarità dei poteri più rilevanti di indirizzo politico sia per il ruolo decisivo assunto nel processo legislativo ( ad essa spetta l'ultima parola);
10) mezzi parlamentari atti ad assicurare l'attuazione del programma di governo.
Il sistema si basa sulla fiducia che la elezione contestuale dovrebbe provocare una coincidenza di maggioranze, quella che elegge il Premier e quella che si forma in Parlamento.
Ma se ciò non dovesse avvenire possono soccorrere gli strumenti che consentono la vita dei governi di minoranza (previsti in Francia ma anche diffusi nel Nord Europa) e se ciò non dovesse bastare subentrerebbe il ricorso a nuove elezioni provocate o dal Premier o dal Parlamento stesso (secondo il principio: "aut simul stabunt aut simul cadent").

B) La versione italiana dell'elezione diretta del Sindaco (come renderla traducibile a livello nazionale)

Alcuni di noi hanno tentato di tradurre quell'ispirazione della sinistra francese all'orchè, sotto la spinta referendaria, hanno costruito la formula della elezione diretta dei Sindaci, i cui effetti positivi per le nostre città sono indubbi.
Ma è possibile tradurre tale formula a livello nazionale?
A me pare di si purè sia operata una correzione.
Segnalo intanto la correzione necessaria: l'elezione dei sindaci galleggia su un sistema proporzionale (liste più voto di preferenza) che tradotto a livello nazionale potrebbe indurre gli effetti negativi che ho indicato a proposito della legge elettorale regionale (e che produce effetti negativi ovviamente anche nella variante del sistema per l'elezione dei Presidenti delle Province).
E nei Comuni, infatti, lo vediamo anche in questa tornata di elezioni amministrative 1997, si sono moltiplicate le liste di partito.


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Bisognerebbe allora mantenere un sistema elettorale analogo a quello oggi previsto per la Camera dei deputati imperniato sui collegi uninominali maggioritari e usare la quota proporzionale come giacimento al quale attingere sia per assicurare un premio di maggioranza alla coalizione vincente sia per assicurare un "diritto di tribuna" alle forze non coalizzate (avevo avanzato alla fine della passata legislatura una proposta che utilizzava detto meccanismo). In tal caso avremmo più che un premio che si aggiunge al voto uninominale uno spazio recuperato per il voto maggioritario all'interno stesso della quota proporzionale.
La quota proporzionale, che potrebbe essere mantenuta al 25% avrebbe una parte incomprimibile per il diritto di tribuna (per esempio il 10/15%) e un'altra parte mobile da utilizzare o per il premio di governabilità o, se non necessario, da assegnare per incrementare la quota destinata al diritto di tribuna.

Il sistema funzionerebbe così:

1) ciascun candidato nel collegio uninominale avrebbe la facoltà di collegarsi a un candidato - Premier (associando il nome di quest'ultimo accanto al simbolo nella scheda);
2) l'elettore votando il candidato vincolerebbe, con un unico voto, il candidato stesso a sostenere il candidato Premier cui è collegato;
3)verrebbe considerata conclusa la competizione qualora una coalizione dovesse raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi;
4) nel caso in cui questo risultato non si dovesse realizzare si passerebbe a un secondo turno (appunto come nel sistema per l'elezione diretta dei Sindaci) al quale sarebbero ammessi in ballottaggio i due candidati Premier che hanno ottenuto il migliore risultato in seggi (in ogni caso non inferiore a una certa soglia: per es. il 40%) assegnando al vincitore (per i voti conseguiti nel ballottaggio) i seggi necessari per conseguire la maggioranza in Parlamento;
5) il Premier sarebbe insediato senza voto di fiducia iniziale (come in Francia e Gran Bretagna del resto) e potrebbe essere rimosso solo con voto di sfiducia costruttivo approvato dalla maggioranza degli aventi diritto al voto;
6) sarebbe riconosciuto al Premier il poter di provocare nuove elezioni (come avviene per esempio in base all'art. 5, capo VI della Costituzione svedese), fino ad arrivare (è quanto suggerito anche da Enzo Cheli nella audizione alla "Bicamerale") al possibile ricorso a nuove elezioni anche nel caso di "sfiducia costruttiva";
7) il Premier che si dimetta sfuggendo sia al voto di sfiducia che al ricorso a nuove elezioni (è quanto facevano molti Presidenti del Consiglio provocando crisi extraparlamentari al fine di "ricontrattare" nuovi equilibri di governo) sarebbe ineleggibile per un determinato numero di anni a qualunque carica di rilievo costituzionale (così per il Presidente della Repubblica nella Costituzione portoghese).


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Se poi si volesse rendere il sistema ancora più vicino al sistema per l'elezione dei Sindaci i punti 5) e 6) andrebbero modificati prevedendo che alle dimissioni del Premier consegue sempre il ricorso a nuove elezioni.

Un possibile compromesso?

Il vantaggio della formula appena illustrata sarebbe quello di porsi in posizione - per così dire - intermedia fra quella dell'elezione diretta del Premier (che ho illustrato per prima) e quella della mera designazione: il Premier sarebbe indicato nel primo turno ed eletto nell'eventuale secondo turno.
Al primo turno competono le coalizioni cercando ciascuna di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Se questo non accade esse lascerebbero spazio alla competizione fra i candidati delle prime due coalizioni.
Al primo turno si richiederebbe la maggioranza assoluta in seggi; al secondo turno vincerebbe il candidato-Premier che ottiene più voti.
Potrebbe rappresentare - a me pare - un possibile compromesso fra quanti hanno presentato progetti che prevedono l'elezione separata del Premier e quanti hanno invece presentato progetti che prevedono con un unico voto l'elezione del deputato e la designazione del Premier.

Se si dovesse seguire la tesi della mera designazione del Premier legittimo sarebbe il dubbio circa la effettiva capacità di guida del Premier rispetto alla coalizione.
Se il Premier viene legittimato fin dal primo turno nessun problema al riguardo dovendosi presupporre che egli stia alla guida di una coalizione robusta. Qualora, invece, questo risultato non sia stato conseguito, il secondo turno di ballottaggio rafforzerebbe il Premier consentendogli di acquisire una forte legittimazione diretta.
Lo stesso potere di scioglimento che gli si potrebbe riconoscere perderebbe ogni valore deterrente potendo essere minacciato poco credibilmente da un Premier che non abbia avuto una (in qualche modo) autonoma legittimazione (diversa sarebbe la conclusione nel caso in cui il sistema politico si dovesse evolvere nel senso della tendenziale coincidenza fra "premiership" e "leadership" di partito).

Io stesso mi pongo un interrogativo: un secondo turno basato sul ballottaggio fra i due candidati Premier richiede la costruzione di uno specifico premio di maggioranza. Ma esso non blinderebbe talmente il Premier da fare correre il rischio di indebolire eccessivamente il Parlamento minandone l'autonomia? Si può correre il rischio di avere in Parlamento deputati eletti direttamente dall'elettore ed altri "trascinati" in dote dal Premier che vince, da solo, la competizione al secondo turno?


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Per il Consiglio comunale non ho avuto eccessivi dubbi ma una cosa è eleggere un Sindaco di una città e costruirgli attorno una maggioranza e altra cosa è eleggere un Premier e un Parlamento, cui spetta il potere legislativo.

In realtà, qualunque sistema che non rende autonoma la "elezione del Governo" e la elezione del Parlamento obbliga a non indifferenti interventi di "manipolazione" che alterano il profilo sia dei sistemi proporzionali che dei sistemi maggioritari. Allora questo è l'interrogativo che pongo (interrogtivo sincero e non retorico: è meglio manipolare la rappresentanza (operazione in un certo limite sempre necessaria anche nei sistemi proporzionali) o rendere del tutto autonoma la elezione diretta del vertice dell'esecutivo?

Elezione diretta del Premier o del Capo dello Stato?

Continuo dunque a ritenere preferibile la formula del "Governo del Premier con elezione diretta del Premier stesso" (almeno al secondo turno) e non mi convince l'affermazione di Sartori (Corriere della Sera del 24 marzo) che così "si creerebbe un generale inamovibile" perchè questo non è vero per il Premier eletto (se mai si può dire "non agevolmente rimovibile") ed è vero invece per il Presidente della Repubblica in un sistema semipresidenziale.

Fatte queste precisazioni non voglio chiudermi alla proposta Sartori, che presenta altri non trascurabili vantaggi (ho peraltro contribuito al documento di "Liberal" che accetta coma seconda opzione il sistema francese).
In realtà le due formule - elezione diretta del Premier e sistema francese - presentano ciascuna vantaggi e svantaggi.

a) Vantaggi dell'elezione diretta del Premier

Primo vantaggio.
L'elezione diretta del Premier è più in armonia con i poteri del Parlamento.
Per tre motivi.
Il primo attiene alla responsabilità politica. Il capo dello Stato in Francia esercita poteri di governo (in politica estera, nella politica della difesa, presiede il Consiglio dei Ministri) ma, come tutti i Capi di stato, non è sindacabile nè rimovibile dal Parlamento (tranne l'"alto tradimento"). La responsabilità per i suoi atti di governo è assunta da Ministri chiamati a rispondere per poteri che sfuggono, come nelle monarchie costituzionali, ai Ministri stessi.
Ben diversa la posizione di un qualsiasi Premier, comunque legittimato, investito dal Parlamento o "eletto" dai cittadini: esso risponde al Parlamento sottoponendosi ai suoi poteri di controllo e di sindacato fino alla possibile rimozione da parte del Parlamento stesso (sia pure per il Presidente eletto con il conseguente ricorso a nuove elezioni).
I poteri presidenziali traggono legittimazione dalla Nazione secondo la Costituzione francese. E solo alla Nazione il Capo dello Stato deve rispondere. Per definizione invece il Premier, anche se eletto direttamente,


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risponde non direttamente alla Nazione ma ai rappresentanti della Nazione riuniti in Parlamento.
Il secondo motivo attiene all'influenza del Parlamento sui poteri di governo. Nella tradizione europea, mantenuta nella Francia, il Capo dello Stato è sottratto agli indirizzi parlamentari; sempre nella medesima tradizione, invece, il Premier è vincolato agli indirizzi e alle risoluzioni del Parlamento. E tale tradizione viene mantenuta ovviamente anche nei progetti di elezione diretta del Premier. Un Capo dello Stato rivolge messaggi al Parlamento e alla Nazione dall'alto della Sede presidenziale ("e che non danno luogo a dibattito" secondo l'art. 18 della Costituzione francese); un Capo del governo, invece, subisce dentro l'arena del Parlamento l'impeto della opposizione e sollecita, anche con la sua presenta fisica nelle aule parlamentari, la disciplina della maggioranza in Parlamento.

In Francia come in molti regimi semi presidenziali (ma non in quelli presidenziali) - ecco il secondo punto - il Capo dello Stato non solo non è messo in discussione dal Parlamento ma egli può sciogliere il Parlamento senza il cosenso del governo (senza controfirma; ed è bene che sia così) e senza sottoporsi anch'esso al giudizio del Corpo elettorale mentre invece se il Premier provoca lo scioglimento si sottopone a un giudizio popolare rimettendo in gioco la propria elezione.

E' vero con la cohabitation in Parlamento riacquista peso. Anzi - si afferma - essa sarebbe un vantaggio e manterrebbe il sistema più in linea con la "tradizione parlamentare italiana". Ma la "cohabitation" è sempre stata vista in Francia come una patologia del sistema; si è realizzata per soli quattro anni su circa 40 anni di vita della V Repubblica, sempre alla fine del mandato presidenziale e, per fornuta della Francia, in periodi non turbolenti (ma al vertice di Tokio del 1987 la Francia si presentò con due politiche estere: quella di Mitterrand e quella dell'allora Premier Chirac) nel 1986 - 1988 (Mitterrand-Chirac) e nel 1993-1995 (Mitterrand-Balladur).
Se in Francia, dopo anni di regime maggioritario, la cohabitation non ha allentato la tensione bipolare (la ha anzi resa più "douce") in Italia potrebbe favorire il ritorno a forme di consociazione (stavolta anche al vertice), alterando il principio di responsabilità.

Secondo vantaggio
L'elezione del Premier risponde meglio alla domanda dei cittadini di eleggere il Governo.
Con il sistema semipresidenziale non si "elegge un governo". Anzi, come dimostrano i 26 governi in 38 anni non si assicura stabilità ai governi (talvolta resi instabili dagli stessi Presidenti, anche per evitare, a volte, pericolosi rivali nella competizione presidenziale). Questo è il mio maggiore motivo di diffidenza nei confronti del sistema semipresidenziale. Invece di eleggere chi governa si elegge chi, assieme ai partiti, può influire sulla formazione di governi. E' un sistema che bipolarizza al vertice ma non costruisce direttamente alternative di governo.


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Fu un sistema costruito a immagine e somiglianza del Generale De Gaulle, che si rifiutò di accettare l'idea che il Capo dello Stato potesse essere eletto sulla base di un programma di governo (e ancor meno insieme al Parlamento, dove si esprimono le "parti"). Mi darà atto Sartori che la presidenza De Gaulle non è una parentesi accidentale del sistema della V Repubblica.
E' vero quel sistema ci ha dato anche François Mitterrand. Ma attenzione: distinguiamo. Il primo Mitterrand, eletto nel 1981, non è l'uomo del "plebiscito". Egli viene scelto dagli elettori in quanto leader di una precisa alleanza di governo, dell'Union de la Gauche, fra socialisti e comunisti: una sorta di Premier britannico eletto qualche settimana prima del Parlamento che avrebbe poi confermato la vittoria della sinistra. Nel 1988 invece, all'epoca della rielezione, scompare ogni significativo riferimento al programma di governo; Mitterrand si presenta come l'uomo della "France unie" a cui dare, plebiscitariamente appunto, un mandato in bianco da riempire poi dopo il voto con una operazione di "ouverture" verso le forze politiche che asseconderanno l'azione del Presidente per la "solidarieté nationale" e la "cohesion sociale" (e per favorire questa operazione egli tentò, come è noto, la strada del ritorno alla proporzionale per l'elezione del Parlamento).

b) Vantaggi del sistema francese

Primo vantaggio
Il pregio della proposta Sartori è quello di fornire un secondo motore a un governo che resta parlamentare nei suoi tratti essenziali (pur ccon i limiti e le restrizioni che prima indicavo). Considero legittimo il dubbio se è meglio avere un solo vertice dell'esecutivo, responsabile anche in PParlamento, come nella legittimazione diretta del Premier, ovvero preferire un sistema più flessibile che consente al Presidente di frapporre fra sé e il Parlamento un Presidente del Consiglio più facilmente rimovibile dal Parlamento stesso.

Secondo vantaggio
Se l'elezione diretta del Premier è più in linea con la salvaguardia dei poteri del Parlamento non è invece in linea con la tradizione dei partiti italiani insofferenti a incisive discipline maggioritarie. E di questo posso prendere realisticamente atto.
La elezione diretta del Premier presuppone la volontà di perseguire un obbiettivo fortemente bipolarizzante e, al limite, tendenzialmente bipartitico. Se questo obbiettivo non si vuole perseguire non c'è dubbio che il sistema semipresidenziale offre maggiore spazi di flessibitlità per due vie parallele:
da un lato attraverso una caratterizzazione bicefala dell'esecutivo (due vertici dell'esecutivo possono rendere più praticabile la formazione delle alleanze);
dall'altro attraverso la possibilità di espandere o contrarre rispettivamente i poteri del Parlamento (e quindi del Premier) o del Capo dello Stato in relazione al mutare degli equilibri politici.


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E d'altro canto, contrariamente alle apparenze, il semipresidenzialismo è più in linea con le tradizioni "dualistiche" che hanno caratterizzato (come bene ha sottolineato Carlo Fusaro) prima il regime Albertino (la politica estera e quella della difesa erano condivise con il Re) poi, in parte, la stessa tradizione repubblicana: basta pensare al ruolo di "doppio motore" svolto dai Presidenti della Repubblica in fasi delicate di transizione politica (da Pertini a Scalfaro), non comparabile con il ruolo svolto dai Capi di Stato di altri regimi parlamentari.

Suggerimenti per chi vuole seguire il sistema francese

Qualora si volesse seguire il modello francese sono da apportare - a mio avviso - alcuni correttivi e precisare alcune condizioni per evitare il pericolo che il sistema costituzionale della V Repubblica e il suo Presidente vengano progressivamente "spennati" trasformando quest'ultimo nel Presidente della vicina Austria; per evitare che partiti per Parigi ci si diriga invece a Vienna (dove il sistema in questo dopoguerra ha funzionato secondo moduli parlamentari - nonostante sia previsto tra i poteri presidenziali persino il poter di revoca dei governi - perchè il Capo dello Stato veniva per lo più eletto quale garante della consociazione fra democristiani e socialisti).
Bisogna allontanare l'idea che si possa eleggere direttamente un Capo dello Stato che mantenga funzioni prevalenti di garanzia: un Presidente della Repubblica che aspiri ad essere eletto direttamente non si limiterà ad una campagna elettorale sul modo migliore di fare il Notaio. Se eletto pretenderà di concorrere a governare; sopratutto se si trova di fronte un Parlamento privo di una solida maggioranza, come a Weimar negli anni trenta.
In tal caso i pericoli plebiscitari non si allontanerebbero ma anzi si aggraverebbero portando a una possibile contrapposizione fra Capo dello Stato e Parlamento.

Se si uole il sistema francese pochi e ben mirati i correttivi da apportare:
a) la sottrazione al Capo dello Stato del poter di indire referendum che ne accentua i caratteri plebiscitari;
b) la sottrazione della facoltà di assumere poteri di emergenza;
c) la facoltà di presiedere il Consiglio dei Ministri (potrebbe farlo solo su invito del Premier, come in Portogallo);
d) sottrarre al Governo i poteri di ghigliottina previsti dall'art. 49 della Cost. francese (sostituendoli con altri mezzi atti tuttavia a consentire la sopravvivenza di governi di minoranza).
Su quest'ultimo punto bisogna tuttavia meditare tenuto conto che il govero Rocard, nel periodo 88-93, tipico governo di minoranza è potuto sopravvivere grazie a tale strumento.

Ma queste - a me pare - le condizioni da rispettare in modo fermo:


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1) che il sistema elettorale per la elezione del Parlamento si mantenga selettivo e tale da incentivare le coalizioni fin dal primo turno (quindi uninominale maggioritario a doppio turno con congrua clausola di sbarramento e limitato "droit de Tribune" come sopra si diceva);
2) che le candidature per la elezione del Capo dello Stato siano affidate direttamente o indirettamente a forze politiche che aspirano ad essere rappresentate in Parlamento (buone le categorie individuate in Francia: 500 fra parlamentari, consiglieri regionali o dei Consigli generali purchè eletti in non meno di trenta dipartimenti);
3) che sia mantenuto un doppio turno con un ballottaggio limitato ai primi due candidati a Presidente della Repubblica (onde evitare i fenomeni Weimar: derivanti dalla presenza di più candidati al secondo truno; o cileno: derivanti dal turno unico);
4) che il Capo dello Stato abbia il pieno poter di nomina del Primo Ministro e che esso entri in carica senza il voto di fiducia iniziale (così permettendo, come nel 1988 in Francia governi di minoranza se il sistema è frammentato e le opposizioni non riescono a coalizzarsi tutte) e possa ricevere la sfiducia solo con il voto della maggioranza assoluta (ovviamente non ha senso in questo quadro nè la sfiducia costruttiva nè forme di indicazione del Premier da parte degli elettori prospettate in alcune posizioni eclettiche emerse nel dibattito presso la "Bicamerale");
5) che - questo è un punto assai rilevante - il Capo dello Stato possa sciogliere le Camere senza controfirma del Primo Ministro (e senza peraltro formalizzare - sarebbe pericoloso prestandosi a giochi trasfromisti del Primo Ministro - la pur corretta prassi francese del "primato del mandato più recente").
E' infatti il Capo dello Stato eletto direttamente che deve rispondere agli elettori della corrispondenza fra gli orientamenti dell'elettorato e la formazione dei governi: se questo lo deve portare ad inchinarsi davanti a governi di coabitazione, espressi da un chiaro voto dell'elettorato, deve essere sempre in grado di chiedere un pronunciamento elettorale negli altri casi (salvo, come in Francia, il divieto di scioglimento nel primo anno di vita del Parlamento).

Se non si mantiene quest'ultimo potere del Capo dello Stato ci ritroveremmo a Sofia. La vicenda recentissima della Bulgaria merita qualche riga perchè evidenzia come anche le c.d. tecnicalità possono avere un rilievo decisivo. La Costituzione bulgara nell'adottare un sistema semipresidenziale ha preteso di correggere il sistema francese togliendo al Capo dello Stato, eletto direttamente dai cittadini, la possibilità di sciogliere il Parlamento senza controfirma ministeriale. Il Presidente Stajanov, neo eletto da una maggioranza di centrodestra nell'inverno scorso, è costretto a convivere con un governo espresso dal vecchio Parlamento in cui è ancora forte una maggioranza di sinistra. Non è stato consentito al Presidente bulgaro quello che fu consentito a Mitterrand per ben due volte (nel 1981 e nel 1988): sciogliere il Parlamento per adeguare il Parlamento stesso, con nuove elezioni politiche, ai mutati orientamenti dell'elettoralo. I


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cittadini della Bulgaria, come è noto, sono stati costretti a scendere in piazza per sostenere il Presidente eletto dal popolo contro il Parlamento ritenuto ormai delegittimato, aprendo una grave crisi istituzionale.

Suggerimenti sia per la soluzione del Premier che per quella francese

Quale che sia la soluzione cui si perverrà - elezione del Premier o sistema semipresidenziale - il mio auspicio è che la "Bicamerale" trovi il coraggio di introdurre nel nostro ordinamento norme da tempo in vigore in altri ordinamenti:
1) incidenza del Governo dell'ordine del giorno del Parlamento e tempi certi per l'approvazione delle leggi;
2) il voto bloccato su taluni provvedimenti legislativi;
3) la possibilità per il Governo di porre questioni di fiducia ritenendosi il testo approvato e la fiducia accordata se i voti contrari non sono pari alla maggioranza assoluta della assemblea;
4) il consenso del Governo per nuove spese o diminuzioni di entrata (l'art. 113 della Costituzione tedesca se non proprio l'art. 40 della Costituzione francese inutilmente drastico);
5) strumenti di drastica delegificazione senza necessariamente pervenire alla "riserva di regolamento" prevista nella Costituzione d'oltrAlpe.

Ho usato l'espressione "coraggio" perchè fu proprio la manzanza del coraggio necessario nell'introdurre il voto palese (peraltro per le sole deliberazioni di spesa!) che contribuì al fallimento della Commissione Bozzi (o, il che non cambia molto, costituì un alibi per il suo affossamento).

Ma allora la democrazia era bloccata e, per di più, non avevamo piena coscienza del baratro finanziario in cui stava precipitando l'Italia.
Se la "Bicamerale" partisse con qualche anticipazione in questa direzione potrebbe mandare un segnale positivo all'Europa e al Paese.