Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 661 del 25/7/2005
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Discussione della proposta di legge Pecorella: Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento (A.C. 4604) (ore 13,22).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge d'iniziativa del deputato Pecorella: Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per la discussione sulle linee generali è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 4604)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che la II Commissione (Giustizia) si intende autorizzata a riferire oralmente.
La relatrice, onorevole Bertolini, ha facoltà di svolgere la relazione.

ISABELLA BERTOLINI, Relatore. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, la proposta di legge in esame è diretta a modificare la disciplina del codice di procedura penale in materia di appellabilità delle sentenze, limitando tale rimedio alle sole sentenze di condanna. Anche se il testo in esame modifica solo poche disposizioni del codice di rito, è evidente che ci troviamo di fronte ad una


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vera e propria riforma del sistema delle impugnazioni, la cui esatta portata può essere compresa solo se si abbandonano pregiudizi culturali sulla funzione del processo penale e sul rapporto tra Stato e cittadini.
La dottrina più avanzata - come peraltro le stesse sezioni unite della Corte di cassazione - ha posto la questione dell'inappellabilità delle sentenze di procedimento come un problema di equilibrio tra due interessi: quello di garantire la libertà dei cittadini e quello di garantire la sicurezza dello Stato e la repressione dei reati. La questione dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento può essere tradotta nei seguenti termini: in uno Stato democratico, in cui la persona è posta al centro dell'ordinamento, si può ammettere che un individuo, già riconosciuto innocente da un organo dello Stato, al termine di un regolare processo, possa essere nuovamente assoggettato ai patimenti del processo penale, per consentire ad alcun altro organo dello Stato - in questo caso, il pubblico ministero - di provare che nel precedente processo, un altro organo dello Stato - ossia il giudice - si era sbagliato? Secondo le democrazie più avanzate, la risposta non può essere che negativa. La Corte suprema degli Stati Uniti, ad esempio, ha espressamente affermato che lo Stato, con tutte le sue risorse ed il suo potere, non dovrebbe avere il permesso di compiere reiterati tentativi di condannare un individuo per le offese di cui è accusato, così costringendolo a vivere in quello stato di continua ansia ed insicurezza che caratterizza la terribile esperienza del processo penale. Se, invece, si consente ciò, la disparità delle forze in gioco, ossia lo Stato contro un cittadino, si finisce sostanzialmente per ingigantire la possibilità che l'individuo, sebbene innocente, possa essere giudicato colpevole.
Con la presente proposta di legge, si vuole affermare tale principio anche nel nostro ordinamento, dando attuazione a quanto si desume dal Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Strasburgo nel 1984 e resa esecutiva in Italia dalla legge n. 90 del 1990 che, all'articolo 2, sancisce il diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale per chiunque venga dichiarato colpevole di un'infrazione penale da un tribunale. Si tratta, quindi, di sancire un principio di democrazia.
Appartiene allo Stato totalitario l'esigenza di compiere qualsiasi tentativo affinché l'interesse alla repressione della delinquenza sia, comunque, soddisfatto, anche quando ciò avvenga a discapito delle libertà individuali.
Per le democrazie, invece, il punto di equilibrio tra l'esigenza di una sicurezza considerata come una mera astratta pretesa punitiva e l'esigenza di tutela della dignità e della libertà della persona deve essere spostato altrove.
Sicurezza, in uno Stato democratico, significa garantire agli organi dello Stato tutti gli strumenti necessari per applicare, in maniera corretta, leggi giuste, punendo con certezza e con fermezza coloro che, violandole, pregiudicano la pacifica convivenza dei cittadini.
Come è stato affermato in dottrina, se lo Stato ha sbagliato una volta nell'esercitare l'azione penale, perché l'imputato è risultato innocente al di là di ogni ragionevole dubbio, il giusto equilibrio tra autorità statuale e diritti individuali di libertà impone allo Stato di non riprovarci. La sentenza di assoluzione è già lì a denunciare una ferita ingiustificata ai più grandi valori e ai diritti individuali.
Uno Stato che non demorde nei confronti di chi, a seguito di un processo penale condotto nel rispetto della legge, risulti innocente è uno Stato in cui il valore assoluto non è la persona, ma l'autorità. È uno Stato per il quale la dignità e la libertà della persona cedono di fronte all'esigenza di punire, in quanto per esso non importa se ciò avviene attraverso reiterati tentativi anche nei confronti di colui che per lo Stato è risultato innocente.
L'appello contro una sentenza di proscioglimento non costituisce altro che un ulteriore tentativo, dopo quello fallito in primo grado, che lo Stato compie per


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dimostrare la fondatezza di un'ipotesi che un giudice ha dimostrato infondata al termine di un processo nel quale è stata dimostrata l'innocenza dell'imputato.
Consentire al pubblico ministero di chiedere ad un nuovo giudice che sia confermata un'ipotesi accusatoria già ritenuta infondata da un altro giudice, significherebbe considerare irrilevante la circostanza che il processo è, di per sé, già una pena, che con il suo inizio stravolge, segnandola spesso in modo irrimediabile, la vita di un uomo.
In uno Stato democratico il processo penale dovrebbe essere l'extrema ratio alla quale ricorrere solamente quando vi sia il fondato dubbio che una persona abbia commesso un reato. Tale dubbio c'è quando si procede al rinvio a giudizio, ma viene meno quando il processo si conclude con una sentenza di assoluzione.
In uno Stato democratico l'appello deve essere considerato unicamente come una garanzia per l'imputato al quale, in base all'esigenza propria di ogni democrazia di azzerare il rischio di condannare un innocente, viene concessa la possibilità di ottenere un riesame nel merito da parte di un nuovo giudice.
Attribuire tale possibilità all'imputato, senza consentire, allo stesso tempo, al pubblico ministero di chiedere il riesame di una sentenza di proscioglimento non significa violare il principio di parità delle parti processuali. Su questo punto, la Corte costituzionale si è già pronunciata. Con la sentenza n. 98 del 1994 si è chiarito che il riconoscimento del potere di impugnazione dell'imputato non ne comporta, di per sé, uno corrispondente per il pubblico ministero, le cui funzioni non sono assistite da garanzie di intensità pari a quelle assicurate all'imputato dall'articolo 24 della Costituzione.
La riforma dell'articolo 111 della Costituzione, che ha sancito il principio secondo cui il processo è un processo di parti, non fa perdere valore a tale pronuncia, in quanto - come ultimamente è stato affermato in dottrina - non significa che nel processo penale tutto ciò che spetta ad una parte debba, comunque, per forza spettare anche all'altra parte. Il principio di parità delle parti deve essere letto in base all'intero dettato costituzionale.
Nel caso dell'appellabilità delle sentenze di proscioglimento, ad esempio, di fronte a una provata innocenza, non è ammissibile ledere, attraverso un nuovo processo, la dignità umana per una seconda volta solamente perché il giudice di primo grado si può essere sbagliato nel valutare i fatti.
Occorre, infatti, considerare che, mentre l'appello contro la sentenza di condanna costituisce un rimedio che viene attribuito a un soggetto per consentirgli di chiedere ad un altro soggetto che lo ha ritenuto colpevole di cambiare la propria valutazione in merito, l'appello del pubblico ministero contro una sentenza di assoluzione altro non è che il riconoscimento a un soggetto della possibilità di dimostrare di essersi sbagliato nell'assolvere un individuo. Poco conta che sia il pubblico ministero a chiedere di dimostrare che un giudice si sia sbagliato, in quanto sia il pubblico ministero che il giudice di primo grado sono lo Stato.
Se l'appello contro una sentenza di condanna rappresenta una diretta esplicazione di un diritto di rilevanza costituzionale, cioè il diritto di difesa, lo stesso non si può dire dell'appello del pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione.
Inoltre, vi è un ultima considerazione che merita di essere sottoposta all'Assemblea. In ogni Stato democratico è generalmente riconosciuto il principio secondo cui la sentenza di condanna deve essere pronunciata quando non vi è alcun ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell'imputato. Come si può affermare, quindi, che non sussiste un dubbio quando una persona, per uno stesso fatto e sulla base delle stesse prove, sia considerato da un giudice innocente e da un altro giudice colpevole?
Tale dubbio è ancora più forte se si considera che il giudice di appello ha un rapporto mediato con le prove, anziché diretto come lo ha il giudice di primo grado. La sentenza di condanna in appello


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è pronunciata da un giudice che ha letto solo delle carte, mentre la sentenza di assoluzione di primo grado è pronunciata da un giudice in presenza del quale le prove si sono formate.
Non costituisce poi un limite costituzionale all'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Anche su questo punto la Corte costituzionale è stata chiara nel precisare che l'appello non costituisce una conseguenza necessaria dell'azione penale. Se così non fosse, il pubblico ministero dovrebbe avere il dovere di appellare ogni sentenza di assoluzione, ma così non è. L'appello del pubblico ministero non trova quindi alcuna copertura costituzionale né nel principio di parità delle parti, né in quello dell'obbligatorietà dell'azione penale. Anzi, nella Costituzione e, più in particolare, nel giusto equilibrio tra libertà e sicurezza, inteso nel senso sopra descritto, l'appello contro una sentenza di proscioglimento potrebbe trovare dei limiti invalicabili.
È bene ricordare che non è solo la dottrina a porre la questione dell'inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Le sezioni unite della Corte di cassazione, ad esempio, nel riconoscere come diritto vigente il principio che l'accusa deve provare la colpevolezza dell'imputato oltre ogni ragionevole dubbio, hanno manifestato una serie di perplessità sull'appello contro la sentenza di proscioglimento. Il procuratore generale presso la Corte di cassazione, nella sua relazione inaugurale dell'anno giudiziario 2004, ha affermato: «Sarebbe privo di giustificazione razionale escludere il potere di impugnare per violazione di legge sostanziale e processuale, mentre sarebbe giustificato escludere l'appello contro la sentenza di assoluzione che miri a una nuova valutazione del fatto». Quale ragionevole dubbio può sussistere sulla responsabilità di chi è stato già assolto da un giudice imparziale? Secondo il procuratore generale della Cassazione, nessuno.
Prima di passare all'illustrazione degli articoli della proposta di legge in esame, ritengo opportuno precisare che l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione di non significa sacrificare la parte civile, in quanto la riparazione dei danni civili sarà compiuta dal giudice civile. La tutela penale e quella civile operano, infatti, su piani diversi. Come si vedrà, su questo punto la Commissione si è soffermata a lungo.
A tale proposito è comunque utile ricordare che in Commissione si è dimostrata da parte dei gruppi una pressoché unanime condivisione del principio dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. Tanto le associazioni rappresentative dell'avvocatura, quanto l'Associazione nazionale magistrati, nel corso delle audizioni svolte, hanno mostrato di essere favorevoli al principio, sebbene l'Associazione nazionale magistrati abbia manifestato alcune perplessità sulla sua applicazione pratica. Opinioni divergenti si sono manifestate solo sulla portata applicativa del principio in riferimento al proscioglimento per prescrizione del reato ed agli effetti nei confronti della parte offesa.
Altro punto che un gruppo di opposizione ha ritenuto di non condividere riguarda le modifiche in materia di ricorso per Cassazione apportate dal testo a seguito dell'approvazione di un emendamento in Commissione.
Passando al contenuto del provvedimento, l'esame in Commissione ha portato ad undici i quattro articoli originari del testo, i quali, peraltro, non sono stati modificati, se non apportando delle correzioni di coordinamento al primo articolo.
Il provvedimento, quindi, si compone di undici articoli. In particolare, l'articolo 1 sostituisce l'articolo 593 del codice di procedura penale, che disciplina i casi di appello. Viene previsto che il pubblico ministero e l'imputato possano appellare soltanto le sentenze di condanna. Viene confermata, inoltre, la previsione dell'inappellabilità delle sentenze di condanna per le quali è stabilita la sola pena dell'ammenda. Implicita alle disposizioni sopraesposte è quindi la statuizione dell'inappellabilità di tutte le sentenze di proscioglimento. La Commissione ha ribadito,


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inoltre, la disciplina vigente in materia di rito abbreviato e di patteggiamento.
Gli articoli da 2 a 4 sono conseguenziali alla scelta dell'inappellabilità effettuata dall'articolo 1.
L'articolo 2 è diretto a sostituire il comma 2 dell'articolo 597 del codice di procedura penale, riguardante la cognizione del giudice di appello.
Più in particolare, la disposizione citata riproduce le previsioni attualmente contenute nel comma 2, eliminando solo quelle relative all'appellabilità della sentenza di proscioglimento.

PRESIDENTE. Onorevole Bertolini...

ISABELLA BERTOLINI, Relatore. Due minuti soltanto, Presidente.
Viene stabilito, infatti, che quando appellante è il pubblico ministero il giudice possa, entro i limiti della competenza del giudice di primo grado, dare al fatto una definizione giuridica più grave, mutare la specie o aumentare la quantità della pena, revocare benefici, applicare, quando occorre, misure di sicurezza ed adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge. Se conferma la sentenza di primo grado, il giudice può applicare, modificare o escludere, nei casi determinati dalla legge, le pene accessorie e le misure di sicurezza.
L'articolo 3 detta una disposizione di coordinamento, modificando l'articolo 323 sulla perdita di efficacia del sequestro preventivo.
Anche l'articolo 4 detta una disposizione di coordinamento e viene soppresso il comma 1 dell'articolo 443 che definisce i limiti all'appello delle sentenze di proscioglimento: queste ultime, infatti, sono rese del tutto inappellabili dal provvedimento in esame.
Gli articoli da 5 a 11 sono stati introdotti nel testo dalla Commissione. Mi soffermo sull'articolo 10 che modifica l'articolo 652 del codice di procedura penale ed interviene sulla materia dell'efficacia della sentenza penale di assoluzione nei giudizi civili e amministrativi. Su tale questione la Commissione ha svolto un approfondito dibattito, poiché si è ritenuto opportuno evitare che il principio dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento possa tradursi in un danno per la parte civile.
Di particolare interesse è sicuramente l'articolo 9, che modifica l'articolo 606 del codice di procedura penale in materia di ricorso per Cassazione. La Commissione ha ritenuto che alla previsione dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento dovesse corrispondere un ampliamento dei motivi del ricorso di legittimità. Nel corso del Comitato ristretto, che la Commissione ha istituito per esaminare gli emendamenti presentati, si è valutata l'opportunità di prevedere tale ampliamento solo per le ipotesi in cui la nuova legge non ammette più l'appello. Tuttavia, si è ritenuto che il sistema stesso delle impugnazioni sarebbe risultato privo di razionalità qualora si fosse optato per una differenziazione dei motivi del ricorso per Cassazione a seconda che la sentenza impugnata fosse di assoluzione o di condanna. In particolare, l'articolo 9 modifica i motivi del ricorso relativi alla mancata assunzione di una prova decisiva ed alla mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

PRESIDENTE. Onorevole Bertolini, deve concludere.

ISABELLA BERTOLINI, Relatore. Signor Presidente, in questo caso le chiedo l'autorizzazione alla pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale della mia relazione.

PRESIDENTE. La Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

MICHELE SAPONARA, Sottosegretario di Stato per l'interno. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bonito. Ne ha facoltà.


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FRANCESCO BONITO. Signor Presidente, anche per correggere in qualche misura le valutazioni di ordine generale e politico testé svolte dalla collega relatrice, vorrei iniziare precisando che la posizione del mio gruppo è contraria all'approvazione della proposta di legge in esame. Ciò per le ragioni che, ancorché sinteticamente, mi accingo ad illustrare.
Non possiamo negare - e non lo facciamo in questa circostanza - che il principio ispiratore della proposta di legge, cioè che le pronunce di assoluzione debbano essere inappellabili da parte della pubblica accusa, integri un principio condivisibile se assunto in sé. Si tratta di un principio che ha fondamenta culturali, giuridiche e teoriche indubbiamente robuste. Cionondimeno, esso trova la nostra opposizione in ordine all'introduzione nel codice di procedura penale vigente perché molti rilievi in ordine ad esso, alla sua attualità ed alla sua opportunità sono da muoversi in questo momento.
In primo luogo, crediamo non sia cosa giusta e corretta introdurre modifiche settoriali nell'ambito di una codicistica penal-processualistica che ormai ha conosciuto il bisturi della Corte costituzionale, le modifiche di natura interpretativa da parte della giurisprudenza del giudice di legittimità e - diciamolo anche con un senso di autocritica - il saccheggio da parte del legislatore. Oggi abbiamo, nel nostro ordinamento, un codice di procedura penale che si è di molto allontanato dalle sue origini e dai criteri teorici ispiratori della sua prima promulgazione e ad oggi appare come un insieme di norme spessissimo contraddittorie e in ogni caso come un insieme di sistema che sta a disciplinare un processo penale del quale nessuno è contento e del quale soprattutto sono scontenti gli utenti e i cittadini italiani.
In questo ambito, occorre dire che il sistema di gravame delineato del codice di procedura penale è un insieme contraddittorio - a dirla in maniera semplice e benevola - di norme, dalla cui contraddittorietà emerge poi un modello incomprensibile, sotto qualsiasi punto di vista lo si assuma. I teorici del processo, sia civile sia penale, insegnano che un sistema adeguato, efficace ed efficiente di gravame dovrebbe avere una rappresentazione grafica simile al triangolo isoscele, dove il lato che costituisce la base è il primo grado e dove l'apice del triangolo è dato dal giudice di legittimità. Viceversa, se volessimo riprodurre graficamente, sotto l'aspetto geometrico, il nostro sistema di gravame, dovremo far riferimento ad una figura trapezoidale, priva di qualsiasi sistematicità e qualsiasi equilibrio.
Ecco perché pensiamo che un ulteriore, ennesimo intervento riformatore e novellatore sul sistema delle impugnazioni rischia - il rischio è reale, forte e fondato - di aggravare i caratteri di contraddittorietà e di difficoltà da parte dell'utenza. A parte ciò, colleghi e Presidente, com'è stato altresì sottolineato dalla relatrice, il modello che fuoriesce dall'insieme delle norme novellatrici proposte è un modello che mette da parte, in ogni caso impoverisce, la posizione della parte civile nel processo penale del nostro paese. Conosciamo bene le discussioni, che su questa materia hanno appassionato, e tuttora appassionano, teorici e pratici del diritto. Sta di fatto che nella nostra tradizione comunque la parte civile ha avuto sempre nell'ambito del processo penale un importante riconoscimento ed è nella logica delle cose che quando si costruisce un modello di tutela giurisdizionale, dove c'è una autostrada, che è il processo penale, e dove c'è una mulattiera tortuosa, che è il processo civile, non può da parte nostra ritenersi soddisfacente la tesi e la conclusione che la parte civile può vedere soddisfatte le proprie pretese nell'ambito della giurisdizione civile, perché ciò comunque comporta il disconoscimento di sacrosante istanze di tutela giurisdizionale.
Ma v'è una parte importante del provvedimento, pervenuto in Assemblea al termine dell'esame in sede referente in Commissione, che noi riteniamo ingiusta, inopportuna e sulla quale esprimiamo un giudizio nettamente negativo. Come spesso accade - è accaduto in questa legislatura -, nell'ambito di una proposta normativa, sia di iniziativa parlamentare sia di iniziativa


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governativa, vediamo spuntare e comparire norme, discipline, ulteriori proposte, che quel testo vanno sotto qualche forma ad arricchire, ma che introducono nuove e distinte problematiche, rispetto alle quali occorre esprimere nuovi e distinti giudizi e nuove e distinte riflessioni.
In questa proposta di legge, oltre alla dibattuta questione dell'appellabilità o meno delle pronunce di assoluzione da parte della pubblica accusa, viene inserita una nuova disciplina del giudizio di legittimità davanti alla Cassazione penale. Non possiamo, al riguardo, non richiamare la posizione dell'intera dottrina accademica del nostro paese, nonché le vere esigenze avvertite dal sistema.
Da anni, viene denunciato il fatto (lo denunciano anche le istanze istituzionali più importanti, nonché le istanze accademiche più autorevoli) che la nostra suprema Corte di cassazione viene privata dei suoi caratteri essenziali.
Una suprema corte è il giudice supremo di piccoli numeri. Non esiste in altro modello giurisdizionale alcun giudice apicale che, come accade in Italia, si debba occupare di migliaia e migliaia di ricorsi e di processi (la suprema Corte italiana è arrivata ad occuparsi di 100 mila processi). Pertanto, un legislatore attento percorrerebbe strade diametralmente opposte a quelle proposte dalla maggioranza e di cui oggi discutiamo in quest'aula.
Dobbiamo rendere più difficoltoso l'accesso alla suprema Corte, restituendo ai giudici di legittimità del nostro paese la possibilità di esprimersi in tale veste, nel livello apicale di un sistema di gravame. Invece, viene proposta una norma che, tornando al passato, rende possibile nella giurisdizione penale il ricorso al giudice di legittimità ogniqualvolta la motivazione sia mancante ovvero contraddittoria. Ciò significa trasformare il giudice di legittimità in un terzo giudice di merito e, soprattutto, rendere possibile che il giudice di legittimità rimanga investito da una pletora, da un numero abnorme di ricorsi (il che determina l'annullamento della sua funzione essenziale di giudice di nomofilachia e, comunque, di giudice apicale del sistema giurisdizionale del nostro paese).
Vorrei esprimere alcune considerazioni sull'articolo 7, laddove viene proposta la formula «al di là di ogni ragionevole dubbio», al fine di sostenere la pronuncia di condanna del giudice penale.
In merito a ciò, non avremmo sul piano teorico granché da dire e da obiettare, ma, a nostro avviso, introdurre sic et simpliciter, al di là di una ricostruzione dell'intero sistema processuale, una formula di questo tipo significa dare un input all'interprete assai pericoloso, della cui opportunità dubito fortemente. L'interprete già oggi condanna al di là di ogni ragionevole dubbio, senza che la formula sia iscritta nell'articolo 533 del codice di procedura penale e, allorquando dovrà leggere la novella, si porrà logicamente ed onestamente una questione: l'interprete potrebbe sostenere che tutto quello che lo aiutava e lo induceva alla formulazione di un giudizio oggi non va più bene. Occorre qualcosa di più; occorre che si superi un dubbio che viene definito ragionevole, anche se tale formula ne ricorda altre abusate ed inutili del tipo: «è severamente vietato».
Ebbene, un'ultima considerazione sulla norma transitoria, che non riteniamo giusta ed opportuna, in quanto suscita in noi - e non soltanto in noi - formidabili dubbi sulla possibilità di strumentalizzare questa disciplina che, come sempre è accaduto nel corso di questi quattro anni, potrebbe essere stata prevista per incidere su processi in corso.
Non vedo per quale ragione non si debba affidare ai sacri, santi, sommi principi generali del processo penale l'applicazione ai processi in corso di una nuova norma di natura processualistica; non vedo per quale ragione - come previsto nel comma 2 dell'ultima norma del testo in esame - si debba incidere in modo particolare sui processi giunti già al grado di appello e con riferimento ai quali un appello sia stato depositato e pronunciato.
Formidabile risulta il dubbio che quella norma sia stata concepita per risolvere vicende in atto (comunque, su tale aspetto


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avremo l'occasione di tornare), cosa che non abbiamo accettato nel corso di questi quattro anni in migliaia di altri casi (questo «migliaia» vuole essere un'indicazione retorica per enfatizzare un fenomeno); contrasteremo pertanto la norma che si vuole introdurre attraverso la presentazione di emendamenti e con lo svolgimento di un'importante discussione in quest'aula (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).

PRESIDENTE. Sospendo la seduta, che riprenderà alle 15.

La seduta, sospesa alle 13,55, è ripresa alle 15.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ALFREDO BIONDI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Fanfani. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE FANFANI. Signor Presidente, la ringrazio, anche del piacere che provo nel discutere questo argomento dinanzi a lei...

PRESIDENTE. Grazie, ma è presente anche l'onorevole Bertolini, che è una cultrice della materia...

GIUSEPPE FANFANI. L'onorevole Bertolini è la relatrice e, dunque, sarà costretta ad ascoltarmi...

PRESIDENTE. Si tratta di una «costrizione funzionale»...

GIUSEPPE FANFANI. ...essendo l'ottava persona presente in quest'aula... Siamo troppi!
Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevole relatrice, intervengo sull'argomento in esame con alcune valutazioni, in primo luogo di ordine generale e successivamente di carattere specifico.
In linea generale, l'esigenza della riforma della sistematica delle impugnazioni è condivisa. Tale sistematica, infatti, costituisce uno degli ibridi presenti nel nostro ordinamento processual-penalistico, di difficile comprensione e di difficile collocabilità nell'ambito del processo accusatorio. Infatti, come è stato ricordato nella relazione, nel processo accusatorio il giudice decide dopo che la prova si è formata necessariamente dinanzi a lui, con le sole eccezioni dell'incidente probatorio e delle prove non ripetibili, la cui acquisizione al dibattimento e la cui utilizzabilità sono comunque consentite. Al di là di tali eccezioni, in virtù del principio generale la prova si forma nel dibattimento, dinanzi allo stesso giudice, non mutabile neppure soggettivamente, di talché il giudizio corrisponda ai criteri dell'immediatezza. Come è stato correttamente rilevato, l'attuale sistematica del procedimento d'appello, che, come è noto, è squisitamente cartaceo e nel quale la rinnovazione del dibattimento e dunque l'acquisizione della prova direttamente da parte del giudice chiamato a decidere costituiscono un'eccezione che si verifica raramente, si pone quale una crasi rispetto al principio generale dell'oralità e dell'immediatezza, proprio del processo accusatorio.
Se, dunque, si pone il problema in linea astratta e generale e si domanda, anche a chi vi parla, se vi è una propensione alla modifica del sistema delle impugnazioni, la risposta è necessariamente affermativa. Tuttavia, non posso che esprimere un giudizio di estrema perplessità quanto alla coerenza del provvedimento in esame rispetto a tale esigenza. Infatti, il tema della riforma del sistema delle impugnazioni, per la sua delicatezza e per la delicatezza dei problemi che pone, non può essere affrontato prendendo spunto da una proposta di legge che individua alcuni aspetti particolari, come l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione (che peraltro mi trova da sempre favorevole, probabilmente per le mie origini culturali di penalista).
Non è possibile neanche affrontare tale problema prendendo spunto da alcune questioni - a mio avviso marginali -, come la disciplina dell'archiviazione necessaria;


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così definisco un aspetto singolare (sul quale mi soffermerò più avanti) della proposta di legge al nostro esame, ovvero l'ampliamento della possibilità di ricorso per Cassazione: un'ipotesi contraria all'evoluzione storica dell'istituto stesso.
Da sempre, in Commissione, esaminando la tematica della razionalizzazione del sistema delle impugnazioni, abbiamo ritenuto tutti che uno dei cardini fondamentali del nostro comune orientamento fosse quello di limitare la possibilità di adire il giudice di legittimità a casi assolutamente eccezionali.
Sotto tale profilo, non ritengo sia possibile esprimere un giudizio positivo del provvedimento al nostro esame. Sarebbe certamente meglio affrontare alcuni problemi di carattere più ampio - ai quali lo stesso relatore ha fatto riferimento nel momento stesso in cui ha collegato la qualità della giurisdizione di un paese con la qualità della sua democrazia - affrontando questo aspetto fondamentale del processo penale con la dignità che la complessità della materia impone.
Più volte ho visto dibattere di temi settoriali con un'ampiezza di analisi che non rilevo nella discussione di questo testo; analisi che, invece, proprio per la sua natura di carattere generale, sarebbe opportuna.
Affrontare il problema della riforma del sistema delle impugnazioni vuol dire trattare una riforma che stravolge completamente il nostro sistema processual-penalistico. In funzione di un tale obiettivo è necessario scegliere se enfatizzare fino in fondo il procedimento accusatorio - nel quale oggi ci troviamo «immersi» per scelta - e di renderne qualificato il primo grado, ossia quel livello di giurisdizione vicino ai cittadini, garantendo che tale primo grado sia un livello di giurisdizione «vero». Infatti, assistiamo oggi a processi espletati dalla magistratura ordinaria che chi frequenta le aule giudiziarie sa quanto siano lontani dalla qualità della giurisdizione auspicata da ciascun cittadino impegnato in prima persona in questo settore (come imputato o come persona offesa). Siamo di fronte a difetti oggettivi di funzionamento del sistema che rendono il primo livello di giurisdizione non sempre all'altezza del compito che esso si prefigge.
Esistono delle situazioni ibride, quali il giudizio abbreviato ed il giudizio abbreviato condizionato, che con il processo accusatorio non c'entrano assolutamente nulla. Non v'è una sola prova, in queste forme di processo, che sia acquisita o formata con quello schema generale che, invece, è il cardine del processo accusatorio. Altre situazioni, inoltre, difficilmente ci portano ad esprimere un giudizio positivo in ordine alla qualità del procedimento di primo grado.
Per sintetizzare questo ragionamento e per completare le mie considerazioni di carattere generale, aggiungo che concordo perfettamente sulla volontà di riformare il sistema delle impugnazioni; verifichiamo se tale sistema vada mantenuto com'è, oppure se, come alcuni sostengono, vada eliminato completamente, riducendolo soltanto ad un sistema relativo alla legittimità.
Non possiamo, però, affrontare questi problemi con la ristrettezza di argomenti che caratterizza la proposta di legge n. 4604. Il provvedimento al nostro esame ha certamente un merito, quello di aver portato all'attenzione del Parlamento il problema dell'impugnabilità delle sentenze di assoluzione. Ma ha solo questo merito!
Difatti, nel momento stesso in cui il Parlamento decide di portarla avanti e di approvarla si troverà nella difficoltà oggettiva di dover dare una soluzione marginale ad un problema enorme che presuppone un'impostazione culturale della quale non mi è parso sia stato fatto alcun riferimento. Mi si deve dire, infatti, qual è la scelta in ordine al procedimento di appello, alla impugnabilità delle sentenze, alla compatibilità tra verifica di merito del giudizio di appello e verifica di legittimità del giudizio di Cassazione, nonché in ordine alla compatibilità tra la seconda verifica di merito cartacea e il primo procedimento di merito.
Noi abbiamo ereditato un'impostazione, frutto certamente di compromessi,


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che ha fatto, in linea generale e salvo modifiche ed adattamenti del sistema italiano, una scelta di riferimento ad una sistematica processuale di tipo anglosassone per quanto concerne il processo di primo grado, ma abbiamo però lasciato intatta la sistematica che avevamo in ordine agli altri due giudizi di impugnazione. Conseguentemente, la prima grande scelta che bisognerebbe fare è proprio questa; e, una volta operata questa grande scelta, bisognerebbe avere la capacità di ridisegnare complessivamente i vari istituti in funzione delle scelte operate.
La conseguenza di questa ristrettezza di obiettivi - dicendo ciò non intendo operare una censura nei confronti del proponente - è un'oggettiva constatazione della difficoltà di comprendere alcuni istituti e la difficoltà anche di calarli all'interno della nostra sistematica. Colleghi, quando valuto la proposta di modifica dell'articolo 503 del codice di procedura penale che attiene alla sentenza di condanna, e quando vedo che si vuole introdurre un principio al quale ho sempre creduto - quello della condanna soltanto quando la responsabilità dell'imputato emerga al di là di ogni ragionevole dubbio -, mi trovo nella difficoltà di calare questo principio, che ritengo giusto, all'interno di una sistematica senza che la stessa non sia modificata nel suo complesso. Sostenere che l'imputato possa essere condannato soltanto se non vi sono dubbi sulla sua colpevolezza significa dire una cosa sacrosanta, ma significa anche elevare, secondo il principio cartesiano, il dubbio a fondamento della ragione. La grande dignità del sillogismo cartesiano non è nella conclusione - Cogito, ergo sum (siccome ragiono, sono) -, ma è nella premessa - Dubitans cogito - che è il fondamento della modernità del pensiero e della teoretica di Galileo.

PRESIDENTE. E anche di Agostino!

GIUSEPPE FANFANI. Anche di Agostino d'Ippona, noto extracomunitario. Dico ciò per affermare che anche le culture non italiane hanno la loro dignità. In questa sede, su ciò non tutti sono d'accordo. Grazie, comunque, Presidente, per l'assist che mi ha dato: anche le culture che vengono da fuori dell'Italia hanno, ripeto, spesso grandissima dignità! Proprio per questo ritengo che tale principio sia astrattamente sacrosanto. Però, mi si deve dire dove lo si vuole calare.
Noi abbiamo già storicamente codificato il principio: all'articolo 530, il nostro codice buffo, da un lato, prevede quali sono i casi in cui si deve assolvere, dall'altro, stabilisce quali sono le condizioni che debbono sussistere perché il giudice possa condannare. E ciò come se il discrimine tra l'assoluzione e la condanna non esistesse esclusivamente nell'intimo convincimento del magistrato. Se il nostro codice stabilisse che il magistrato deve condannare un soggetto quando, al di là di ogni ragionevole dubbio, è in coscienza certo della sua colpevolezza, ed assolverlo negli altri casi, avrebbe senza dubbio espresso lo stesso principio.
Ma nel nostro codice, a causa dell'enfasi di voler disciplinare tutto, è stato dettato anche l'articolo 530, che stabilisce in quali casi l'imputato debba essere assolto con quella che, una volta, veniva chiamata formula piena: «Se il fatto non sussiste, se l'imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un'altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione (...)».
Poi, però, il secondo comma chiarisce quale sia il fondamento del dubbio, anzi spiega cos'è il dubbio: «Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova» - ecco: la contraddittorietà della prova! - «che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile»: si analizza il dubbio, lo si atomizza e si stabilisce che, se non è sufficiente la prova, ovverosia il rapporto tra il fatto e la logica di chi deve giudicare (in funzione della commissione del fatto, dell'identità tra


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l'imputato e colui che ha commesso il fatto, della sussistenza del reato, e via dicendo), l'imputato deve essere assolto.
Orbene, il ragionevole dubbio deve essere inserito nel predetto secondo comma, nel quale andrebbe precisato che, quando sussiste un ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell'imputato, questi va assolto: la norma sulla cosiddetta insufficienza di prove è la collocazione sistematica più ovvia per inserire il dubbio. Qual è, infatti, il tipo di conclusione che il magistrato deve trarre dal fatto di avere un ragionevole dubbio, allorquando, a fronte di un impianto probatorio comunque indiziante, sussistono elementi che lo portano a dubitare fortemente della colpevolezza dell'imputato? Il collega Saponara, il quale ha calcato le aule prima di me, sa che la conclusione cui storicamente si perveniva era la seguente: il dubbio ragionevole conduce all'insufficienza di prove.
Al contrario, non possiamo, dal punto di vista sistematico, inserire il ragionevole dubbio all'interno di un articolo che qualifica gli elementi della condanna: «Se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli, il giudice pronuncia sentenza di condanna (...)»: è ovvio che la colpevolezza deve risultare al giudice al di là di ogni ragionevole dubbio se ciò è già espresso nel secondo comma dell'articolo 530, che avrebbe dovuto portare il giudice all'assoluzione.
Perché lo dico? Perché o ridisegniamo l'intera materia - e possiamo utilizzare anche la formula anglosassone che è stata proposta - e stabiliamo che il giudice condanna quando, al di là di ogni ragionevole dubbio, è convinto che l'imputato sia colpevole - e basta - e risolviamo in tale modo i dubbi talvolta angosciosi che un giudice può avere nell'affrontare il problema della colpevolezza o dell'innocenza di un soggetto, oppure, se non ne abbiamo il coraggio, non mettiamo le mani in questa materia, perché farlo modificando soltanto un articolo potrebbe rivelarsi, oggettivamente, devastante per l'intero sistema.
Nel ripetere che sono favorevole a risolvere il problema nei termini indicati dal relatore, che si leggono nell'articolato, ma a condizione che sia ridisegnata l'intera materia, mentre non sono assolutamente d'accordo ad affrontarlo in questi termini, vado anche oltre l'impostazione del provvedimento in esame, peraltro in conformità a quanto ho già detto in Commissione.
Sono d'accordo sul fatto che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento e di assoluzione, ma non sono d'accordo sul fatto che il pubblico ministero possa appellare, come risulta dal testo, contro le sentenze di condanna: il pubblico ministero ha esaurito la propria funzione quando ha tratto a giudizio l'imputato. Consentire al pubblico ministero di appellare contro una sentenza di condanna vuol dire consentirgli di appellare contro la quantità della condanna (perché la condanna c'è stata), vuol dire non avere fiducia nel giudizio del magistrato, vuol dire ritenere che la funzione di perseguire il colpevole, progredita fino alla fase dibattimentale davanti al magistrato giudicante e concretizzatasi in un giudizio di colpevolezza e nella conseguente condanna, possa essere ancora censurabile in ordine alla misura della pena. La misura della pena è rimessa - vivaddio! - al giudizio del magistrato; ed io, sotto questo profilo, non ritengo che il pubblico ministero debba avere la possibilità di rimetterla in discussione.
In questo provvedimento è presente un altro errore che ritengo debba essere corretto. Mi riferisco all'articolo 5 e all'inserimento del comma 1-bis dopo il comma 1 dell'articolo 405 del codice di procedura penale. Credo che su questo articolo, che rappresenta una forzatura del sistema, si debba fare una seria riflessione. Quando la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza di gravi indizi di colpevolezza, pronunciandosi in punto di provvedimenti cautelari, si impone successivamente un'archiviazione obbligatoria da parte del pubblico ministero. Qui si commette un errore, perché si parla di richiesta di archiviazione, ponendo sullo stesso


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piano una valutazione giurisdizionale ed il dovere di richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero. Si compie un errore sistematico che può produrre conseguenze enormi. La Corte di cassazione, pronunciandosi su un'impugnativa dell'indagato, soggetto a provvedimento cautelare (perché, la fattispecie è questa) ha dichiarato che quel provvedimento cautelare non poteva essere adottato, perché nella specie non ricorre il principio fondamentale, ai sensi dell'articolo 273, dell'esistenza di gravi indizi di colpevolezza. Ciò non vuol dire che, all'esito delle indagini, il pubblico ministero abbia il dovere di richiedere l'archiviazione, anche perché, con la stessa logica, dovremmo dire che, in quel caso, il giudice delle indagini preliminari ha il dovere di archiviare. Il fondamento è totalmente diverso. Una cosa è la valutazione di gravi indizi di colpevolezza ai fini dell'emissione del provvedimento cautelare o della permanenza del provvedimento cautelare, altra cosa è l'archiviazione che consegue all'indagine. Infatti, il fondamento dell'archiviazione non è l'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza. Al riguardo, leggo testualmente l'articolo 408: «Entro i termini previsti, il pubblico ministero, se la notizia di reato è infondata, presenta al giudice la richiesta di archiviazione». Una cosa è l'insussistenza di gravi elementi di colpevolezza che legittimano l'emissione o la permanenza del provvedimento cautelare, altra cosa è l'assoluta infondatezza della notizia di reato, che legittima la richiesta di archiviazione.
Non so - anche perché tale norma è stata introdotta attraverso una proposta emendativa - quali siano stati motivi che hanno consigliato una formulazione di questo tipo, ma stiamo attenti, perché si corre il rischio di creare i presupposti di una devastazione o (non usiamo parole pesanti) di uno scompenso del sistema, che sarebbe difficilmente recuperabile.
La penultima considerazione riguarda il ricorso per Cassazione e la norma transitoria.
Reintrodurre, nell'ambito del ricorso di Cassazione, che - lo abbiamo più volte detto - si deve sempre più restringere a casi eccezionali, la possibilità (parlo come avvocato, come colui che spesso ha abusato della norma previgente al 1988) di impugnare per Cassazione, ove manchi o sia contraddittoria la motivazione, dopo avere assistito (all'epoca non ero parlamentare) a tutta la discussione se introdurre o meno la dizione risultante dal testo, vuol dire compiere una forzatura, a meno che non si risolva con una proposta emendativa che ho presentato. È ovvio che la mancanza di motivazione non deve risultare dal testo, perché se manca, manca. Immaginare che l'assenza di motivazione debba risultare dal testo, è pretendere di veder ciò che non si vede, anche perché si presterebbe - ma non vorrei dirlo - all'astuzia di qualche magistrato, il quale potrebbe omettere del tutto la motivazione per evitare che essa possa essere censurabile. Tuttavia la mancanza di motivazione su un punto fondamentale della decisione allora sì che assume una sua dignità.
E io propongo nell'emendamento di reinserire quella formula, una volta esistente, nel testo, cioè la mancanza di motivazione, ma in ordine ad un punto ritenuto «essenziale» per la decisione, altrimenti, qualsiasi mancanza di motivazione potrebbe legittimare un ricorso per Cassazione.
Peraltro, a tale proposito la Corte si è espressa più volte su questo punto, ritenendo che la mancanza di motivazione, anche all'epoca in cui esisteva come motivo di censura, dovesse essere attinente ad un punto essenziale della motivazione, ma sarebbe bene inserirlo nel testo; e allo stesso modo per la contraddittorietà, che invece deve risultare dal testo, perché, mentre la mancanza di motivazione non risulterà mai dal testo, la contraddittorietà (e la illogicità della motivazione) o risulta dal testo stesso o non è tale; non ci sarebbe neanche bisogno di metterlo per iscritto o non ci sarebbe stato bisogno di farlo se non vi fosse stato abuso.
Ebbene, la contraddittorietà, non solo deve risultare dal testo, ma, a mio parere, deve anch'essa riferirsi ad un punto essenziale della motivazione: una cosa è


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avere una motivazione illogica e contraddittoria di ordine generale... se ne leggono tante di sentenze che non hanno né capo né coda, anche perché i magistrati, come gli avvocati, molto spesso non hanno le idee in fila... È vero! Ho incluso anche gli avvocati, perché spesso, quando li si ascolta, non si comprende da quale parte inizino a parlare né da quale parte vogliano finire, e allora ci si domanda se il dono di avere le idee in fila è un dono provvidenziale o un optional, che può esistere come l'autoradio nelle automobili!
Dunque, la motivazione deve essere attinente ad un punto fondamentale della decisione, perché un conto è avere una motivazione illogica, che però in ordine a tre o quattro punti è corretta, altra cosa è avere una motivazione illogica in ordine ad un punto fondamentale della decisione: quindi, chiedo al relatore di affrontare anche questo problema.
L'ultima questione che pongo, e concludo nel tempo consentitomi, è quella relativa agli effetti della norma transitoria, la quale potrebbe essere condivisibile laddove afferma che la presente legge si applica ai procedimenti in corso. Se abbiamo deciso che non sono applicabili (fermiamoci qui!) le sentenze di proscioglimento, è giusto che gli appelli contro tali sentenze si convertano in ricorsi per Cassazione, in relazione ai quali vengono assegnati sessanta giorni di tempo per integrarne i motivi con quelli di legittimità: anche questo è giusto, perché se ho fatto ricorso per motivi di merito, non posso sentirmi dichiarare inammissibile un ricorso per Cassazione, che mi si è convertito automaticamente in tale.
Occorre, inoltre, prendere in esame anche una fattispecie determinata, e cioè il fatto che il giudizio di appello sia pendente nella fase della discussione: ce ne sono tanti! È questo un problema che l'articolato al nostro esame pone. Infatti, leggendolo, sembrerebbe - ma questa è una interpretazione data anche da molti che hanno sollevato la questione - che il giudizio di impugnazione, qualora sia già pendente nella fase della discussione dibattimentale, debba concludersi in quel modo: io dico che questo è profondamente ingiusto e prevedo nell'emendamento l'obbligo da parte del giudice di appello di trasmettere immediatamente gli atti alla Corte di cassazione, assegnando lo stesso termine che occorre per integrare i motivi con quelli di legittimità, sospendendo nel frattempo il corso della prescrizione. È questo il quadro che mi sono fatto mentalmente.
Il giudizio che esprimo di questo provvedimento rimane quello iniziale: è stato certamente opportuno porre il problema, tuttavia la norma non appare esauriente, e come tale non è accettabile nel suo complesso.
Riteniamo pertanto che la discussione in Assemblea possa servire ad approfondire meglio il problema (e comunque forse sarebbe utile che anche la Commissione lo riesaminasse sotto il profilo tecnico), riservandoci di esprimere un giudizio finale all'esito di tale esame (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Perrotta. Ne ha facoltà.

ALDO PERROTTA. Signor Presidente, non entrerò nei dettagli tecnici del provvedimento in esame, anche perché ritengo che, tecnicamente, la collega Bertolini abbia più che esaurientemente illustrato gli articoli della proposta di legge. Al riguardo, faccio solo un inciso, non polemico.
Si è sostenuto che, con il provvedimento in esame, si vogliono soffocare le parti civili. Ciò non è vero - ed è l'unica mia osservazione tecnica -, in quanto l'articolo 10 stabilisce che: «L'articolo 652 del codice di procedura penale è sostituito dal seguente: (...) La sentenza penale di assoluzione non ha effetto nei giudizi civili e amministrativi, salvo che» - logicamente - « la parte civile si sia costituita nel processo penale ed abbia presentato le conclusioni». Pertanto, tale critica non mi sembra assolutamente vera.
Farò poi alcune ulteriori brevissime considerazioni. È dall'inizio di questa legislatura,


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se non dall'inizio della storia della nostra Repubblica, che si lamentano i tempi notevolmente lunghi della giustizia. Vorrei al riguardo ricordare che il nostro ordinamento permette che un cittadino italiano rimanga dieci, quindici o, finanche, venti anni sotto processo; tutti abbiamo lamentato come ciò non solo costituisca un dispendio di risorse dal punto di vista economico - da parte dei cittadini e dello Stato - ma rappresenti, altresì, un elemento di forte deterioramento della qualità della vita per i cittadini ingiustamente sottoposti ad un processo. Infatti, sfido chiunque a restare sotto processo per dieci, quindici o anche venti anni, sentendosi innocente e sapendosi tale; siamo sinceri, i tempi della nostra giustizia, civile e penale, sono questi, e fors'anche più lunghi.
A fronte delle critiche venute, a tale riguardo, da tutte le parti - e soprattutto dalla sinistra, che ancora oggi critica il provvedimento in esame, senza però proporne uno alternativo -, abbiamo ritenuto di introdurre una modifica giustissima. Senza perderci nei sillogismi cartesiani e nei dubbi di sant'Agostino poc'anzi citati, abbiamo considerato come la nostra Costituzione presupponga l'assoluta certezza del dolo per il giudizio penale di condanna; dunque, abbiamo ritenuto che qualsiasi magistrato di secondo grado debba avere tale certezza per condannare un cittadino assolto in primo grado. Non lo dichiaro solo perché ne sono convinto, ma anche sulla base di elementi statistici.
Infatti, nel ritenere inutile la ripetizione di un'accusa verso un cittadino assolto in primo grado - fermo restando che il pubblico ministero potrà pur sempre ricorrere in Cassazione -, ci siamo basati su dati statistici, e non solo sulle nostre opinioni. Mi riferisco alle statistiche relative a quanti, assolti in primo grado, sono stati condannati alla fine dei tre gradi di giudizio. Ebbene, costoro sono solo il 3,7 per cento: vogliamo mantenere centinaia di migliaia di persone sotto processo, pur se assolte in primo grado, perché solo il 3,7 per cento di esse, alla fine, risulterà colpevole? Vorrei, anzi, osservare, considerando le statistiche dei giudizi di colpevolezza, come restino aperti processi per dieci o quindici anni per addivenire, poi, a condanne a due, tre o quattro anni di reclusione, salvo prescrizione.
È logico un sistema del genere? Nel 50 per cento delle cause i cittadini sono assolti in primo grado; è logico, per condannare un 3,7 per cento - condanne che non saranno mai efficaci in quanto, quando una condanna giunge dopo venti anni, è sempre inefficace -, dar seguito a centinaia di migliaia di ricorsi in appello da parte del pubblico ministero, con centinaia di migliaia di notifiche, e miliardi e miliardi di vecchie lire spesi dai cittadini per gli onorari degli avvocati? Si tratta di migliaia, di centinaia di migliaia di cause; tutto ciò determina costi eccessivi e una utilità bassissima per la giustizia.
Non sarebbe meglio - ed è questa la nostra proposta - limitare i ricorsi del pubblico ministero in caso di assoluzione ed impiegare tutte le forze della magistratura nel perseguire i colpevoli? Quante centinaia di migliaia di cause inutili potremmo evitare impiegando i magistrati nel perseguire i cittadini che commettono veramente reati? A tale domanda occorre dare una risposta: non possiamo rispondere «no» perché un articolo dice una cosa e un altro articolo dice un'altra cosa!
Tra le varie ipotesi che abbiamo avanzato per snellire l'iter della giustizia e per concentrare sempre di più l'attività della magistratura nel perseguimento dei colpevoli di reati ordinari, abbiamo proposto una misura giustissima. È inutile, infatti, continuare ad accanirsi fino alla fine sul 50 per cento dei processi senza impedire al pubblico ministero di proporre ricorso (fermo restando sempre il ricorso per Cassazione), perché non vi è alcun beneficio in ordine al rapporto tra costi e ricavi.
Ciò significherà sicuramente snellire notevolmente la mole dei processi e far effettuare una precisa ricognizione dei collegi sui reati. Ciò vorrà dire che abbiamo presentato, come sempre, una proposta di legge giusta, mentre dalla sinistra


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non è stata avanzata alcuna proposta alternativa (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia)!

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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