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PRESIDENTE. Ricordo che nella parte antimeridiana della seduta si sono svolti gli interventi dei relatori e del Governo.
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, dall'Iraq ci arrivano quotidianamente - secondo quel che sembra ormai un macabro rituale di comunicazione dell'orrore - veri e propri bollettini di guerra: una catena infinita di atti di guerriglia, attentati, feroci stragi terroriste. E, poi, puntuali, le rappresaglie delle forze di occupazione anglo-americane. Ma la violenza di questa guerra non è solo confinata in quell'area. Essa deborda e consegna all'umanità, ben oltre il perimetro dell'Iraq, i suoi frutti avvelenati. La tragedia di Londra parla di ciò. Per capire a fondo detta tragedia, per parlarne guardando in faccia la verità, bisogna parlare - questo è il nostro giudizio, questa è la sollecitazione che rivolgiamo all'Assemblea - dell'intreccio tra guerra e terrorismo, tra terrorismo e guerra. Per questo, vi invitiamo, cari colleghi ed esponenti del Governo, a non rimuovere tale intreccio, come invece spudoratamente viene fatto e continuate a fare negli ultimi giorni, dimenticando la guerra e come tale guerra è nata, nella menzogna e nella manipolazione di Stato. Di alcuni Stati, tra i quali il nostro.
La strage terrorista di Londra ha che fare con la guerra in Iraq? A sentire il premier britannico no. Tony Blair sembra essersi convertito del tutto alle analisi della Casa Bianca, oltreché al temporaneo sostegno, come affermava in precedenza, alla guerra contro Saddam Hussein. Parlando, sabato 15 luglio, di fronte al suo partito, il premier britannico ha infatti usato toni da scontro finale contro il terrorismo e, sostenendo che la strage avvenuta nella metropolitana londinese non è da legare in alcun modo alla guerra e che il Regno Unito deve combattere strenuamente «l'ideologia malvagia di Al-Qaeda, dovunque nel mondo si manifesti».
Sono queste le parole del Capo del Governo britannico, a seguito della tragedia di Londra. Quindi, guerra preventiva, infinita, a tutto campo? Una tale cecità politica è quanto di più rischioso oggi vi sia proprio per affrontare con efficacia - come deve essere fatto - il terrorismo, oltre che per uscire - come egualmente dev'essere fatto - dai disastri morali, giuridici e politici che la guerra in Iraq ha prodotto.
Mai come in questo momento, a nostro avviso, va colto a fondo il micidiale intreccio che lega la guerra al terrorismo, l'escalation di violenza che tale intreccio attiva e alimenta, i depositi di odio che scarica in Europa, i punti di non ritorno che sta segnando nella vicenda internazionale.
Qui parlo non di singole azioni terroristiche - tutte sempre esecrabili, a nostro giudizio, soprattutto quando indirizzate contro civili inermi - che sono, però, concepite come appoggio ad altre forme di lotta e ad altre intenzioni e istanze politiche, nell'illusione quasi sempre che la libertà di un popolo possa prodursi in questo modo. Il conflitto israelo-palestinese ne porta drammaticamente il segno. Parlo, invece, di una precisa strategia politica fondata proprio sul terrorismo come azione in sé fondante, non solo distruttrice, ma in qualche modo rigeneratrice e purificatrice dei mali del mondo. Mi riferisco al terrorismo praticato e teorizzato da Al Qaeda, dalla sua rete, dai gruppi e cellule dormienti che vi fanno riferimento. Questo terrorismo, indubbiamente, esiste al di là della guerra, ha una sua precisa e stringente autonomia politica, rappresenta la quintessenza malefica dell'autonomia del politico, della politica come volontà di potenza e di potere. Ed è strumento di un disegno politico che si articola sia all'interno dei paesi arabi sia verso le potenze occidentali. Ciò sia perché esse sono protettrici dei regimi arabi - che Al Qaeda aborrisce e vuol far cadere - sia perché sono portatrici di un modello di civiltà giudicato decadente, corrotto e corruttore di una supposta e sbandierata purezza islamica. Un terrorismo politico e ideologico, dunque, che alimenta la Jihad, la guerra santa, per svegliare le masse arabe dal torpore della convivenza con l'Occidente e imporre la realizzazione del califfato mondiale o, forse, più prosaicamente, un cambio della guardia in alcuni paesi arabi, a cominciare dall'Arabia saudita. Una strategia di potere affogata in una follia sanguinaria e reazionaria, non ci sono altre parole per definirla, che - lo ripeto - non è mossa né automaticamente né in prima battuta dalla guerra in Iraq, nel senso che i suoi obiettivi non coincidono, anzi non hanno nulla a che vedere, con un contrasto di quella guerra, al fine di restituire dignità e indipendenza al popolo iracheno. Al Qaeda, al contrario, utilizza quella guerra per i suoi fini, senza badare a nulla, compreso il rischio di una dinamica incombente da guerra civile.
Ma lo stesso ragionamento analitico lo possiamo - io dico: lo dobbiamo - applicare alla «guerra per la democrazia», come tutti ormai si sono abituati a chiamare quella in Iraq, con uno stravolgimento diabolico e letale della parola democrazia, di cui parlerò in seguito.
Anche la guerra per la democrazia in Iraq non è stata un'automatica risposta al terrorismo né una missione per la democrazia. Tutti fingono di ignorare che gli Stati Uniti d'America intrattengono rapporti di ogni tipo con regimi che con la democrazia non hanno proprio nulla a che vedere e nei cui territori allignano reti e coperture spesso poderose per i gruppi e gli affiliati del terrorismo; e tutti dimenticano che il regime di Saddam Hussein, tra le tantissime colpe, non aveva però quella di intrattenere rapporti e di ospitare gruppi affiliati alla rete di Al Qaeda.
L'Iraq, al contrario, è diventato soltanto oggi il laboratorio delle strategie qaediste, proprio in seguito alla guerra. A Nassiriya i responsabili militari italiani parlano di una crescente porosità dei confini di quella regione con l'Iran, di un flusso incontrollabile di uomini, intenzioni e suggestioni ideologiche. Insomma, un vero e proprio brodo di coltura dell'integralismo, del fondamentalismo e degli annessi e connessi.
Secondo il Royal Institute of International Affairs, centro di ricerche di Londra, la guerra in Iraq ha dato un colpo di accelerazione ad Al Qaeda ed ha reso la Gran Bretagna particolarmente vulnerabile ad attentati come quelli del 7 luglio.
Blair dovrebbe tener conto dei lavori dei suoi ricercatori, oltre che del buonsenso popolare, che ha stabilito, senza ombra di dubbio, un collegamento diretto tra gli attentati e la guerra.
Dunque, se è indiscutibile l'autonomia delle due strategie, è altrettanto indiscutibile che l'una e l'altro si siano messi in simbiosi, sempre più stretta e micidiale perché di essa il terrorismo e la guerra si nutrono ideologicamente, traendo reciprocamente argomenti e suggestioni atti a darsi enfasi identitaria e legittimazione politica di fronte alle rispettive platee.
Il discorso pubblico oggi dominante in Italia ha dimenticato del tutto la guerra in Iraq e il silenzio della politica è aiutato da quella sindrome della vicinanza - così la voglio chiamare -, molto umana e spiegabile - intendiamoci - sul piano antropologico-culturale, ma spesso fatale su quello politico, che ci fa apparire mostruoso l'orrore che si consuma dalle nostre parti e coinvolgente il lutto che colpisce i simili a noi, mentre lontane e poco emozionanti le stragi che avvengono contro gli altri e contro l'altro.
I bombardamenti sulla città di Falluja e le morti, tantissime, come effetto collaterale delle azioni militari dei marines, non hanno sollevato nessuna obiezione presso chi oggi si strappa i capelli di fronte alla strage di Londra.
Occorre invece, a nostro giudizio, parlare della guerra, capire perché è nata, a che cosa mira, come si può intervenire per porre fine veramente a questo disastro. Si tratta di una guerra di dominance mondiale, camuffata da guerra contro il terrorismo, per la democrazia e la difesa della nostra civiltà, volta in realtà a edificare il puzzle di un nuovo grande Medio Oriente a uso e consumo dell'idea che Bush ha dei rapporti col mondo e del privilegio statunitense di imporre i propri interessi su scala globale. Di questo si tratta.
Mettere fine all'occupazione militare dell'Iraq: questa è l'urgenza di oggi, senza le furbizie d'accatto dei governanti implicati nel conflitto, che balbettano di exit strategy ogni giorno diverse, spesso facendo dichiarazioni in contrasto con i loro responsabili militari. Bush parla di andarsene nel 2006, mentre Rumsfeld, pochi giorni fa, ha detto che bisognerà stare in Iraq per altri dodici anni.
Invece, bisogna andarsene, decisamente. Ciò - lo dico subito - non significherà mettere fine al terrorismo. Bisognerà per questo trovare altri mezzi più efficaci, più consoni e su moltissimi piani. Non c'è dubbio. Ma intanto il terrorismo, nella sua determinante connessione di forza con la guerra, sarà privato di una fonte che lo alimenta e legittima, farà più fatica a coltivare le nuove leve giovanili dell'odio antioccidentale, apparirà più chiaramente per quello che è, ossia una strategia di morte e distruzione. E intanto, sarà posta fine a una sanguinosa ferita delle relazioni internazionali, a una violazione delle regole, del diritto, ad una escalation di prepotenza imperiale degli Stati Uniti d'America che rischia di portarci al disastro.
Voglio soffermarmi, in particolare, sul problema della democrazia, perché di ossimori semantici concettuali pratici grondano le vicende militari e la politica internazionale degli ultimi anni. Accanto alle tante devastazioni morali, giuridiche, sociali e politico-istituzionali che la guerra in Iraq ha prodotto, ve n'è una che in modo particolare dovrebbe togliere il sonno a quanti si ostinano a difendere quella guerra in nome dei benefici democratici che essa produrrebbe. Vi è in questa e in simili posizioni la traccia evidente di una inarrestabile metamorfosi, di un insopportabile snaturamento che l'idea stessa di democrazia ha subìto la torsione diabolica a cui è stata sottoposta, in una sorta di eterogenesi dei fini che manipola quell'idea al punto di renderla funzionale alla negazione di se stessa.
Gli Stati Uniti ed i loro alleati stanno esportando la democrazia con le bombe, le rappresaglie feroci sulle città di cui non ci si può fidare, gli Abu Ghraib sparsi sui territori conquistati dai marines, la crescente militarizzazione del territorio che subisce l'occupazione. Mentre fanno questo teorizzano - il Presidente Bush e il suo staff teorizzano - che questa è la via della democrazia, che gli alleati fanno questo per la messa in sicurezza democratica del mondo.
E quando i gruppi terroristi legati alla rete di Al Qaeda riescono a mettere a segno un agguato micidiale, seminando morte e distruzione in qualche città occidentale, Bush, Blair ed i loro alleati - il Presidente del Consiglio Berlusconi, il ministro degli esteri Fini, quello della difesa Martino - si ostinano a ripetere che i valori dell'Occidente non soccomberanno e la democrazia vincerà e chi oggi non apprezza le bombe democratiche domani li ringrazierà. Intanto adottano misure restrittive delle libertà democratiche interne, invocano patriot act e minacciano ritorsioni contro chi non si arrende alla guerra e si ostina a lavorare per la pace.
Uno dei danni più gravi e drammatici che la guerra in Iraq sta producendo in questa nostra parte di mondo è proprio il gigantesco arretramento della nozione e della configurazione pratica, giuridica e simbolica del concetto di democrazia. Nella nostra visita alla base di Tallil, pochi giorni fa, il comandante del contingente italiano, il generale Costantino, ci ha parlato di «democrazia in pillole» da somministrare agli iracheni della provincia di Dhi Qar. Ma la democrazia può essere ridotta a pillole? Non è forse questa una suggestione neocoloniale, che tiene in non cale, anzi disprezza, i concreti percorsi attraverso cui i popoli, i gruppi sociali discriminati, le minoranze oppresse hanno creato in passato e continuano a creare in questa disastrata contemporaneità le condizioni della propria emancipazione e liberazione?
La nostra storia nazionale ci ha insegnato bene quanto sia complesso, difficile e contraddittorio il cammino della democrazia e quanto l'esercizio della democrazia coincida spesso e si alimenti sempre della volontà politica di chi vuole salvaguardarla e metterla in pratica, di chi la conosce. E la storia europea - spesso invocata a vanvera per ragioni identitarie, stralciandone tutto quello che oggi disturba il manovratore - ci dice di un percorso della democrazia quanto mai accidentato, durato secoli, che affonda le sue radici nella conquista del britannico habeas corpus molto prima che in qualsiasi altra pratica politico-istituzionale, in qualsiasi regolata e regolante procedura.
La democrazia, quando si parla dell'Iraq, viene ridotta al voto del 30 gennaio. Non si parla del contesto e delle condizioni, del senso di quel voto, voluto fortemente dall'ayatollah Al Sistani come condizione perché gli occupanti angloamericani se ne andassero. Tale voto ha lasciato fuori, non a caso, una forte e decisiva parte della popolazione ed è stato fatto in regioni, come quella di Nassiriya, dove non esiste neanche l'anagrafe: ciò la dice lunga sulla trasparenza e sull'attendibilità dei dati circa le elezioni avvenute il 30 gennaio. Tale voto, come apprendiamo oggi dalla stampa americana, è stato pilotato fortemente dall'amministrazione Bush, anche ricorrendo ad operazioni sotterranee, per ostacolare uno sconvolgimento elettorale con la vittoria di un personaggio meno affidabile dell'ex premier Allawi. Quello che è successo, perché Jaafari non è la stessa cosa di Allawi e se ne va a Teheran a riannodare i rapporti con l'Iran di Ahmadinejad, suscitando non poche preoccupazioni negli Stati Uniti.
L'Iraq - ci sentiamo dire - lo volete abbandonare? Non l'abbiamo mai detto. Abbiamo sempre detto: aiutiamolo in altro modo. Il primo passo per aiutare loro ad uscire dal disastro ed aiutare noi a ritrovare il filo della nostra storia democratica e costituzionale è richiamare il nostro contingente subito, senza se e senza ma, come dicono i pacifisti, coraggiosamente.
Questo perché quel contingente italiano non sta là per i fatti suoi - su questo insisto -, bensì è parte dell'occupazione, è parte degli errori e, sia pure in posizione
defilata, degli orrori di quella guerra. Non ci si può ritagliare il ruolo dei buoni, se il contesto è quello che è.
Il presidente Selva, nella sua relazione, citando il generale Costantino, ha parlato di Nassiriya come di un'isola felice in mezzo alla tempesta che sconquassa l'Iraq. Mi sentirei di dare un consiglio al presidente Selva: guardi la tempesta, la analizzi, per capire qualcosa di quel paese...
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Lo dice il generale, non lo dico io!
ELETTRA DEIANA. Sì, va bene, ma il generale è legato al suo territorio, e dunque fa bene ad occuparsi di Nassiryia. Proprio perché è operativo là, di Nassiryia si deve occupare, mentre non deve parlare di altre cose che competono alla politica, presidente Selva!
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Egli ha espresso un giudizio sulla condizione in cui si trova Nassiryia. Non ha parlato di politica!
ELETTRA DEIANA. No, non ha dato un giudizio! Lei, presidente Selva, ha estrapolato una parte del giudizio, perché noi abbiamo parlato con il generale Costantino. Egli ha ammesso che ci sono molti ed allarmanti segni, che coesistono nella cosiddetta isola felice e che suggeriscono che l'immagine dell'isola felice è più consona alla propaganda che non alla realtà: il moltiplicarsi di episodi di guerriglia, il contrasto sempre più aperto tra la minoranza sunnita della regione e la maggioranza sciita, la frontiera tra Iraq e Iran senza controllo, il materiale esplosivo che viene rinvenuto in maniera crescente e lo stato di mobilitazione continua di una parte dei seguaci di Moqtada al Sadr che non hanno deposto le armi. Questo mentre Moqtada al Sadr continua a fare un doppio gioco: da una parte, quello di voler trattare e di voler entrare nella dinamica politica; dall'altra, quello di volerlo fare soltanto quando le truppe occupanti se ne saranno andate. Dunque, non sappiamo quello che succederà. Intanto, Moqtada al Sadr annuncia che i lavori per redigere la nuova Costituzione sono del tutto inutili, dal momento che l'Iraq ha già il Corano e la Sunnah.
Insomma, siamo sull'orlo di un abisso, come hanno ben capito il Presidente del Consiglio italiano Berlusconi ed i suoi ministri competenti, che infatti vorrebbero andarsene ma non possono - perché è troppo pesante abbandonare l'alleato americano -, e un giorno annunciano che se ne vanno (oppure che avverrà, come dice il ministro Martino con un eufemismo, una riconfigurazione quantitativa) e il giorno dopo si smentiscono, impedendo così - lo sottolineo - una discussione seria in questa sede per cercare di uscire da questo disastro.
E i nostri valori, ci sentiamo ripetere, come li difenderemo? Non con la guerra, diciamo noi ostinatamente. La guerra è infatti la negazione di tutti i valori e di tutti i principi di civiltà, che l'Europa ha elaborato con fatica, dopo lacrime e sangue e dopo il mattatoio della seconda guerra mondiale. E poi, chiedo io, quali sono i nostri valori? Dobbiamo parlarne, anziché nasconderci dietro le suggestioni ideologiche. Bombardare un villaggio afghano - lo hanno ammesso gli stessi americani - è un valore? Chiamare effetti collaterali i morti innocenti per le bombe è un valore? Guantanamo, Abu Grhaib, sono un valore?
L'Italia non ha fatto di questi orrori in prima persona - è vero, grazie a Dio stava a Nassiryia, provincia del sud sciita, relativamente tranquilla; non un'isola felice, ma relativamente tranquilla -, però ha taciuto, ha legittimato, ha approvato (ha detto di non sapere anche di fronte ad interrogazioni da noi presentate su questi fatti), dopo essere partita per l'occupazione e dopo aver fatto i suoi calcoli che da quella parte dell'Iraq, cioè nella provincia di Nassiryia, poteva partecipare in qualche modo al bottino di guerra, senza essere troppo coinvolta in vicende di sangue intollerabili per l'opinione pubblica del nostro paese. Ma è come se lo avesse fatto e siamo ancora in attesa che il
Governo ci spieghi quali sono i vantaggi di business che l'Italia ha realizzato o spera di realizzare.
Per quanto riguarda i nostri valori, l'ideologia di guerra ne gronda. Noi diciamo: non esiste nessuna civiltà astrattamente ed organicamente tutta valida in sé. Esistono percorsi, acquisizioni, punti di svolta di civiltà, frutto dell'impegno civile di donne e uomini in carne ed ossa, delle lotte per la libertà, delle esperienze di emancipazione e liberazione umana. Nella nostra storia nazionale ne abbiamo di altissimi, di questi punti di civiltà, alcuni incomparabili con altri, irrinunciabili.
Un valore assoluto è il ripudio della guerra previsto dalla Costituzione. Chi l'ha violato? Occorre ripartire da qui per rimettere ordine nelle nostre coscienze, nella nostra storia, nella nostra politica e nei nostri valori (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista e dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pisa. Ne ha facoltà.
SILVANA PISA. Signor Presidente, la guerra preventiva all'Iraq, condotta dalla coalizione dei volenterosi, ha aumentato il terrorismo che, in quel paese, era sotto controllo, agendo come detonatore e propagandolo.
Il mondo oggi è molto più insicuro. Questa insicurezza è esplosa in modo drammatico dieci giorni fa nei tragici attentati di Londra, che hanno colpito cittadini comuni, lavoratori, uomini e donne, vittime innocenti; questa violenza, tuttavia, esplode tutti i giorni nel mattatoio iracheno e, proprio perché non vogliamo rassegnarci a convivere con questo fenomeno, dobbiamo conoscerlo per prevenirlo non tanto negli effetti (mi riferisco ai vari provvedimenti per la sicurezza proposti dal ministro Pisanu), quanto nelle cause.
Tra i vari provvedimenti proposti dal ministro Pisanu, bisognerebbe aggiungere maggiori controlli e maggiore trasparenza anche rispetto ai depositi bancari dei paradisi fiscali off shore, perché tra le menti del terrorismo vi sono anche insospettabili appartenenti all'establishment medio-orientali, formalmente occidentalizzati, frequentatori di buone università atlantiche, clienti di solide banche che utilizzano il terrorismo per lotte di potere.
Il «pacchetto» Pisanu però non tocca l'origine del fenomeno, perché non basta tamponare l'acqua che dilaga, ma occorre sapere come e dove si chiudono i rubinetti. Invece, sulla prevenzione delle cause si tace. Il progetto di un grande califfato che riunisca i paesi dell'Islam, che fa della jihad un fattore identitario, propaga l'idea di una revanche sull'Occidente, utilizzando tutti i mezzi del terrore. Cito tra virgolette: «una bomba sporca per una sporca guerra»!
Questo rifiuto del mondo occidentale trova le sue origini nelle umiliazioni e nelle frustrazioni subite dai popoli arabi durante le occupazione coloniali, nella irrisolta questione palestinese, nel fatto che molti paesi della regione sono dominati da regimi corrotti, sostenuti dall'Occidente per i propri interessi.
Oggi questo è il caso dei paesi della penisola arabica, ma anche del Pakistan, mentre ieri è stato il caso dell'Iraq di Saddam, sostenuto e armato dell'Occidente americano e francese, in funzione anti iraniana.
Per chiudere i rubinetti, occorre prosciugare il brodo di coltura ed i giacimenti di odio in cui si reclutano persone disposte a morire pur di uccidere. Lo si fa, dando risposta alle disuguaglianze e sviluppando un'azione efficace contro la miseria, le malattie, la mancanza di istruzione per la difesa dell'ambiente e dei diritti umani. Questi sono gli anticorpi a lunga durata contro il terrorismo, altrimenti l'Occidente apparirà come il difensore dei propri privilegi ed interessi e dell'indiscutibilità del proprio stile di vita.
Per questo, il vertice scozzese di Gleneagles è stato molto deludente. La cancellazione del debito di alcuni paesi poveri nei confronti delle istituzioni internazionali non è stata risolutiva. L'accesso libero ai mercati per i paesi in via di sviluppo è ancora difficile da raggiungere per il perdurare del protezionismo nei confronti dei
prodotti occidentali. Gli aiuti verso questi paesi sono ancora troppo scarsi per farli uscire dalla fame.
L'Italia è all'ultimo posto nella graduatoria dei paesi industrializzati per le risorse destinate all'aiuto e allo sviluppo (solo lo 0,1 per cento). Per la sola missione irachena spendiamo più del doppio di quanto annualmente spendiamo per tutti gli interventi di cooperazione allo sviluppo. Non solo: il brodo di coltura del terrorismo è facilitato anche dalla mancata integrazione di tanti cittadini extracomunitari nei paesi dell'Occidente. Infatti, il reclutamento dei terroristi non avviene solo nelle periferie mediorientali, nei campi profughi che durano da cinquant'anni o in alcune madrasse orientali, ma avviene - come i tragici attacchi di Londra dimostrano - nella seconda e terza generazione di immigrati che i nostri paesi occidentali non hanno saputo o voluto integrare.
Ciò chiama in causa anche noi: abbiamo riconosciuto il voto agli italiani all'estero - persone che spesso hanno un rapporto poco più che sentimentale con il proprio paese di origine - e non lo riconosciamo (do atto all'onorevole Fini che lo ha proposto, ma temo solo come ballon d'essai) a cittadini stranieri che abitano nel nostro paese da anni lavorando e pagando le tasse.
Oggi, chiudere i rubinetti significa affrontare il contesto regionale del Medio Oriente che, accanto ad un Afghanistan sostanzialmente fuori controllo, vede l'arresto della Road map per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, nonché un nuovo Governo iraniano marcatamente antioccidentale che incute timori all'amministrazione Bush per la sua possibile influenza sugli sciiti iracheni. Il New Yorker di ieri dà notizia del tentativo in atto degli Stati Uniti di condizionare le prossime elezioni in Iraq, facendo distribuire dalla CIA soldi ai candidati antisciiti.
Tutto questo «tramare» tiene lontana la politica e rende indifferibile la domanda su cosa si stia facendo per ricondurre la crisi irachena nell'alveo della multilateralità e dell'ONU, mentre la maggior parte degli willings se ne sono andati o hanno annunciato il loro ritiro. Questo è il punto su cui oggi, affrontando il provvedimento di rifinanziamento della missione irachena, dovremmo riflettere.
Allora, quando il sottosegretario Cicu afferma che «noi siamo in Iraq per l'adempimento di una risoluzione ONU», dice una mezza verità (che è uguale ad una mezza bugia) perché, quando si formò attorno agli Stati Uniti la coalizione degli willings che decise la guerra irachena, l'Italia (con Berlusconi e Frattini in quest'aula; era il 15 aprile 2003) appoggiò l'intervento in Iraq (anche senza inviare all'epoca le truppe), sebbene questo avvenisse al di fuori della legalità internazionale, contribuisse a spaccare l'Europa e fosse fondato su menzogne (la presenza in Iraq di armi di distruzione di massa e terrorismo) che l'Italia stessa aveva contribuito a creare (caso Niger - yellowcake).
Come ambigua è sempre rimasta la pretesa di definire la missione Antica Babilonia come missione umanitaria - mi ricollego a quanto affermato questa mattina dal collega Tarantino -, non solo per la sproporzione dei soldi tra militare e umanitario (l'umanitario è meno di un decimo, caro collega), ma anche perché il contesto iracheno era di guerra e l'umanitario aveva scarso spazio di manovra.
Ricordiamo i salti sulla sedia del ministro Martino quando, in Commissione, denunciammo questa situazione affermando che ci trovavamo in guerra. Il ministro rispose: no, non è guerra, l'Iraq non è in guerra! Salvo ammetterlo in questi giorni dalle colonne dei giornali, ma non in quest'aula.
Non solo, è sempre rimasta inevasa la parte della risoluzione ONU n. 1546 che autorizzava l'occupazione di una forza multinazionale «a comando unificato». Infatti, il comando unificato non c'è mai stato ed è sempre rimasto saldamente stretto nelle mani degli Stati Uniti, anche dal punto di vista della decisione politica. Lo dimostra l'ininfluenza del nostro paese - il terzo come forze armate presenti in Iraq - in diverse vicende; ininfluenza verificata durante l'esame di diversi atti di
sindacato ispettivo - potrei citare date precise - quando, di fronte a domande circostanziate su quanto stesse avvenendo in questi due anni nello scenario iracheno, avete sempre annaspato, o perché tenuti all'oscuro o perché sostanzialmente consenzienti.
Questo è avvenuto - ricordo solo i casi più recenti - quando vi abbiamo incalzato sul perché non avessimo preteso dagli alleati l'applicazione della Convenzione di Ginevra a proposito delle torture ai prigionieri, non solo ad Abu Ghraib, ma anche nelle carceri gestite dagli inglesi. Voi, nella persona del ministro Giovanardi, avete risposto che si trattava di «mele marce», di casi isolati, prontamente puniti. Invece, la stampa statunitense dimostrava trattarsi di un sistema teorizzato in un manuale (il manuale «green copper») per fiaccare i prigionieri, mentre le punizioni, blande, hanno riguardato qualche soldato e qualche sergente, senza proseguire nella catena di comando.
Ancora, quando vi abbiamo chiesto di prevenire i bombardamenti a tappeto su Falluja - già annunciati, come ha ricordato l'onorevole Deiana, visto che se ne parlava già dalla fine dello scorso agosto - intervenendo presso i nostri alleati, voi avete risposto, citando la frase testuale dell'allora sottosegretario Baccini, che non ne sapevate nulla e che la situazione a Falluja era tranquilla e basata sulla collaborazione. Inoltre, vorrei ricordare che esiste il forte sospetto che proprio a Falluja siano state anche usate bombe al fosforo.
Poi, abbiamo chiesto ancora di adoperarvi affinché la Conferenza di Sharm El-Sheik ricomprendesse anche la resistenza sciita (non i tagliatori di teste di Al-Zarkawi, ma i cosiddetti resistenti). Tuttavia, visto che gli Stati Uniti e il governo fantoccio di Allawi lo avevano escluso, non avete neppure tentato di farvi sentire, salvo scoprire oggi che Rumsfeld si è deciso a farlo e che perfino Kofi Annan afferma: «Nessuna questione di sicurezza sarà mai risolta in Iraq se non verrà avviato un processo inclusivo delle altre realtà politiche». E cioè i sunniti.
Non vi siete adoperati affinché il processo elettorale iracheno - a cui va riconosciuta un'effettiva partecipazione, ma per la volontà espressa in tutti programmi elettorali di porre fine all'occupazione straniera - fosse un processo realmente democratico che persuadesse gli sciiti ad aderire (anche su questo punto è intervenuta in precedenza l'onorevole Deiana); tuttavia, si chiedevano l'anagrafe degli iscritti, la commissione elettorale comprensiva di tutte le realtà, mentre sappiamo benissimo che la composizione e le regole erano state decise da Paul Bremer.
Per non parlare, infine, del drammatico caso del dottor Calipari, su cui indaga l'autorità giudiziaria e su cui, pertanto, non voglio dire nulla.
Tutti questi casi, che non sono esaustivi perché abbiamo presentato tantissimi atti di sindacato ispettivo, dimostrano che il famoso «comando unificato», in cui avremmo dovuto contare qualcosa, non è mai esistito e che nella gestione della nostra missione siamo stati sempre subalterni.
Vorrei dire al sottosegretario Cicu che il nostro contingente è capace, preparato e composto da «belle persone», che abbiamo conosciuto, che operano in un ambiente difficile e pericoloso e a cui va tutta la nostra stima. Tuttavia, la missione Antica Babilonia non ha svolto un ruolo di interposizione, perché il contesto bellico non lo permetteva, ed è risultata schiacciata accanto alla potenza occupante che aveva scatenato una guerra illegittima ed insensata.
Insomma, le domande a cui si dovrebbe rispondere nell'affrontare il rifinanziamento della missione dovrebbero essere le seguenti: è migliorata la situazione irachena da quando abbiamo inviato il nostro contingente? È specificatamente migliorata nella regione del Dhi Qar? Esistono ora condizioni di sicurezza? È giustificata la nostra presenza in quel territorio?
Alla prima domanda, relativa alla situazione irachena, rispondono non soltanto i fatti (vorrei ricordare soltanto il «mattatoio» della scorsa settimana), ma anche le affermazioni degli stessi generali
statunitensi, Casey e Abizeid, che hanno dichiarato: «La situazione è difficile» e «Il dopo-elezioni ha aggravato lo scenario».
Sulle condizioni di sicurezza, anche in occasione della nostra ultima visita a Nassiriya abbiamo potuto notare che, rispetto a due anni prima - quando ci recammo là insieme al presidente della IV Commissione, onorevole Ramponi -, le misure di sicurezza sono notevolmente aumentate dal punto di vista sia della logistica che dell'equipaggiamento. Tale constatazione, se è positiva dal punto di vista dell'incolumità del nostro contingente, la dice lunga rispetto al contesto locale, che resta largamente ostile, per cui si opera in condizioni di sostanziale difensiva.
Quindi, l'attività del nostro contingente consiste, in base alla scala da zero a cento fornitaci nel briefing del generale Costantino a Camp Mittica, in 70 per l'attività di sorveglianza sul territorio, 45 per le scorte, 35 per la sorveglianza ai presìdi fissi e 30 per le attività umanitarie del CIMIC. Queste si svolgono, quando le condizioni di sicurezza lo permettono e, comunque, vedono i militari attrezzati con giubbotti anti proiettile e mitragliatori in mano. Quindi, i militari distribuiscono cibo con giubbotti e mitragliatori.
Ritengo sia necessario comprendere che vi è un livello di insicurezza molto forte, lamentato anche da parte dei nostri militari. Comunque la si veda, il contesto iracheno odierno è lontano dalla stabilizzazione. Il ministro degli affari esteri, Fini, nella sua visita irachena del 25 maggio scorso, ha sottolineato che la missione italiana si pone l'obiettivo di portare la pace, la sicurezza, la libertà e la democrazia e che il Governo italiano è fiero dei progressi del nuovo Governo iracheno. Ma di quali progressi parla? Certo, si stanno addestrando le nuove forze armate e le forze di polizia, e oggi si sono riaperti i reclutamenti per chi apparteneva alla polizia baathista disciolta due anni fa. Dunque, addestriamo le forze di sicurezza riammettendo coloro che sono stati esclusi: disfare e rifare, è il leit-motiv stile «tela di Penelope» della ricostruzione degli occupanti.
Non ne può uscire nulla di buono. Se ne sono accorti i dodici paesi che hanno già ritirato le truppe dall'Iraq. Ricordo, fra i paesi europei, Spagna, Olanda, Ungheria, Repubblica ceca, Portogallo. Altri quattro paesi si ritireranno entro la fine dell'anno. Quale stabilizzazione irachena vi può essere se non con un chiaro segnale di discontinuità? Ritengo occorra prendere atto della sostanziale inefficacia della nostra presenza, che mette a rischio inutilmente i nostri soldati.
Inoltre, nel bilancio della nostra attività va inserita una considerazione economica: le condizioni critiche della nostra economia consentono di impegnare risorse così ingenti per fini che vedono il Parlamento diviso? Dal giugno 2003, data di inizio della missione Antica Babilonia, a tutto il 2005 il costo ufficiale della missione è di circa 1 miliardo 200 mila euro per la parte militare e di circa 92 milioni di euro per la parte umanitaria: già questa proporzione - meno di un decimo - la dice lunga sull'ambiguità della nostra missione, pure definita, negli atti legislativi, «Missione umanitaria e di ricostruzione in Iraq». Tuttavia, esaminando in modo più approfondito tali dati, vanno aggiunti ulteriori costi, che non appaiono, per l'addestramento specifico dei reparti destinati all'Iraq, per l'usura dei mezzi, per l'attività di supporto in Italia e nel teatro operativo.
In particolare, il fatto che un numero così elevato di militari sia impegnato nei vari teatri operativi ha forti ripercussioni sull'assetto dell'amministrazione della difesa nel nostro paese, comportando innanzitutto il ricorso a straordinari e inoltre rendendo necessario il trattenimento in servizio di personale sostitutivo, anche mediante il richiamo della riserva e spesso, per determinate attività, il ricorso all'outsourcing. Quale costo si può attribuire a tale voce? Dove lo avete conteggiato?
Quanto all'addestramento, nei tre mesi precedenti l'invio in Iraq, unità e singoli militari sono impegnati in addestramento
specifico e in esercitazioni, oltre che nell'approntamento dei mezzi e dei materiali. Si tratta di almeno 3 mila uomini e di ulteriori costi per straordinari, uso di armi e mezzi, consumo di munizioni e materiali, spostamenti, allestimento dei campi di addestramento.
Ancora, la perdita e l'usura di mezzi e materiali. In Iraq, l'impiego di mezzi e materiali in condizioni ambientali estreme (temperature che raggiungono spesso i 50 gradi e frequenti tempeste di sabbia) e in situazioni realmente operative, comporta una maggiore usura per i mezzi e conseguentemente l'abbreviazione della loro operatività, senza considerare i mezzi distrutti o resi inservibili durante le operazioni. In quale costo aggiuntivo ciò si traduce?
Infine, le spese per il supporto. La missione Antica Babilonia ha ovviamente bisogno di numerose attività di supporto anche in Italia (telecomunicazioni, amministrazione, depositi e magazzini, trasporti, comando e controllo), nelle quali si può considerare che siano impegnate mediamente 500 persone. Anche in questo caso vi sono costi che devono essere calcolati.
Ritengo sarebbe intellettualmente onesto che, in un periodo di emergenza economica, ci forniste anche tali dati, per poter compiere una valutazione maggiormente approfondita.
Le attività della parte umanitaria, che sono puntigliosamente indicate nella relazione tecnica al decreto-legge (realizzazione del museo virtuale di Bagdad, collegamento Intranet tra i siti ministeriali iracheni, e via dicendo), appaiono surreali rispetto all'attuale scenario iracheno e alle esigenze della popolazione locale. Si tratta infatti di interventi che, anche ove effettivamente realizzati, risultano scollegati rispetto alla realtà dell'Iraq di oggi. Ciò costituisce la conferma formale che la parte umanitaria di Antica Babilonia è virtuale e soltanto di facciata, al fine di far figurare l'Italia nella coalizione a sostegno dell'amministrazione statunitense.
Il sottosegretario Mantica dice che non è questo il momento per tirarsi indietro, ma non offre nessuna giustificazione politica della nostra permanenza.
Colleghi, lo abbiamo sempre detto: l'opposizione non avrebbe mai proposto questa missione. A maggior ragione oggi, non c'è motivo perché essa continui: ogni presenza occupante peggiora lo stato delle cose.
Secondo alcune affermazioni del ministro Martino, saremmo in presenza di una sorta di Schadenfreude (cito alcune sue dichiarazioni apparse sul Corriere della sera: è questo il modo di comunicare del ministro). Infatti, secondo il ministro, noi godremmo delle disgrazie altrui: non è così! La mattanza irachena non ci fa assolutamente piacere; riteniamo sia desolante vedere uccisi quotidianamente i bambini, i militari che compiono il proprio lavoro e anche i resistenti che difendono il loro paese. Ci fa veramente dispiacere tutto ciò.
Questo non significa sottrarsi alla responsabilità di avanzare delle proposte. Ad esempio, in un ordine del giorno votato dal Parlamento europeo lo scorso 16 luglio, si chiede una nuova risoluzione dell'ONU per rivedere la composizione delle truppe presenti in Iraq, che devono essere sostituite - in funzione di interposizione - da forze che non abbiano partecipato al conflitto e che siano sotto il comando dell'ONU.
A questo punto, il ritiro dei nostri soldati - che mira a svuotare i «giacimenti di odio» innestati da questa guerra - sarebbe quindi il contributo più ragionevole alla pacificazione: non si tratta di essere pilateschi, ma ragionevoli. Anzi, prima avverrà il ritiro meglio sarà per tutti (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo, della Margherita, DL-L'Ulivo e di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Perrotta. Ne ha facoltà.
ALDO PERROTTA. Signor Presidente, per una questione di metodo vorrei ricordare
a chi ci ascolta (non certamente ai colleghi che ne sono già informati) che stiamo discutendo della missione Antica Babilonia, autorizzata, o meglio, richiestaci dall'ONU. Non ci siamo semplicemente svegliati un giorno e abbiamo deciso di giocare alla guerra. Siamo intervenuti in quell'area per motivi umanitari, dopo la conclusione della prima fase.
Sono state qui citate alcune cifre, credo desunte dal prospetto allegato al testo al nostro esame (si tratta di circa 200 pagine). Tali cifre sono state estrapolate senza attribuire il corretto significato ai dati presenti nella parte restante di tale documentazione. Si tratta del solito giochetto - vecchio come il mondo - di estrapolare alcuni dati per far ritenere sbagliate determinate posizioni.
Vorrei citare alcuni esempi: fra tutti gli aspetti negativi non se n'è citato nessuno positivo. Siamo presenti in Iraq, con un progetto di missione; va aggiunto, però, che l'articolo 4 del decreto-legge di autorizzazione di spesa a tale missione, prevede anche lo svolgimento in Italia di un corso di formazione per magistrati e funzionari iracheni. Il problema della giustizia è un fattore importante.
Inoltre, l'articolo 5 del testo in esame stabilisce che si debbano garantire le necessarie condizioni di sicurezza per gli interventi umanitari e concorrere a favorire la realizzazione del processo di stabilizzazione del paese. Si debbono, inoltre, fronteggiare i casi di necessità e di urgenza, nonché le esigenze primarie della popolazione locale.
Perché non vengono citati tali elementi? Perché non si ricorda che sono stati avviati 580 progetti umanitari? Se dovessimo abbandonarli, tali progetti sarebbero distrutti, sarebbero destinati ad una sorte pessima. Che ne sarebbe poi dei pozzi d'acqua che stiamo costruendo? Quale sorte attenderebbe gli aiuti all'agricoltura, agli ospedali o per la ricostruzione e la sorveglianza dei beni culturali? Che fine faranno tutti questi progetti?
Si dimentica di ricordare, inoltre, che stiamo accompagnando alla democrazia il popolo iracheno, il quale crede tanto nella democrazia da recarsi a votare, malgrado le bombe e i kamikaze, in una percentuale di circa il 70 per cento, se ricordo bene. Una percentuale nettamente superiore a quella registratasi in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Voi omettete anche di dire che i terroristi in Iraq mettono le bombe non solo contro di noi, ma anche e soprattutto a danno del loro popolo, proprio perché non vogliono la democrazia. Deve quindi essere chiaro che l'Italia è presente in Iraq non per giocare alla guerra né tantomeno per il petrolio - i pozzi sono chiusi -, ma per garantire democrazia a quel popolo e allo stesso modo di come il nostro paese è presente in Kosovo.
Ma se si dovesse lasciare improvvisamente l'Iraq, che cosa succedebbe? Accadrebbe che prenderebbero il potere i terroristi, gli amici di Saddam Hussein, e si avrebbe un'altra pulizia etnica. In questo caso che facciamo? Facciamo come abbiamo fatto in Kosovo? Mandiamo gli aerei e i carri armati? A proposito del Kosovo, ricordo che, quando al Governo vi erano quelli che ora ci criticano, si è andati lì per motivi umanitari ma senza mandato dell'ONU. In questo caso, sebbene vi sia il mandato ONU, il centrosinistra e Prodi, presi sempre da strane posizioni assunte dall'estrema sinistra (Rifondazione comunista, Verdi e così via), non sanno che pesci prendere. A questo proposito, non so proprio come il mio amico Ranieri, uno dei più brillanti esperti di politica estera presenti in Parlamento, riuscirà a conciliare le posizioni estremiste assunte in questa materia da Rifondazione comunista e dai Comunisti italiani con quelle più ortodosse tenute dalla Margherita e dai Democratici di sinistra.
Personalmente non sono d'accordo a lasciare in balia dei terroristi né l'Italia né un altro paese, né quindi gli iracheni, che stanno facendo sforzi inauditi. Ricordo ai telespettatori di Sky e a chi ci ascolta tramite Radio radicale che ultimamente una delegazione di deputati si è recata in quei luoghi, e dalle dichiarazioni rilasciate dagli stessi agli organi di stampa sembra che qualcuno dell'opposizione cominci a
pensarla diversamente su questa materia. A titolo di esempio, cito l'intervista rilasciata dall'onorevole Di Pietro, il quale sembra essere divenuto al riguardo più possibilista. Una cosa è, difatti, condannare da qui, sic et simpliciter, un'altra cosa è andare a vedere cosa sta facendo il contingente italiano a favore di quelle povere popolazioni.
Pertanto, tenuto conto che il 15 maggio scorso l'ONU ha accolto la richiesta irachena a che le nazioni impegnate in Iraq mantengano le proprie forze in quel paese, e che qualche giorno dopo le Nazioni Unite hanno rivolto a tutte le nazioni l'invito ad intervenire per normalizzare la situazione in Iraq, riterrei opportuno che noi esprimessimo un «sì» convinto al disegno di legge di conversione al nostro esame. Non si può, infatti, abbandonare quel paese solo per paura. Sappiamo anche che il mantenimento delle truppe multinazionali in Iraq non potrà essere all'infinito, tant'è vero che lo stesso Presidente Berlusconi ha annunciato un parziale ritiro di quelle italiane, così come stabilito all'inizio; le truppe rimarranno fino al momento in cui il popolo iracheno non sarà divenuto autosufficiente.
Per tutte queste motivazioni auspico che il Parlamento, indipendentemente dalle posizioni assunte dalla maggioranza, possa esprimere, ripeto, su questo disegno di legge di conversione un «sì» convinto.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ranieri. Ne ha facoltà.
UMBERTO RANIERI. Signor Presidente, credo che di una discussione sulla situazione dell'Iraq e della più ampia regione mediorientale si avvertisse da tempo la necessità, considerata la presenza di nostre forze militari nel sud dell'Iraq e tenuto conto della complessità e drammaticità della sfida con cui dobbiamo fare i conti. La sfida è, prima di tutto, quella del terrorismo di matrice islamista: una sfida che, diversamente da quanto sostenuto dai teorici della guerra preventiva e dalla destra neoconservatrice americana, con la guerra in Iraq - dobbiamo dirlo - è diventata più aspra e spietata.
Su questo punto cruciale dell'analisi della situazione con la quale dobbiamo fare i conti occorre dirsi la verità: il terrorismo è diventato più aggressivo e più spietato, anche se, come tutti gli analisti, studiosi e politici convengono, non ha certo la sua genesi nella guerra in Iraq. Tuttavia, la guerra è stato un fattore che ha contribuito ad irrobustire l'aggressività e - ahimè! - ad accrescere la capacità di proselitismo del terrorismo.
Ma occorre dirsi anche altre verità per provare ad individuare una strada che ci consenta di fronteggiare al meglio questa sfida. La situazione in Iraq - e credo questo giudizio sia generalmente condiviso - resta drammaticamente difficile. Il ritmo con cui si succedono gli assalti e gli attentati è impressionante e la maggioranza delle vittime si conta nella popolazione civile, tra i giovani che affollano gli uffici di reclutamento nella polizia e nelle forze armate, tra gli sciiti delle moschee. Tra rapimenti ed esecuzioni, credo che l'abisso assoluto di ferocia sia stato raggiunto con la strage dei bambini di pochi giorni or sono.
Il quadro è sconvolgente e, per tanti versi, caotico: vi sono gli insorgenti, i quali si battono contro le truppe che hanno guidato le operazioni militari angloamericane; vi sono i nostalgici del regime di Saddam; vi è poi, ormai aperta, l'azione del terrorismo fondamentalista di Al Zarqawi. Tutto converge verso l'obiettivo di contrastare qualunque processo di stabilizzazione, un avvio graduale e faticoso di democratizzazione. Insomma, si vuole impedire che si raggiunga un possibile equilibrio in una realtà tormentata e difficile come quella irachena. Per dirla con una formula spesso utilizzata nella politica italiana, tutte le suddette componenti puntano al «tanto peggio», a seminare disordine ed instabilità.
A volte, l'Iraq sembra essere diventato un punto di forza, un punto da cui trae alimento l'offensiva del terrorismo, un laboratorio per le sue violenze, per le più spietate forme di aggressione alla persona (può darsi che le cose non stiano esattamente
in questi termini, ma ad uno sguardo immediato è proprio questa l'impressione che si ha).
Alla luce di quanto è accaduto in questi due anni (dedico soltanto un cenno a questo aspetto, perché bisogna guardare avanti), la scelta unilaterale dell'amministrazione Bush - come riconoscono anche acuti osservatori americani - è stata sbagliata e, per alcuni versi, catastrofica.
Qualcuno ha scritto sui quotidiani americani più diffusi, anche su quelli di ispirazione conservatrice, che è stata una vera e propria avventura da cui non si riesce a venire fuori, rispetto alla quale non si riesce nemmeno ad individuare un convincente percorso che possa portare gradualmente fuori.
Quello che mi colpisce riflettendo su questi due anni, e suscita in me una grande inquietudine (vi confesso), è il pressappochismo delle previsioni degli strateghi americani per quanto riguarda le conseguenze del ricorso alla forza, un pressappochismo testimoniato, del resto, dal succedersi convulso, sul campo iracheno, in questi due anni di mutamenti di strategie, di uomini, di priorità: c'è di che restare sbigottiti, anche per chi guarda agli Stati uniti come ad un grande paese amico ed alleato, c'è di che restare sbigottiti se si pensa che ciò riguarda le scelte della superpotenza da cui dipendono in grande misura i destini del mondo. Come è stato possibile non prevedere che le cose avrebbero conosciuto un corso diverso da quello previsto?
Del resto, quella americana è una superpotenza che paga - e guai a dimenticarlo! -, un prezzo enorme in termini di giovani vite umane schiantate dalla guerra, e lo paga anche in termini di caduta di prestigio, di autorità, di credito. Che cos'è quello di cui tutti scrivono e parlano se non un sentimento di diffidenza verso gli Stati Uniti che si accresce non solo nelle periferie del mondo, ma anche nel cuore dell'Occidente? Non è un pericolo il fatto che questo sentimento vada avanti e conquisti coscienze, consensi?
Proprio perché amici degli Stati Uniti, dovremmo trovare il modo per porre più esplicitamente la questione di fondo: un errore di fondo è stato commesso dagli Stati Uniti. Anche qui, non scopro l'acqua calda: questa è la convinzione di tanti osservatori statunitensi. La verità è che gli Stati Uniti, dopo essersi impegnati all'indomani dell'11 settembre a costruire un'ampia coalizione su scala planetaria, riconoscendo il ruolo delle Nazioni Unite e dei propri alleati per combattere il terrorismo, per liberare l'Afghanistan da un regime moralmente indifendibile come quello dei talebani, hanno poi, repentinamente, mutato indirizzo, scegliendo la strada dell'iniziativa unilaterale, sposando la dottrina che sgancia gli Stati Uniti e le sue scelte di politica estera dai vincoli che comporta un sistema multilaterale considerato addirittura, da alcuni uomini dell'amministrazione statunitense, una sorte di inutile fardello, un peso di cui liberarsi per poter agire più decisamente, senza tante remore nella lotta contro il terrorismo.
Insomma, si è delineato quello che un autorevole conoscitore di cose americane ha scritto nel suo più famoso libro: l'illusione che la superpotenza possa farcela da sola. In realtà, invece, anche la superpotenza ha bisogno di alleati, di amici, di consenso. È in questo contesto che matura lo strappo, chiamiamolo così, dell'Iraq: la scelta dell'uso unilaterale della forza.
Intendiamoci, il regime di Saddam - ma dobbiamo ripetercelo? - andava combattuto, costituiva una minaccia reale per l'intera regione. Vorrei anche ricordare che non andava sottovalutato il rischio che armi di distruzione di massa in possesso di Stati totalitari potessero giungere ai gruppi terroristici. Questo è l'incubo, la minaccia globale e mortale che pesa sull'umanità. Tuttavia a prescindere dal fatto che su questo terreno delicatissimo la situazione in Iraq era, come ormai tutti sanno, diversa da quanto sostenuto dalla Casa Bianca, la strategia per contrastare e sconfiggere Saddam poteva essere un'altra. Occorreva soprattutto l'unità della comunità internazionale, un ruolo delle Nazioni Unite, un rapporto con gli alleati. Invece, la scelta unilaterale ha condotto nella
direzione opposta, provocando lacerazioni, contrasti e determinando, altresì, quel sentimento diffuso, nell'opinione pubblica, di diffidenza verso le scelte degli Stati Uniti.
Furono vani, allora, i tentativi - anche di personalità delle quali apprezziamo l'audacia politica ed il pensiero innovativo (mi riferisco, ad esempio, al Primo ministro britannico) - di condizionare le scelte della Casa Bianca nel senso di evitare lo svuotamento delle Nazioni Unite. Sarebbe il caso che anche il Governo italiano compisse una riflessione critica su quella fase cruciale nella storia di questi anni. Il Governo italiano, infatti, avrebbe potuto esercitare ben altro peso se, con maggiore energia e nettezza, avesse dichiarato la propria contrarietà: non si trattava di scegliere le posizioni della Francia o della Germania. Si doveva affermare la propria disapprovazione riguardo ad un'iniziativa unilaterale, esprimendo la propria non condivisione della stessa e rivelando la propria contrarietà ad una azione che, per così dire, mettesse in mora le Nazioni Unite.
La verità è che, allora, il multilateralismo subì una sconfitta molto grave, ed il multilateralismo - non nascondiamocelo! - è l'unico modo per tentare di fornire un governo credibile ad un mondo così difficile quale quello in cui viviamo. Ecco perché ricostruire un tessuto di governo della comunità internazionale è essenziale; tale ritengo sia la lezione che si trae dalla crisi irachena. Una lezione che vorremmo fosse intesa soprattutto dalle classi dirigenti europee. Se infatti l'Europa vuole davvero condividere il governo della sicurezza mondiale, deve avere il coraggio e la volontà di assumersi alcune responsabilità soprattutto sul fronte della lotta contro il terrorismo.
Vorrei fare solo un cenno ad un aspetto che sta a cuore a tutti noi. L'attentato di Londra ci rivela drammaticamente che la minaccia globale incombe sull'intero Occidente e che l'illusione che l'Europa potesse considerarsi meno esposta era del tutto infondata. Detto attentato ci rivela, altresì, che il terrorismo di matrice islamista si definisce intorno ad un progetto politico che ha come obiettivi l'inimicizia con il mondo civilizzato - dove, per civilizzazione, si intende la democrazia - e l'imposizione all'universo arabo-islamico di principi ispirati al fondamentalismo radicale.
Certo, l'Islam non è riducibile al fondamentalismo radicale, ed è certo, altresì, che occorre respingere l'idea che il mondo sia diviso in grandi ed inconciliabili blocchi culturali; ma il punto di fondo è interrogarsi sulla strategia con la quale si è combattuto il terrorismo. Una strategia che si esaurisse solo nell'uso della forza non ci porterebbe lontano; abbiamo bisogno, invece, di rilanciare una strategia di lotta contro il terrorismo in cui la dimensione militare venga integrata in un più ampio disegno di politica estera, di azioni diplomatiche, di scelte economiche. Occorre anche affrontare i nodi irrisolti che si trascinano da decenni, penso al conflitto in Medio Oriente; quanto all'Iraq, dobbiamo evitare che quel paese si trasformi del tutto in una piattaforma del terrorismo. Cosa sia diventato l'Iraq in questi due anni lo abbiamo mostrato, e guardiamo con angoscia - ma ritengo che il sentimento sia condiviso da tutti noi - al rischio di un Iraq che precipiti nel caos completo, nella guerra civile aperta. Se le leadership sciite e curde entrassero in rotta di collisione, lo spettro di una guerra civile incomberebbe sull'Iraq; sarebbe una guerra di tutti contro tutti.
Ecco perché credo che occorra lavorare affinché prosegua il processo politico avviato con le elezioni del 30 gennaio scorso e siano rispettate le tappe previste per la seconda metà dell'anno: la definizione e l'approvazione, attraverso un referendum popolare, della Costituzione; l'elezione di un nuovo Parlamento; la nomina del primo Governo iracheno non provvisorio.
Ci auguriamo che non vi siano rinvii, e in ogni caso, ed è questo il punto cruciale della nostra riflessione, si tratta di aprire una nuova fase nella vicenda irachena. Badate, non siamo noi a dirlo. Queste esigenze le si coglie anche tra le righe di dichiarazioni rilasciate da uomini dell'amministrazione americana. Gli stessi americani
sono ormai convinti che solo forze di sicurezza irachene possano aspirare a stabilizzare il paese, a fronte di una generalizzata insofferenza - anche da parte di chi sa che deve accettare la loro presenza - per le truppe militari straniere.
Ciò che si rende necessario, allora, è l'adozione di una nuova risoluzione dell'ONU, che preveda la sostituzione delle truppe presenti in Iraq con una forza di mantenimento della pace che coinvolga anche i paesi rimasti estranei al conflitto, che indichi le misure più efficaci per isolare il terrorismo ed accelerare il processo di ricostruzione economica e civile del paese, che favorisca la riconciliazione nazionale, con il pieno recupero della componente sannita, che proceda nell'addestramento delle forze di sicurezza e militari irachene e che chiami l'Unione europea ad un impegno più sicuro per realizzare gli obiettivi della Conferenza del 22 giugno.
È in tale quadro che collochiamo il rientro del nostro contingente. Si tratta di un rientro che occorre predisporre, da realizzare secondo un programma, un calendario. Vedete, questo è un punto fermo della posizione del centrosinistra, che resta centrale nel ragionamento svolto da Prodi, in questi giorni, sulla vicenda irachena.
Ci aspettavamo una diversa impostazione da parte del Governo. Se l'Esecutivo avesse voluto tenere conto delle richieste e delle preoccupazioni dell'opposizione, non avrebbe dovuto essere del tutto vago e reticente in ordine alla programmazione del ritiro delle truppe. Su tale questione, il Governo avrebbe dovuto parlare chiaro, indicando un'ipotesi di programmazione del rientro. Invece, non è stato detto nulla su questo punto, ed è stata scelta un'altra strada: la vaghezza, l'incertezza, il «si vedrà», «ci consulteremo».
Ritengo che, così, voi sottovalutiate anche la nostra richiesta di lavorare per l'adozione di una nuova risoluzione dell'ONU che avvii, con la gradualità indispensabile, la sostituzione delle forze attualmente impegnate in Iraq con un contingente di pace. Penso sia un errore non aver avvertito che l'opposizione voleva discutere di tale aspetto. L'opposizione, in sostanza, si attendeva un Esecutivo pronto a riflettere sulla concretezza dei tempi di un eventuale rientro del nostro contingente e aperto a discutere di una strategia politica, come quella che ho precedentemente descritto e che, nei giorni scorsi, è stata illustrata da numerosi dirigenti del centrosinistra.
Pertanto, il nostro è un «no» consapevole della complessità dei problemi esistenti e della gradualità con la quale è inevitabile avviare un'operazione di rientro. Un rientro sui cui tempi si chiede certezza. Si tratta infine di un «no» al tratto burocratico con cui avete affrontato tale delicata questione. Volete, in sostanza, metterci dinanzi ad una sorta di «prendere o lasciare», e vi sottraete allo svolgimento di una riflessione sull'autentica situazione dell'Iraq oggi, nonché sulla necessità di rilanciare, su basi diverse, una strategia per la sua stabilizzazione.
Si tratta di un'occasione perduta, e credo per responsabilità dell'Esecutivo (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di Sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Cima. Ne ha facoltà.
LAURA CIMA. Signor Presidente, ci apprestiamo ad esprimere un voto sul quinto decreto-legge di rifinanziamento della missione del nostro contingente in Iraq. Ciò avviene dopo quanti altri morti? Dopo un'escalation del terrorismo, con la drammatica situazione che si è verificata in Europa a seguito dell'attentato di Londra! È una situazione drammatica anzitutto per il nostro paese, perché basta scorrere i quotidiani di oggi per leggere le accuse e le minacce di attentati che ci vengono rivolte da Al-Masri, se non ritireremo nell'arco di un mese le nostre truppe (anche i terroristi hanno la gradualità: bisogna riconoscerlo). Ciò, appunto, se non vogliamo incorrere in un attentato simile a quelli di Madrid e di Londra. Mi sembra infatti che - se l'autenticità
del messaggio diffuso via Internet è confermata - la firma dell'organizzazione terroristica sia proprio quella del gruppo che ha pianificato i precedenti attentati sul suolo europeo.
Credo sia interessante leggere anche altri articoli apparsi sui quotidiani odierni. Ad esempio, Il Riformista, oltre ai ragionamenti già svolti dal collega Ranieri - e preannunziati nel suo articolo - titola: «È meglio andare a votare prima della bomba». Tale quotidiano dà per scontata, dunque, la possibilità che, al massimo in autunno, la bomba arrivi anche da noi e chiede un voto anticipato. Credo, quindi, che sia interessante ragionare anche sui titoli, oltre che sugli articoli.
Un altro articolo che ritengo importante considerare è quello apparso oggi su La Repubblica, a firma di Stefano Rodotà: «Dei diritti e delle garanzie nella guerra contro Al Qaeda», a significare che stiamo perdendo, in questa guerra preventiva, al seguito dell'unilateralismo degli Stati Uniti e del terrorismo globale, le radici della nostra civiltà, ciò a cui ci richiamiamo per riconoscere la nostra identità, ossia la democrazia. Stiamo restringendo la nostra libertà di circolazione. Anche la temporanea sospensione degli accordi di Schengen - e se ne può parlare senza drammi; anche su tale argomento sono state dette molte falsità, come è stato rilevato dalla Spinelli - vuol dire ciò. Anche la restrizione delle libertà individuali che, bene o male, nei punti di Blair è compresa vuol dire ciò. Quindi, sostanzialmente, in questo scontro tra civiltà che - purtroppo ed inopinatamente - il nostro Presidente del Consiglio ebbe modo di indicare per disegnare ciò che sarebbe successo in seguito, stiamo perdendo la nostra identità. Ciò non a causa dell'invasione degli immigrati, ma perché, come detto, noi stessi stiamo limitando ciò che era alla base della storia della nostra civiltà, in particolare quella italiana e quella europea dal dopoguerra. In proposito, ricordo che nella nostra Costituzione fu inserito l'articolo 11, secondo cui il nostro paese avrebbe dovuto risolvere i conflitti senza ricorrere alla guerra. Stiamo limitando quei diritti che proprio le Costituzioni europee del dopoguerra hanno affermato e stiamo negando anche il principio del concorrere all'ONU ed al multilateralismo per sconfiggere le guerre e perseguire l'ideale dell'Europa cui finalmente sembrava fossimo giunti, per impedire che mai più in Europa una guerra giungesse a recare morte.
Signor sottosegretario, onorevoli relatori, ho seguito con molta attenzione i vostri interventi e devo riconoscere che anche voi convenite sul piano che noi dell'opposizione vi abbiamo chiesto di considerare, per confrontarci e scontrarci su ciò che intendiamo oggi rispetto alla politica estera che il nostro paese deve svolgere in questo drammatico momento e anche rispetto alla politica di sicurezza, compresa quella interna. Ciò è considerato, ormai, patrimonio di tutte le culture, perché dappertutto sta scritto che anche noi dobbiamo aspettarci un attentato terroristico.
Finalmente, entrate nel merito di qualche problema politico, anche se è vero che noi avremmo voluto ben altra discussione politica. Tutti i nostri interventi sono in questo senso, ossia sono volti a richiamare un confronto politico serio su ciò che l'Italia sta facendo a livello internazionale. Si chiede a questo Governo, insieme al ritiro immediato delle truppe, il riconoscimento di un errore politico, nel momento in cui, acriticamente, ha cancellato la civiltà del nostro paese, insieme all'articolo 11 della Costituzione, con la menzogna. Presidente Selva, lei lo ha riconosciuto e non voglio insistere sul punto, girando il coltello nella piaga: le favole sulla missione umanitaria erano semplicemente dovute ad un aggiramento di questo articolo. Contemporaneamente, si sono negati anni ed anni di rapporti con il mondo arabo, che ci avevano reso importantissimi interlocutori di primo piano.
Collega Ranieri, mi sorprendo che lei si stupisca del catastrofismo della strategia degli Stati Uniti e del pressappochismo. Noi siamo in grado di capire cosa significa rapportarsi, in un momento così difficile, con il mondo arabo e con il mondo
islamico; noi del Mediterraneo, che li abbiamo conosciuti da vicino per secoli! Non di certo un mondo anglosassone che non sa, che non conosce, che non capisce e che abbiamo legittimato ad operare scelte sbagliatissime, che ora hanno mostrato fino in fondo le loro conseguenze.
Come dicevo, stiamo discutendo di un provvedimento che dovrebbe essere quasi amministrativo e su cui bisognerebbe essere molto chiari: occorre dire «si» o «no» e noi tutti diremo «no». Mi sembra che anche l'intervento del collega Ranieri - aspettato e invocato da alcuni (e anche dal presidente Selva nella sua relazione di questa mattina) come quello che avrebbe sconfessato la politica finora condotta dall'Unione, portando ad una divisione - abbia riconfermato, ancora una volta, il giudizio estremamente negativo sulla politica degli Stati Uniti e, quindi, sul nostro Governo che si è uniformato alla logica della guerra preventiva di Bush, con i disastri che ha provocato.
Siamo qui a parlare di ciò che il nostro ministro degli affari esteri non ci consente di discutere: qual è la politica estera ed internazionale dell'Italia in un momento gravissimo come questo? Qual è rispetto all'ONU e qual è rispetto agli alleati che si sono scelti, rafforzando tali legami in un momento in cui ci si scontrava con l'ONU e con parte dell'Unione europea, quando occorreva, invece, svolgere una funzione critica proprio per la nostra storia, per le ragioni che ho citato in precedenza?
Nel Mediterraneo, infatti, siamo gli interlocutori che conoscono l'Islam e il mondo arabo meglio di chiunque, anche rispetto agli anglosassoni.
Di fronte ad una situazione drammatica come quella di oggi, abbiamo come interlocutore il ministro degli esteri che, in questo momento, deve difendersi dai suoi colonnelli all'interno del suo partito e questa è la priorità di questo Governo!
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Veramente in questo momento egli è a Londra per parlare di questi temi!
LAURA CIMA. La vostra priorità e quella del Governo è capire come riuscire a mantenere il controllo dei partiti che litigano tra di loro e non tanto di far tacere la forza irresponsabile che sta con voi per questioni di maggioranza, ossia la Lega. Infatti, la Lega detta continuamente la linea politica cui voi dovete adeguarvi.
Di fronte a problemi gravissimi, come il fatto che può esservi un attentato terroristico, anche domani, il ministro Pisanu cosa fa? Egli sospende il piano che, davanti a noi e al Parlamento, aveva presentato e sul quale noi, come opposizione, avevamo dimostrato una certa disponibilità a sostenere alcuni interventi ivi previsti.
Voglio ricordare l'atteggiamento dei deputati Verdi sia per quanto riguarda la politica interna ed internazionale, sia per quanto riguarda il rispetto dell'articolo 11 della Costituzione, sia, infine, per la condanna di tutto ciò che nel secolo scorso ha rappresentato violenza e guerra, così come del bipolarismo che ci ha portato ad un livello di distruzione enorme prima che il muro di Berlino si accartocciasse su se stesso, dopo anni di sofferenze, di nulla, di guerre e di disastri.
Noi, che sappiamo che bisogna guardare al futuro per capire che mondo possiamo permetterci, compatibilmente con la natura in cui viviamo, siamo sicuri, sia rispetto ai diritti umani, sia rispetto alla natura che continuamente violentiamo anche con le guerre e l'inquinamento e le distruzioni che esse comportano, che non c'è alternativa al rispetto totale dell'articolo 11 della nostra Costituzione.
Tutto ciò che di buono è stato fatto in passato per creare un ponte, anziché per alzare un muro, con il mondo arabo e islamico va recuperato velocemente. Ciò è possibile solo se ritiriamo le nostre forze militari e chiediamo all'ONU una nuova risoluzione. Credo che nessuno abbia qualcosa da ridire sul fatto che l'ONU possa aggiornare il proprio indirizzo rispetto all'Iraq dopo l'attentato di Londra. La nuova risoluzione deve muovere da queste linee: come diceva qualcuno, la guerra non porta mai a nulla di buono ed
è sempre un male, non può mai avere effetti positivi; la violenza è sempre un male e non può mai avere effetti positivi.
Chi crede il contrario, colleghi, sono proprio i terroristi fondamentalisti islamici, che, invece, predicano la violenza. Noi, che siamo passati attraverso le crociate, le guerre e le violenze e siamo approdati alla democrazia, dovremmo aver capito che non c'è alternativa. L'unica possibilità è quella di potenziare e far funzionare gli organismi come l'ONU, rendendoli meno burocratici e a rischio di scandali, e rafforzare l'ideale dell'Europa, che vi siete divertiti ad affossare, prima ancora che si valutasse cosa stava succedendo, dopo il referendum francese.
In questa situazione vorrei ricordare alcune questioni tattiche semplici. Vorrei ricordare, ad esempio, che l'adesione acritica al progetto statunitense ci fa dimenticare che due cosiddetti paesi amici come il Pakistan e la Giordania, che non sono mai stati giudicati Stati «canaglia», sono quelli in cui la stragrande maggioranza di persone è d'accordo con la strategia terroristica ed in cui si organizzano le centrali terroristiche. Ancora una volta, come abbiamo fatto in Iraq ai tempi di Saddam grazie agli Stati Uniti, come abbiamo fatto in Afghanistan ai tempi dei talebani grazie agli Stati Uniti, stiamo facendo errori di alleanze e di valutazioni.
Sicuramente gli Stati «canaglia» ci sono e creano problemi. Nessuno, ad esempio, è contento che l'Iran abbia avuto l'inaspettata svolta fondamentalista che ha avuto. Però, attenzione, perché probabilmente siamo in una polveriera molto più ampia di quello che credevamo: in quel mondo, caro Governo, caro presidente Selva, caro ministro Martino, non ci sono più tanti sostenitori degli Stati Uniti. Lo sono, magari, per convenienza, di faccia, ma le loro popolazioni non lo sono più.
Abbiamo creato un disordine che non riusciremo a ricomporre con facilità e che potrà essere ricomposto, come dicevano i colleghi che mi hanno preceduto, solamente superando l'unilateralismo che ha pretese di universalismo e ritornando ad una multipolarità.
Bisogna ricordarsi che la risoluzione n. 1546 e gli impegni dopo l'attentato dell'11 settembre stabilivano che, per quanto riguarda l'aspetto militare, le forze multinazionali avrebbero dovuto avere un comando unificato. Inoltre, esistevano ragioni più profonde per battere il terrorismo, quelle che Blair ha ricordato, come la definizione del conflitto israelo-palestinese - e mi pare che su tale piano non abbiamo fatto un passo avanti e non sia stato avviato un serio accordo di pace -, l'abbattimento della povertà e la chiusura dei campi profughi per togliere il terreno in cui i terroristi reclutano. Infatti, è inutile che erigiamo le barriere, che ci attacchiamo alla Lega ed al suo odio per gli immigrati clandestini, visto che i terroristi reclutano cittadini nostri, terza generazione di immigrati. Ci rendiamo conto di quanti errori stiamo facendo?
Cosa c'entra la politica di contenimento di immigrati che cercano lavoro e muoiono di fame con la loro riduzione in condizioni di non dignità? Ciò avviene, ad esempio, nel centro di permanenza temporanea di Torino, che è come un canile, con l'asfalto, con 50 gradi al sole, con le gabbie! Il terrorismo, ormai, si è talmente potenziato e ramificato, grazie agli errori che ricordavo, da reclutare cittadini dei nostri Stati, immigrati di terza generazione. Mi riferisco ai giovani che noi non degniamo di attenzione, che non accogliamo seriamente nelle nostre scuole, nelle nostre università, quelli a cui raccontiamo che vi è uno scontro di civiltà.
Cosa credete? Che loro scelgano la nostra civiltà, dopo che gli abbiamo raccontato che vi è uno scontro di civiltà? Credete che scelgano la civiltà degli Stati Uniti, di cui si ricordava la strategia ottusa e gli errori incredibili commessi, oltre alla violazione dei diritti, da Guantanamo ad Abu Ghraib, a Falluja, ai danni collaterali e così via?
Da una situazione di questo genere, credo che anche voi, come il generale Costantino, vi rendiate conto che occorre uscire l'anno prossimo; questo lo dice Costantino, mentre Berlusconi aveva detto tre mesi, ma poi si è rimangiato quello che
ha detto, perché non sa bene cosa fare. È chiaro infatti che si tratta di una situazione in cui il gioco non è diretto da noi. Pertanto, presi come siamo dalle vicine elezioni politiche, non abbiamo alcuna capacità di gestire una situazione difficilissima e complessa, che non abbiamo gestito neanche in un periodo di maggiore tranquillità.
Ad ogni modo, è evidente che un periodo di dodici anni in Iraq nessuno di noi saprà reggerlo, perché in dodici anni in Iraq succederanno tali e tante cose che non esisterà più nessuna possibilità di unilateralismo e di esportazione della democrazia attraverso la guerra preventiva. Dunque, così come hanno già fatto altri paesi - e non mi sembra che siano paesi di poco conto, tanto è vero che non possiamo più parlare, come si diceva nella risoluzione n. 1546, di forza multinazionale, giacché non si tratta più di questa, con tutti i paesi che se ne sono andati dall'Iraq e con quelli che hanno già annunciato che lo faranno prossimamente -, conviene che anche noi decidiamo di smettere questo gioco al massacro, a cui ci ha portato l'adesione acritica alla politica statunitense!
Riconduciamo quindi sotto l'ONU l'aiuto all'Iraq, peraltro indispensabile per i cittadini iracheni, dopo il massacro che noi abbiamo portato e dopo le uccisioni che i terroristi fanno nei loro confronti. Sono infatti d'accordo con chi diceva quest'ultima cosa; peccato però che si dimentichi che le strategie terroristiche non sono soltanto relative a quale Governo si dovrà instaurare in Iraq ma, come vediamo tutti i giorni, sono contro le forze di occupazione, tanto è vero che anche i nostri soldati a Nassiryia sono di nuovo sotto minaccia, tanto quanto noi qui in Italia. Ma, soprattutto, le strategie terroristiche sono in Europa e nel mondo, come dimostrano i massacri di Londra, New York, Madrid, Baghdad, Gerusalemme, Bali, Beslan, Kabul e tutte le altre situazioni, compresa la Turchia. E ci mancherebbe altro che si saldasse pure il mondo curdo con i terroristi, così abbiamo veramente chiuso il cerchio: sunniti, sciiti e curdi! Ed in più, magari, qualche altro terrorista che per adesso si è calmato grazie alla nuova strategia dei Governi, come i terroristi che agivano a Ceylon! Al riguardo, proprio la scorsa settimana il ministro degli esteri di quel paese, nel corso di un incontro, ci ha spiegato che loro dopo vent'anni hanno vinto il terrorismo incominciando a trattare e a concedere diritti e possibilità ad un mondo che avevano fino ad allora fronteggiato solo dal punto di vista militare, in tal modo non ottenendo nulla ma rafforzandoli.
Quindi la via la conosciamo. Gli errori li abbiamo capiti. I rischi che corriamo sono più che evidenti. Non sono solo i bambini di Beslan o di Baghdad - dietro cui, qualcuno dice, i militari statunitensi si paravano, usandoli come obiettivo, ma obiettivo purtroppo dei terroristi, con la loro totale mancanza di umanità e di quel minimo di capacità di stare al mondo che anche in un periodo di durezza, di scontro, di guerra dovrebbe contraddistinguere un essere umano da un animale! - ad essere coinvolti.
Saremo, infatti, tutti coinvolti, in tutto il mondo! A causa dell'inquinamento totale, vi saranno cambiamenti climatici, nell'incapacità di gestire gli eventi e di investire per salvare il nostro pianeta e diminuire le ingiustizie (vedremo nel prossimo DPEF quante risorse il Governo saprà stanziare per la cooperazione).
L'onorevole Pisa ha spiegato, con riferimento alla missione «umanitaria» - lo dico tra virgolette - quanti soldi sono stati spesi per gli aiuti umanitari in Iraq rispetto agli impegni militari mascherati sotto questa missione.
Tutti quanti, sia i terroristi sia la civiltà occidentale, entreremo in rotta di collisione con il pianeta che ci ospita (di pazienza ne ha avuta tanta nei secoli). Anche i cambiamenti climatici, il susseguirsi dei tifoni, con i morti che hanno provocato, la siccità, che incendia ed uccide, contribuiranno a rendere insufficiente l'acqua per chi vive in questo pianeta.
È questo che vogliamo, colleghi? Vi rendete conto che non ha alcun senso
parlare di rifinanziamento della missione, se in Parlamento, con il Governo in carica in questo momento, con gli errori che ha compiuto, non possiamo confrontarci fino in fondo sulla situazione drammatica che stiamo vivendo? Cosa diremo ai nostri figli? Che mondo gli stiamo preparando?
I nostri figli sono diventati cosmopoliti: oggi lavorano a Roma, domani a Londra, dopodomani in Oriente e poi si recano negli Stati Uniti, si fidanzano e si sposano con altri di altre nazionalità! Questo hanno imparato, nel momento in cui, convinti della possibilità di uno sviluppo sostenibile nel dopoguerra, abbiamo spiegato loro che era giusto che vi fosse un'integrazione tra le culture.
Oggi, invece, cosa dovremmo dirgli? Non andate più in giro; tornate indietro, dove non c'è lavoro? Nascondetevi nelle cantine? Verrà sganciata una bomba: questo gli diremo, noi, membri del Parlamento? Quali speranze di futuro in questa situazione gli sappiamo offrire, cari colleghi del Governo e cari colleghi del centrosinistra?
Credo che le eventuali divisioni tattiche, su cui i giornali si sono tanto accaniti in questi giorni nel fronte del centrosinistra, di cui oggi il collega Ranieri ha fatto giustizia, siano ben poca cosa rispetto ai compiti difficilissimi che ci aspettano!
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Crucianelli. Ne ha facoltà.
FAMIANO CRUCIANELLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, rappresentante del Governo, mi limiterò all'essenziale.
Dal dibattito sono provenute molte sollecitazioni, anche se l'aula, così deserta, non aiuta molto a sviluppare la discussione e la riflessione sul teatro iracheno, sul comportamento e sulle scelte del Governo, sulle varie contraddizioni, sull'analisi della strategia americana (su cui si è soffermato a lungo il collega Ranieri).
Vorrei solo aggiungere una considerazione. A mio parere, non ci troviamo di fronte ad un errore di calcolo, ad un'incertezza, ad una svista dell'amministrazione americana.
L'amministrazione Bush ha una strategia molto chiara - a mio parere, profondamente sbagliata e dannosa -, che è comunque una strategia sul terreno dell'economia, della filosofia economica internazionale, dell'uso della forza e, non a caso, ne seguono una serie di comportamenti coerenti con le parole d'ordine «liberismo» e «guerra preventiva», che sono poi alla base della guerra in Iraq.
Come ho già detto, intento svolgere un intervento molto scarno, limitandomi all'essenziale, nella disperata speranza che ciò possa servire a qualcosa.
Svolgiamo questo dibattito in una fase politica e storica molto drammatica. Peraltro, sono passati pochi giorni da quando l'Europa, la Gran Bretagna e Londra hanno subito un grave attentato terroristico.
È giusto e doveroso reagire, ma è altrettanto necessario riflettere. Occorre reagire perché il terrorismo che uccide civili e cittadini inermi è la forma più barbara della guerra; il terrorismo non è soltanto un atto criminale, una strage di vittime innocenti, quasi sempre di povera gente, come quella che viaggiava sulla metropolitana di Londra o come quella presente nelle moschee di Baghdad. Il terrorismo ha dentro di sé un elemento politicamente e socialmente devastante, il terrorismo vuole paura, spinge verso le leggi speciali e di emergenza, verso un sistema autoritario, vuole colpire la democrazia.
La risposta del premier inglese, dal quale peraltro ci hanno diviso scelte e valutazioni di grande significato - come la stessa guerra in Iraq -, è stata esemplare e aggiungo ciò in polemica al delirio agitatorio che la Lega sta svolgendo a casa nostra su questo stesso terreno. Al terrorismo occorre rispondere con l'intelligenza della forza e con la forza della democrazia, ma la giusta e necessaria reazione alla sfida del terrore non può privarsi di una riflessione seria sullo stato delle cose, una riflessione priva di strumentalità politica e intellettualmente onesta. In questione non vi è il destino di qualcuno o di una parte: in questione vi è il nostro comune futuro,
nonché quello delle generazioni che verranno. Non è concesso sbagliare per faziosità o per miopia.
Dall'attentato dell'11 settembre sono passati ormai quattro anni; non che prima non vi siano stati attentati di segno islamico, ma quello di New York rappresenta uno straordinario salto di qualità: si tratta del primo attentato terroristico globale nell'era della globalizzazione.
A questo punto, presidente Selva, si pongono una serie di interrogativi. Dopo anni di lotta al terrorismo, che bilancio facciamo? Quali sono i prezzi sin qui pagati? Nel mondo, siamo più o meno sicuri di ieri? Il mondo è migliore o peggiore? Bisogna insistere sulle scelte fatte o dobbiamo cambiare rotta? Credo che a questi interrogativi si debba tentare di fornire una risposta perlomeno affrontandoli, altrimenti ognuno di noi continua a ripetere la stessa giaculatoria come se fossimo pesci dentro acquari, incapaci di comunicare l'uno con l'altro.
La realtà a me pare molto eloquente (e anche su ciò bisognerebbe riflettere): il terrorismo non è stato sconfitto, questo è indiscutibile. Non solo, ma ha moltiplicato il suo volume di fuoco, la sua capacità di organizzazione. Il terrorismo non è stato certamente isolato.
Nello stesso Afghanistan, dove si è svolta una guerra con il consenso delle Nazioni Unite, dove lo Stato dei talebani e di Al Qaeda è stato abbattuto, la situazione è tornata ad essere di grande pericolo.
Quasi sicura è soltanto la città di Kabul, mentre il resto del territorio è tornato nelle mani dei signori della guerra e dei talebani. Il commercio della droga - voce importante nel bilancio finanziario del terrorismo - è più florido che mai. Nei paesi dell'area mediorientale, fondamentalisti ed integralisti hanno fatto grandi passi avanti e non indietro, conquistando un paese strategicamente, politicamente e militarmente decisivo come l'Iran.
In sostanza, nell'insieme dei paesi del mondo arabo l'odio verso l'Occidente è cresciuto e non diminuito, come testimoniano anche i sondaggi che abbiamo letto sulla legittimità di compiere attentati terroristici contro civili inermi.
Inoltre, il terrorismo è stato portato nel cuore dell'Europa o, meglio, è cresciuto in seno alla società europea, come ci dicono gli attentati di Madrid e Londra. Infine, non è maturata una vera soluzione - anzi, una soluzione - del conflitto israelo-palestinese.
Nella sostanza, malgrado una straordinaria mobilitazione di risorse umane e finanziarie, oggi siamo messi peggio di ieri. A mio avviso, è onesto riconoscerlo e chiedersi anche per quale ragione ciò sia avvenuto. Si tratta di un quesito che non può essere eluso perché non possiamo essere vittime di una miope ed irresponsabile coazione a ripetere. In merito potrò sicuramente sbagliarmi; tuttavia, individuo due ragioni o, meglio, errori, alla base di questa situazione disastrosa.
In primo luogo, mi riferisco alla guerra in Iraq, che più volte abbiamo definito illegittima, arbitraria e sbagliata. È una guerra illegittima perché fondata sulle menzogne contro il diritto e la legalità internazionale, ed anche in questo caso non bisogna essere estremisti per poter fare queste affermazioni. È arbitraria perché è stata rivolta contro un dittatore, ieri amico, in complicità con altri regimi autoritari ed in nome di una democrazia che è troppo ipotecata da interessi nascosti e dallo stesso petrolio. La bandiera della democrazia non può essere esportata sulla canna dei fucili né con i moderni bombardieri.
Infine, si tratta di una guerra sbagliata ed è questo il punto che forse ci può maggiormente interessare. Infatti, com'era prevedibile, l'Iraq si è trasformato in un laboratorio di morte, non solo per le decine di migliaia di morti, quasi tutti civili, ma perché è divenuto esso stesso una fabbrica del terrore, perché ha dato nuove armi ideologiche al fondamentalismo islamico e moltiplicato la capacità di mobilitazione, di arruolamento e riorganizzazione del terrorismo internazionale.
È stato un grave e tragico errore ed ancor più grave sarebbe insistere su questa strada.
Per questo, la nostra presenza nel teatro di guerra iracheno non solo è discutibile, a leggere la nostra Costituzione (ma sappiamo che in proposito esistono opinioni diverse), ma politicamente disastrosa, affermazione ancora più difficile da negare. Pur avendo diverse opinioni, noi tutti abbiamo guardato con interesse alle recenti elezioni irachene, considerandole una straordinaria prova di democrazia. Tuttavia, era facile intuire che esse non avrebbero risolto il problema e che, per alcuni versi, lo avrebbero ancor più complicato.
Da quando si è insediato il Governo di Al-Jafari, i morti civili sono stati 1.500. Si tratta di un numero impressionante, circa 800 ogni mese, ed inoltre siamo in presenza di una guerra civile che rischia di precipitare da un momento all'altro. Continuare ad occupare militarmente l'Iraq non è prova di realismo né di responsabilità, come invece si vuol fare intendere. Bisogna cambiare rapidamente pagina.
Ho ascoltato con molto interesse alcuni interventi che pure coglievano la grave difficoltà in cui ci si trova. In essi si affermava che prima di andarcene bisogna portare a compimento alcuni atti importanti che lì si devono realizzare, quali i referendum, la Costituzione ed altri ancora. Capisco e cerco di confrontarmi con questo ragionamento; tuttavia, la mia grande preoccupazione è che tutti questi atti, fondativi di una democrazia come lo sono state le elezioni, nel teatro militare e politico determinatosi in Iraq rischiano di consumarsi nel nulla e di bruciare una prospettiva in tale direzione.
La drammatica transizione dell'Iraq, la sua sicurezza, la sua evoluzione democratica e la sua ricostruzione materiale devono essere garantite da una forza multinazionale.
Comprendo la difficoltà, ma questa è la scelta che può mutare la natura del teatro iracheno; altrimenti, rischiamo di subire una vocazione alla coazione a ripetere che ci porta unicamente in un vicolo cieco. È dunque necessaria una forza multinazionale delle Nazioni Unite, della quale facciano parte, in primo luogo, i paesi che sono stati estranei alla guerra. Non è una prova di fantasia, è l'unica via razionale che abbiamo di fronte, se non vogliamo trovarci in un contesto sempre più irreversibile. Pertanto, il ritiro delle truppe occupanti e delle nostre truppe è, ormai, una premessa ineludibile, non una conseguenza, se si vuole tentare di uscire dal disastro iracheno e riprendere nelle proprie mani la lotta strategica al terrorismo internazionale.
D'altronde, non possiamo pensare che tutti quei paesi - ormai sono moltissimi - europei e non europei che si sono ritirati, lo abbiamo fatto per viltà o per qualche calcolo. Ritengo che essi abbiano compreso l'impossibilità, seguendo la strada dell'occupazione militare - non parliamo più della guerra, bensì dell'attuale occupazione militare -, di imprimere una svolta e di aprire una transizione in quel paese.
Si tratta dunque, a mio avviso, di seguire il percorso che altri paesi democratici hanno già intrapreso. In tal senso, votare «no» al rifinanziamento della missione e chiedere il rientro delle nostre truppe non è un atto di diserzione, bensì ciò che è utile fare per il popolo iracheno e per la lotta strategica al terrorismo. La vicenda irachena è solo l'aspetto più esplosivo ed evidente del problema, ma non il solo. Vi è un'ulteriore e drammatica questione - che è già stata affrontata nella discussione odierna e sulla quale intendo limitarmi ad alcune considerazioni - che sta dietro la forza attuale del terrorismo internazionale. Ricordo il dibattito che si svolse in questa Assemblea sull'Afghanistan, quando si trattò di unirsi alla guerra contro lo Stato dei talebani. Nel corso di tale dibattito, nonché nel dibattito internazionale, si affermava: oggi siamo costretti ad un'azione militare, ad una guerra; tuttavia sappiamo che dietro il terrorismo vi sono drammatiche questioni sociali che investono miliardi di uomini. Tutte le forze politiche del nostro paese e tutti i grandi della Terra assunsero l'impegno,
quattro anni fa, di iniziare una nuova fase nel mondo e nel rapporto fra i paesi ricchi e i miliardi di persone che vivono nei paesi poveri. Tale impegno politico si associò all'iniziativa militare. Ebbene, sono trascorsi quattro anni, nel corso dei quali siamo vissuti in uno stato d'emergenza, e non si è compiuto alcun passo in avanti. Anche in tal caso, non si può non tracciare un bilancio e non si può non riflettere.
Ricordo la Conferenza di Monterrey, indetta dalle Nazioni Unite, per lo sviluppo dei paesi del sud del mondo, alla quale parteciparono ministri degli esteri, presidenti, premier, Bush, Fidel Castro: una sfilata di potenti della Terra. Non se ne fece nulla, e lo stesso presidente Bush, coerentemente con la sua strategia, di fronte a una sala affollata di rappresentanti del nord e del sud del mondo, disse: se volete lo sviluppo, avete solo una via, lotta al terrorismo e libero mercato. Si comprende come perseguendo questa strada non si sia fatto molto.
Un altro momento importante è stato il Vertice di Cancun, nel quale si affrontava non più lo sviluppo in senso «general-generico», come nel caso di Monterrey, bensì il commercio internazionale e il protezionismo dei paesi del nord nei confronti dei paesi del sud. Anche in tal caso, si è registrato un fallimento pressoché totale.
Vorrei ricordare che il Vertice di Cancun fallì non per una contraddizione tra Europa e Stati Uniti d'America - come avvenuto in altri vertici del WTO -, ma perché un rappresentante del sud del mondo, un africano, si alzò e chiese che, perlomeno sul cotone, finisse l'ignobile protezionismo dei paesi del nord, nei confronti in primo luogo del cotone degli Stati Uniti d'America. A tale richiesta si rispose con un nulla di fatto, si disse «no»! A quel punto la riunione di Cancun saltò proprio partendo da questo episodio, che può apparire marginale rispetto ad un consesso nel quale si discutevano le grandi questioni del commercio mondiale. Quel vertice fallì perché attorno a questa vicenda si saldò la solidarietà dell'intero sud del mondo.
Si finisce poi con l'ultimo vertice contro la povertà, quello di Edimburgo: anche qui parole, ma nessun fatto concreto all'orizzonte. Lo ricordo perché tale questione non appartiene solo alla maggioranza o solo alla minoranza. Il mondo che si sta ormai realizzando sotto i nostri piedi mette in discussione non solo gli uomini della minoranza o della maggioranza - o i loro figli -, ma, come ricordavo all'inizio, mette in discussione il destino di tutti!
Quando vengono messe le bombe alla metropolitana di Londra, non si chiede la tessera di partito o l'appartenenza ad un determinato ceto sociale, ma si colpiscono tutti coloro che si trovano in quella metropolitana. Lì in qualche modo si raffigura, anche per la natura etnica dei colpiti (basta vedere le foto di chi stava in quei luoghi), un destino che è di tutti!
In tal senso, trovo veramente irresponsabile la continua elusione dei quesiti provenienti dalla drammatica realtà che ci sta intorno. Ecco perché ritengo che questi dibattiti siano rituali. Il collega Ranieri ricordava che finalmente si discute dell'Iraq. Purtroppo discutiamo dell'Iraq in modo rituale. È diventato un rito. Si discute ogni sei mesi del rifinanziamento della missione, ma in realtà non vi è una vera discussione che faccia il bilancio di cosa sia diventato il mondo oggi alla luce del terrorismo, alla luce della strategia americana, alla luce dell'impotenza dell'Europa, alla luce della grande disperazione del sud del mondo! Non riusciamo mai a svolgere un vero dibattito! Non si riesce mai a realizzare un confronto dal quale possano scaturire degli elementi volti a cambiare lo stato delle cose.
Ovviamente, non ho fiducia che l'odierno dibattito possa partorire alcunché di buono in tale direzione. Però, anche per salvare la nostra anima, non posso che ribadire il nostro voto contrario al rifinanziamento della missione e la nostra richiesta di ritiro immediato delle nostre truppe dall'Iraq (Applausi dei deputati
dei gruppi dei Democratici di Sinistra-L'Ulivo e di Rifondazione comunista).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole De Brasi. Ne ha facoltà.
RAFFAELLO DE BRASI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, l'attacco terroristico di Londra ci costringe ad una discussione non rituale: c'è sempre il rischio, in queste occasioni, che le nostre discussioni, soprattutto per l'impegno relativo della maggioranza rispetto a questo provvedimento, possano essere gestite come atti un po' burocratici, quasi dovuti. Chiaramente per noi non è così; soprattutto, l'attacco di Londra ci spinge a svolgere una discussione impegnativa.
Il terrorismo di matrice islamica ha colpito di nuovo l'Europa in concomitanza con lo svolgimento del Vertice G8: è stata colpita la città più cosmopolita del mondo; è stata colpita al cuore da cittadini britannici di origine pakistana, trasformati in kamikaze. Si è trattata di una violenza cieca, che ha fatto strage di innocenti, indipendentemente dal colore della pelle, dalla nazionalità, dalla religione e dall'appartenenza politica. Il terrorismo conosce solo il linguaggio dell'odio e della vendetta e il suo obiettivo immediato (ha anche obiettivi strategici, di più lunga durata) è creare terrore e paura, in maniera tale da farci sentire tutti insicuri.
Perciò abbiamo affermato che non cederemo al ricatto della paura e che, tutti insieme, ci impegneremo per sconfiggere il terrorismo internazionale. Di fronte a tale minaccia, che fa dell'Italia il prossimo bersaglio, il popolo italiano deve sentire, insieme al Parlamento, tutta la responsabilità della coesione nazionale e dell'unità democratica. Ovviamente, si tratta di un impegno faticoso, allorquando assistiamo a ciò che accade nel Consiglio dei ministri a seguito della posizione assunta dal gruppo della Lega Nord, che in qualche modo paralizza il Governo, impedendogli, spero per poco, di assumersi fino in fondo le proprie responsabilità.
Bisogna dunque reagire, condannando il terrorismo senza «se» e senza «ma». Nessuna sottovalutazione e giustificazione è ammessa nei confronti dell'attacco terroristico. Il terrorismo vuole spingerci a limitare le nostre libertà individuali ed a sacrificare le garanzie costituzionali dello Stato di diritto, vuole dimostrare la vulnerabilità delle nostre società aperte, tolleranti e democratiche e vuole farci cambiare il nostro modo di vivere e i processi decisionali del nostro sistema democratico. Per questo dobbiamo fare il contrario di ciò che vogliono i terroristi: niente stato di guerra, né leggi speciali e lotta aperta alle posizioni islamofobiche della Lega Nord, che, facendo leva sulla paura, cerca di creare uno scontro di civiltà nel nostro paese. Colleghi, non c'è scontro di civiltà, non ci sono cristiani contro musulmani, non c'è scontro di religioni. Guai se noi accettassimo il punto di vista dei terroristi e purtroppo, qua e là, anche della destra ultra e conservatrice americana su questo punto!
Il fatto che gli attentatori di Londra siano giovani inglesi di origine pakistana dimostra come l'integrazione multietnica non sia certo un antidoto sufficiente contro il terrorismo. Ma questo dato di fatto, lungi dallo spingerci ad abbandonare le politiche di integrazione, dovrebbe, al contrario, stimolare una politica di maggiore integrazione e accoglienza proprio per isolare e combattere meglio la fabbrica dei kamikaze all'interno delle comunità islamiche dei paesi europei piuttosto che isolare questi cittadini considerandoli tutti potenziali terroristi. Si tratta cioè di creare un rapporto di fiducia tra le istituzioni democratiche e quei cittadini, che consenta di isolare dall'interno i simpatizzanti e i sostenitori del terrorismo nelle moschee e nelle comunità musulmane Per fortuna, forse per la prima volta, in Gran Bretagna ma anche in Italia e in tutta l'Europa nonché in altri paesi, cominciano a prendere corpo, anche in Iraq, forme di manifestazione per la lotta contro gli attentati terroristici.
L'attentato di Londra ci pone di fronte alla brutale realtà di un terrorismo che non si può evitare; d'altronde, un paese da sempre in guerra come Israele, che usa
quotidianamente la forza delle armi per combattere il terrorismo, non è mai riuscito ad evitare gli attentati dei kamikaze. Questo lo dico per coloro che in questi giorni invocano una svolta della sinistra in direzione dell'uso della forza militare contro il terrorismo, con l'unico scopo - credo - di legittimare la guerra in Iraq. In questi giorni vi è stata una campagna di stampa che ha strumentalizzato l'attentato di Londra per legittimare la guerra in Iraq, per creare consenso intorno ad una risposta «muscolare»; questa volta, si è detto, persino contro l'Iran, come se la risposta vincente contro il terrorismo fosse l'aumento della potenza di fuoco dell'Occidente. Si dice che bisogna braccare, arrestare e sterminare i terroristi, bisogna batterli in campo aperto, andare a scovarli dove sono, come se Bin Laden non fosse ancora libero. Ma non è certo la sinistra che impedisce di catturare il capo del terrorismo internazionale. La sinistra riformista ha sostenuto l'intervento militare in Afghanistan, dimostrando che non si tira indietro quando l'ONU autorizza l'uso della forza militare, ma non se ne può più veramente delle prediche di coloro che non vedono l'ora di muovere gli eserciti e che ci fanno lezioni di come si dovrebbe combattere il terrorismo.
Respingiamo al mittente gli appelli strumentali al centrosinistra per farlo desistere dal richiedere il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq, altrimenti - si dice - farete il gioco dei terroristi. Noi siamo stati contrari alla guerra fin dall'inizio e, se è vero come è vero che il terrorismo non dipende dalla guerra in Iraq, si deve pure ammettere che il terrorismo è stato alimentato da quella guerra. Il terrorismo si è nutrito dei sentimenti antioccidentali suscitati dalla guerra nelle popolazioni arabe e musulmane. E non possiamo nascondere il fatto che l'odio contro l'Occidente è stato alimentato dalla violenza dell'Occidente contro i musulmani, dalla vista delle vittime innocenti della guerra, dalle torture inflitte ai prigionieri in Iraq, dai trattamenti disumani del carcere di Guantanamo e dagli episodi di disprezzo del Corano e dell'Islam, rimbalzati, tramite la televisione, nelle case delle famiglie musulmane di tutto il mondo.
La nostra richiesta di una strategia di uscita dall'Iraq non dipende dalla minaccia terroristica, ma dalla convinzione che bisogna porre fine ad una guerra sbagliata e ad un'occupazione militare per lasciare gli iracheni padroni del loro destino.
Per combattere il terrorismo internazionale, l'Occidente deve mettere in campo un grande dialogo politico e culturale, religioso ed economico, con i paesi musulmani e con il mondo islamico. Sul piano politico, è necessario risolvere il conflitto mediorientale, dando una patria ai palestinesi e garantendo la sicurezza di Israele, ed è urgente sostenere i tentativi di democratizzazione dell'Islam, perché solo in questo modo la modernizzazione che ha caratteri occidentali potrà essere accettata.
Il terrorismo si alimenta delle difficoltà e dei fallimenti delle classi dirigenti laiche e moderate dei paesi arabi, le quali non hanno saputo far uscire dalla povertà i loro popoli, nonostante le grandi ricchezze derivanti dalla rendita petrolifera. Per questo, la democrazia e la cooperazione economica sono le leve sulle quali fare forza per combattere la povertà, che alimenta il sostegno al terrorismo.
Certo, il terrorismo di matrice islamica ha obiettivi politici molto ambiziosi ed autonomi: vuole conquistare il potere nei paesi arabi e musulmani; pensa ad un imperialismo islamico d'altri tempi; vuole costruire modelli di società ancora più fondamentalisti e maschilisti di quelli dell'Iran, magari ripetendo su vasta scala il modello sociale dei talebani in Afghanistan. L'odio dei terroristi per l'Occidente è rapportato ai loro obiettivi: l'Occidente, con i suoi valori e la sua forza economica e militare, impedisce il disegno di cui ho detto. Da qui lo scopo di contrastarlo in ogni modo e con ogni mezzo: si tratta, per loro, di una guerra all'Occidente ma, nel contempo, di una guerra civile tra musulmani, di uno scontro di civiltà e religioso. Questo è il pensiero dei terroristi; e non può sicuramente diventare il nostro.
L'Europa deve fare la sua parte e non deve ritirarsi dalla sfida globale, deve ritrovare la sua unità nella politica estera e nella politica di sicurezza. L'Europa, lo sappiamo, è il soggetto politico che meglio può dialogare con l'Islam e che può costruire una democrazia capace di fronteggiare le nuove sfide dell'inclusione sociale, da indicare come punto di riferimento anche ai paesi islamici. Se, invece, esportiamo il peggio del modello occidentale, facciamo indirettamente il gioco del terrorismo. La costruzione di un nuovo umanesimo nell'economia sociale di mercato aiuterebbe sicuramente la lotta al terrorismo, dando dell'Occidente un'immagine più accettabile e attraente, in particolar modo nei confronti del mondo islamico.
Signor Presidente, colleghi, l'attuale situazione in Iraq è molto grave, almeno in certe aree del paese. La sicurezza non è assolutamente garantita: sono in aumento gli atti terroristici; è in forte aumento il tasso mensile dei decessi (come, d'altra parte, leggiamo nelle cronache di tutti i giorni). La situazione sociale ed economica è molto grave: c'è una situazione di emergenza per quanto riguarda l'approvvigionamento e la distribuzione dell'acqua potabile, per quanto riguarda la salute e le garanzie per la salute dei cittadini; miseria e povertà sono molto diffuse; il sistema dell'istruzione sicuramente non può essere definito civile; c'è una diffusione della criminalità organizzata.
È chiaro che l'impegno sui temi della sicurezza, nonché l'insicurezza e l'instabilità di quel paese impediscono a tutte le forze in campo di concentrarsi e di impegnarsi a fondo sui temi della ricostruzione, di quella economica e di quella infrastrutturale, che è molto faticosa e molto lenta, mentre la ricostruzione politica e democratica è in atto, ha fatto i primi passi ma sicuramente è piena di incognite.
Il processo politico e democratico è molto complesso, così come sono complessi la costruzione dello Stato di diritto, il rispetto dei diritti umani, il rispetto delle minoranze (non solo quelle sunnite ma anche quelle degli assiri, dei turcomanni, degli arabi delle paludi, come ha ricordato il Parlamento europeo), così come è molto difficile un processo che ponga fine alle discriminazioni verso le donne.
Naturalmente, questo processo politico dobbiamo sostenerlo: dobbiamo sostenere questo processo democratico e dobbiamo riuscire ad aiutare il popolo iracheno ed il suo Governo affinché possa essere confermato l'obiettivo del referendum costituzionale, delle elezioni politiche del 15 dicembre 2005 e, dopo, della formazione del nuovo Governo costituzionale che dovrà avere alla base, più del Governo attuale - sebbene uno sforzo sia stato fatto in questa direzione -, un processo di riconciliazione nazionale che coinvolga pienamente, anche da un punto di vista elettorale, le minoranze e, in particolar modo, la comunità sunnita.
Ci vuole un grande piano per la ricostruzione e un grande piano per l'emergenza, un piano condiviso, che sia alla base anche di questa riconciliazione nazionale, nel cui ambito l'ONU e l'Unione europea abbiano un ruolo fondamentale, un ruolo quadro, un ruolo di sostegno e di impegno anche di carattere finanziario; un'ONU e un'Unione europea che spingano affinché vi sia anche un rapporto nuovo fra l'Iraq e i paesi confinanti per quanto riguarda la garanzia alle frontiere, la gestione del fenomeno terroristico, i traffici di droga e di armi, la criminalità organizzata.
Il 6 luglio il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che ha visto la maggior parte del centrosinistra unito nel votarla; in tale risoluzione si chiede che si addivenga ad una nuova risoluzione dell'ONU con la quale si riesca a garantire il ruolo di primo piano dell'ONU in Iraq, ciò che oggi non avviene, che vi sia una sostituzione delle truppe che attualmente occupano l'Iraq, quelle che hanno fatto la guerra, con una forza di mantenimento della pace guidata, appunto, dall'ONU.
Sappiamo tutti che i partiti iracheni hanno chiesto durante la campagna elettorale il ritiro delle truppe e che molti paesi le hanno già ritirate; paesi che non hanno partecipato al conflitto potrebbero
impegnarsi in questa forza di mantenimento della pace e potrebbero svolgere un ruolo importante nella formazione della polizia e delle forze armate, che sicuramente è già a buon punto. Il ritiro delle nostre truppe dovrebbe essere attuato in modo progressivo in base ad un calendario definito, e questo vale per l'insieme delle truppe presenti in Iraq: così dice la risoluzione del Parlamento europeo.
Tutti parlano di strategia di uscita dall'Iraq, ma il problema è che nessuno dice quando e come uscire dall'Iraq. Il Presidente del Consiglio si è ripetutamente espresso su questi temi. Egli sente non solo che il popolo italiano, e non da oggi, è contrario a quella guerra, ma che il popolo italiano non riesce a comprendere le motivazioni della nostra permanenza in Iraq; sente questa contraddizione con l'azione di governo e man mano che si avvicinano le elezioni politiche è evidente che senta tale contraddizione in maniera più intensa. Per questo - io credo - ha annunciato che a settembre vi sarà il ritiro di trecento militari dall'Iraq.
Ma che senso ha un tale ritiro? Si tratta di un atto isolato? È un primo passo di un processo a tappe? E quali sono le tappe?
Ecco, in occasione dell'odierna discussione sul rifinanziamento della missione in Iraq, noi avremmo voluto affrontare l'argomento con la maggioranza, avviando un dialogo ed aprendo una fase nuova. Una fase nella quale ci si sarebbe insieme concentrati sui temi della sicurezza e della stabilità, nel quadro dell'ONU e nella prospettiva della ricostruzione.
PRESIDENTE. Onorevole De Brasi...
RAFFAELLO DE BRASI. Si sostiene - e lo si è dichiarato anche in questa aula - che Nassiriya rappresenterebbe un'isola felice; ma tale situazione, meno drammatica rispetto a Bagdad od alle aree egemonizzate dai sunniti, non spinge ad accelerare il passaggio pieno e compiuto agli iracheni del potere, almeno in quell'area? Purtroppo, il Governo e la maggioranza non hanno le idee chiare sulle decisioni da prendere, sicché manifestano, in qualche modo, subalternità alla visione americana e della Gran Bretagna. Non mi stupirei, al riguardo, se Stati Uniti e Gran Bretagna addivenissero prima di noi a definire un calendario nell'ambito di una strategia di uscita dall'Iraq.
D'altra parte, e fin dall'inizio, il nostro Governo non ha mai perseguito con impegno e coerenza il fine di unire l'Europa sulla politica da realizzare in Iraq e così sta procedendo anche in questo momento.
Ovviamente, in assenza di alternative serie e credibili, noi voteremo contro il rifinanziamento della missione italiana in Iraq: non certo perché non solidali con i nostri militari che, lontani dalle loro famiglie, affrontano molti sacrifici assolvendo bene il loro dovere, con professionalità ed umanità; piuttosto, perché siamo sempre stati contro questa guerra che, sbagliata ed illegittima, ha alimentato il terrorismo.
Ma il nostro «no» - sia chiaro in Parlamento - non significa disimpegno per la sicurezza, per la stabilità e per la ricostruzione dell'Iraq; su tale fronte, siamo, infatti, determinati a fare fino in fondo la nostra parte (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Rocchi. Ne ha facoltà.
CARLA ROCCHI. Signor Presidente, avverto tutto l'imbarazzo di intervenire dopo una serie di autorevoli colleghi, i quali hanno illustrato, entrando nel merito della materia in esame, le ragioni della loro posizione sul provvedimento e adducendo le motivazioni del loro voto, quale che esso sia. Aggiungerei, anzi, che tale imbarazzo deriva anche dalla circostanza che la situazione odierna ripropone i numerosi dibattiti già svolti in occasione dell'esame dei provvedimenti con i quali in passato il Governo ha finanziato la missione in Iraq. Infatti, la mia sensazione è che si sia lungi dall'avvicinare le posizioni e dall'aprire un dialogo ed un confronto tali da portare alla maturazione di punti di contatto; anzi,
in qualche maniera, ciascuno dei punti di vista si avvolge e si avvinghia su se stesso. Ciò in buona fede, probabilmente immaginando, ciascuno, che solo le proprie ragioni siano giuste e che soltanto persistendo nel proprio atteggiamento si addiverrà alla soluzione del problema.
Pur evitando di ripercorrere, punto per punto, le ragioni già ascoltate, vorrei, tuttavia, tentare una valutazione analitica della materia in discussione, quasi fosse al nostro esame per la prima volta. Ciò sarebbe utile sia per ragioni di chiarezza sia, spero anche, per tediare il meno possibile l'autorevole, anche se non numerosa, platea di oggi.
Anzitutto, quando si intraprende un'azione bisogna sapere per chi la si compie, oltre che perché. Le nazioni impegnate in questa operazione militare - «militare», checché se ne dica! - sostengono di condurla per le popolazioni coinvolte. Al tempo stesso, dichiarano che le elezioni svoltesi nel gennaio di quest'anno hanno costituito un passo avanti rispetto all'impegno preso.
Su questo punto concordo: anche se le ombre su quelle elezioni sono numerose, tuttavia la somma algebrica di quegli eventi fa sì che, dal mio punto di vista, è meglio che siano svolte piuttosto che no. Vorrei ricordare, tuttavia, che non c'era parte politica, gruppo e schieramento presentatosi a tali elezioni che non avesse inserito nel proprio programma elettorale, in maniera assolutamente chiarissima ed inequivocabile, la richiesta dell'allontanamento delle truppe straniere dal suolo dell'Iraq.
CARLA ROCCHI. Quindi, se pretendiamo di aver compiuto questo intervento militare perché l'Iraq ce lo richiedeva, ebbene non si capisce di quale Iraq si tratti, visto che tutti coloro che si sono presentati alle elezioni, e che rappresentano legittimamente il popolo, in tutte le sue sfumature - anche se parti significative non hanno partecipato al dibattito elettorale, ma vorrei segnalare che quelle parti erano ancora più radicali nel richiedere l'allontanamento delle presenze straniere -, hanno chiesto la stessa cosa. Che conto ne abbiamo tenuto noi? Zero! Pertanto, la prima domanda - per chi lo abbiamo fatto? - riceve una risposta assolutamente negativa.
Potremmo anche avere la presunzione di pensare che, in un rigurgito di evoluzionismo tardivo, la nostra capacità di ragionamento, come Occidente, fosse così prevalente da consentirci, in maniera quasi didattica o didascalica, di dire: voi non vi rendete conto di quanto sia positivo il nostro intervento, ma noi lo facciamo lo stesso, perché vi giova; quindi, lo capirete dopo quanto vi avrà giovato l'intervento che abbiamo compiuto!
A chi giova? Certamente, non a quel paese, dove la contabilità degli attentati deve essere aggiornata in continuazione. Ho a disposizione cifre che riguardano dati, rilevati una settimana fa, in cui si parlava di 866 attentati compiuti in Iraq in due anni: ebbene, dopo una settimana dalla rilevazione, tale dato va pesantemente aggiornato!
Dunque, a tacere pietosamente del fatto che le ragioni per cui è stata scatenata la missione militare (vale a dire, le famose armi di distruzione di massa mai trovate e via dicendo), che sono ormai un argomento imbarazzante da adoperare, la motivazione del contenimento del terrorismo è palesemente smentita dai fatti accaduti, e non solo in Iraq. È stato già ricordato, infatti, come l'Iraq di Saddam Hussein - pessima gestione, ovviamente, e su questo punto non spreco nemmeno una parola! -, non fosse comunque quel crogiolo di terrorismo che è diventato oggi quel territorio, e, soprattutto, come non vi fosse l'esportazione dello stesso terrorismo, in maniera deflagrante, non solo nell'area circostante, ma anche dentro i nostri confini.
Mi si dirà che il terrorismo è sempre esistito. Certo; tuttavia, il nutrimento e l'alimentazione stessa di tali azioni è qualcosa che noi, se siamo intellettualmente
onesti, tocchiamo con mano. Stiamo toccando con mano anche un timore diffuso che mina alle fondamenta la convivenza civile, perché - c'è poco da dire! -, nel momento in cui gli attentati vengono attribuiti a dei kamikaze di altra etnia, di altra provenienza e di altra cultura (in altre parole, a persone «altre» da noi), si ripropone quella mai irrisolta dicotomia tra il «noi» e gli «altri» che per tanto tempo ha intrigato gli studiosi, che è stata oggetto di profonde valutazioni antropologiche e sociologiche e che vede quasi azzerati i suoi risultati positivi nel momento in cui si può affermare, attraverso una semplificazione rozza ma efficace, che tutto il male proviene da fuori e tutto il bene, invece, viene da qua! Tanto è vero che, quando si parla di «pacchetto sicurezza» (provvedimento che esamineremo presto), nelle fila della stessa maggioranza osserviamo valutazioni diverse, alcune perfino molto radicali (anche se certamente non condivisibili).
Detto ciò, vorrei rilevare che dobbiamo formulare qualche altra valutazione. In sequenza: per chi lo facciamo? Non è richiesto! A chi giova? Proprio a nessuno, né a loro, né a noi! Quindi, diciamo «no» alla proroga della missione in Iraq perché, da un punto di vista logico e teorico, prima ancora che pratico, rifinanziare una operazione che non ha giustificazioni, che non è richiesta da nessuno e che non produce effetti, se non quello di pesare fortemente sul bilancio del nostro paese, francamente si giustifica poco.
Tanto poco si giustifica che perfino il nostro Governo comincia a condividere le posizioni di altri governi nazionali e lumeggiare all'opinione pubblica - forse anche quale ballon d'essai - la possibilità di un inizio di ritiro, sia pur parziale e calibrato, delle nostre forze da tale paese.
È vero anche che la prima volta che il nostro premier, in un momento elettorale, ha fatto un'affermazione di tale contenuto, ha successivamente dovuto rapidamente puntualizzare - come è suo costume - dicendo che, sì, un ritiro sarebbe avvenuto, ma d'accordo con gli alleati. Su tale argomento, tuttavia, è tornato, perché egli si rende conto che - così come altri paesi hanno valutato e così come ormai autorevoli personaggi dello stesso establishment degli Stati Uniti d'America stanno dimostrando - l'idea di un cambio di presenza sul territorio si impone con forza perfino a chi tale presenza l'ha fortissimamente voluta, determinata e pervicacemente mantenuta.
Pertanto, a chi giova questa operazione, dal mio punto di vista? Se non produce vantaggi, essa certamente giova a due categorie tipologiche, ossia ai produttori di armi e ai petrolieri, non a caso i maggiori sostenitori della campagna elettorale di Bush - ma sarebbe riduttivo porre la questione soltanto in termini economici -, ossia le persone che condividono in maniera molto forte - ideologicamente ed idealmente - una visione quale quella del Presidente degli Stati Uniti d'America, il quale può legittimamente pensarla come vuole, ma non può credere che noi la pensiamo necessariamente come lui. Così, infatti, non è, o meglio così non è davvero dappertutto. Non è che tutti agitano vessilli, contenti di essere impantanati in un'operazione che non porta da alcuna parte e che produce effetti a scacchiera. Sono, infatti, preoccupatissima per ciò che avviene in Iran. Probabilmente le elezioni presidenziali in Iran avrebbero avuto altri esiti se non ci fossimo trovati in questo pastrocchio micidiale, che sarebbe il caso di iniziare a risolvere.
Ecco perché, tornando alla nostra contrarietà, quale gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo, al rifinanziamento di questa missione, dico che vale la pena considerare i profondi motivi del nostro convicimento. Noi non siamo contrari ai principi né agli interventi umanitari, non siamo contrari alla nostra presenza in tale area. Quando eravamo al Governo, abbiamo promosso noi presenze importanti in luoghi difficili, in cui un sacrificio pesante, sia economico, sia soprattutto di impegno umano vi è stato, ma la buona ragione che lo determinava ci ha convinto a promuovere tali missioni e a continuare ad offrire il nostro consenso alle medesime ed al loro rifinanziamento. Ben altro parere
abbiamo, invece, riguardo a questa missione, proprio perché a noi sembrano chiare le ragioni che differenziano profondamente le missioni che ho testé menzionato da questa, per come essa è nata, per come è stata non voluta, per come non è voluta, per gli effetti devastanti che produce e per il vicolo cieco in cui ci ha condotto. Siamo, infatti, tutti in un vicolo cieco, incerti anche riguardo alle più banali operazioni quotidiane, quali salire su una metropolitana nelle nostre città.
Che dire, infine, di tale materia? È evidente che, dopo aver preannunziato un voto contrario, per le ragioni esposte, il discorso sembrerebbe chiuso. Per chiuderlo debbono, tuttavia, essere fatte ancora due ulteriori valutazioni, che riguardano la presenza, la professionalità, l'impegno e la grande dedizione dei nostri militari che si trovano in Iraq, riguardo ai quali deve essere fatto un distinguo sostanziale. Anzitutto, perché trovandosi in tale area in condizioni difficili, i nostri militari sono molto capaci e certamente ai medesimi pesa essere posti sotto un comando straniero, come pesa a ciascuno sapere che non esprimiamo una sovranità. I nostri militari sono persone che in quel territorio svolgono certamente, pur nelle condizioni ricordate - e, a nostro avviso, nell'assoluta mancanza di presupposti per trovarvisi - un ruolo positivo. Ciò lo voglio riconoscere. I nostri militari hanno avuto la capacità di essere apprezzati persino in situazioni belliche promosse dal nostro paese, quando facevano quelle che nella mia città si chiamano «le peggio cose». I soldati italiani si sono distinti per avere «una marcia in più» nei rapporti con la popolazione, come avviene anche oggi in Iraq. Sono sicura che per la popolazione irachena, la presenza del contingente italiano è positiva e rappresenta un punto di riferimento. Noi diciamo che ciò potrebbe avvenire - quale presenza di forza di interposizione o di pacificazione - con un'altra logica, con un altro criterio, con un altro comando e con un'altra organizzazione.
Mi avvio a concludere: cosa rispondiamo al Governo che ci chiede un consenso per il rifinanziamento di questa missione? Chiediamo che il Governo ci dica se vi sono aspetti che ritiene ragionevoli fra quelli che elenchiamo e che, qualche volta, comprendono anche punti di vista del Governo medesimo. Ci dica il Governo se intenda riconsiderare, dal punto di vista delle modalità e delle procedure, questa presenza e questo gravosissimo ed imbarazzante impegno, non scevro e non alieno da pesantissime conseguenze. Anche noi abbiamo avuto i nostri morti: contano tutti, sono tutti lì e ce li ricordiamo tutti! Essi hanno pesato sulle nostre coscienze e sui nostri cuori: dalla strage di Nassiriya in avanti, ci ha coinvolto un profondo dolore nazionale.
Ci dica il Governo se, rispetto a questa presenza, sia in grado ed abbia la volontà di svolgere un'analisi politica. Soprattutto, ci dica se, compiuta tale analisi politica, ritenga di poter realizzare una ragionevole pianificazione del «dopo». A meno che l'operazione non consista soltanto nel tirare avanti un altro anno; e, poi, chi si trova la patata bollente in mano la gestisca!
Probabilmente, sarebbe molto apprezzato che, per una volta, in un'aula più affollata, si potesse svolgere un vero dibattito, in cui ciascuno si impegni a compiere un passo indietro rispetto alla punta più estrema delle sue posizioni, per vedere di trovare un punto di contatto. Che, almeno, ci venga detto cosa si ha intenzione di fare, se si ritirano le nostre truppe, in quali tempi e in quali modi: si ritirano per poi essere presenti sul territorio in altre forme o sotto altri criteri organizzativi, oppure si rimane nella situazione attuale? Per noi sarebbe importante saperlo.
Credo anche che si riuscirebbe a muovere un interesse e persino un po' di attenzione collaborativa in più, se potessimo entrare nel merito. Infatti, ogni volta ci viene riproposta, sic et simpliciter, l'ipotesi di rifinanziamento di una missione, affermando che è stata tanto «buona e bella» e che meglio di così non poteva essere, come se si richiamasse una riedizione moderna e bellica del Candido di
Voltaire: il migliore dei mondi possibili. Non pensiamo che questo sia il migliore dei mondi possibili, ma quanto meno chiediamo che ci venga spiegato cosa succede all'interno di questo mondo; dopodiché, vedremo.
In questa bizzarra situazione in cui ci viene detto - quasi a scatola chiusa e nonostante le nostre ormai perfino quasi noiose e ripetute argomentazioni - che questa missione deve essere rifinanziata per motivi che non riteniamo nemmeno oggettivamente valutabili, non ci si può meravigliare se la nostra risposta è negativa e se la richiesta paziente, fiduciosa e tenace che rivolgiamo al Governo è di farci capire le sue intenzioni.
Potremmo anche non essere d'accordo sulle intenzioni, ma se non le conosciamo dobbiamo essere in disaccordo su un'ipotesi, su una presunzione. Da parte di una forza politica pragmatica come la mia si preferirebbe essere in leale disaccordo su programmi enunciati, piuttosto che in disaccordo su programmi presunti (Applausi dei deputati del gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ciro Alfano. Ne ha facoltà.
CIRO ALFANO. Signor Presidente, il decreto-legge oggi in discussione è finalizzato - come è noto - a consentire al nostro contingente la continuità di azione e la prosecuzione, fino al 31 dicembre, della missione umanitaria e di ricostruzione in corso sul territorio iracheno, nonché dell'abbinata missione militare.
A nostro avviso, tale missione non aveva e continua a non avere motivazioni e caratteristiche difformi dalle altre alle quali l'Italia partecipa al di fuori del territorio nazionale. La proroga della partecipazione, infatti, avrebbe potuto essere esaminata nell'ambito del quadro generale e della policy che il nostro paese ha adottato in tema di politica estera, di difesa e di alleanza internazionale, finalizzate al mantenimento della pace e al contrasto al terrorismo internazionale.
Questa maggioranza, infatti, anche allo scopo di recepire alcune istanze, avanzate dall'opposizione nell'ambito di uno spirito bipartisan, di collaborazione, su un tema così delicato, ha deciso di discutere separatamente dall'insieme delle altre missioni internazionali quella riguardante l'Iraq.
Pertanto, abbiamo accolto con favore tale decisione proprio nello spirito della suddetta collaborazione.
Ritengo importante precisare le ragioni, che sono di duplice valenza, sottostanti il nostro convincimento di considerare il quadro di insieme della nostra partecipazione alle iniziative di pace.
La prima è di ordine concettuale, in quanto la decisione di inviare il nostro contingente in Iraq è avvenuta dopo, non prima, che l'intervento armato americano, supportato da quello inglese, abbattesse la dittatura di quel paese. Pertanto, da noi tale missione non poteva essere interpretata come una partecipazione ad un'azione bellica, bensì come un intervento volto ad aiutare lo sfortunato popolo iracheno a riappropriarsi della propria libertà e ad avviare il processo di ricostruzione del paese, devastato da un regime sanguinario e distruttivo, che ha represso con ferocia inaudita ed inimmaginabile ogni tentativo di ribellione. Tale regime ha sperperato in armamenti e strutture faraoniche, destinate esclusivamente al mantenimento del potere, quelle ingenti risorse di cui il paese dispone, derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti petroliferi.
La seconda ragione è di natura organizzativa e programmatica e consiste nella necessità, anche da noi evidenziata, di presentare alle Commissioni parlamentari competenti in materia un unico quadro organico della nostra presenza all'estero, con linee guida generali ben definite e con modalità di partecipazione e di pianificazione delle risorse uniformi e coordinate, in considerazione del fatto che la competenza spetta alle Commissioni riunite III e IV e che tutte le missioni internazionali cui partecipa il nostro paese sono legittimate sulla base di atti emanati dalle organizzazioni internazionali.
Anche l'operazione denominata Antica Babilonia, infatti, è stata decisa, com'è noto, sulla base di ben tre risoluzioni del
Consiglio di sicurezza dell'ONU, la n. 1483, la n. 1511 e la n. 1546 dell'8 giugno 2004, fra le quali spiccano alcuni dei motivi per i quali i nostri militari sono in Iraq: per fornire soccorso umanitario, promuovendo la ricostruzione economica e le condizioni per uno sviluppo sostenibile e portando avanti sforzi per ripristinare e stabilire istituzioni nazionali e locali; per istituire una forza di polizia di sicurezza irachena, che garantisca efficacia nel mantenere l'ordine e la sicurezza e nel combattere il terrorismo.
Nel preambolo dell'ultima risoluzione dell'ONU, la n. 1546, viene riconosciuta, fra l'altro, la richiesta del Primo ministro del Governo ad interim al Presidente del Consiglio di sicurezza affinché venga confermata la presenza delle forze multinazionali e lo stretto collegamento fra le stesse.
Per quanto ci riguarda, pertanto, non possiamo che ribadire la nostra convinzione, supportata ed in linea con le suddette risoluzioni, che lo scopo della presenza italiana in Iraq è anche quello di incoraggiare e supportare l'implementazione dei processi di democratizzazione. Questo obiettivo si sta realizzando, seppur lentamente, se si considera che si sono già tenute le prime vere e libere elezioni, che hanno visto la partecipazione di un numero così elevato di cittadini, dei quali 7 mila 775 candidati appartenenti a 111 liste e di donne, in particolare, che hanno coraggiosamente sfidato coloro che volevano far fallire la consultazione elettorale.
I nostri militari, unitamente a quelli degli altri paesi della coalizione, inoltre hanno consentito, con la loro rassicurante presenza, che si svolgessero contemporaneamente alle elezioni dell'Assemblea nazionale quelle per il Parlamento della regione autonoma curda e per i 18 consigli provinciali, cui hanno partecipato 524 liste con 10 mila 650 candidati.
Si è insediato, quindi, il Governo provvisorio democraticamente eletto che, seppure con comprensibile difficoltà, assicura la rappresentanza dei vari gruppi etnico-religiosi presenti nel paese, che si prepara ad affrontare i prossimi impegni ed adempimenti per consolidare il processo di democrazia in atto.
Entro il 15 agosto 2005 l'Assemblea nazionale dovrà presentare una bozza di Costituzione che ad ottobre sarà oggetto di un referendum popolare per giungere alle prossime elezioni dell'Assemblea nazionale, nel dicembre 2005, che dovrà esprimere un Governo con un mandato pieno.
Pertanto, pur se il cammino per conquistare la vera e propria democrazia è ancora lungo e tortuoso, non bisogna mollare e far mancare proprio ora il nostro aiuto a quel popolo che ha sofferto tanto e che ora si trova a metà del guado. Abbandonarlo adesso vorrebbe dire tradirlo e farlo precipitare in un burrone dal quale difficilmente potrebbe risollevarsi.
L'auspicio è quello di vedere un ruolo dell'ONU ancora più attivo e deciso ed una maggiore coesione tra i paesi dell'Unione europea che deve adottare in materia di politica estera e di impegno nella lotta al terrorismo una decisione univoca e coesa. Dobbiamo ritrovare quello spirito di solidarietà, quell'afflato, quel comune sentire che si era coraggiosamente espresso nei confronti dell'America a seguito dell'attentato alle Torri gemelle dell'11 settembre, quando tutto il mondo si schierò unito nel combattere il terrorismo adottando misure di sicurezza, maggiore collaborazione di intelligence, rafforzando la rete di scambio delle informazioni per una lotta sempre più incisiva ed efficace.
L'Unione europea deve ritrovare lo spirito che mosse i padri fondatori, deve muoversi e deve dimostrare di essere unita. È nostro dovere accompagnare l'Iraq nel suo difficile cammino verso la democrazia e la libertà ancora per un po', almeno fino a quando ce lo chiederà, quando si sentirà più solido, sicuro e fiducioso dei propri mezzi. Solo allora potremo decidere con le Nazioni Unite un impegno diverso.
Gli attentati terroristici, i rapimenti, le minacce che quotidianamente vengono compiuti in quel paese sono per lo più attribuibili alla rete terroristica internazionale che fa capo ad Al Qaeda ed a tutti
gli oppositori seguaci del vecchio regime, che hanno tutto l'interesse a mantenere il paese nel caos e nel terrore per destabilizzare l'intera area mediorientale, per impadronirsi delle immense risorse idriche ed energetiche ivi localizzate, per mettere in ginocchio le economie occidentali e per finanziare attentati terroristici in tutto il mondo, come hanno dimostrato i devastanti attentati di New York, Madrid e Londra e le stragi quotidiane nell'Iraq stesso.
I fatti sembrano dimostrare che non vi sia connessione diretta tra l'intervento militare in Iraq e gli attentati terroristici, i rapimenti e gli eccidi che costantemente vengono compiuti. Ne sono una prova gli attacchi sempre più frequenti compiuti ai danni degli stessi civili e delle forze dell'ordine locali; l'eccidio di bambini intenti a prendere dolciumi da soldati americani, la strage alla moschea.
Per la comunità internazionale è il momento di serrare i ranghi a sostegno della ricostruzione economica e politica dell'Iraq. Ecco perché il nostro impegno in Iraq non può venire meno. Solo così potremo dimostrare concretamente il grande senso di gratitudine e riconoscenza ai nostri soldati, a quelli degli altri paesi partner impegnati in Iraq, ai caduti nel compimento del loro encomiabile dovere, alle loro famiglie.
Di fronte anche alle recenti esplicite minacce rivolte direttamente all'Italia, il Parlamento deve cercare di superare quelle fratture che non fanno altro che incoraggiare il comune nemico, il terrorismo, che deve essere affrontato con la massima decisione e coesione, non certo ritirando il nostro impegno in Iraq. Sarebbe un atto di debolezza e di paura, difetti che non sono mai stati patrimonio del nostro paese (Applausi dei deputati dei gruppi dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e di Forza Italia).
PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.
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