DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE - S1699


ONOREVOLI SENATORI. - Una convinzione di fondo ispira il presente disegno di legge: il problema essenziale che si pone oggi al nostro Paese non consiste in un qualche adattamento marginale degli assetti istituzionali e politici. Il tema consiste invece nella necessità di affrontare e risolvere la crisi istituzionale profonda nella quale é immerso il nostro Paese da alcuni anni e che contribuisce alla complessiva perdita di competitività del "sistema-Italia" nel consesso delle democrazie stabilizzate contemporanee.

1. Premessa

Il conflitto fra i poteri, il crollo del sistema dei partiti che dal 1948 ai primi anni '90 aveva costituito l'intelaiatura reale della forma di governo italiano, l'alta instabilità di governo, la crisi di fiducia verso le istituzioni democratiche maturata in vasti strati di popolazione, la crisi di efficienza della pubblica amministrazione italiana accentuata dalla crisi di direzione politica e dal confronto con gli standard degli altri Paesi europei: questi ed altri fattori hanno prodotto la necessità di un complessivo intervento di riassetto istituzionale. Ma, soprattutto, é entrata in una crisi profonda e irreversibile una certa concezione del principio dell'unità dello Stato. Questo principio é stato forse concepito, ma certamente praticato come supremo, ma soprattutto, costrittivo e antagonista dell'altro principio costituzionale dell'autonomia locale. Conseguenza di questa errata concezione dell'unità, opposta e limitante l'autonomia territoriale, é stata la caratterizzazione dell'unità-Stato come gerarchia verticalmente organizzata della sovranità, della politica e dell'amministrazione. Ora, l'unità di questa tradizione ha perso il suo significato fondante ed originario; essa é ormai vuota di fini. Questo determina la profondità della crisi istituzionale e, conseguentemente, la necessità di una altrettanto profonda riforma, giacché l'identità di uno Stato non deriva tanto dal suo esserci, quanto dal perché, dai motivi essenziali della sua particolare conformazione.
I fenomeni di mondializzazione, da un lato, che tendono a rimuovere dalle radici i fondamenti della legittimazione degli Stati nazionali, poiché sottraggono ad essi, su materie cruciali quali le politiche finanziarie e di sviluppo, le stesse basi della sovranità; il processo di unificazione europea, dall'altro lato, che appare essere l'unica chance mediante cui i vecchi Stati europei possono pensare di continuare a giocare un ruolo primario nella scena mondiale, e di fronte al quale l'Italia tuttavia rischia di trovarsi a svolgere un ruolo marginale, sia per il carico del debito pubblico che per l'inefficienza del suo assetto istituzionale: in entrambi questi processi la dimensione regionale degli interessi e, dunque, l'organizzazione istituzionale degli stessi possono svolgere un ruolo determinante e, verosimilmente, crescente nei prossimi anni.
Di fronte alle sfide epocali appena richiamate, la mondializzazione e l'unificazione europea, l'Italia si presenta infatti, sul piano istituzionale, conformata nei seguenti termini: un Parlamento composto da circa 1000 parlamentari, suddiviso in due Camere con competenze paritarie e sovrapposte, oltre 20 ministeri centrali costruiti sul modello napoleonico, con pletoriche concentrazioni romane e diffuse articolazioni territoriali; a questo si aggiungono 20 Regioni, 103 Province, 8.100 Comuni, ciascuno con proprie rappresentanze elettive e propri livelli burocratici incomunicanti.
In sostanza in Italia abbiamo sommato i vizi dell'iper-centralismo e dell'iperdecentramento, senza essere capaci di usare né le virtú del centralismo né quelle del decentramento.
Infatti l'esito di tale situazione é che si fatica ad assumere decisioni efficaci al centro, poiché il centro é sovraccaricato di compiti decisionali che non é assolutamente in grado di esercitare. Cosí come si fa fatica a decidere anche in periferia, poiché anche la periferia é affollata di soggetti decisori, nessuno dei quali sa bene quale sia la parte che gli spetta, ma anche perché su di essa pesa una forte ipoteca centrale che comprime gli spazi di autonomia e di responsabilità reali.
Tale sistema istituzionale, ridondante e barocco, non funziona piú, mentre é da tempo avviata una profonda trasformazione del sistema politico, in cui assumono sempre maggiore rilievo economico e sociale le istanze aggregate nelle istituzioni decentrate.
Da qui l'esigenza di fondo di ripensare l'assetto della forma di Stato.
Solo in questo modo si puó rispondere, fuor di demagogia, alla forte domanda di maggiore efficienza e di semplificazione nel rapporto con la pubblica amministrazione che viene dai cittadini e dalle comunità locali.
Perció qui si propone una riforma in senso federale della Repubblica italiana.
La caratterizzazione gerarchica del principio di unità rispetto a quello di autonomia, ha spinto una parte del federalismo italiano sempre piú verso una deriva anti-unitaria che non sta nella natura storica e istituzionale di questa forma di organizzazione dello Stato. Non da oggi il federalismo come ideologia volta a superare il principio di autorità e statualità ha sempre minori contatti con il federalismo volto a promuovere un diverso assetto di poteri fra centro e periferia,
Il federalismo, oggi, é riferito sostanzialmente alla distribuzione della sovranità statale, per quanto non presenti un modello istituzionale uniforme. Infatti, noi pensiamo al federalismo non come ad un modello cristallizzato, bensí come ad un processo di articolazione, diffusione, divisione e condivisione del potere. I maggiori studiosi della materia ormai concordano sul fatto che i concreti assetti istituzionali dei sistemi cosiddetti a "regionalismo forte" e quelli che si rifanno al "federalismo" presentano sempre minori differenze. Al riguardo basti citare la voce "Stato federale" di G. De Vergottini nella Enciclopedia del diritto (vol. XLIII, Milano 1990): "Dal punto di vista scientifico una contrapposizione tra modello federale e modello regionale desta non poche perplessità e in sede dottrinale si é giunti a concludere [...] che la differenza fra i due modelli non e qualitativa bensí soltanto quantitativa". Infatti, la dottrina piú consolidata tende ad utilizzare sempre meno le tradizionali forme di Stato intese in senso statico, per utilizzare concetti che colgano l'aspetto dinamico dell'organizzazione istituzionale. Cosí si parla sempre piú di federalizing process (soprattutto nella dimensione europea per la direzione impressa dal Trattato di Maastricht), proprio ad indicare il processo relativo ad una nuova dislocazione della sovranità.
Il principio di sussidiarietà, vigente a scala delle istituzioni europee, presente (almeno teoricamente) nell'ordinamento italiano con la legge 30 dicembre 1989, n. 489, che ha recepito la Carta europea dell'autonomia locale e che la regione Toscana ha assunto come principio regolatore dei rapporti fra Regione ed enti locali nella legge regionale 19 luglio 1995, n. 77, di attuazione dell'articolo 3 della legge 8 giugno 1990, n. 142, innerva la proposta di riforma federale che avanziamo. Questo principio indica una direzione per l'organizzazione degli assetti istituzionali nel processo di dislocazione della sovranità fra centro e periferia del sistema. Dall'altro lato esso é funzionale alla ridefinizione delle finalità, del significato dell'unità dello Stato.
La riforma federale serve all'Italia per ritrovare il senso dell'unità perduta, la sua vera coesione nazionale, per ridare all'Italia un destino di nazione unitaria.
Solo una lettura distorta e miope delle effettive esigenze del Paese, dei suoi problemi attuali e delle sue prospettive future puó indurre a concepire il disegno di riforma federalista come l'anticamera di una rottura dell'unità nazionale. Al contrario, la scelta della riforma federale serve a restituire all'Italia la sua unità e coesione sostanziali, e a restituire agli italiani l'uniformità dei diritti fondamentali di cittadinanza.
Perció la presente proposta prevede una preclusione costituzionale assoluta al cosiddetto diritto di secessione. Essa propone di percorrere in modo coerente e compiuto la strada verso il federalismo cooperativo sulla base dei princípi e delle proposte normative di seguito enunciate. Il federalismo cooperativo coglie in modo piú efficace le esigenze specifiche del nostro Paese: la necessità di ridistribuire il potere, troppo concentrato, verso la periferia del sistema senza alimentare pericolose spinte centrifughe e secessionistiche; l'esigenza di condividere responsabilità di governo complessive da parte dell'intero sistema istituzionale, in luogo della parcellizzazione e dell'opacità delle responsabilità che ha caratterizzato la vita della Repubblica; l'urgenza di ricreare fiducia e senso di unità nei cittadini verso istituzioni pubbliche piú efficienti e democratiche.

2. I princípi della proposta

La scelta di fondo che orienta la presente proposta si ispira ai princípi del federalismo cooperativo, come si sono venuti affermando, in Europa, in particolare nell'esperienza tedesca.
Non solo in Europa ma in tutti i sistemi federali moderni si registra un superamento del cosiddetto federalismo duale, proteso a tracciare rigide separazioni di competenze tra Federazione e Stati-membri. Questa esigenza era dettata dalla necessità di superare le diffidenze verso il potere centrale laddove la Federazione nasceva da entità originariamente separate, come nel caso degli Stati Uniti d'America. Tali nette distinzioni non sono peró piú possibili e nemmeno auspicabili in Paesi che amministrano complesse politiche per la protezione sociale e lo sviluppo economico.
La risposta istituzionale piú appropriata alle esigenze dello Stato sociale é stata ed é il "federalismo cooperativo" in quanto esso consente al tempo stesso di avvicinare i processi di elaborazione e gestione dei servizi ai cittadini, ma anche di rendere possibili strategie coordinate per promuovere uno sviluppo nazionale forte ed equilibrato.
La logica del federalismo cooperativo presuppone infatti da un lato un profondo e reale decentramento nella attuazione (con elevati gradi di libertà) delle politiche pubbliche, dall'altro istituzioni politiche nazionali snelle che conservino tuttavia poteri adeguati per orientare, non solo le classiche funzioni dello Stato minimo, ma anche i grandi indirizzi della politica economica e sociale. Naturalmente, per queste materie e per quanto attiene alla loro rielaborazione e attuazione al livello decentrato, le istituzioni nazionali devono poter avere degli interlocutori adeguati con cui concertare e coordinare le decisioni.
Il senso profondo del federalismo cooperativo é quello di consentire la partecipazione delle Regioni alla definizione dell'indirizzo politico centrale (ed é per questo che assume importanza strategica la riforma del bicameralismo perfetto e l'introduzione di un Senato rappresentativo delle Regioni).
Un secondo elemento essenziale che caratterizza la logica di fondo del federalismo cooperativo é che la rielaborazione in sede decentrata delle politiche economiche e sociali non puó che essere attribuita a sistemi regionali di autogoverno. Non é pensabile infatti che siano ancora le istituzioni politiche centrali a definire dettagliatamente per ogni Regione quali debbano essere le funzioni specifiche di ognuno dei livelli locali di governo. Questo presupporrebbe infatti che l'attuazione delle politiche pubbliche fosse ancora una volta, di fatto, predefinita e rigidamente codificata dal centro. Del resto, nei principali settori dell'intervento pubblico che potrebbero essere decentrati, tanto l'esigenza di economie di scala quanto la necessità di stabilire criteri di perequazione tra zone richiedono che essi siano coordinati da istituzioni decisionali di livello regionale.

3. La struttura della proposta

Dalla logica di fondo che orienta il progetto deriva in primo luogo la necessità del superamento dell'attuale sistema bicamerale, con l'introduzione di un Senato federale in luogo di quello attuale.
Esso rappresenta un contributo decisivo anche alla ridefinizione della "forma di governo", oltre che della "forma di Stato". Inoltre, la Camera di rappresentanza territoriale costituisce un fatto profondamente radicato nelle tradizioni costituzionali di tipo pluralistico (federali o regionali).
Essa dovrebbe svolgere una duplice e collegata funzione: quella di costituire un elemento decisivo di identificazione e di sblocco della riforma in senso autonomistico e di riforma organizzativa complessiva e quella di assicurare la coesione dello Stato e la vitalità dell'unità nazionale.
In tutte le esperienze federali, ma soprattutto in quelle che adottano un modello cooperativo, il compito di tracciare di volta in volta la linea esatta di ripartizione delle competenze é per ampi tratti affidato alla legge ordinaria (la legge cornice, la legge quadro, la legge organica, la legge di riforma economico-sociale, la legge di indirizzo o di programmazione, eccetera) la quale interviene sulla base dei princípi definiti dalla Costituzione.
Soltanto lo strumento dinamico della co-decisione puó assolvere al compito di salvaguardare gli ambiti di autonomia ed al tempo stesso non irrigidire l'attribuzione delle prerogative di ogni istituzione di governo per la pretesa di predeterminarle tutte in principio. Lo stesso appello al criterio della sussidiarietà acquista senso esclusivamente se le valutazioni di efficienza, cui esso rimanda, sono compiute con adeguati meccanismi di co-decisione.
Per questo risulta davvero cruciale la scelta della composizione e delle funzioni del Senato federale. É chiaro peraltro che solo se quest'ultimo avrà delle funzioni e una composizione chiaramente differenziate dalla Camera dei deputati si potrà effettivamente raggiungere il doppio scopo di snellire il processo legislativo nazionale e dotarlo di una sede efficace per la gestione cooperativa del "sistema federale".
Per raggiungere questo doppio obiettivo é necessario che il Senato non abbia titolarità ad intervenire in merito al rapporto fiduciario e al controllo politico del governo. Dovrebbe invece occuparsi delle decisioni che attengono ai rapporti Federazione-Regioni, siano esse assunte in sede legislativa (leggi cornice, leggi organiche, grandi riforme economico-sociali, eccetera), siano esse atti amministrativi generali (atti di indirizzo e coordinamento, programmi di settore, piani di intervento, scelte di redistribuzione finanziaria, livelli minimi dei servizi, eccetera) o rivolti ad una singola Regione (interventi speciali, atti di sostituzione).
Se si vogliono davvero perseguire i due obiettivi che si sono delineati (semplificare il processo legislativo e dotare le istituzioni nazionali di una sede "operativa" per il coordinamento delle relazioni intergovernative) é chiaro che alcune delle possibili opzioni relative alla composizione della seconda Camera devono essere assolutamente scartate.
Tanto che si optasse per una composizione elettiva diretta (come nel caso statunitense dopo l'approvazione dell'VIII emendamento), per una composizione mista (come nel caso spagnolo), oppure per l'elezione dei suoi membri da parte dei Consigli regionali (come in Austria) prevarrebbero inevitabilmente le affiliazioni di carattere politico-partitico rispetto alla rappresentanza delle esigenze del governo dei sistemi regionali. Cosí anche il Senato riprodurrebbe, come la Camera, una articolazione di tipo politico, a scapito della rappresentanza degli enti regionali.
Si pensi ad esempio al fatto che la riforma attuata negli Stati Uniti nel 1913 - che ha segnato il passaggio dall'iniziale elezione indiretta dei senatori, da parte delle assemblee elettive degli Stati-membri, all'elezione diretta - ha anche definitivamente rafforzato un ruolo politico generale del Senato, ed ha fatto anzi del senatore la figura eminente del sistema politico dello Stato-membro, il punto culminante della carriera politica locale. Ma si é persa cosí la funzione, origi nariamente assegnata al sistema indiretto di nomina, di "fornire ai governi statali il controllo su un organo del governo federale, tale da garantire l'autorità dei primi, costituendo nel contempo, un ottimo punto di incontro tra i due sistemi" (Il Federalista, LXII).
La soluzione che invece appare piú coerente con gli obiettivi che abbiamo identificato, quella logicamente preferibile, é che, seguendo anche in questo caso l'esempio tedesco, i membri del Senato siano nominati dagli esecutivi regionali.
Centrale, nella proposta qui presentata, é dunque l'idea di scindere l'attuale bicameralismo paritario e perfetto, fondato sulla elezione diretta di entrambe le Camere, in una rigorosa separazione tra una Camera politica, in cui si forma la fiducia al Governo, secondo i moduli che verranno scelti dal costituente per quanto riguarda la definizione della forma di governo nazionale, e in un Senato federale composto non per logica politica ma per rappresentanza istituzionale.
Per quanto riguarda la necessità di superare l'attuale assetto bicamerale perfetto, v'é da richiamare un solo argomento ulteriore. Quell'assetto fu scelto dai costituenti per le stesse ragioni per cui essi, prima di definire l'impianto costituzionale, avevano acquisito il parallelo accordo tra le forze politiche in ordine alla adozione del sistema elettorale proporzionale, sul quale in effetti si é costruita la Costituzione materiale della prima Repubblica, attraverso il governo dei partiti.
Cosí come il sistema elettorale proporzionale garantiva ogni forza, allo stesso modo nella struttura del Parlamento si proiettava il garantismo istituzionale. Due Camere con competenze paritarie e sovrapposte costituivano, con evidenza, la rappresentazione piú alta delle garanzie reciproche.
Posto che l'assetto bicamerale perfetto e paritario va superato, si tratta di vedere quale sia la formula piú efficiente per introdurre un bicameralismo specializzato, che affidi a una Camera le funzioni essenzialmente politiche di produzione della legislazione sulle materie ad essa riservate, oltre che essere depositaria della fiducia al Governo, e all'altra Camera (o Senato) funzioni specializzate di co-decisione su determinate materie.
A questo fine risultano in concreto disponibili solo due scelte: o attribuire alla seconda Camera (o Senato) funzioni politiche, oppure assegnare ad essa funzioni di rappresentanza istituzionale degli Enti federati, nella logica federale.
Nel primo caso bisognerebbe prevedere che il Senato federale si formi per elezione diretta. Nel secondo caso occorre stabilire che esso si formi per diretta rappresentanza istituzionale degli Enti federati.
La scelta dipende dal modello di Stato che si vuole realizzare.
Se si opta per uno Stato federale é evidente che si deve adottare un modello di tipo tedesco, facendo della seconda Camera un organo di rappresentanza istituzionale, sul genere Bundesrat .
Se si opta per uno Stato centralizzato, pur con forti decentramenti locali e regionali, si sceglierà per il Senato federale una formazione per elezione diretta.
Se si adottasse questa seconda scelta, e al tempo stesso si dichiarasse una opzione federale per il riassetto della forma di Stato, é evidente che rischieremmo di trovarci alla fine, quasi inevitabilmente, di fronte a una sorta di tri-cameralismo: da un lato una Camera politica, eletta direttamente, dall'altro lato una seconda Camera, eletta anch'essa direttamente, e infine un terzo organo, in cui vengono rappresentate le Regioni e gli enti locali una sorta di Cnel delle autonomie regionali e locali, cui affidare funzioni consultive e concertative.
É evidente che tale soluzione renderebbe ancora piú complesso l'assetto istituzionale. Quindi, o si opta per una riforma federale della Repubblica, a cui consegue di ristrutturare le due Camere in funzione, l'una, di rappresentanza politica e, l'altra, di rappresentanza istituzionale; oppure si opta per una qualche riedizione neocentralistica: e quindi si istituiscono due Camere, magari con competenze specializzate, entrambe elette direttamente, e poi si inventa una terza sede, a cui affidare funzioni consultive, effettivamente rappresentativa degli enti regionali (mancando cosí l'obiettivo di semplificare e razionalizzare l'intero sistema istituzionale e di produzione legislativa).
Qui si propone una riforma federale della Repubblica. Di conseguenza si ipotizza la istituzione di un Senato federale costituito in rappresentanza degli Enti federati, vale a dire costituito non per logica politica, ma per rappresentanza unitaria, con voto ponderato e indiviso, la quale non puó che essere espressa, per logica conseguenza, che dai governi regionali, secondo il modello tedesco.
La logica qui proposta é inoppugnabile sul piano concettuale e dirimente su quello pratico.
In alternativa alla rappresentanza istituzionale, e per voto indivisibile ponderato, attribuito ai governi regionali, é difficile opporre una soluzione mista: né quella, prevista in Spagna e che lí già é risultata disfunzionale, del mix tra composizione per emanazione dai governi regionali e per elezione diretta, né quella per composizione mista sulla base di elezione da parte dei Consigli regionali, né quella per composizione mista non meglio definita tra Regioni ed enti locali.
Infatti, se la seconda Camera deve avere una funzione co-decisionale cogente su alcune materie, e deve essere composta per rappresentanza istituzionale e non politica, occorre attribuire un voto ponderato e indiviso rispetto alla popolazione e non adottare il criterio di "una testa un voto". Non si possono sommare quindi diversi enti, Regioni, Comuni e Province, come se si trattasse di un organo consultivo, giacché la "missione" specifica di questa seconda Camera é quella di partecipare al processo legislativo. Alla esigenza di una rappresentanza degli enti locali nel Senato federale non si tratta di opporre un diniego basato esclusivamente sull'argomento per cui solo le istituzioni investite di una funzione legislativa (vale a dire le Regioni) possono essere rappresentate in un organo investito di funzioni legislative (come il Senato federale), che pure é argomento pregnante. Il problema riguarda invece proprio la tecnica mediante cui ripartire il potere decisionale. Se si vuole che nel Senato federale sia assicurata anche una rappresentanza dei Comuni e degli enti locali, e in particolare delle grandi città o Città metropolitane, occorre al tempo stesso stabilire in che modo votano i rappresentanti dei Comuni, delle Province o delle Città metropolitane. Al riguardo si possono ipotizzare due soluzioni alternative: o i rappresentanti degli enti locali vengono inclusi nelle delegazioni regionali, lasciando indiviso il voto regionale; oppure ad essi viene attribuita una quota di voto ponderato in rapporto alle popolazioni di riferimento, scorporando tale quota dal voto ponderato attribuito ai rappresentanti delle Regioni. Entrambe le soluzioni presentano molteplici contro-indicazioni sul piano tecnico quali la disomogeneità degli interessi rappresentati, la disparità che si creerebbe fra Comuni diversi per numero di abitanti ma non per funzioni, la perdita di specialità di alcuni Comuni quali enti esponenziali delle comunità rappresentate e organi di gestione ed erogatori di servizi. Perció é stato deciso di mantenere ferma, in sede di articolato, la soluzione ispirata al modello tedesco, pur lasciando aperta la possibilità di introdurre una diversa soluzione. Inoltre, altra cosa é, naturalmente, l'ipotesi che la riforma costituzionale introduca limitati casi di cosí dette città-stato, equiparabili alle Regioni nelle prerogative, anche in questo caso con ispirazione al modello tedesco, specie con riferimento a piú rilevanti concentrazioni urbane caratterizzate da peculiarità specifiche.
Dalle scelte in ordine alla struttura del Parlamento derivano evidenti conseguenze sul piano della distribuzione delle competenze tra centro (Federazione) e soggetti federati (Regioni).
Solo se si determina una struttura co-decisionale al centro, rispetto al quale i soggetti federati (Regioni) siano investiti di poteri co-decisionali e di funzioni di controllo dirimenti, é possibile ripartire razionalmente le competenze, prevedendo un'area di competenze esclusive del centro, un'area di competenze generalizzate dei soggetti federati, e un'area di competenze concorrenti e miste, co-decise dalla Camera e dal Senato federale, a partire dalla definizione delle discipline essenziali di principio e dei livelli minimi delle prestazioni sociali sulle materie assegnate alla competenza regionale.
Senza una riforma federale del Parlamento tutto diventa incerto e piú complesso: come ripartire, secondo il criterio di esclusività, le competenze, ben sapendo che su nessuna competenza, sulla carta esclusiva, delle Regioni, si puó prescindere da scelte di politica nazionale? Si pensi alla sanità, ai trasporti, alle opere pubbliche. Certo che su queste materie deve esservi una piena competenza regionale. Altrettanto certo é il fatto che sulle stesse materie deve esservi una politica nazionale: come comporre i due fattori? C'é una sola soluzione: avere al centro una seconda Camera direttamente rappresentativa dei governi regionali.
Si guardi inoltre il problema dal punto di vista della concreta fattibilità della riforma. É mai pensabile che, una volta fatta la riforma costituzionale in senso federale, tutto si svolga secondo identici tempi di attuazione per ogni realtà territoriale e regionale?
É evidente che la scelta federalista implicherà una progressività e una differenziazione dei suoi processi di attuazione. Perché ció accada senza dividere il Paese, perché si possa attuare e monitorare il graduale processo di trasformazione in senso federale dell'Italia, occorre non una qualche conferenza Stato-Regioni-Città, ovvero una sorta di Cnel delle Autonomie affiancato alle strutture parlamentari, ma la diretta sussunzione dei soggetti federati al centro della Federazione, cioé il Senato federale cosí come qui viene proposto.

4. Il Senato federale

Il progetto di riforma che si propone é basato su una riconferma di alcune fondamentali scelte a suo tempo compiute dall'Assemblea costituente: nella direzione, cioé, di uno Stato unitario organizzato in una forma di governo parlamentare, anche se sono evidenti le attuali situazioni di distonia del sistema parlamentare vigente, a cui é necessario ovviare.
La soluzione della trasformazione della seconda Camera in Senato federale rappresenta una soluzione intermedia tra il modello monocamerale e l'attuale bicameralismo paritario, e risponde alle esigenze di rappresentanza e di governo proprie di una democrazia pluralista.
La differenziazione delle due Camere attiene, oltre alla composizione, ai diversi compiti ad esse attribuiti. Alla Camera dei deputati, in quanto direttamente derivante dalla sovranità popolare, verrebbero infatti riservati il potere di indirizzo e controllo sul Governo e la funzione legislativa nella sua pienezza; quanto, invece, al Senato federale, pur non avendo esso il compito di votare la fiducia al Governo, né di farne valere la responsabilità politica, ne sarebbe indispensabile l'approvazione per i provvedimenti rientranti nel ciclo del bilancio, per le leggi costituzionali e di revisione costituzionale, nonché per tutte le leggi incidenti nelle materie di competenza od interesse regionale, che andrebbero a rientrare in una categoria di leggi ad approvazione bicamerale.
Ne risultano cosí ridisegnate le complessive modalità con le quali il procedimento legislativo si svolge.
Il progetto di legge, approvato dalla Camera dei deputati, é trasmesso al Senato federale che, se esso rientra nella categoria delle leggi ad approvazione bicamerale necessaria, lo esamina secondo le norme del proprio regolamento. Nel caso in cui la seconda Camera ritenga che un progetto di legge, approvato dalla Camera dei deputati e trasmessole per notizia, rientri comunque nella sfera delle materie di propria competenza, puó, entro dieci giorni, sottoporre la questione ad una Commissione mista paritetica.
L'utilizzo, in funzione di arbitraggio tra le due Camere, di una Commissione mista costituisce un'esperienza già esplorata e praticata, sia pure con specifiche peculiarietà, da altri ordinamenti. Ad una commissione mista puó ad esempio fare ricorso, se le due assemblee non trovano un accordo, il Primo Ministro francese, e commissioni analoghe - anche se diversamente composte e con poteri peculiari - sono utilizzate, per la soluzione dei conflitti tra le due Camere, negli Stati Uniti d'America (conference committees, joint committees) ed in Germania (Vermittlungsausschauss) .
In particolare, la Commissione paritetica di cui si propone l'istituzione, i cui componenti operano senza vincolo di mandato, potrà, esaminato il progetto di legge, decidere se su di esso sia o meno necessaria anche la deliberazione del Senato federale.
Il procedimento legislativo sarà pertanto concluso quando manchi una richiesta di riesame, o quando la commissione mista abbia deliberato negativamente in ordine alla competenza della seconda Camera, ovvero quando, nei casi previsti, il progetto di legge sia approvato da entrambe le Camere nell'identico testo.
Il Senato federale, inoltre, attraverso la partecipazione all'elezione del Capo dello Stato realizzerebbe la necessaria integrazione della rappresentanza in quella deliberazione. Nel Parlamento in seduta comune, naturalmente, trattandosi di organo specifico, i suoi membri appartenenti al Senato votano "per testa" al pari dei deputati.
Le ulteriori modifiche proposte discendono direttamente ed in logica conseguenza dal mutamento della struttura e delle funzioni della seconda Camera.

5. La definizione delle competenze legislative

Uno degli aspetti qualificanti della proposta sta nell'attenzione posta al riparto delle funzioni amministrative, oltre che al riparto delle funzioni legislative. Nell'ottica del federalismo cooperativo é inevitabile che le grandi decisioni vengano affidate agli organi nazionali (che per questo motivo devono essere composti anche da membri delle istituzioni regionali), mentre il contrappeso é dato da una forte regionalizzazione dell'esecuzione amministrativa.
Si propone pertanto un sistema di ripartizione delle funzioni basato sull'attribuzione in via esclusiva al livello centrale, tanto sul piano legislativo che esecutivo, di un ridotto novero di materie.
In un secondo novero di materie, anch'esso limitato, la Federazione avrebbe competenza piena ma non necessariamente esclusiva, con la facoltà di attribuire, mediante proprie disposizioni legislative, potestà normativa ed amministrativa, ovvero soltanto amministrativa, alle Regioni.
Anche sulle altre materie, di competenza regionale, la Federazione manterrebbe inoltre la potestà legislativa "organica": in questo caso la legge federale fisserebbe la disciplina essenziale di principio, le norme necessarie al coordinamento, la definizione dei livelli minimi delle prestazioni sociali o dei limiti generali allo sfruttamento delle risorse naturali e ambientali.

6. La riforma delle strutture amministrative

Per dare corpo alla attribuzione delle funzioni esecutive di cui si é già detto, il progetto propone una drastica riduzione delle amministrazioni centrali.
Fatte salve quelle che operano nell'ambito delle competenze esecutive federali cosí come delimitate nel progetto, tutte le strutture amministrative farebbero capo al sistema regionale.
É per questo motivo che la proposta prevede che il trasferimento delle funzioni sia effettuato indistintamente verso le Regioni a cui spetterà stabilire poi la divisione dei compiti tra gli enti locali. Ció comporterebbe, tra l'altro, come logico corollario, il superamento definitivo di molti uffici periferici del governo centrale e del ruolo del prefetto mentre invece verrebbe valorizzata, con funzioni di "cerniera" tra sistema regionale e residua amministrazione centrale e periferica ministeriale, la figura del commissario federale, la quale riprodurrebbe in forma rinnovata quella del commissario del Governo.
Inoltre, data l'importanza che verosimilmente acquisterà la partecipazione alle politiche comunitarie, e dato che in molti casi, come del resto già avviene, esse verranno attuate al livello regionale, si é ritenuto opportuno prevedere che, per le materie di competenza regionale, l'Italia debba essere rappresentata presso gli organi comunitari da soggetti designati dal Senato federale.

7. Regioni e enti locali. Le Regioni nella Federazione. Comuni e Province nelle Regioni

Un tema cruciale della riforma federale riguarda la questione dei rapporti tra Regione e enti locali. Fatte salve le ipotesi sopra formulate in materia di composizione e tecnica decisionale del Senato federale, lo schema della proposta puó risolversi nella seguente formula: le Regioni federate nella Federazione, i Comuni e le Province nella Regione. Ció significa da un lato garantire già in Costituzione l'autonomia degli enti locali, in ragione del principio di sussidiarietà, e dall'altro garantire gli enti locali nella stessa scala regionale, applicando anche a quel livello il principio federale.
A garanzia della autonomia degli enti locali sono perció previsti diversi dispositivi. Si prevede in particolare che il loro sistema elettorale sia definito a livello nazionale, che essi siano dotati di entrate proprie, che gli enti locali possano far ricorso alla Corte costituzionale in casi di violazione delle loro prerogative.
Inoltre anche al livello regionale si riproduce la logica cooperativa che preside alle relazioni tra Federazione e Regioni mediante la previsione di una seconda assemblea regionale rappresentativa degli enti locali (Consiglio regionale delle autonomie) cui vengono assegnati precisi poteri di co-determinazione delle politiche regionali sui temi rilevanti per gli stessi enti locali. In questo quadro si prevede altresí che siano le stesse leggi regionali ad introdurre eventuali differenziazioni di funzioni degli enti locali e a disciplinare l'istituzione di Comunità montane e di Città metropolitane.

8. La fase transitoria

Qualche considerazione deve essere fatta a proposito della fase transitoria che dovrebbe portare ad una cosí radicale trasformazione della macchina amministrativa dello Stato.
Essendo gli enti territoriali fortemente differenziati quanto a dimensioni, capacità finanziarie ed operative e contesto socio-economico, tanto in ambito inter che intraregionale, va affermato il principio che l'attribuzione dell'esercizio delle funzioni amministrative puó essere consensualmente differito per aree o enti determinati, disciplinando contestualmente (se necessario) le temporanee modalità di esercizio.
Piú in generale, e indipendentemente dai problemi del trasferimento, il principio della flessibilità relativo alle funzioni comporta che a fronte di situazioni impreviste o anche della semplice opportunità di spostare un determinato compito ad altro livello (tra enti locali e Regione o tra Regione e centro, o viceversa), gli enti interessati possano consensualmente stabilire il nuovo regime mediante forme di tipo negoziale, quali convenzioni o accordi di programma.
É possibile poi che la nuova conformazione dell'autonomia regionale ponga (specie in prospettiva) questioni di dimensione territoriale, e possa suggerire l'opportunità di rivedere i confini delle attuali Regioni. Tuttavia, da un lato una parte significativa di queste esigenze puó essere soddisfatta mediante l'utilizzazione delle clausole generali che consentono la collaborazione tra Regioni; dall'altro, non sono sempre certi i vantaggi che ne deriverebbero mentre appaiono sicure le tensioni e le situazioni delicate che si verrebbero a creare.

9. La riforma amministrativa e burocratica

Un punto inoltre deve essere sottolineato con forza. Se l'obiettivo di fondo della trasformazione in senso federale dello stato é quello di restituire ai cittadini servizi piú rispondenti alle loro domande, allora é chiaro che anche il piú ampio trasferimento di funzioni e strutture verso la periferia non sarebbe sufficiente. Da solo potrebbe semmai provocare ulteriori inefficienze e frustrazioni. Esso deve essere necessariamente accompagnato da una profondo rinnova mento della logica di funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Anche sulla scia delle note innovazioni legislative introdotte negli ultimi anni a questo proposito, é opportuno dare rilevanza costituzionale al principio della separazione tra ruoli politici e di amministrazione, ed ai princípi di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza della gestione che dovrebbero orientare il perfezionamento e l'attuazione di quelle riforme.

10. Finanza, fisco, bilancio

Naturalmente una trasformazione radicale dello Stato come quella che é stata delineata comporta che alle Regioni venga attribuita una responsabilità finanziaria simile a quella della Federazione.
Anche in questo caso é opportuno non regolare in Costituzione le forme d'imposizione statale e quelle regionali per evitare rigidità in ambito che deve necessariamente tenere conto dei parziali mutamenti che potranno intervenire nelle competenze della Federazione delle Regioni e degli enti locali e nella struttura dei redditi.
La Costituzione si limiterebbe ad attribuire ad una legge federale la responsabilità di individuare e regolare in maniera unitaria le forme di imposizione che corrispondono ai diversi livelli di governo (federale, regionale e comunale) in modo da evitare il pericolo di sovrapposizioni ed assicurare un miglior controllo del livello complessivo della pressione fiscale.
Il raggiungimento di una piena autonomia impositiva regionale renderà possibile una razionalizzazione delle forme di finanziamento regionale con l'abbandono delle attuali addizionali e delle sovraimposizioni che rendono difficile la trasparenza finanziaria.
Anche il sistema dei trasferimenti verrebbe ampiamente ridimensionato. L'attuale fondo comune non avrebbe piú ragion d'essere. Al suo posto sarebbe costituito il fondo per la perequazione interregionale.
La ritrovata importanza dell'autonomia impositiva anche dal punto di vista normativo, l'affermarsi della responsabilità elettorale, l'abbandono della finanza derivata e la creazione di un'amministrazione regionale per le materie di propria competenza giustificano ampiamente l'ipotesi di affidare l'applicazione ed il relativo controllo sui tributi regionali alla amministrazione regionale.
Infine é evidente che, anche in relazione ai vincoli imposti dalla partecipazione dell'Italia all'Unione europea sono necessarie norme che garantiscano la possibilità che, al livello nazionale, sia esercitato un controllo sul ricorso complessivo al credito da parte delle amministrazioni pubbliche.

11. Le garanzie e i controlli

In tutti i sistemi federali, la ripartizione costituzionale dei poteri é garantita da un controllo giurisdizionale. Persino in paesi come il Belgio, dove la tradizione é avversa all'ipotesi di un sindacato di costituzionalità generalizzato sulle leggi, l'introduzione del federalismo ha comportato l'istituzione di un organo apposito - la Corte d'arbitrato - con la specifica funzione di giudicare dei conflitti e degli eventuali straripamenti di potere. La natura arbitrale di questa giurisdizione comporta che la nomina dei giudici che compongono la Corte costituzionale avvenga attraverso il compromesso tra gli opposti interessi del centro e della periferia. Le formule con cui si realizza questo compromesso sono diverse, ma l'esigenza di fondo resta costante. Tanto piú avvertita quanto piú il sistema di ripartizione delle funzioni tra istituzioni del governo centrale ed entità periferica sia affidato ad un'interpretazione dinamica delle "materie" di competenza e a concetti indeterminati come "principio fondamentale", "interesse unitario", "sussidiarietà", "leale cooperazione" o "lealtà federale", eccetera.
La soluzione proposta é quella di ripartire tra Camera e Senato le nomine di spettanza parlamentare oltre alle nomine spettanti ai giudici, mantenendo al Presidente della Repubblica il potere di nominare una quota consistente dei membri, in funzione di riequilibrio tra le componenti culturali e professionali.
Se l'aspetto finanziario é fondamentale per la permanenza di un equilibrato assetto federale, appare necessario introdurre un serio strumento di controllo dei flussi finanziari e di efficienza della spesa. La presenza di una seconda Camera "federalizzata" potrebbe rilanciare il ruolo originario della Corte dei conti come organo ausiliare del Parlamento (il termine include, accanto alla Camera dei deputati, anche il Senato federale) per tutta la gestione finanziaria. Ovviamente si dovrebbe riformare la Corte dei conti, rendendola totalmente indipendente dal governo, ma anche dalle Regioni: in campo finanziario, infatti, i conflitti tra Regioni non saranno certo meno frequenti che i contrasti tra Regioni e Federazione.
É evidente che la riformata Corte dei conti dovrebbe rappresentare il vertice di un complesso sistema di audit esteso alla gestione finanziaria di tutte le Regioni. In un sistema federale, in cui necessariamente anche il prelievo fiscale é, almeno in parte, regolato in periferia, e in cui valgono i princípi di solidarietà che sono impliciti nel concetto stesso di federalismo (per cui una certa quota di prelievo nelle Regioni piú ricche é "girata" alle Regioni piú povere), quanto avviene in periferia circa la regolarità di bilancio la congruità del prelievo fiscale, l'efficienza della spesa, il raggiungimento dei livelli minimi di prestazione per i "diritti sociali", sono tipici problemi che interessano tanto lo Stato centrale quanto (tutte) le Regioni. Proprio per questo motivo va "riscoperto" il rapporto tra Corte dei conti e Parlamento, luogo, il secondo, di sintesi della rappresentanza nazionale e della rappresentanza "federale" delle Regioni.
In che misura la riforma in senso federale incida infine sull'ordinamento giudiziario nel suo complesso é una questione che non puó trovare una risposta univoca poiché questo dipenderà dall'evoluzione dinamica dei rapporti intergovernativi.
Un discorso diverso pare sia invece necessario per la giustizia amministrativa poiché se il processo di riforma mira ad una piena attuazione del "federalismo d'esecuzione", e pertanto ad un trasferimento davvero consistente dell'amministrazione attiva verso il livello regionale, é a tale livello che le controversie amministrative devono essere gestite, almeno in prima istanza.
Si potrebbe ipotizzare, quindi, un'organizzazione basata su tre ordini di giudici, i primi due radicati nelle Regioni, il terzo - che opererebbe normalmente come giudice di revisione in diritto - radicato nella Federazione.
Le Regioni potrebbero divenire competenti a disciplinare (ovviamente all'interno di un quadro normativo "di principio") l'organizzazione, le competenze e le procedure dei Tribunali amministrativi, di primo e di secondo grado. Tale competenza sarebbe resa possibile, se il modello del federalismo d'esecuzione fosse applicato con coerenza, dalla quasi completa eliminazione della burocrazia periferica del governo centrale. Essa porterebbe, oltretutto, ad un apprezzabile risultato: renderebbe visibile, anche in termini di riduzione del contenzioso, l'efficienza dell'azione amministrativa del singolo ente, riversando su di esso i costi di gestione dell'apparato giudiziario chiamato ad affrontare quel contenzioso. Un'amministrazione inefficiente e non corretta ingolfa le aule dei suoi tribunali, e perció anche quella indicata puó essere una strada per innescare il circolo virtuoso della responsabilità promosso dall'autogoverno.


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