Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 654 del 12/7/2005
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Discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 28 giugno 2005, n. 111, recante disposizioni urgenti per la partecipazione italiana a missioni internazionali (A.C. 5948) (ore 9,35).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Conversione in legge del decreto-legge 28 giugno 2005, n. 111, recante disposizioni urgenti per la partecipazione italiana a missioni internazionali.

(Discussione sulle linee generali - A.C. 5948)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di Sinistra-L'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento, senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto altresì che le Commissioni III (Affari esteri) e IV (Difesa) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la III Commissione, onorevole Cirielli, ha facoltà di svolgere la relazione.

EDMONDO CIRIELLI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, il decreto-legge in esame scaturisce dalla necessità, da un lato, di prorogare importanti missioni internazionali di pace e di aiuto umanitario e programmi di cooperazione delle Forze di polizia attualmente in corso e, dall'altro, di prevedere la partecipazione a nuove missioni.


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In particolare, sono prorogate fino al 31 dicembre 2005 le missioni in Afghanistan - sia la missione Enduring freedom sia quelle collegate Active endeavour e Resolute behaviour - e le missioni in Bosnia, Kosovo ed Albania. L'articolo 1 prevede altresì la proroga delle missioni nella ex Jugoslavia, a Hebron, in Etiopia ed Eritrea e in Sudan.
L'articolo 2 autorizza la spesa per un'ulteriore missione, in corso di svolgimento in Sudan, che prevede l'impiego complessivo, a livello di battaglione, di 220 uomini, e che riveste particolare importanza in quanto l'Italia è uno dei quattro paesi osservatori e si è impegnata attivamente per promuovere la missione stessa.
L'articolo 3 autorizza la spesa per la missione UE nella Repubblica democratica del Congo.
L'articolo 4 prevede l'invio di consiglieri diplomatici presso i comandanti della missione ISAF in Afghanistan e della missione Joint guardian in Kosovo.
L'articolo 5 autorizza il comandante della missione ISAF, nei casi di necessità e urgenza, a disporre interventi urgenti o a ricorrere ad acquisti e lavori da eseguire in economia al fine di sopperire a esigenze di prima necessità della popolazione locale. Il comma 2 dello stesso articolo autorizza il Ministero della difesa a cedere a titolo gratuito alle forze di sicurezza afghane alcuni strumenti logistici dismessi.
L'articolo 6 adegua la previsione di spesa per il sostegno logistico della compagnia di fanteria rumena che affianca il contingente italiano della missione KFOR n Kosovo.
L'articolo 7 prevede la partecipazione di personale della Polizia di Stato e dell'Arma dei carabinieri alle missioni internazionali nella ex Jugoslavia.
L'articolo 8 estende il trattamento assicurativo alle truppe che saranno impiegate nella regione sudanese del Darfur. L'articolo 9 stabilisce in maniera minuziosa le indennità di missione.
L'articolo 10 tratta di profili tecnici ed è volto a far sì che il periodo svolto in tali missioni dagli ufficiali dell'esercito e dei carabinieri sia valutato ai fini dell'avanzamento di carriera.
L'articolo 11 prevede, in maniera particolare, l'applicabilità del codice penale militare di guerra al personale impiegato in Afghanistan nella missione principale Enduring freedom e nelle altre missioni collegate, Active endeavour e Resolute behaviour; mentre per le altre missioni si prevede l'applicabilità del codice penale militare di pace.
L'articolo 12 reca una serie di disposizioni in materia contabile legate alle missioni. L'articolo 13 completa il quadro normativo con una serie di rinvii a leggi già applicate.
Segnalo poi l'articolo 14, che dimostra la grande sensibilità del Governo per la specificità della vicenda collegata al rischio dell'esposizione a sostanze nocive, ed in maniera particolare alla tematica dell'uranio impoverito. È previsto, infatti, un ulteriore capitolo di spesa pari a 400 mila euro per la prosecuzione dello studio epidemiologico di tipo prospettico e seriale volto all'accertamento dei livelli di uranio e di altri elementi potenzialmente tossici presenti in campioni biologici di militari impiegati nelle missioni internazionali, al fine di individuare eventuali situazioni espositive idonee a costituire fattore di rischio per la salute.
L'articolo 15 prevede la copertura finanziaria; l'articolo 16 stabilisce l'entrata in vigore delle presenti disposizioni nel giorno successivo alla loro pubblicazione.
Desidero concludere con alcune considerazioni di carattere politico. Il Governo italiano si dimostra ancora una volta particolarmente sensibile al tema delle missioni internazionali, il cui scopo è, da una parte, il mantenimento o il ristabilimento della pace, dall'altra, il raggiungimento di un quadro di sicurezza volto a rendere maggiormente efficaci le missioni umanitarie; a ciò si accompagna l'importante cooperazione delle Forze di polizia sia nella ricostruzione del quadro di sicurezza sia per la costituzione di Forze di polizia che agiscano, sui territori soggetti in precedenza


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a forme di governo particolarmente autoritarie, secondo i modelli e gli standard occidentali di azione.
È importante ricordare che il Governo italiano supera ormai le 9 mila unità impegnate complessivamente nelle missioni estere; il riconoscimento internazionale va non soltanto all'azione del Governo, ma, soprattutto - mi si consenta ricordarlo -, all'operato delle Forze armate e delle Forze dell'ordine italiane, distintesi particolarmente in questi anni. In conseguenza di ciò, le nostre truppe sono le più apprezzate e le più richieste dalla comunità internazionale. Questo è un altro motivo dell'impegno del nostro Governo: convinzione e senso del dovere, attesa anche la professionalità delle nostre truppe.
Esprimo il più vivo compiacimento, quindi, sia al Ministero della difesa sia al Ministero dell'interno per la nostra azione di politica estera, ma anche per l'azione di sviluppo delle strutture delle nostre Forze armate e delle Forze di polizia.

PRESIDENTE. Il relatore per la IV Commissione, onorevole Fallica, ha facoltà di svolgere la relazione.

GIUSEPPE FALLICA, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, nell'associarmi a quanto affermato dal collega Cirielli, ricordo che la mia relazione è già stata ampiamente dibattuta nelle Commissioni difesa ed esteri. Desidero aggiungere che il decreto-legge al nostro esame è volto ad assicurare la prosecuzione e la partecipazione italiana alle missioni internazionali di pace e di aiuto umanitario. Questo è un elemento importante, che desidero portare all'attenzione dell'Assemblea.
Pertanto, al di là della proroga delle missioni, è per me gradito sottolineare che la nuova missione in Sudan (ricordata dal collega Cirielli), votata con una risoluzione in Commissione, dà forza a questo tipo di missioni umanitarie svolte dai militari italiani all'estero.
Per il momento non aggiungo altro e mi riservo di intervenire ulteriormente nel prosieguo del dibattito.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

ALFREDO LUIGI MANTICA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Signor Presidente, il Governo è stato più volte sollecitato ad illustrare dettagliatamente le varie missioni internazionali in cui è impegnato il nostro paese per far sì che nel dibattito su questa materia vi sia la possibilità di un confronto con le opposizioni.
Preme al Governo far rilevare che il rinnovo semestrale di queste missioni avviene ormai con una procedura consolidata: con un decreto-legge concernente tutte le missioni all'estero e umanitarie, esclusa quella in Iraq, per la quale vi è uno specifico decreto-legge.
Una delle ragioni addotte, specie dall'opposizione, perché ciò avvenisse era proprio l'atteggiamento diverso tenuto dai partiti del centrosinistra nei confronti delle missioni internazionali e la possibilità di avviare un confronto molto aperto perché, in linea di massima, su questo tipo di missioni, sempre escludendo quella in Iraq, era facile raggiungere un ampio consenso all'interno del Parlamento. Non voglio pertanto sottrarmi a questo dovere di lasciare agli atti la mia relazione con la quale si dà ragione al Parlamento delle varie missioni che in questo momento si stanno svolgendo sotto l'insegna ONU o di quella della NATO.
È ormai consolidato che il nostro paese è impegnato nella difesa della pace e nella tutela della sicurezza internazionale. La nostra presenza si misura in più di novemila uomini impiegati nelle varie missioni. Sotto l'insegna dell'ONU, l'Italia è uno dei primi paesi fornitori di forze multilaterali di pace.
Passo ora ad esaminare nello specifico le varie missioni. I Balcani rimangono per l'Italia un'area di assoluta e prioritaria importanza, soprattutto alla vigilia di importanti scadenze (nei prossimi mesi) relative alla possibile definizione dello status del Kosovo e alla riforma dell'ufficio dell'Alto Rappresentante in Bosnia-Erzegovina. Riteniamo che il futuro dei Balcani non possa che essere individuato in un


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loro ancoraggio permanente all'Unione europea e alla NATO, l'unica cornice in grado di consentire uno sviluppo delle relazioni fra i vari popoli della regione, di sostenere il consolidamento di forme di democrazia e di rispetto dei diritti umani, nonché di tutela delle minoranze e di agevolare le necessarie riforme socio-economiche di quei paesi.
Dagli anni Novanta ad oggi abbiamo contribuito in modo sostanziale alle iniziative di cooperazione nella regione, finanziandole con oltre 750 milioni di euro, cui si affiancano gli strumenti bilaterali individuati nelle leggi n. 84 del 2001 e nn. 180 e 212 del 1992. Ricordo che l'area balcanica è di interesse prioritario anche per il sistema economico italiano nel suo insieme, atteso che l'Italia è il primo partner commerciale per Albania, Croazia e Serbia-Montenegro ed è uno dei principali investitori nella regione, mentre rimane il primo donatore in Albania ed il secondo in Serbia-Montenegro.
L'Italia sostiene, inoltre, iniziative di largo respiro nel settore del trasporto energetico. Nella dimensione multilaterale, l'Italia è partecipe di iniziative di cooperazione sul piano europeo miranti a favorire lo sviluppo e la crescita dei paesi dell'Europa sud-orientale. Nel quadro dell'Unione europea, il nostro Governo ha promosso molteplici iniziative e presieduto alla creazione di numerosi strumenti e forme di partenariato strategico miranti allo sviluppo dell'area.
Nel ribadire questa importante scelta prioritaria del Governo italiano per quanto riguarda l'area dei Balcani, desidero anche porre in rilievo che la nostra presenza, consolidata ormai da tempo, rappresenta per il nostro paese un impegno economico-finanziario di non poca rilevanza.
Un'altra missione cui partecipa il nostro paese è la Temporary international presence in Hebron. Questa è l'unica missione di osservazione internazionale nei Territori occupati palestinesi; dislocata nella città di Hebron, in Cisgiordania, è composta da personale proveniente non solo dall'Italia, ma anche da altri paesi europei.
La TIPH è diventata operativa il 1o febbraio 1997, al fine di assicurare la presenza di osservatori per contribuire al consolidamento del processo di pace nella regione mediorientale. Attualmente, abbiamo settantadue uomini, appartenenti all'Arma dei carabinieri, i quali costituiscono la seconda forza dopo quella della Norvegia. Per noi, la TIPH riveste una particolare importanza, non tanto per la sua dimensione, quanto perché opera in un'area regionale nella quale, a partire dalla metà di agosto, dovrebbe innescarsi il processo del disimpegno da Gaza. La presenza italiana ad Hebron e la formula degli osservatori ci sembrano un elemento importante perché ad osservatori internazionali si dovrà ricorrere quando, in attuazione della Road Map, con il disimpegno da Gaza, avrà inizio, come ci auguriamo, un meccanismo istituzionale di monitoraggio.
Abbiamo uomini al confine tra Etiopia ed Eritrea, dove il processo di pace si trova in questo momento in una fase di sostanziale stallo: da un lato, l'Etiopia si è rifiutata di accettare integralmente le conclusioni della Commissione internazionale sui confini; da parte sua, Asmara non ha accettato in maniera incondizionata il verdetto, accusando Addis Abeba di voler stravolgere gli accordi firmati. L'ultima iniziativa del 25 novembre 2004 - il tentativo del Presidente etiopico, peraltro ben riuscito, di far approvare dal Parlamento un piano di pace in cinque punti - non ha portato miglioramenti; anzi, si è assistito ad un rafforzamento dei contingenti militari in prossimità del confine, in particolare dal lato etiopico.
Il mandato della missione dell'ONU è stato prorogato fino al 15 settembre 2005. La partecipazione italiana constava di circa sessanta uomini (quasi esclusivamente carabinieri), ma devo informare il Parlamento che la nostra presenza è in via di riconsiderazione a seguito della decisione, presa dal Governo di Asmara il 14 aprile scorso, di vietare lo svolgimento dei


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compiti di polizia militare all'interno della capitale. I nostri soldati operavano sostanzialmente svolgendo tali compiti nella capitale Asmara, ma il Governo eritreo ha deciso che la capitale non ha bisogno di polizia militare e che bastano le forze di polizia eritree.
A nostro giudizio, non vi sono state, da parte del DPKO (Department of peace keeping operations) dell'ONU, reazioni che abbiano in qualche modo mutato o reso possibile il mutamento della missione o che abbiano potuto indurre il Governo eritreo a recedere dalle decisioni assunte. In realtà, in questo momento, le unità italiane sono state ridotte a venticinque e, in considerazione degli orientamenti di totale chiusura delle autorità locali, si è deciso di procedere al prossimo ritiro dell'intero contingente (ad eccezione di un ufficiale e di un sottufficiale, i quali rimarrebbero presso il Comando generale della missione). Rimane, naturalmente, da parte del Governo italiano, la disponibilità a tornare a contribuire alla missione quando le condizioni lo permetteranno, in particolare quando saranno individuate con chiarezza funzioni mutuamente accettabili da attribuire al contingente italiano.
Per quanto riguarda il Sudan, il 9 gennaio 2005 si è giunti, a Nairobi, alla firma dell'Accordo globale di pace tra il Governo di Khartum ed il «Sudan People's Liberation Movement», il movimento di liberazione guidato da John Garang. L'Italia ha svolto un ruolo di primo piano nei negoziati, essendo tra i quattro osservatori internazionali del processo di pace, insieme con Stati Uniti, Regno Unito e Norvegia; abbiamo siglato anche noi, in qualità di garanti, l'accordo che metteva fine ai negoziati ed a vent'anni di guerra civile.
A nostro giudizio, la pace e la stabilità nel Sudan sono fondamentali non solo per una normalizzazione della situazione interna del paese in base ad un'effettiva partecipazione al processo di sviluppo di tutte le componenti della popolazione sudanese, ma perché la situazione del Sudan ha enormi ricadute sull'intera regione. Ci auguriamo che il ritorno della pace nel sud del Sudan possa giovare a tutta l'area del Corno d'Africa: in questo modo, si pone termine al più antico dei conflitti regionali, dimostrando che la convivenza tra culture ed etnie diverse è possibile quando si garantiscono condizioni di giustizia ed equità nella condivisione del potere e nella ripartizione delle ricchezze.
La cessazione delle ostilità nel sud del Sudan è un risultato importantissimo. L'Italia sta contribuendo all'attuazione dell'accordo di pace sia finanziariamente sia con l'invio di un battaglione di duecento uomini nell'ambito dell'operazione UNMIS, con il compito di protezione del quartier generale della missione a Khartoum. Inoltre, alla Conferenza dei donatori di Oslo dell'aprile scorso, l'Italia ha annunciato un impegno di 60 milioni di euro per il Sudan nel triennio 2005-2007.
Mentre registriamo con soddisfazione quanto avvenuto nel quadro del negoziato nord-sud, il Governo italiano non può non esprimere una forte preoccupazione per la situazione in Darfur.
La recente ripresa dei negoziati di Abuja tra il Governo di Khartum e i movimenti ribelli «Sudan People's Liberation Movement» e «Justice and Equality Movement» offre però una possibilità di speranza per una soluzione politica anche in questa regione. Ricordo che, se da un lato è giusto intervenire sulla situazione di emergenza umanitaria, dall'altro occorre affrontare i nodi del problema politico che sta all'origine del dramma del Darfur. Riteniamo, tuttavia, che sia fondamentale mantenere la pressione politica sia sul Governo di Khartum sia sulle formazioni ribelli per indurli a raggiungere una soluzione negoziata del conflitto.
Il primo obiettivo che ci prefiggiamo in Darfur è che il Governo di Khartum provveda a far cessare ogni attacco delle milizie Janjaweed alla popolazione civile e che i ribelli, dal canto loro, cessino gli attacchi sia alle postazioni governative sia, nell'ambito di una nuova realtà, che è una guerra civile, all'interno delle formazioni ribelli.
È necessario che le parti rispettino l'accordo di cessate il fuoco del 18 aprile


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2004. L'Italia ha sostenuto in sede europea il finanziamento della missione dell'Unione africana e il suo ampliamento. È intervenuta in sede NATO sia con un ulteriore contributo finanziario sia con una partecipazione attiva tramite l'invio di osservatori militari e pianificatori (attualmente, ad Addis Abeba, Khartum ed El-Fasher), nell'ambito del sostegno dell'Unione europea al rafforzamento della missione AMIS.
Siamo presenti anche nella missione dell'Unione europea denominata Eupol Kinshasa, nata per formare un'unità di polizia integrata destinata ad operare nella capitale della Repubblica democratica del Congo. Tale unità di polizia è composta da elementi provenienti da tutte le fazioni congolesi che, fino agli accordi di pace del dicembre 2002, si erano affrontate militarmente. Anche per questo, la costituzione dell'unità di polizia rappresenta una tappa di estrema importanza nel processo di pace.
Si può sottolineare come la missione Eupol Kinshasa svolga un ruolo di fondamentale importanza con la formazione e la supervisione della prima unità di polizia integrata della Repubblica democratica del Congo. Il ruolo di questa missione assume una particolare delicatezza in funzione del processo di pace congolese che dovrà portare allo svolgimento delle elezioni entro il termine del giugno 2006, come stabilito dagli accordi di pace.
Sono presenti sottufficiali dell'Arma dei carabinieri del contesto di Eupol. Sottolineiamo, altresì, come tale iniziativa si inserisca nel sostegno politico e finanziario che il Governo ed il Parlamento italiano offrono al processo di pace della Repubblica democratica della Congo e dell'intera regione dei Grandi Laghi.
Per quanto riguarda l'Afghanistan, ricordo che la costituzione delle forze di pace ISAF per garantire la sicurezza, prima soltanto a Kabul e, dal 2003, anche nel resto del paese, a sostegno del processo di ricostruzione dell'Afghanistan risale alla Conferenza di Bonn del dicembre 2001. Il mandato è stato stabilito con un'apposita risoluzione del Consiglio di sicurezza.
L'Italia, presente alla Conferenza di Bonn con una propria delegazione che ha giocato un ruolo fondamentale nella trattativa, ha subito aderito alla richiesta di partecipare all'operazione con un proprio contingente militare. A favore della decisione italiana militavano una ragione storica, legata alle ottime relazioni intrattenute con l'Afghanistan, ed una regione più prettamente politica, che derivava dall'appartenenza dell'Italia al G8 i cui membri avevano avviato, sin dall'epoca di Bonn, ingenti programmi di assistenza al paese disastrato.
Su questo sfondo, recentemente sono state assunte nuove responsabilità nel campo militare. Ricordo che l'Italia gestisce il piano di sviluppo regionale nella zona di Herat (quindi, è presente con suoi uomini della cooperazione e militari nella provincia di Herat) e, secondariamente, ma solo in ordine di tempo, assumerà nel prossimo mese, per la durata di nove mesi, il comando NATO dell'ISAF.
Signor Presidente, la ringrazio e spero di aver fornito al dibattito elementi di giudizio e di valutazione. Il Governo si riserva eventualmente di replicare alla fine della discussione sulle linee generali, se lo riterrà necessario.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Angioni. Ne ha facoltà.

FRANCO ANGIONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questa mattina si reitera il periodico rito della proroga delle missioni all'estero (naturalmente con l'esclusione dell'Iraq). Puntualmente, discuteremo di soldi e delle località di impiego delle nostre unità militari.
Circa 350 milioni di euro, pari a circa 700 miliardi di vecchie lire, da spendere nei prossimi sei mesi per essere presenti in Afghanistan e in varie forme in Bosnia, in Kosovo, in Fyrom, in Albania, anche qui in varie forme, a Hebron, in Etiopia, in Eritrea, in Sudan, in Congo-Kinshasa, e tutto questo per conto delle Nazioni unite, della Nato e dell'Unione europea.
La permanenza in queste aree varia dai più di dieci anni per la Bosnia o per


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Hebron ai pochi mesi del Sudan. Siamo consapevoli che le missioni sono necessarie, così come lo sono le risorse finanziarie per sostenerle: di politica, però, quando parleremo?
Ringrazio il sottotenente Mantica ... Chiedo venia per il lapsus relativo al grado: egli merita senz'altro di più di quello! Ringrazio il sottosegretario Mantica per il rapido excursus su tutte le missioni, ma per «politica» intendo l'individuazione degli scopi e del termine di quello che stiamo facendo. Ovviamente, il decreto legge n. 111 del 28 giugno 2005, da convertire in legge, non indica un solo indirizzo politico su che cosa i nostri diplomatici e politici stiano facendo, sul modo in cui lo stanno facendo e fino a quando dovranno farlo. Come si fa a non parlare di politica in una questione così delicata?
A parte il recente coinvolgimento in Sudan, per tutte le altre nove presenze italiane la domanda da me posta risulta importante, specie per le località della ex Iugoslavia, le quali per ragioni geopolitiche hanno - come è scontato e come ha accennato il sottosegretario Mantica - la massima priorità tra gli interessi nazionali di politica estera; ed è su queste che intendo soffermarmi in particolare.
Quali sono le ipotesi di sviluppo della pacificazione e stabilizzazione in Bosnia e in Kosovo? Sono più di dieci anni per la prima e sei anni per l'altra che siamo presenti in quelle aree: quali sono stati i progressi? Non bastano le poche iniziative commerciali che l'Italia ha messo in atto doverosamente, insieme ad altri paesi europei, nei riguardi di alcuni di quei paesi balcanici. Non era stato stipulato un patto di stabilità per gestire le vicende di tutta la penisola balcanica?
In Bosnia le ferite delle stragi sono ancora aperte, la situazione economica, nonostante i pochi interventi europei (Italia compresa), è molto grave, e nelle città e nei villaggi la vita ristagna in una forma di dolorosa apatia. Eppure, il patto di stabilità era stato istituito per mediare le tensioni, appianare le divergenze, migliorare la situazione economica.
Per quanto riguarda il Kosovo, vogliamo almeno iniziare a definire e a delineare la soluzione finale? In quella provincia, ancora ufficialmente appartenente alla Serbia, tutti, politici, dirigenti, comuni cittadini, parlano di indipendenza e la pretendono. È la soluzione migliore per l'Europa, per l'area, per lo stesso Kosovo? Quali conseguenze potrebbe avere l'indipendenza su situazioni similari, come ad esempio nella provincia della Vojvodina? Gli accordi di Rambouillet, sottoscritti anche dai rappresentanti del Kosovo, non sancivano che i confini internazionali non sarebbero stati variati e che, dopo tre anni dall'accordo, sarebbe stato indetto un referendum sull'indipendenza, senza precisare tra l'altro se esso si sarebbe svolto nel Kosovo o sull'intero territorio della Serbia?
Si continua a lasciare la situazione nell'incertezza, nella confusione, senza un minimo di gestione politica, senza tentare anche un modesto progresso. Forse si attende che gli eventi determinino il fatto compiuto! L'unica entità che manifesta progressi è, purtroppo, la criminalità organizzata.
Le minoranze etniche non rientrano nelle proprie terre e case, per la maggior parte scomparse od occupate; anche i pochi che coraggiosamente vi fanno rientro, vivono nel terrore e, comunque, non hanno possibilità di lavoro. Le strutture delle Nazioni Unite vengono attaccate mentre la KFOR - la forza militare sotto comando NATO - mantiene una parvenza di ordine.
Ma qual è lo scopo finale? Non esiste; o, comunque, non è dato conoscerlo: la direttiva politica sembra essere nel senso di vivere alla giornata.
Ma non era stato costituito un gruppo di contatto per gestire la crisi? Che fine ha fatto? Forse, la crisi è terminata? Personalmente, non lo credo: sono sei anni che siamo impantanati nella regione. Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Regno Unito e Italia hanno concordato la «non azione»? Non voglio crederlo.
Non sarebbe dunque il caso di discutere anche - e soprattutto - con le parti


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in causa, per avviare un processo di soluzione, processo difficile e complicato, ma proprio per tale motivo necessario? Perché, quindi, in un indispensabile accordo, non viene coinvolta la Serbia? Come si fa a non tenere conto della più importante nazione dell'area? Ufficialmente, esiste la Federazione di Serbia e Montenegro, priva di qualsiasi valore in termini di politica interna ed internazionale; solo per fare un esempio, esistono tre Parlamenti - serbo, del Montenegro e della Federazione - ognuno dei quali, per così dire, legifera a proprio uso e consumo. Il Montenegro, in particolare, nonostante abbia accettato l'accordo, non tollera di essere schiacciato dalla Serbia; intende, invece, avere libertà di azione in tutti i settori vitali e, soprattutto, avere mano libera per quanto riguarda i traffici clandestini, in un tragico legame con la malavita del Kosovo.
L'Italia, unitamente agli altri paesi coinvolti nell'area, diventa, di fatto, complice, con la propria presenza, di tale complessiva degenerazione; non possiamo, perciò, accettare una presenza passiva, la quale, già di per sé deleteria, diventa colpevole in quanto, all'ombra delle Nazioni Unite, dell'Unione europea, della Nato e delle singole nazioni, favorisce, di fatto, la corruzione.
Tra l'altro, si tratta di una presenza costosa, perché, con il trend in atto, per l'Italia i costi si stanno avvicinando rapidamente a circa un miliardo di euro all'anno. Ancora per quanto tempo?
È fuori discussione il merito dei nostri militari, ai quali vanno il nostro apprezzamento ed il nostro plauso. Certamente, poi, ci rendiamo conto della necessità della presenza italiana nelle dieci aree previste, dall'Afghanistan ai Balcani, dall'Africa al Medio Oriente; è per tale ragione che voteremo a favore della proroga delle missioni, ma insistiamo perché lo schieramento passivo delle unità, privo di un disegno politico, abbia a cessare (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Rocchi. Ne ha facoltà.

CARLA ROCCHI. Signor Presidente, anche per quanto riguarda la valutazione del gruppo che rappresento, la Margherita, occorre svolgere un duplice ordine di ragionamenti. Da una parte, l'apprezzamento del lavoro svolto dai nostri militari nelle aree - ormai molte - che li vedono impegnati e schierati: alcuni, da molti anni; alcuni, addirittura con missioni stabilite e decise nella precedente legislatura da Governi del nostro segno; altre missioni più recenti e determinate da necessità contingenti e non per questo meno importanti e necessarie.
Quali sono gli aspetti positivi delle missioni in corso che dovremmo valutare per votare a favore del loro rinnovo? Intanto, il fatto che nazioni che ne hanno una grande necessità possano giovarsi di una presenza che, per unanime riconoscimento, è professionalmente di altissimo livello e, umanamente, tra le migliori che sia possibile schierare in campo, costituendo un tassello importante tra le forze che in quelle aree sono presenti, lavorano e si creano una prospettiva. Ma proprio sul versante delle prospettive si incentrano critiche e perplessità che, pur nel consenso rinnovato alle missioni, impongono un approfondimento e impongono, altresì, di chiedere conto al Governo di una strategia che certe volte sembrerebbe difficile immaginare presente.
Forse è più semplice che i nostri uomini all'estero, svolgendo un buon lavoro soggettivo, siano per questo apprezzati e lasciati fare; tuttavia, qualsiasi buon lavoro, se non viene iscritto in un progetto, vale a dire in una visione complessiva delle finalità di tale lavoro, risulta automaticamente vanificato - almeno in parte - e mortificato.
Ci chiediamo se non sia opportuno tenere, in questo Parlamento, una seduta nella quale, al di là dell'automatismo del rinnovo delle missioni in questione, nonché dell'elencazione delle buone ragioni per cui si ritiene necessario rimanere nelle aree interessate, si manifesti al Parlamento stesso le finalità strategiche di tali permanenze. Naturalmente, gli obiettivi teorici sono chiari: rimanere in quelle


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zone per rafforzare e favorire i processi di pace, affinché sia garantita la sicurezza delle missioni stesse e delle popolazioni coinvolte. Vorremmo sapere, tuttavia, con quali tempi, con quali modalità e, soprattutto, per ottenere quali obiettivi.
Vorrei osservare che, nel puntuale intervento svolto dall'onorevole Angioni, sono state elencate in maniera molto dettagliata, caso per caso, le diverse realtà che vedono impegnate le nostre missioni. Si concede perfino la possibilità che, pur essendo sul territorio con le migliori finalità, se il nodo politico non viene sciolto, talvolta le situazioni di positiva cessazione delle ostilità - temporanea o prolungata - possano favorire non solo le popolazioni civili, ma anche una serie di traffici e di illeciti, che trovano nelle condizioni postbelliche il più fertile terreno di coltura.
Allora, accanto ad una leale dichiarazione di sostegno alle missioni in oggetto e di apprezzamento per il lavoro «tecnico» svolto dai nostri militari in tali scenari, ribadiamo la necessità di un momento di discussione per fare chiarezza sullo stato «politico» di ciascuna missione (specie delle più remote), nonché sulle prospettive e sulle finalità che ci si attende siano conseguite.
In questo momento, infatti, l'impegno di truppe, di persone e di risorse deve necessariamente prevedere una finalità da raggiungere, e con tempi ragionevolmente certi. Altrimenti, ci troveremmo nella condizione di svolgere un'opera sicuramente meritoria (vale a dire, essere all'estero laddove è forte la richiesta di una nostra presenza), ma, non avendo una prospettiva ed una tempistica certa, e non avendo avviato nemmeno un confronto sia con le altre nazioni impegnate, sia con le realtà all'interno delle quali le altre nazioni operano, rischieremmo di determinare un automatismo di scarsa qualità: ci siamo e ci restiamo, ma non è facile comprendere per fare cosa, in che tempi, in che modi e con quali risultati!
Prima di concludere, vorrei formulare alcune considerazioni. Occorre innanzitutto apprezzare (forse, per la presenza relativamente recente, sarà più facile ottenere, in quei casi, spiegazioni e chiarimenti strategici) la presenza delle nostre Forze armate in Africa: si tratta, infatti, del continente che ne ha bisogno più di tutti. Le realtà dove operano i nostri uomini sono difficilissime, e, forse per la drammaticità estrema di quei luoghi, sarà più facile per il Governo esporre al Parlamento (o manifestare pubblicamente) le finalità che si intendono perseguire.
In secondo luogo, vorrei rappresentare che valutiamo favorevolmente l'articolo 14 del provvedimento in esame, poiché si occupa dello stato di salute dei nostri militari. Il gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo, infatti, è talmente interessato a tale questione da aver presentato proposte emendative che riteniamo migliorative del testo, poiché sarebbe davvero una beffa drammatica - e lo è stato, nei casi in cui si sono verificate tale condizioni - se uomini che, con professionalità e sacrificio, sono impegnati all'estero per tutelare la vita stessa delle popolazioni aiutate, dovessero, per questa ragione, pagare la loro presenza con la loro vita.
Riteniamo ciò intollerabile, e vorrei ricordare che, non da oggi, denunciamo i rischi dell'impiego di materiale bellico che può produrre gli effetti che oggi sono stati dimostrati, e chiediamo altresì una fortissima tutela di tali persone.
Francamente, non è davvero pensabile che essere impegnati, al rischio della propria esistenza fisica - a causa dei rischi di morte che si corrono - comporti anche, in maniera strisciante e silenziosa, il rischio «sotterraneo» di pagare per tale presenza - non oggi, ma in futuro -, contraendo malattie gravissime che possono portare ad un esito finale nefasto.
Ecco perché noi ci auguriamo che l'accoglimento dei nostri emendamenti, e comunque l'atteggiamento del Governo nell'attuare il provvedimento in esame, con particolare attenzione ai punti che ho ricordato, possano giustificare l'assenso che, con grande senso di responsabilità, il Parlamento si accinge a dare, nella sua quasi totalità. Ripeto, sarebbe opportuno che prima dell'ulteriore successiva scadenza, che sebbene sembri molto dilazionata,


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in realtà arriverà in tempi assai ravvicinati, il Governo ci faccia sapere, in una seduta apposita a ciò dedicata, quali siano stati i risultati politici raggiunti e quali siano le previsioni di raggiungimento di risultati concreti, sempre dal punto di vista politico: tempistica, risorse e prospettive.
Con tali aspettative e per le ragioni già dichiarate, preannunzio il voto favorevole del gruppo della Margherita, DL-L'Ulivo sul provvedimento in esame.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pinotti. Ne ha facoltà.

ROBERTA PINOTTI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi associo alle valutazioni dei colleghi Angioni e Rocchi in merito all'esigenza di svolgere tali discussioni in Parlamento con modalità non burocratiche, non da «rito semestrale», ma con un'attenzione alle valutazioni complessive, strategiche, politiche e diplomatiche, ed al peso che attribuiamo alle missioni di cui stiamo discutendo. Ne parlo soprattutto perché la stragrande maggioranza del Parlamento è favorevole a tali missioni e, quindi, vi è un terreno che potrebbe facilitare valutazioni più approfondite e letture più significative.
Ho apprezzato - lo dico sinceramente - il sottosegretario Mantica, che ha arricchito la relazione che il Ministero degli affari esteri, congiuntamente con quello della difesa, aveva consegnato il 28 giugno scorso, con particolari che non erano presenti nell'originaria relazione. Egli, infatti, ha fatto riferimento alla situazione in Eritrea - non menzionata nelle schede che ci sono state consegnate - e all'evoluzione della situazione in Darfur. Su tali aspetti riscontro l'impegno anche in risposta a richieste poste in Commissione e di ciò voglio darne atto al Governo; altrimenti, non si capirebbe mai quali sono le richieste. Considerato, dunque, che vi è stata tale integrazione, cercherò di chiarire, svolgendo alcune considerazioni, e per non essere «fumosa» - è una tra le accuse che possono essere rivolte ai politici -, cosa intendiamo chiedere quando affermiamo che vorremmo valutazioni che entrino maggiormente in considerazioni politiche e di strategia complessiva. Ad esempio questa mattina il sottosegretario Mantica ha detto, riferendosi alla situazione nei Balcani, che si tratta di un'area di prioritaria importanza. Si tratta di una valutazione - che peraltro condivido - che rientra nell'ambito di quelle considerazioni strategiche sulle quali sarebbe interessante aprire un confronto.
È di tale natura, oltre riguardare una lettura delle situazioni in corso sulla base delle evoluzioni delle diverse realtà nelle quali siamo impegnati, il dibattito di cui noi avremmo bisogno, per non svuotare di significato un momento, quale quello parlamentare, che può essere importante per un confronto sulla politica estera complessiva del nostro paese. L'odierno dibattito, come dicevo, è infatti importante e siamo tutti consapevoli che lo scenario di difesa e di sicurezza è sempre proiettato all'esterno dei nostri confini. L'impegno italiano - oltre 9 mila uomini - è molto consistente, sia dal punto di vista effettivo-operativo, sia da quello complessivo delle risorse, ed anche perciò tale impegno merita valutazioni serie. Mi domando se, nel complesso delle missioni cui partecipiamo, si effettui sempre una valutazione strategica, o non si risponda talvolta solo ad un'emergenza di chiamata, anche se questo ultimo modo di rispondere può essere corretto, allorché si presentino situazioni umanitarie che necessitino di un intervento immediato.
Credo che, nelle strategie complessive, sia importante capire.
Abbiamo detto - e lo condivido - che quella dei Balcani è un'area prioritaria; ritengo anche si possa dire che il Mediterraneo, nel suo complesso, sia un'area certamente prioritaria per il nostro impegno. Allora, nelle scelte e nelle valutazioni che si possono svolgere rispetto alle situazioni di crisi internazionale esistenti, ritengo che siano queste le direttrici nelle quali inserire, in particolare, il nostro impegno. Un'altra situazione da considerare


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potrebbe essere quella del rischio umanitario: noi decidiamo, comunque, un intervento.
Sono rimasta colpita, non favorevolmente, dal fatto che il ministro Martino abbia annunciato attraverso la stampa l'esigenza di un impegno di uomini più consistente in Afghanistan (si parla addirittura di inviare nel tempo 2 mila uomini in più). Mi spiego meglio: non sono rimasta colpita perché non condivido l'esigenza di ampliare l'ISAF, estendendo tale intervento da Kabul agli altri territori. Anzi, quando i rappresentanti del Governo facevano presente all'opposizione che la decisione di ampliare temporalmente l'ISAF spettava all'ONU, abbiamo presentato emendamenti per richiederne l'estensione nel tempo e nello spazio in tutta l'area dell'Afghanistan. Quindi, non sto svolgendo una valutazione negativa al riguardo.
Ritengo, però, negativo che tale notizia sia stata diffusa sui giornali prima della discussione parlamentare su questo tema. Sarebbe stato interessante capire le valutazioni, i motivi e le considerazioni in base ai quali si pensa che l'intervento dovrà durare ancora dieci anni. Si tratta, forse di una valutazione statistica, considerando che siamo presenti nei Balcani da dieci anni e la situazione non si è ancora risolta? Sarebbe importante capire questi elementi di valutazione.
Certo, la situazione in Afghanistan ci preoccupa: ci sono state le elezioni presidenziali - fatto assai importante -, nel settembre 2005 ci saranno le elezioni parlamentari e noi assumeremo un impegno sempre più forte. Inoltre, sono in corso riforme complessive assegnate alle diverse realtà presenti: gli Stati Uniti si occupano della riforma dell'esercito, la Germania della riforma della polizia, l'Italia della riforma della giustizia, la Gran Bretagna della situazione del narcotraffico. In proposito, tutti i dati a nostra disposizione ci dicono che è il problema del narcotraffico si è acuito, così come purtroppo abbiamo assistito negli ultimi mesi ad una recrudescenza della situazione a Kabul, laddove pensavamo vi fosse una stabilizzazione.
Allora, occorre capire cosa sta succedendo e perché i talebani stanno ricominciando ad attuare azioni sanguinose e pericolose, anche laddove pensavamo che la situazione si fosse stabilizzata. Credo che questa sia una discussione importante che dovremmo svolgere insieme.
Dovremmo anche chiederci - mi rivolgo al Parlamento e al Governo - se forse, dopo aver optato per Enduring freedom e poi per l'ISAF, poteva essere significativo un impegno più forte in Afghanistan, anziché lanciarsi immediatamente nell'avventura irachena. Si sarebbe potuto operare per la stabilizzazione di quel territorio, che effettivamente sapevamo essere una fucina del terrorismo internazionale, anziché colpirne un altro dove le prove di ciò non sono state trovate. Anzi, purtroppo, attraverso l'intervento, abbiamo di fatto aumentato la possibilità per l'Iraq di essere un terreno di coltura del terrorismo.
Abbiamo citato le missioni nei Balcani. Sono molti gli uomini e le donne complessivamente impegnati in queste missioni: ve ne sono 17 mila in Kosovo e 7 mila in Bosnia. Nella relazione si dice che sono stati fatti dei progressi, ma che la situazione non si è ancora stabilizzata. Ricordo che, nel momento in cui si stava decidendo di ridurre il numero delle truppe, si sono verificati alcuni sanguinosi episodi, per cui si è deciso di mantenerne inalterato il numero. Quindi, anche quando abbiamo pensato che la situazione si stesse normalizzando, si sono verificati episodi pericolosi. Però, pian piano si sta percorrendo una strada: ciò è corretto ed è giusto riconoscerlo, anche se si va molto più a rilento di quanto avremmo potuto immaginare. La situazione è difficile.
A proposito dei Balcani, oggi non si può non ricordare che ricorrono i dieci anni del massacro di Srebrenica. Solo un minuto per ricordare come, in una città che si è affidata alle forze dell'ONU, si sia verificato un incredibile massacro. Devo dire che, forse, vi è stata una partecipazione emotiva dell'Europa molto al di sotto della drammaticità di quell'evento. Vorrei svolgere una considerazione che


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rivolgo a tutti: è certo che le missioni debbano essere sempre decise da organismi multinazionali, come le Nazioni Unite, la NATO e l'Unione europea. È anche certo, tuttavia, che, oltre al fatto che ci sia questo «sigillo», occorrono consapevolezza e responsabilità nel condurre le missioni. In questo caso, vi erano delle truppe dell'ONU, ma la città è stata lasciata completamente in balia di coloro che hanno compiuto quel massacro che tutti ricordiamo.
Insieme a questi messaggi negativi, vorrei ricordare anche che nei Balcani è stata data vita alla prima missione dell'Unione europea. La prima è stata condotta in Macedonia, ma adesso si sta espandendo. Si tratta di segnali positivi - lo voglio riconoscere -, così come è positivo il fatto che la missione a Hebron, che continua da molti anni, sia l'unica missione, compiuta dopo gli accordi di Oslo 2 tra Israele e OLP, autorizzata nei territori occupati. Nella relazione viene svolta una considerazione molto interessante e vorrei che, a volte, provassimo a ripeterla anche in altre occasioni. La relazione del Ministero afferma: «Una missione di osservatori disarmati, nel contesto del conflitto, contribuisce a contenere la tensione tra le parti e ad accrescere il senso di sicurezza per la popolazione palestinese».
Cito tale affermazione perché, se è vero che in certe situazioni non si può certo immaginare di mandare uomini disarmati, tuttavia, quando l'opposizione propone forze di interposizione disarmate ed osservatori, viene un po' sbeffeggiata ed irrisa. Invece, ci sono situazioni in cui lo stesso Ministero degli affari esteri, d'accordo con il Ministero della difesa, ci ricorda che possono esservi realtà con riferimento alle quali, più che l'intervento armato, è utile un intervento di uomini che rappresentano le forze dell'ordine, che, se disarmati e come osservatori, possono portare più tranquillità e serenità alle popolazioni.
Per quel che riguarda la missione in Eritrea, ho ascoltato quanto ha detto il sottosegretario Mantica rispetto al problema della decisione del Governo di non affidare più ai carabinieri il compito di polizia militare. Vedremo, su questo aspetto, se ci sarà una prosecuzione della missione.
La Commissione difesa della Camera ha effettuato una visita presso la missione e devo dire che sicuramente il lavoro che è stato svolto è di grandissimo rilievo. In tal caso, ho riscontrato con mano la validità delle considerazioni di molti colleghi sulla capacità delle nostre Forze dell'ordine, presenti in territori internazionali, di stabilire relazioni e di rapportarsi alla cultura e alla socialità del luogo; infatti, ho verificato direttamente il modo di lavorare dei nostri soldati.
Concludo, rilevando come, nell'attenzione rivolta ai nostri soldati, a tutti gli uomini e alle donne impegnati all'estero, sia importante manifestare una solidarietà non soltanto di facciata. Su tale aspetto, ritengo importante che l'articolo 14 metta a punto gli strumenti per l'analisi dei rischi e per la possibilità di intervento laddove vi siano motivi di contagio o la presenza di agenti forieri di malattie. Si cita l'uranio impoverito, ma, in realtà, vi potrebbero essere anche altre sostanze pericolose.
Credo che sia importante riconoscere l'attenzione per il lavoro che viene compiuto e che sia altrettanto importante che, nelle condizioni materiali e concrete, il Parlamento dia la disponibilità a mettere in sicurezza il più possibile il lavoro difficile e, spesso, svolto in territori a rischio da uomini e donne militari italiani impegnati in scenari internazionali.
Tali considerazioni non vogliono essere polemiche.
Stamattina il sottosegretario Mantica ha iniziato il suo intervento riferendosi alle condizioni dell'Assemblea. È vero: non è divertente parlare in un'aula semivuota, ma credo si sia trattato comunque di una discussione importante e chi era presente lo ha ascoltato con attenzione. Si potrebbe compiere un passaggio ulteriore, poiché ritengo importante non ripetere gli errori e, in ogni caso, cogliere anche le valutazioni provenienti dall'opposizione. Qualora ci ritrovassimo tra sei mesi a discutere di


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tali argomenti, ritengo che la richiesta da noi fatta di mettere a fuoco le linee strategiche più che i dettagli delle operazioni possa essere utile per la discussione parlamentare, che intendiamo valorizzare proprio perché diciamo essere così importante l'impegno internazionale dell'Italia in tale campo (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Cima. Ne ha facoltà.

LAURA CIMA. Signor Presidente, ringrazio il sottosegretario Mantica perché, come sempre, dopo le sollecitazioni da noi espresse in Commissione, ha svolto in questa sede una relazione che fa il punto su ogni singola missione e ci dà un minimo di elementi di conoscenza che, altrimenti, il Parlamento non avrebbe avuto. Nello stesso momento, però, vorrei stigmatizzare l'assenza del ministro.
Siamo in una situazione drammatica in cui aumentano l'insicurezza internazionale, i conflitti, i traffici internazionali. Le tratte delle persone umane non sono mai state a questo livello ed anche il nostro paese costituisce un importante crocevia a tale proposito, come lo è con riguardo al traffico della droga e delle armi. È aumentata la capacità di organizzazione del terrorismo che ha colpito una seconda volta l'Europa con il dramma di Londra: nessun collega che mi ha preceduto lo ha ricordato, ma credo sia importante farlo.
Se l'obiettivo che il Governo si pone è quello di portare maggiore stabilità nel mondo e maggiore sicurezza nel nostro paese - come ha detto prima il sottosegretario - non si può prescindere da quanto accaduto a Londra e dall'insuccesso che la linea di guerra preventiva portata avanti dagli Stati Uniti ha segnato fino ad ora. Dunque, partire da tali considerazioni sarebbe stato importante. Prima di discutere del provvedimento in esame forse si sarebbe dovuto procedere ad una discussione più ampia, magari in Commissione, visto che l' Assemblea ha a disposizione poche sedute per concludere provvedimenti rimasti in sospeso. Peraltro, anche quando si vota non vi è un grande affollamento - soprattutto nei banchi della destra, come sanno benissimo il sottosegretario Mantica ed il sottosegretario Cicu - dunque il problema non si verifica soltanto in fase di discussione sulle linee generali. Ritengo sarebbe stata importante una discussione di fondo con il Ministero degli affari esteri per capire quali strategie, quali alleanze, quali capacità di prevenire il terrorismo ed i conflitti si delineino nei vari incontri internazionali, a cominciare dal G8 appena concluso, durante il quale si è verificato il terribile evento di Londra.
Ho voluto fare tale premessa perché, se pensiamo alle discussione di politica estera svoltesi in questa legislatura, nelle Commissioni o in aula, ritengo ci si debba veramente vergognare dell'incapacità del nostro Governo di coinvolgere il Parlamento nei nodi cruciali di politica estera.
È chiaro che l'unica possibilità di discussione di queste missioni, essendo rappresentata dall'esame del provvedimento che ne dispone ogni sei mesi il rinnovo, si carica poi di un particolare significato politico. Così diventa faticoso affrontare, relativamente a ciascuna missione, le valutazioni di ordine tattico, al fine di capire se occorra effettivamente rifinanziarle, eventualmente potenziandole, oppure se sia più opportuna una loro conclusione. Ad ogni modo, ringraziamo il sottosegretario per averci almeno avvertito, a seguito delle richieste da noi avanzate in Commissione, che stiamo andando via dall'Eritrea. Questo peraltro è un peccato, lo riconosco anch'io, perché quella in Eritrea è una missione di peace keeping, alla quale abbiamo contribuito - come potevamo, date le condizioni - proprio al fine di pacificare il contesto. Al tempo stesso, ciò è anche un rischio, perché non è chiaro il significato della chiusura da parte del Governo eritreo; ma questo è un altro aspetto che andrebbe discusso in altra sede.
Per quanto riguarda il Sudan, condividiamo le preoccupazioni del sottosegretario sulla questione del Darfur. Se, quindi, l'accordo di pace non avrà una soluzione


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politica - nel frattempo, continuano nel Darfur gli attacchi alla popolazione civile -, diventerà difficile per i nostri 200 militari a Khartum fornire un aiuto per governare la situazione. Rispetto al Congo, non ho elementi per capire se questa pace terrà fino al 2006 e se si potrà arrivare allo svolgimento di elezioni che portino ad un'effettiva democratizzazione, oltre che pacificazione, della regione dei Grandi laghi.
Quanto all'Afghanistan, mi dispiace che il sottosegretario abbia dimenticato di citare nella sua relazione la parte di intervento sulla quale siamo contrari: mi riferisco ad Enduring freedom. Il sottosegretario ha parlato solo di ISAF, operazione sulla quale noi, sin dall'inizio, siamo stati d'accordo. Mentre, ripeto, siamo contrari ad Enduring freedom, anche perché non si capisce bene cosa stiamo facendo ed in che termini. Ho già detto in Commissione che, in Afghanistan, o si ha ben chiaro come intervenire sul problema della produzione e del traffico di droga oppure quella regione diventerà sempre più insicura, come i fatti dimostrano - basta vedere la stessa Kabul, che sembrava un'oasi di pace -, perché i signori della guerra si arricchiscono sempre di più e non stanno di sicuro fermi, e comunque cercano di difendere la loro libertà di narcotrafficare. Su questo punto, non riesco ad ottenere mai alcuna risposta. Non capisco cosa stiano facendo le nostre truppe - nell'ambito sia di Enduring freedom, sia di ISAF -, per fermare il narcotraffico! È vero che è la Gran Bretagna ad avere il ruolo principale, ma se noi siamo in Afghanistan qualcosa dovremmo pur poter dire e, quindi, se la Gran Bretagna non svolge un ruolo efficace, essendo un nostro alleato, dovremmo cercare di capire come fare per cambiare la situazione.
Per quanto riguarda la situazione israelo-palestinese, ribadisco quanto già detto chiaramente dall'onorevole Pinotti: noi da sempre abbiamo affermato che ci riconosciamo totalmente nel modello Hebron e che i nostri carabinieri disarmati in quel contesto operano benissimo.
Tuttavia, vorremmo capire, con riferimento al processo di pace - che risulta bloccato - tra Palestina e Israele, quale è l'atteggiamento dell'Italia e quali iniziative intende assumere al riguardo; a Gaza, in Cisgiordania, i problemi sono aperti e, pertanto, bisogna capire, a parte Hebron, qual è la nostra politica e come si inserisce la forza di interposizione di Hebron all'interno di una politica più in generale in Medio Oriente, anche per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese, senza soluzione.
Ricordiamo tutti, inoltre, la questione dei Balcani: oggi è avvenuta la sepoltura dei musulmani massacrati dieci anni fa a Srebrenica, che segna l'impotenza dell'ONU e dell'Unione europea rispetto a tale episodio; un episodio che credo ponga a tutti noi, a coloro che vogliono veramente fare i conti con la propria coscienza, oltre che con la politica che portano avanti, alcuni grandi interrogativi, anche perché i massacratori, Mladic e Karadzic, non sono stati ancora catturati.
Lo stesso discorso si può fare per Al Qaeda: nessuno dei suoi membri importanti è stato trovato. La violenza interetnica che si scatena in determinate circostanze, come la vicenda drammatica dei Balcani o il terrorismo portato avanti in modo fanatico da associazioni come quella di Al Qaeda, finora non ha trovato un contrasto serio ed un'interlocuzione con gli altri cittadini del mondo sotto il profilo della via tracciata dall'ONU e dall'Unione europea al riguardo. Purtroppo, l'Unione europea oscilla con riferimento alla via indicata molto chiaramente da Bush e che noi riteniamo totalmente fallimentare (i fatti lo dimostrano). Blair, in occasione del massacro di Londra, ha adottato accenti più europei in ordine al fatto che bisogna eliminare le radici del terrorismo e del fanatismo. Ha avuto parole anche di grande rispetto per quanto riguarda gli islamici che vivono in Inghilterra, dimostrando, in questo caso, una capacità politica maggiore rispetto a quella del nostro Presidente del Consiglio, quando, da subito, ha cominciato a parlare di conflitti di civiltà tra islamici, cattolici e cristiani.


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Poiché, ad avviso di tutti (mi auguro che non sia così), il prossimo obiettivo sarà il nostro paese, credo che, al di là delle missioni, rispetto alle quali la partecipazione italiana è oggi in discussione (il nostro voto sarà diversificato a seconda dell'approvazione o meno di due nostri emendamenti, uno concernente il blocco del finanziamento dell'operazione Enduring freedom, l'altro relativo all'applicazione generalizzata ai nostri soldati del codice militare di pace), occorra riprendere urgentemente in questa sede la discussione sulla politica estera e sulla lotta al terrorismo a livello internazionale.
Oggi il ministro Pisanu riferirà in quest'aula, ma si tratta di capire come agisce l'Italia a livello internazionale, perché, altrimenti, perde di significato anche il fatto di partecipare ad organismi multilaterali come l'ONU, se si segnano sconfitte come quella di Srebrenica. Perderà, inoltre, sempre più di significato politico anche l'Unione europea, non solo per i due referendum che ricordiamo, ma, soprattutto, per l'incapacità politica della stessa di intervenire seriamente in situazioni di crisi.
L'onorevole Pinotti ha ricordato la positività dell'esperienza dei Balcani; a noi spetta il suo potenziamento, valutando tuttavia l'intera situazione più seriamente di quanto fatto in passato.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Selva. Ne ha facoltà.

GUSTAVO SELVA. Signor Presidente, su richiesta del Ministero degli esteri, specificatamente del sottosegretario Alfredo Mantica, delegato per l'Africa, ho avuto l'onore di partecipare sabato scorso all'atto iniziale dell'insediamento del nuovo assetto istituzionale del Sudan. Come è noto, il Sudan del nord e quello del sud si sono combattuti per anni in un conflitto, purtroppo da includere tra quelli cosiddetti «dimenticati», che ha provocato almeno due milioni di morti.
Il passaggio dalle armi alla discussione politico-diplomatica ha portato al nuovo assetto istituzionale, che terrà conto degli accordi stipulati; si sono insediati il nuovo Presidente della Repubblica, Omar Hassan al-Bashir, appartenente al nord, e il vicepresidente della Repubblica, leader del Movimento popolare di liberazione del Sudan, John Garang.
L'Italia, insieme agli Stati Uniti d'America, ha un ruolo particolare perché ha fatto parte, unitamente alla Norvegia, della Commissione per gli accordi di pace, punteggiando con la sua esperienza e conoscenza la volontà politica di far valere le trattative e far cessare gli scontri militari. Tale contributo è stato significativamente riconosciuto dal rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, l'ex ministro dei Paesi Bassi, Jan Pronk, che ha riconosciuto l'apporto italiano per arrivare a questa conclusione.
Naturalmente, si mescolano scetticismo e speranza, ma noi faremo tutto quanto è possibile per essere ottimisti in concreto. Al riguardo, il relatore ha già ricordato il contributo militare italiano, la cui presenza intende garantire che le delegazioni delle Nazioni Unite e degli osservatori possano essere sicure e attive. Per il conseguimento di questi obiettivi l'Italia ha inviato un contingente di 220 uomini, che ho avuto l'onore di salutare domenica scorsa su invito rivoltomi dal suo comandante.
La missione militare italiana per il momento non ha ovviamente compiti di polizia ma, anzi, viene mantenuta a livelli tali da non determinare azioni o reazioni di carattere nazionalistico. Tuttavia, essa è estremamente utile per rafforzare le istituzioni che hanno preso vita attraverso gli accordi di pace, firmati il 9 gennaio scorso anche dal sottosegretario Mantica.
Ho dunque ritenuto di darvi conto di ciò non soltanto perché vi è stato il coinvolgimento, attraverso la mia persona, del Parlamento, ma anche perché è opportuno che il Parlamento stesso, d'intesa con il Governo, assicuri l'appoggio alla nostra presenza nella Commissione per gli accordi di pace. Non so se di tale Commissione faranno parte tutti i paesi che hanno partecipato alle trattative di pace, vale a dire Stati Uniti, Regno Unito, Italia


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e Norvegia. Tuttavia, se essa dovesse essere allargata, resta inteso che non dovrà esserne modificata la composizione iniziale, in modo da consentire al nostro paese di continuare a mantenere la propria presenza, che è stata unanimemente apprezzata. Ho avuto occasione di parlare, in primo luogo, con il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, che si è speso - ciò non capita spesso - in grandi riconoscimenti per il ruolo svolto dall'Italia a livello negoziale e per la nostra rapidità di intervento, attraverso la forza - in questo caso, veramente di pace - che abbiamo disposto sul terreno.
Tenevo a svolgere tali precisazioni, in quanto sono lieto di constatare che il contributo politico e diplomatico dell'Italia ha prodotto risultati positivi. Chiedo dunque al Parlamento che l'azione affinché la presenza dell'Italia sia garantita venga unanimemente sostenuta. Ritengo di non avere abusato del mio ruolo, se nel corso delle conversazioni con capi di Stato, capi di Governo, ministri degli esteri, presidenti di Parlamento (ad esempio, il presidente del Parlamento algerino) ho affermato che l'Italia fa fronte ad un'operazione di questo genere con l'unanime appoggio del Parlamento nazionale.
Assicuro dunque che il nostro impegno - sia della maggioranza sia dell'opposizione - è volto a dare concreta attuazione agli accordi di pace con la presenza dei nostri militari e diplomatici. Ricordo, in particolare, che i diplomatici della Farnesina si sono distinti per un lavoro continuo, anche se esso non ha avuto grande risalto negli organi di informazione, e talmente efficace da far sì che il nostro paese sia divenuto non soltanto uno degli interlocutori considerati più credibili dalle parti in causa - il nord e il sud - ma anche un soggetto in grado di dare il proprio contributo alla soluzione del problema ancora aperto del Darfur. Le istituzioni del Darfur non hanno partecipato alle trattative di pace, ma hanno dimostrato di andare nella direzione del riconoscimento dell'accordo fra nord e sud. In tale area del Sudan, naturalmente, l'azione dell'ONU deve essere ancora più intensa ed efficace, se vogliamo porre fine all'estremismo proveniente dal nord, che determina condizioni disumane. Anche in tal caso, ritengo sia doveroso riconoscere la presenza italiana.
La dottoressa Contini, infatti, che ha già meritato il nostro riconoscimento per quanto realizzato in Iraq, è delegata dal Ministero per gli affari esteri ad operare in quell'area del Sudan per conseguire trattative volte a completare anche verso ovest l'unità di questo grande paese.
Ricordo che il Sudan è lo Stato africano geograficamente più esteso e presenta delle potenzialità per l'insediamento operativo di imprese e per l'avvio di opere pubbliche che un domani dovranno interessare anche l'Italia.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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