ONOREVOLI SENATORI. - Una convinzione di fondo ispira il presente disegno
di legge: il problema essenziale che si pone oggi al nostro Paese non
consiste in un qualche adattamento marginale degli assetti istituzionali e
politici. Il tema consiste invece nella necessità di affrontare e
risolvere la crisi istituzionale profonda nella quale é immerso il
nostro Paese da alcuni anni e che contribuisce alla complessiva perdita di
competitività del "sistema-Italia" nel consesso delle democrazie
stabilizzate contemporanee.
1. Premessa
Il conflitto fra i poteri, il crollo del sistema dei partiti che dal 1948
ai primi anni '90 aveva costituito l'intelaiatura reale della forma di
governo italiano, l'alta instabilità di governo, la crisi di fiducia
verso le istituzioni democratiche maturata in vasti strati di popolazione,
la crisi di efficienza della pubblica amministrazione italiana accentuata
dalla crisi di direzione politica e dal confronto con gli standard
degli altri Paesi europei: questi ed altri fattori hanno prodotto la
necessità di un complessivo intervento di riassetto istituzionale.
Ma, soprattutto, é entrata in una crisi profonda e irreversibile una
certa concezione del principio dell'unità dello Stato. Questo
principio é stato forse concepito, ma certamente praticato come
supremo, ma soprattutto, costrittivo e antagonista dell'altro principio
costituzionale dell'autonomia locale. Conseguenza di questa errata
concezione dell'unità, opposta e limitante l'autonomia territoriale,
é stata la caratterizzazione dell'unità-Stato come gerarchia
verticalmente organizzata della sovranità, della politica e
dell'amministrazione. Ora, l'unità di questa tradizione ha perso il
suo significato fondante ed originario; essa é ormai vuota di fini.
Questo determina la profondità della crisi istituzionale e,
conseguentemente, la necessità di una altrettanto profonda riforma,
giacché l'identità di uno Stato non deriva tanto dal suo
esserci, quanto dal perché, dai motivi essenziali della sua
particolare conformazione.
I fenomeni di mondializzazione, da un lato, che tendono a rimuovere dalle
radici i fondamenti della legittimazione degli Stati nazionali,
poiché sottraggono ad essi, su materie cruciali quali le politiche
finanziarie e di sviluppo, le stesse basi della sovranità; il
processo di unificazione europea, dall'altro lato, che appare essere l'unica
chance
mediante cui i vecchi Stati europei possono pensare di continuare a giocare
un ruolo primario nella scena mondiale, e di fronte al quale l'Italia
tuttavia rischia di trovarsi a svolgere un ruolo marginale, sia per il
carico del debito pubblico che per l'inefficienza del suo assetto
istituzionale: in entrambi questi processi la dimensione regionale degli
interessi e, dunque, l'organizzazione istituzionale degli stessi possono
svolgere un ruolo determinante e, verosimilmente, crescente nei prossimi
anni.
Di fronte alle sfide epocali appena richiamate, la mondializzazione e
l'unificazione europea, l'Italia si presenta infatti, sul piano
istituzionale, conformata nei seguenti termini: un Parlamento composto da
circa 1000 parlamentari, suddiviso in due Camere con competenze paritarie e
sovrapposte, oltre 20 ministeri centrali costruiti sul modello napoleonico,
con pletoriche concentrazioni romane e diffuse articolazioni territoriali; a
questo si aggiungono 20 Regioni, 103 Province, 8.100 Comuni, ciascuno con
proprie rappresentanze elettive e propri livelli burocratici incomunicanti.
In sostanza in Italia abbiamo sommato i vizi dell'iper-centralismo e
dell'iperdecentramento, senza essere capaci di usare né le
virtú del centralismo né quelle del decentramento.
Infatti l'esito di tale situazione é che si fatica ad assumere
decisioni efficaci al centro, poiché il centro é
sovraccaricato di compiti decisionali che non é assolutamente in
grado di esercitare. Cosí come si fa fatica a decidere anche in
periferia, poiché anche la periferia é affollata di soggetti
decisori, nessuno dei quali sa bene quale sia la parte che gli spetta, ma
anche perché su di essa pesa una forte ipoteca centrale che comprime
gli spazi di autonomia e di responsabilità reali.
Tale sistema istituzionale, ridondante e barocco, non funziona
piú, mentre é da tempo avviata una profonda trasformazione del
sistema politico, in cui assumono sempre maggiore rilievo economico e
sociale le istanze aggregate nelle istituzioni decentrate.
Da qui l'esigenza di fondo di ripensare l'assetto della forma di Stato.
Solo in questo modo si puó rispondere, fuor di demagogia, alla
forte domanda di maggiore efficienza e di semplificazione nel rapporto con
la pubblica amministrazione che viene dai cittadini e dalle comunità
locali.
Perció qui si propone una riforma in senso federale della
Repubblica italiana.
La caratterizzazione gerarchica del principio di unità rispetto a
quello di autonomia, ha spinto una parte del federalismo italiano sempre
piú verso una deriva anti-unitaria che non sta nella natura storica e
istituzionale di questa forma di organizzazione dello Stato. Non da oggi il
federalismo come ideologia volta a superare il principio di autorità
e statualità ha sempre minori contatti con il federalismo volto a
promuovere un diverso assetto di poteri fra centro e periferia,
Il federalismo, oggi, é riferito sostanzialmente alla
distribuzione della sovranità statale, per quanto non presenti un
modello istituzionale uniforme. Infatti, noi pensiamo al federalismo non
come ad un modello cristallizzato, bensí come ad un processo di
articolazione, diffusione, divisione e condivisione del potere. I maggiori
studiosi della materia ormai concordano sul fatto che i concreti assetti
istituzionali dei sistemi cosiddetti a "regionalismo forte" e quelli che si
rifanno al "federalismo" presentano sempre minori differenze. Al riguardo
basti citare la voce "Stato federale" di G. De Vergottini nella
Enciclopedia del diritto (vol. XLIII, Milano 1990): "Dal punto di
vista scientifico una contrapposizione tra modello federale e modello
regionale desta non poche perplessità e in sede dottrinale si
é giunti a concludere [...] che la differenza fra i due
modelli non e qualitativa bensí soltanto quantitativa". Infatti, la
dottrina piú consolidata tende ad utilizzare sempre meno le
tradizionali forme di Stato intese in senso statico, per utilizzare concetti
che colgano l'aspetto dinamico dell'organizzazione istituzionale.
Cosí si parla sempre piú di federalizing process
(soprattutto nella dimensione europea per la direzione impressa dal Trattato
di Maastricht), proprio ad indicare il processo relativo ad una nuova
dislocazione della sovranità.
Il principio di sussidiarietà, vigente a scala delle istituzioni
europee, presente (almeno teoricamente) nell'ordinamento italiano con la
legge 30 dicembre 1989, n. 489, che ha recepito la Carta europea
dell'autonomia locale e che la regione Toscana ha assunto come principio
regolatore dei rapporti fra Regione ed enti locali nella legge regionale 19
luglio 1995, n. 77, di attuazione dell'articolo 3 della legge 8 giugno 1990,
n. 142, innerva la proposta di riforma federale che avanziamo. Questo
principio indica una direzione per l'organizzazione degli assetti
istituzionali nel processo di dislocazione della sovranità fra centro
e periferia del sistema. Dall'altro lato esso é funzionale alla
ridefinizione delle finalità, del significato dell'unità dello
Stato.
La riforma federale serve all'Italia per ritrovare il senso
dell'unità perduta, la sua vera coesione nazionale, per ridare
all'Italia un destino di nazione unitaria.
Solo una lettura distorta e miope delle effettive esigenze del Paese, dei
suoi problemi attuali e delle sue prospettive future puó indurre a
concepire il disegno di riforma federalista come l'anticamera di una rottura
dell'unità nazionale. Al contrario, la scelta della riforma federale
serve a restituire all'Italia la sua unità e coesione sostanziali, e
a restituire agli italiani l'uniformità dei diritti fondamentali di
cittadinanza.
Perció la presente proposta prevede una preclusione costituzionale
assoluta al cosiddetto diritto di secessione. Essa propone di percorrere in
modo coerente e compiuto la strada verso il federalismo cooperativo sulla
base dei princípi e delle proposte normative di seguito enunciate. Il
federalismo cooperativo coglie in modo piú efficace le esigenze
specifiche del nostro Paese: la necessità di ridistribuire il potere,
troppo concentrato, verso la periferia del sistema senza alimentare
pericolose spinte centrifughe e secessionistiche; l'esigenza di condividere
responsabilità di governo complessive da parte dell'intero sistema
istituzionale, in luogo della parcellizzazione e dell'opacità delle
responsabilità che ha caratterizzato la vita della Repubblica;
l'urgenza di ricreare fiducia e senso di unità nei cittadini verso
istituzioni pubbliche piú efficienti e democratiche.
2. I princípi della proposta
La scelta di fondo che orienta la presente proposta si ispira ai
princípi del federalismo cooperativo, come si sono venuti affermando,
in Europa, in particolare nell'esperienza tedesca.
Non solo in Europa ma in tutti i sistemi federali moderni si registra un
superamento del cosiddetto federalismo duale, proteso a tracciare rigide
separazioni di competenze tra Federazione e Stati-membri. Questa esigenza
era dettata dalla necessità di superare le diffidenze verso il potere
centrale laddove la Federazione nasceva da entità originariamente
separate, come nel caso degli Stati Uniti d'America. Tali nette distinzioni
non sono peró piú possibili e nemmeno auspicabili in Paesi che
amministrano complesse politiche per la protezione sociale e lo sviluppo
economico.
La risposta istituzionale piú appropriata alle esigenze dello
Stato sociale é stata ed é il "federalismo cooperativo" in
quanto esso consente al tempo stesso di avvicinare i processi di
elaborazione e gestione dei servizi ai cittadini, ma anche di rendere
possibili strategie coordinate per promuovere uno sviluppo nazionale forte
ed equilibrato.
La logica del federalismo cooperativo presuppone infatti da un lato un
profondo e reale decentramento nella attuazione (con elevati gradi di
libertà) delle politiche pubbliche, dall'altro istituzioni politiche
nazionali snelle che conservino tuttavia poteri adeguati per orientare, non
solo le classiche funzioni dello Stato minimo, ma anche i grandi indirizzi
della politica economica e sociale. Naturalmente, per queste materie e per
quanto attiene alla loro rielaborazione e attuazione al livello decentrato,
le istituzioni nazionali devono poter avere degli interlocutori adeguati con
cui concertare e coordinare le decisioni.
Il senso profondo del federalismo cooperativo é quello di
consentire la partecipazione delle Regioni alla definizione dell'indirizzo
politico centrale (ed é per questo che assume importanza strategica
la riforma del bicameralismo perfetto e l'introduzione di un Senato
rappresentativo delle Regioni).
Un secondo elemento essenziale che caratterizza la logica di fondo del
federalismo cooperativo é che la rielaborazione in sede decentrata
delle politiche economiche e sociali non puó che essere attribuita a
sistemi regionali di autogoverno. Non é pensabile infatti che siano
ancora le istituzioni politiche centrali a definire dettagliatamente per
ogni Regione quali debbano essere le funzioni specifiche di ognuno dei
livelli locali di governo. Questo presupporrebbe infatti che l'attuazione
delle politiche pubbliche fosse ancora una volta, di fatto, predefinita e
rigidamente codificata dal centro. Del resto, nei principali settori
dell'intervento pubblico che potrebbero essere decentrati, tanto l'esigenza
di economie di scala quanto la necessità di stabilire criteri di
perequazione tra zone richiedono che essi siano coordinati da istituzioni
decisionali di livello regionale.
3. La struttura della proposta
Dalla logica di fondo che orienta il progetto deriva in primo luogo la
necessità del superamento dell'attuale sistema bicamerale, con
l'introduzione di un Senato federale in luogo di quello attuale.
Esso rappresenta un contributo decisivo anche alla ridefinizione della
"forma di governo", oltre che della "forma di Stato". Inoltre, la Camera di
rappresentanza territoriale costituisce un fatto profondamente radicato
nelle tradizioni costituzionali di tipo pluralistico (federali o regionali).
Essa dovrebbe svolgere una duplice e collegata funzione: quella di
costituire un elemento decisivo di identificazione e di sblocco della
riforma in senso autonomistico e di riforma organizzativa complessiva e
quella di assicurare la coesione dello Stato e la vitalità
dell'unità nazionale.
In tutte le esperienze federali, ma soprattutto in quelle che adottano un
modello cooperativo, il compito di tracciare di volta in volta la linea
esatta di ripartizione delle competenze é per ampi tratti affidato
alla legge ordinaria (la legge cornice, la legge quadro, la legge organica,
la legge di riforma economico-sociale, la legge di indirizzo o di
programmazione, eccetera) la quale interviene sulla base dei princípi
definiti dalla Costituzione.
Soltanto lo strumento dinamico della co-decisione puó assolvere al
compito di salvaguardare gli ambiti di autonomia ed al tempo stesso non
irrigidire l'attribuzione delle prerogative di ogni istituzione di governo
per la pretesa di predeterminarle tutte in principio. Lo stesso appello al
criterio della sussidiarietà acquista senso esclusivamente se le
valutazioni di efficienza, cui esso rimanda, sono compiute con adeguati
meccanismi di co-decisione.
Per questo risulta davvero cruciale la scelta della composizione e delle
funzioni del Senato federale. É chiaro peraltro che solo se
quest'ultimo avrà delle funzioni e una composizione chiaramente
differenziate dalla Camera dei deputati si potrà effettivamente
raggiungere il doppio scopo di snellire il processo legislativo nazionale e
dotarlo di una sede efficace per la gestione cooperativa del "sistema
federale".
Per raggiungere questo doppio obiettivo é necessario che il Senato
non abbia titolarità ad intervenire in merito al rapporto fiduciario
e al controllo politico del governo. Dovrebbe invece occuparsi delle
decisioni che attengono ai rapporti Federazione-Regioni, siano esse assunte
in sede legislativa (leggi cornice, leggi organiche, grandi riforme
economico-sociali, eccetera), siano esse atti amministrativi generali (atti
di indirizzo e coordinamento, programmi di settore, piani di intervento,
scelte di redistribuzione finanziaria, livelli minimi dei servizi, eccetera)
o rivolti ad una singola Regione (interventi speciali, atti di
sostituzione).
Se si vogliono davvero perseguire i due obiettivi che si sono delineati
(semplificare il processo legislativo e dotare le istituzioni nazionali di
una sede "operativa" per il coordinamento delle relazioni intergovernative)
é chiaro che alcune delle possibili opzioni relative alla
composizione della seconda Camera devono essere assolutamente scartate.
Tanto che si optasse per una composizione elettiva diretta (come nel caso
statunitense dopo l'approvazione dell'VIII emendamento), per una
composizione mista (come nel caso spagnolo), oppure per l'elezione dei suoi
membri da parte dei Consigli regionali (come in Austria) prevarrebbero
inevitabilmente le affiliazioni di carattere politico-partitico rispetto
alla rappresentanza delle esigenze del governo dei sistemi regionali.
Cosí anche il Senato riprodurrebbe, come la Camera, una articolazione
di tipo politico, a scapito della rappresentanza degli enti regionali.
Si pensi ad esempio al fatto che la riforma attuata negli Stati Uniti nel
1913 - che ha segnato il passaggio dall'iniziale elezione indiretta dei
senatori, da parte delle assemblee elettive degli Stati-membri, all'elezione
diretta - ha anche definitivamente rafforzato un ruolo politico generale del
Senato, ed ha fatto anzi del senatore la figura eminente del sistema
politico dello Stato-membro, il punto culminante della carriera politica
locale. Ma si é persa cosí la funzione, origi nariamente
assegnata al sistema indiretto di nomina, di "fornire ai governi statali il
controllo su un organo del governo federale, tale da garantire
l'autorità dei primi, costituendo nel contempo, un ottimo punto di
incontro tra i due sistemi" (Il Federalista, LXII).
La soluzione che invece appare piú coerente con gli obiettivi che
abbiamo identificato, quella logicamente preferibile, é che, seguendo
anche in questo caso l'esempio tedesco, i membri del Senato siano nominati
dagli esecutivi regionali.
Centrale, nella proposta qui presentata, é dunque l'idea di
scindere l'attuale bicameralismo paritario e perfetto, fondato sulla
elezione diretta di entrambe le Camere, in una rigorosa separazione tra una
Camera politica, in cui si forma la fiducia al Governo, secondo i moduli che
verranno scelti dal costituente per quanto riguarda la definizione della
forma di governo nazionale, e in un Senato federale composto non per logica
politica ma per rappresentanza istituzionale.
Per quanto riguarda la necessità di superare l'attuale assetto
bicamerale perfetto, v'é da richiamare un solo argomento ulteriore.
Quell'assetto fu scelto dai costituenti per le stesse ragioni per cui essi,
prima di definire l'impianto costituzionale, avevano acquisito il parallelo
accordo tra le forze politiche in ordine alla adozione del sistema
elettorale proporzionale, sul quale in effetti si é costruita la
Costituzione materiale della prima Repubblica, attraverso il governo dei
partiti.
Cosí come il sistema elettorale proporzionale garantiva ogni
forza, allo stesso modo nella struttura del Parlamento si proiettava il
garantismo istituzionale. Due Camere con competenze paritarie e sovrapposte
costituivano, con evidenza, la rappresentazione piú alta delle
garanzie reciproche.
Posto che l'assetto bicamerale perfetto e paritario va superato, si
tratta di vedere quale sia la formula piú efficiente per introdurre
un bicameralismo specializzato, che affidi a una Camera le funzioni
essenzialmente politiche di produzione della legislazione sulle materie ad
essa riservate, oltre che essere depositaria della fiducia al Governo, e
all'altra Camera (o Senato) funzioni specializzate di co-decisione su
determinate materie.
A questo fine risultano in concreto disponibili solo due scelte: o
attribuire alla seconda Camera (o Senato) funzioni politiche, oppure
assegnare ad essa funzioni di rappresentanza istituzionale degli Enti
federati, nella logica federale.
Nel primo caso bisognerebbe prevedere che il Senato federale si formi per
elezione diretta. Nel secondo caso occorre stabilire che esso si formi per
diretta rappresentanza istituzionale degli Enti federati.
La scelta dipende dal modello di Stato che si vuole realizzare.
Se si opta per uno Stato federale é evidente che si deve adottare
un modello di tipo tedesco, facendo della seconda Camera un organo di
rappresentanza istituzionale, sul genere Bundesrat .
Se si opta per uno Stato centralizzato, pur con forti decentramenti
locali e regionali, si sceglierà per il Senato federale una
formazione per elezione diretta.
Se si adottasse questa seconda scelta, e al tempo stesso si dichiarasse
una opzione federale per il riassetto della forma di Stato, é
evidente che rischieremmo di trovarci alla fine, quasi inevitabilmente, di
fronte a una sorta di tri-cameralismo: da un lato una Camera politica,
eletta direttamente, dall'altro lato una seconda Camera, eletta anch'essa
direttamente, e infine un terzo organo, in cui vengono rappresentate le
Regioni e gli enti locali una sorta di Cnel delle autonomie regionali e
locali, cui affidare funzioni consultive e concertative.
É evidente che tale soluzione renderebbe ancora piú
complesso l'assetto istituzionale. Quindi, o si opta per una riforma
federale della Repubblica, a cui consegue di ristrutturare le due Camere in
funzione, l'una, di rappresentanza politica e, l'altra, di rappresentanza
istituzionale; oppure si opta per una qualche riedizione neocentralistica: e
quindi si istituiscono due Camere, magari con competenze specializzate,
entrambe elette direttamente, e poi si inventa una terza sede, a cui
affidare funzioni consultive, effettivamente rappresentativa degli enti
regionali (mancando cosí l'obiettivo di semplificare e razionalizzare
l'intero sistema istituzionale e di produzione legislativa).
Qui si propone una riforma federale della Repubblica. Di conseguenza si
ipotizza la istituzione di un Senato federale costituito in rappresentanza
degli Enti federati, vale a dire costituito non per logica politica, ma per
rappresentanza unitaria, con voto ponderato e indiviso, la quale non
puó che essere espressa, per logica conseguenza, che dai governi
regionali, secondo il modello tedesco.
La logica qui proposta é inoppugnabile sul piano concettuale e
dirimente su quello pratico.
In alternativa alla rappresentanza istituzionale, e per voto indivisibile
ponderato, attribuito ai governi regionali, é difficile opporre una
soluzione mista: né quella, prevista in Spagna e che lí
già é risultata disfunzionale, del mix
tra composizione per emanazione dai governi regionali e per elezione
diretta, né quella per composizione mista sulla base di elezione da
parte dei Consigli regionali, né quella per composizione mista non
meglio definita tra Regioni ed enti locali.
Infatti, se la seconda Camera deve avere una funzione co-decisionale
cogente su alcune materie, e deve essere composta per rappresentanza
istituzionale e non politica, occorre attribuire un voto ponderato e
indiviso rispetto alla popolazione e non adottare il criterio di "una testa
un voto". Non si possono sommare quindi diversi enti, Regioni, Comuni e
Province, come se si trattasse di un organo consultivo, giacché la
"missione" specifica di questa seconda Camera é quella di partecipare
al processo legislativo. Alla esigenza di una rappresentanza degli enti
locali nel Senato federale non si tratta di opporre un diniego basato
esclusivamente sull'argomento per cui solo le istituzioni investite di una
funzione legislativa (vale a dire le Regioni) possono essere rappresentate
in un organo investito di funzioni legislative (come il Senato federale),
che pure é argomento pregnante. Il problema riguarda invece proprio
la tecnica mediante cui ripartire il potere decisionale. Se si vuole che nel
Senato federale sia assicurata anche una rappresentanza dei Comuni e degli
enti locali, e in particolare delle grandi città o Città
metropolitane, occorre al tempo stesso stabilire in che modo votano i
rappresentanti dei Comuni, delle Province o delle Città
metropolitane. Al riguardo si possono ipotizzare due soluzioni alternative:
o i rappresentanti degli enti locali vengono inclusi nelle delegazioni
regionali, lasciando indiviso il voto regionale; oppure ad essi viene
attribuita una quota di voto ponderato in rapporto alle popolazioni di
riferimento, scorporando tale quota dal voto ponderato attribuito ai
rappresentanti delle Regioni. Entrambe le soluzioni presentano molteplici
contro-indicazioni sul piano tecnico quali la disomogeneità degli
interessi rappresentati, la disparità che si creerebbe fra Comuni
diversi per numero di abitanti ma non per funzioni, la perdita di
specialità di alcuni Comuni quali enti esponenziali delle
comunità rappresentate e organi di gestione ed erogatori di servizi.
Perció é stato deciso di mantenere ferma, in sede di
articolato, la soluzione ispirata al modello tedesco, pur lasciando aperta
la possibilità di introdurre una diversa soluzione. Inoltre, altra
cosa é, naturalmente, l'ipotesi che la riforma costituzionale
introduca limitati casi di cosí dette città-stato,
equiparabili alle Regioni nelle prerogative, anche in questo caso con
ispirazione al modello tedesco, specie con riferimento a piú
rilevanti concentrazioni urbane caratterizzate da peculiarità
specifiche.
Dalle scelte in ordine alla struttura del Parlamento derivano evidenti
conseguenze sul piano della distribuzione delle competenze tra centro
(Federazione) e soggetti federati (Regioni).
Solo se si determina una struttura co-decisionale al centro, rispetto al
quale i soggetti federati (Regioni) siano investiti di poteri co-decisionali
e di funzioni di controllo dirimenti, é possibile ripartire
razionalmente le competenze, prevedendo un'area di competenze esclusive del
centro, un'area di competenze generalizzate dei soggetti federati, e un'area
di competenze concorrenti e miste, co-decise dalla Camera e dal Senato
federale, a partire dalla definizione delle discipline essenziali di
principio e dei livelli minimi delle prestazioni sociali sulle materie
assegnate alla competenza regionale.
Senza una riforma federale del Parlamento tutto diventa incerto e
piú complesso: come ripartire, secondo il criterio di
esclusività, le competenze, ben sapendo che su nessuna competenza,
sulla carta esclusiva, delle Regioni, si puó prescindere da scelte di
politica nazionale? Si pensi alla sanità, ai trasporti, alle opere
pubbliche. Certo che su queste materie deve esservi una piena competenza
regionale. Altrettanto certo é il fatto che sulle stesse materie deve
esservi una politica nazionale: come comporre i due fattori? C'é una
sola soluzione: avere al centro una seconda Camera direttamente
rappresentativa dei governi regionali.
Si guardi inoltre il problema dal punto di vista della concreta
fattibilità della riforma. É mai pensabile che, una volta
fatta la riforma costituzionale in senso federale, tutto si svolga secondo
identici tempi di attuazione per ogni realtà territoriale e
regionale?
É evidente che la scelta federalista implicherà una
progressività e una differenziazione dei suoi processi di attuazione.
Perché ció accada senza dividere il Paese, perché si
possa attuare e monitorare il graduale processo di trasformazione in senso
federale dell'Italia, occorre non una qualche conferenza
Stato-Regioni-Città, ovvero una sorta di Cnel delle Autonomie
affiancato alle strutture parlamentari, ma la diretta sussunzione dei
soggetti federati al centro della Federazione, cioé il Senato
federale cosí come qui viene proposto.
4. Il Senato federale
Il progetto di riforma che si propone é basato su una riconferma
di alcune fondamentali scelte a suo tempo compiute dall'Assemblea
costituente: nella direzione, cioé, di uno Stato unitario organizzato
in una forma di governo parlamentare, anche se sono evidenti le attuali
situazioni di distonia del sistema parlamentare vigente, a cui é
necessario ovviare.
La soluzione della trasformazione della seconda Camera in Senato federale
rappresenta una soluzione intermedia tra il modello monocamerale e l'attuale
bicameralismo paritario, e risponde alle esigenze di rappresentanza e di
governo proprie di una democrazia pluralista.
La differenziazione delle due Camere attiene, oltre alla composizione, ai
diversi compiti ad esse attribuiti. Alla Camera dei deputati, in quanto
direttamente derivante dalla sovranità popolare, verrebbero infatti
riservati il potere di indirizzo e controllo sul Governo e la funzione
legislativa nella sua pienezza; quanto, invece, al Senato federale, pur non
avendo esso il compito di votare la fiducia al Governo, né di farne
valere la responsabilità politica, ne sarebbe indispensabile
l'approvazione per i provvedimenti rientranti nel ciclo del bilancio, per le
leggi costituzionali e di revisione costituzionale, nonché per tutte
le leggi incidenti nelle materie di competenza od interesse regionale, che
andrebbero a rientrare in una categoria di leggi ad approvazione bicamerale.
Ne risultano cosí ridisegnate le complessive modalità con
le quali il procedimento legislativo si svolge.
Il progetto di legge, approvato dalla Camera dei deputati, é
trasmesso al Senato federale che, se esso rientra nella categoria delle
leggi ad approvazione bicamerale necessaria, lo esamina secondo le norme del
proprio regolamento. Nel caso in cui la seconda Camera ritenga che un
progetto di legge, approvato dalla Camera dei deputati e trasmessole per
notizia, rientri comunque nella sfera delle materie di propria competenza,
puó, entro dieci giorni, sottoporre la questione ad una Commissione
mista paritetica.
L'utilizzo, in funzione di arbitraggio tra le due Camere, di una
Commissione mista costituisce un'esperienza già esplorata e
praticata, sia pure con specifiche peculiarietà, da altri
ordinamenti. Ad una commissione mista puó ad esempio fare ricorso, se
le due assemblee non trovano un accordo, il Primo Ministro francese, e
commissioni analoghe - anche se diversamente composte e con poteri peculiari
- sono utilizzate, per la soluzione dei conflitti tra le due Camere, negli
Stati Uniti d'America (conference committees, joint committees)
ed in Germania (Vermittlungsausschauss) .
In particolare, la Commissione paritetica di cui si propone
l'istituzione, i cui componenti operano senza vincolo di mandato,
potrà, esaminato il progetto di legge, decidere se su di esso sia o
meno necessaria anche la deliberazione del Senato federale.
Il procedimento legislativo sarà pertanto concluso quando manchi
una richiesta di riesame, o quando la commissione mista abbia deliberato
negativamente in ordine alla competenza della seconda Camera, ovvero quando,
nei casi previsti, il progetto di legge sia approvato da entrambe le Camere
nell'identico testo.
Il Senato federale, inoltre, attraverso la partecipazione all'elezione
del Capo dello Stato realizzerebbe la necessaria integrazione della
rappresentanza in quella deliberazione. Nel Parlamento in seduta comune,
naturalmente, trattandosi di organo specifico, i suoi membri appartenenti al
Senato votano "per testa" al pari dei deputati.
Le ulteriori modifiche proposte discendono direttamente ed in logica
conseguenza dal mutamento della struttura e delle funzioni della seconda
Camera.
5. La definizione delle competenze legislative
Uno degli aspetti qualificanti della proposta sta nell'attenzione posta
al riparto delle funzioni amministrative, oltre che al riparto delle
funzioni legislative. Nell'ottica del federalismo cooperativo é
inevitabile che le grandi decisioni vengano affidate agli organi nazionali
(che per questo motivo devono essere composti anche da membri delle
istituzioni regionali), mentre il contrappeso é dato da una forte
regionalizzazione dell'esecuzione amministrativa.
Si propone pertanto un sistema di ripartizione delle funzioni basato
sull'attribuzione in via esclusiva al livello centrale, tanto sul piano
legislativo che esecutivo, di un ridotto novero di materie.
In un secondo novero di materie, anch'esso limitato, la Federazione
avrebbe competenza piena ma non necessariamente esclusiva, con la
facoltà di attribuire, mediante proprie disposizioni legislative,
potestà normativa ed amministrativa, ovvero soltanto amministrativa,
alle Regioni.
Anche sulle altre materie, di competenza regionale, la Federazione
manterrebbe inoltre la potestà legislativa "organica": in questo caso
la legge federale fisserebbe la disciplina essenziale di principio, le norme
necessarie al coordinamento, la definizione dei livelli minimi delle
prestazioni sociali o dei limiti generali allo sfruttamento delle risorse
naturali e ambientali.
6. La riforma delle strutture amministrative
Per dare corpo alla attribuzione delle funzioni esecutive di cui si
é già detto, il progetto propone una drastica riduzione delle
amministrazioni centrali.
Fatte salve quelle che operano nell'ambito delle competenze esecutive
federali cosí come delimitate nel progetto, tutte le strutture
amministrative farebbero capo al sistema regionale.
É per questo motivo che la proposta prevede che il trasferimento
delle funzioni sia effettuato indistintamente verso le Regioni a cui
spetterà stabilire poi la divisione dei compiti tra gli enti locali.
Ció comporterebbe, tra l'altro, come logico corollario, il
superamento definitivo di molti uffici periferici del governo centrale e del
ruolo del prefetto mentre invece verrebbe valorizzata, con funzioni di
"cerniera" tra sistema regionale e residua amministrazione centrale e
periferica ministeriale, la figura del commissario federale, la quale
riprodurrebbe in forma rinnovata quella del commissario del Governo.
Inoltre, data l'importanza che verosimilmente acquisterà la
partecipazione alle politiche comunitarie, e dato che in molti casi, come
del resto già avviene, esse verranno attuate al livello regionale, si
é ritenuto opportuno prevedere che, per le materie di competenza
regionale, l'Italia debba essere rappresentata presso gli organi comunitari
da soggetti designati dal Senato federale.
7. Regioni e enti locali. Le Regioni nella
Federazione. Comuni e Province nelle Regioni
Un tema cruciale della riforma federale riguarda la questione dei
rapporti tra Regione e enti locali. Fatte salve le ipotesi sopra formulate
in materia di composizione e tecnica decisionale del Senato federale, lo
schema della proposta puó risolversi nella seguente formula: le
Regioni federate nella Federazione, i Comuni e le Province nella Regione.
Ció significa da un lato garantire già in Costituzione
l'autonomia degli enti locali, in ragione del principio di
sussidiarietà, e dall'altro garantire gli enti locali nella stessa
scala regionale, applicando anche a quel livello il principio federale.
A garanzia della autonomia degli enti locali sono perció previsti
diversi dispositivi. Si prevede in particolare che il loro sistema
elettorale sia definito a livello nazionale, che essi siano dotati di
entrate proprie, che gli enti locali possano far ricorso alla Corte
costituzionale in casi di violazione delle loro prerogative.
Inoltre anche al livello regionale si riproduce la logica cooperativa che
preside alle relazioni tra Federazione e Regioni mediante la previsione di
una seconda assemblea regionale rappresentativa degli enti locali (Consiglio
regionale delle autonomie) cui vengono assegnati precisi poteri di
co-determinazione delle politiche regionali sui temi rilevanti per gli
stessi enti locali. In questo quadro si prevede altresí che siano le
stesse leggi regionali ad introdurre eventuali differenziazioni di funzioni
degli enti locali e a disciplinare l'istituzione di Comunità montane
e di Città metropolitane.
8. La fase transitoria
Qualche considerazione deve essere fatta a proposito della fase
transitoria che dovrebbe portare ad una cosí radicale trasformazione
della macchina amministrativa dello Stato.
Essendo gli enti territoriali fortemente differenziati quanto a
dimensioni, capacità finanziarie ed operative e contesto
socio-economico, tanto in ambito inter che intraregionale, va affermato il
principio che l'attribuzione dell'esercizio delle funzioni amministrative
puó essere consensualmente differito per aree o enti determinati,
disciplinando contestualmente (se necessario) le temporanee modalità
di esercizio.
Piú in generale, e indipendentemente dai problemi del
trasferimento, il principio della flessibilità relativo alle funzioni
comporta che a fronte di situazioni impreviste o anche della semplice
opportunità di spostare un determinato compito ad altro livello (tra
enti locali e Regione o tra Regione e centro, o viceversa), gli enti
interessati possano consensualmente stabilire il nuovo regime mediante forme
di tipo negoziale, quali convenzioni o accordi di programma.
É possibile poi che la nuova conformazione dell'autonomia
regionale ponga (specie in prospettiva) questioni di dimensione
territoriale, e possa suggerire l'opportunità di rivedere i confini
delle attuali Regioni. Tuttavia, da un lato una parte significativa di
queste esigenze puó essere soddisfatta mediante l'utilizzazione delle
clausole generali che consentono la collaborazione tra Regioni; dall'altro,
non sono sempre certi i vantaggi che ne deriverebbero mentre appaiono sicure
le tensioni e le situazioni delicate che si verrebbero a creare.
9. La riforma amministrativa e burocratica
Un punto inoltre deve essere sottolineato con forza. Se l'obiettivo di
fondo della trasformazione in senso federale dello stato é quello di
restituire ai cittadini servizi piú rispondenti alle loro domande,
allora é chiaro che anche il piú ampio trasferimento di
funzioni e strutture verso la periferia non sarebbe sufficiente. Da solo
potrebbe semmai provocare ulteriori inefficienze e frustrazioni. Esso deve
essere necessariamente accompagnato da una profondo rinnova mento della
logica di funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Anche sulla scia
delle note innovazioni legislative introdotte negli ultimi anni a questo
proposito, é opportuno dare rilevanza costituzionale al principio
della separazione tra ruoli politici e di amministrazione, ed ai
princípi di efficienza, efficacia, economicità e trasparenza
della gestione che dovrebbero orientare il perfezionamento e l'attuazione di
quelle riforme.
10. Finanza, fisco, bilancio
Naturalmente una trasformazione radicale dello Stato come quella che
é stata delineata comporta che alle Regioni venga attribuita una
responsabilità finanziaria simile a quella della Federazione.
Anche in questo caso é opportuno non regolare in Costituzione le
forme d'imposizione statale e quelle regionali per evitare rigidità
in ambito che deve necessariamente tenere conto dei parziali mutamenti che
potranno intervenire nelle competenze della Federazione delle Regioni e
degli enti locali e nella struttura dei redditi.
La Costituzione si limiterebbe ad attribuire ad una legge federale la
responsabilità di individuare e regolare in maniera unitaria le forme
di imposizione che corrispondono ai diversi livelli di governo (federale,
regionale e comunale) in modo da evitare il pericolo di sovrapposizioni ed
assicurare un miglior controllo del livello complessivo della pressione
fiscale.
Il raggiungimento di una piena autonomia impositiva regionale
renderà possibile una razionalizzazione delle forme di finanziamento
regionale con l'abbandono delle attuali addizionali e delle sovraimposizioni
che rendono difficile la trasparenza finanziaria.
Anche il sistema dei trasferimenti verrebbe ampiamente ridimensionato.
L'attuale fondo comune non avrebbe piú ragion d'essere. Al suo posto
sarebbe costituito il fondo per la perequazione interregionale.
La ritrovata importanza dell'autonomia impositiva anche dal punto di
vista normativo, l'affermarsi della responsabilità elettorale,
l'abbandono della finanza derivata e la creazione di un'amministrazione
regionale per le materie di propria competenza giustificano ampiamente
l'ipotesi di affidare l'applicazione ed il relativo controllo sui tributi
regionali alla amministrazione regionale.
Infine é evidente che, anche in relazione ai vincoli imposti dalla
partecipazione dell'Italia all'Unione europea sono necessarie norme che
garantiscano la possibilità che, al livello nazionale, sia esercitato
un controllo sul ricorso complessivo al credito da parte delle
amministrazioni pubbliche.
11. Le garanzie e i controlli
In tutti i sistemi federali, la ripartizione costituzionale dei poteri
é garantita da un controllo giurisdizionale. Persino in paesi come il
Belgio, dove la tradizione é avversa all'ipotesi di un sindacato di
costituzionalità generalizzato sulle leggi, l'introduzione del
federalismo ha comportato l'istituzione di un organo apposito - la Corte
d'arbitrato - con la specifica funzione di giudicare dei conflitti e degli
eventuali straripamenti di potere. La natura arbitrale di questa
giurisdizione comporta che la nomina dei giudici che compongono la Corte
costituzionale avvenga attraverso il compromesso tra gli opposti interessi
del centro e della periferia. Le formule con cui si realizza questo
compromesso sono diverse, ma l'esigenza di fondo resta costante. Tanto
piú avvertita quanto piú il sistema di ripartizione delle
funzioni tra istituzioni del governo centrale ed entità periferica
sia affidato ad un'interpretazione dinamica delle "materie" di competenza e
a concetti indeterminati come "principio fondamentale", "interesse
unitario", "sussidiarietà", "leale cooperazione" o "lealtà
federale", eccetera.
La soluzione proposta é quella di ripartire tra Camera e Senato le
nomine di spettanza parlamentare oltre alle nomine spettanti ai giudici,
mantenendo al Presidente della Repubblica il potere di nominare una quota
consistente dei membri, in funzione di riequilibrio tra le componenti
culturali e professionali.
Se l'aspetto finanziario é fondamentale per la permanenza di un
equilibrato assetto federale, appare necessario introdurre un serio
strumento di controllo dei flussi finanziari e di efficienza della spesa. La
presenza di una seconda Camera "federalizzata" potrebbe rilanciare il ruolo
originario della Corte dei conti come organo ausiliare del Parlamento (il
termine include, accanto alla Camera dei deputati, anche il Senato federale)
per tutta la gestione finanziaria. Ovviamente si dovrebbe riformare la Corte
dei conti, rendendola totalmente indipendente dal governo, ma anche dalle
Regioni: in campo finanziario, infatti, i conflitti tra Regioni non saranno
certo meno frequenti che i contrasti tra Regioni e Federazione.
É evidente che la riformata Corte dei conti dovrebbe rappresentare
il vertice di un complesso sistema di audit
esteso alla gestione finanziaria di tutte le Regioni. In un sistema
federale, in cui necessariamente anche il prelievo fiscale é, almeno
in parte, regolato in periferia, e in cui valgono i princípi di
solidarietà che sono impliciti nel concetto stesso di federalismo
(per cui una certa quota di prelievo nelle Regioni piú ricche
é "girata" alle Regioni piú povere), quanto avviene in
periferia circa la regolarità di bilancio la congruità del
prelievo fiscale, l'efficienza della spesa, il raggiungimento dei livelli
minimi di prestazione per i "diritti sociali", sono tipici problemi che
interessano tanto lo Stato centrale quanto (tutte) le Regioni. Proprio per
questo motivo va "riscoperto" il rapporto tra Corte dei conti e Parlamento,
luogo, il secondo, di sintesi della rappresentanza nazionale e della
rappresentanza "federale" delle Regioni.
In che misura la riforma in senso federale incida infine sull'ordinamento
giudiziario nel suo complesso é una questione che non puó
trovare una risposta univoca poiché questo dipenderà
dall'evoluzione dinamica dei rapporti intergovernativi.
Un discorso diverso pare sia invece necessario per la giustizia
amministrativa poiché se il processo di riforma mira ad una piena
attuazione del "federalismo d'esecuzione", e pertanto ad un trasferimento
davvero consistente dell'amministrazione attiva verso il livello regionale,
é a tale livello che le controversie amministrative devono essere
gestite, almeno in prima istanza.
Si potrebbe ipotizzare, quindi, un'organizzazione basata su tre ordini di
giudici, i primi due radicati nelle Regioni, il terzo - che opererebbe
normalmente come giudice di revisione in diritto - radicato nella
Federazione.
Le Regioni potrebbero divenire competenti a disciplinare (ovviamente
all'interno di un quadro normativo "di principio") l'organizzazione, le
competenze e le procedure dei Tribunali amministrativi, di primo e di
secondo grado. Tale competenza sarebbe resa possibile, se il modello del
federalismo d'esecuzione fosse applicato con coerenza, dalla quasi completa
eliminazione della burocrazia periferica del governo centrale. Essa
porterebbe, oltretutto, ad un apprezzabile risultato: renderebbe visibile,
anche in termini di riduzione del contenzioso, l'efficienza dell'azione
amministrativa del singolo ente, riversando su di esso i costi di gestione
dell'apparato giudiziario chiamato ad affrontare quel contenzioso.
Un'amministrazione inefficiente e non corretta ingolfa le aule dei suoi
tribunali, e perció anche quella indicata puó essere una
strada per innescare il circolo virtuoso della responsabilità
promosso dall'autogoverno.
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