Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 602 del 15/3/2005
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Discussione della proposta di legge: S. 1383 - Senatori Travaglia ed altri: Istituzione del «Giorno della libertà» in data 9 novembre in ricordo dell'abbattimento del muro di Berlino (4325) (Approvata dal Senato) e delle abbinate proposte di legge: Gibelli ed altri (2832) e Garagnani ed altri (3736).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge già approvata dal Senato d'iniziativa dei senatori Travaglia ed altri: Istituzione del «Giorno della libertà» in data 9 novembre in ricordo dell'abbattimento del muro di Berlino, e delle abbinate proposte di legge d'iniziativa dei deputati Gibelli ed altri e Garagnani ed altri.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per il dibattito è pubblicato in calce al resoconto della seduta del 9 marzo 2005.

(Discussione sulle linee generali - A.C. 4325)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra-L'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento, senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto altresì che la I Commissione (Affari costituzionali) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole La Russa, ha facoltà di svolgere la relazione.

IGNAZIO LA RUSSA, Relatore. Signor Presidente, la proposta di legge n. 4325, d'iniziativa del senatore Travaglia, approvata dal Senato e licenziata senza modifiche nella seduta odierna della Commissione affari costituzionali, si propone di dichiarare il 9 novembre «Giorno della libertà» quale ricorrenza dell'abbattimento del muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione dei paesi oppressi ed auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo. A tale proposta di legge erano state abbinate, ai fini dell'esame in sede referente, anche le proposte di legge n. 2832, d'iniziativa del deputato Gibelli ed altri, e n. 3736, a prima firma dell'onorevole Garagnani, di contenuto sostanzialmente analogo.
In particolare, il testo della proposta di legge n. 4325, con riferimento al quale la Commissione cultura ha espresso parere favorevole, si compone di un solo articolo, il cui comma 1 istituisce la celebrazione nazionale del «Giorno della libertà» individuandolo nella giornata del 9 novembre, data della caduta del muro di Berlino. Il comma 2 dispone che, in occasione di tale ricorrenza, si svolgano cerimonie commemorative e momenti di approfondimento nelle scuole, esattamente, peraltro, come previsto in altri provvedimenti, come quello riguardante l'istituzione della giornata della memoria ed altri.
Come è evidente, si tratta di un provvedimento altamente simbolico, il cui iter è iniziato già da lungo tempo e che ora giunge all'attenzione della nostra Assemblea. Si vuole simbolicamente elevare a momento importante per la nostra comunità nazionale ciò che accadde, importante per l'Italia e per l'Europa, il 9 novembre del 1989. In quel giorno si apre un primo varco nel muro di Berlino; in poche ore, un milione di tedeschi orientali passano dall'altra parte. Chi non ha visto almeno una volta le immagini di quella nottata? Il simbolo della negazione della libertà, il simbolo dell'oppressione, non solo per i tedeschi ma per tanti popoli dell'Europa, viene abbattuto.
Già il 22 dicembre del Muro resteranno solo briciole. Era stato eretto 28 anni prima, il 13 agosto 1961. I soldati della Germania dell'est - i Vopos, nome echeggiato sinistramente tante volte -, sotto l'occhio vigile dei sovietici, interruppero tutti i collegamenti tra Berlino est e Berlino ovest ed iniziarono a costruire, davanti agli occhi esterrefatti degli abitanti di tutte e due le parti della città, un muro insuperabile che attraversava tutta la città, divideva quartieri, separava palazzi e disuniva


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famiglie, tagliava le strade tra case e posti di lavoro, tra scuole e università. Quell'atto era la consacrazione di un mondo diviso in due fra libertà e tirannia, tra democrazia e dittatura. Era il mondo di Jalta, della guerra fredda, quello della cortina di ferro, quello dei gulag, dove le sofferenze si contarono a milioni.
Il Muro fu voluto dalla Germania dell'est perché già due milioni e mezzo di tedeschi erano fuggiti dall'altra parte scegliendo la libertà e i comunisti rischiavano seriamente di rimanere da soli.
Memorabile la foto - io la ricordo e penso che molti la ricordino con me - del soldato messo a guardia del Muro in costruzione, che decide però non di fare la guardia ma di saltare dall'altra parte, verso il mondo occidentale. La caduta del Muro, il 9 novembre 1989, segnò la fine di un'epoca, la fine di una tragedia, forse per molti di un incubo. Lo ricordo senza spirito di rivalsa e senza polemica. Mentre il cosiddetto Muro della vergogna cadeva, in Italia però c'era ancora chi scriveva e dichiarava che quel crollo avrebbe compromesso la pace e la stabilità. Per molti, invece - ed io ero tra questi -, fu il coronamento di un sogno: quello di vedere l'Europa riunita in nome della libertà.
Il crollo di quel Muro ebbe, come si sa, effetti immediati in Europa, in Germania, ma anche in Italia. Rispetto a quella che era stata in Italia una situazione politica bloccata - ricordo ancora Montanelli, che nella divisione del mondo in due poteva parlare di un moto di costrizione, tappandosi il naso - quel Muro che cadeva liberò in qualche modo anche le potenzialità per una scelta più reale e più libera nel nostro paese e forse fu anche grazie a quel crollo che in Italia si è avviata (anzi, sicuramente così è stato) una prima alternanza. Senza quel crollo, forse D'Alema, sia pure per pochi mesi, non sarebbe mai stato Presidente del Consiglio.
Nel maggio scorso, l'Unione europea si è allargata a 25 Stati ed hanno aderito tanti di quegli Stati che prima erano al di là del Muro. Credo di esprimere un comune sentire, se affermo che la caduta del Muro è stata una conquista per la nostra civiltà, fatta in nome della libertà. Il 29 ottobre scorso i Capi di Stato dei 25 membri dell'Unione hanno firmato la Costituzione europea, che pone a fondamento quel valore della libertà, che noi vogliamo consacrare nella giornata del 9 novembre, non soltanto a ricordo di quello che è stato l'Europa divisa dal Muro, ma anche come monito per i luoghi dove ancora esiste la privazione della libertà.
Il ricordo delle grandi tragedie del Novecento non costituisce una sterile invocazione del passato, ma deve costituire il richiamo alla memoria di fatti, che devono essere da monito per il futuro dell'Europa e dell'Italia. La memoria del passato va intesa come viatico per la costruzione di un futuro che non ripeta errori, in nome anche di coloro che caddero nel disperato tentativo di saltare quel Muro ed in nome di tanti, moltissimi italiani - ci sono libri, ci sono film -, che andarono, a rischio della loro vita, ad aiutare con mille espedienti, con mille sotterfugi, con mille meccanismi, decine e decine di persone (giovani, donne, anziani), che volevano saltare quell'orribile divisione.
Penso che tutti oggi possano condividere ciò che quest'Assemblea ritengo possa affermare tranquillamente, cioè la centralità della libertà. Come sembra facile oggi poterlo affermare e forse lo sarebbe sempre stato, perché filosoficamente la libertà è il connotato dell'uomo: il libero arbitrio, la possibilità di poter scegliere, ora per ora, giorno per giorno. La libertà è il bene più prezioso degli uomini, ma non è stato facile affermare questo principio, ancorché pagine di filosofia - da Socrate a Sant'Agostino, a Machiavelli, a Vico, a Croce, a Gentile - hanno sempre affermato che, senza la libertà, l'uomo non è tale e la categoria dell'umano viene inficiata.
Sul muro di Berlino, per tornare all'occasione che dà luogo a questa proposta di legge, François Furet, Raymond Aron (tornato di moda in questi giorni) e Renzo De Felice hanno scritto parole, che sarebbe il caso di rileggere e di rendere note (e lo si farà nei giorni dei 9 novembre futuri, in cui le scuole si occuperanno,


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come prevede la proposta di legge, di questa ricorrenza). Tutti e tre convergono nel giudicare quel Muro come l'espressione materiale di un'ideologia che aveva voluto tragicamente annullare l'uomo in un'utopia.
Vedete, colleghi, la proposta di legge sottoposta all'esame dell'Assemblea dice parole semplici. Essa dice che la Repubblica italiana dichiara il 9 novembre «Giorno della libertà», quale ricorrenza dell'abbattimento del muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo.
Mi auguro che, senza polemiche e con la massima condivisione di tutta l'Assemblea, questa data trovi la vostra adesione come «Giorno della libertà» (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza Nazionale e di Forza Italia)!

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

COSIMO VENTUCCI, Sottosegretario di Stato per i rapporti con il Parlamento. Il Governo si riserva di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bressa. Ne ha facoltà.

GIANCLAUDIO BRESSA. Signor Presidente, il primo comma dell'articolo 1 del suddetto provvedimento, come ha testé ricordato il relatore, onorevole La Russa, recita: «La Repubblica italiana dichiara il 9 novembre "Giorno della libertà", quale ricorrenza dell'abbattimento del muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo».
Credo che nessuno possa negare che la caduta del muro di Berlino sia stato un evento storico di straordinaria rilevanza; uno di quegli eventi che si possono definire epocali, perché hanno cambiato il corso della storia.
Riteniamo, però, che questo evento sia estraneo alla storia del nostro paese. È presente, invece, chiaramente nella storia dell'Europa. È un evento che ha una dimensione europea, ma, in sé e per sé, non significa e non può significare per l'Italia la conquista della libertà, perché l'Italia non ha mai avuto una dittatura comunista.
La nostra storia non può essere mistificata. D'altra parte, è assolutamente evidente nelle intenzioni dei proponenti l'intento di dare a questo progetto di legge un significato storiografico. Si vuole, con questo provvedimento, riscrivere la storia del nostro paese, correggendo quelli che si dichiarano essere degli scompensi di valutazione. Ma la storia non si riscrive con le leggi e chi lo fa dimostra di non avere il senso della storia e di non avere rispetto per la funzione del Parlamento!
Voler costruire poi un simbolo in laboratorio è particolarmente originale, direi perversamente originale. Si intende attribuire al 9 novembre il simbolo della libertà. Per questo, secondo i proponenti, è necessario ed opportuno istituire il «Giorno della libertà», ma chiediamoci cosa sia un simbolo.
L'espressione simbolica si oppone all'espressione razionale che espone un'idea senza usare la mediazione di una figura sensibile. Poiché voi non avete elementi di razionalità per sostenere la vostra ipotesi, fate leva sulle emozioni. Un sentimento non può esprimersi razionalmente con un discorso concettuale e non può esprimersi direttamente se non facendo uso di simboli e miti.
Allora, quale è il sentimento che vogliamo elevare a simbolo? La libertà.
Perché parlo di sentimento e perché siete costretti ad evocare emozioni e non fatti storici? Perché il 9 novembre, nella storia italiana, non si è conquistata la libertà. Il 9 novembre del 1926 il fascismo rivelò la sua vera natura dittatoriale, spogliandosi di ogni simulacro di democrazia che, fino ad allora, aveva mantenuto. Il 5 novembre 1926 si riunisce il Consiglio dei ministri che vara dei provvedimenti amministrativi, presentati dall'allora ministro


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dell'interno Federzoni, che proclamano la fine della libertà di associazione politica e della libertà di stampa.
Quei provvedimenti amministrativi sono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell'8 novembre 1926 ed entrano in vigore immediatamente all'ora «zero» del giorno 9 novembre 1926. Quel giorno viene abolita la democrazia e la libertà di espressione in questo paese.
Il 9 novembre 1926 viene convocato il Parlamento nazionale per discutere provvedimenti eccezionali per la difesa dello Stato. Quei provvedimenti eccezionali per la difesa dello Stato istituiscono i tribunali speciali; si reintroduce nel nostro ordinamento giudiziario la pena di morte.
Ciò accade il 9 novembre 1926!
Vi è di più. Quel giorno, in modo proditorio, un deputato fascista, Turati, solo omonimo del rappresentante socialista, presenta un ordine del giorno - che non è all'ordine del giorno - il quale stabilisce la decadenza dei 124 parlamentari aventiniani. Sempre il 9 novembre 1926! Quell'ordine del giorno, assolutamente illegale, cancella l'opposizione politica da questo paese il 9 novembre 1926! I 17 deputati comunisti, che non appartenevano agli aventiniani, sono stati nel frattempo arrestati. Colleghi, il 9 novembre 1926!
Allora il 9 novembre non è il giorno giusto nella storia nazionale per celebrare la libertà.
Ma se non c'è la storia, possono restare i sentimenti. Ma di quali libertà allora parliamo? Cari colleghi, per definire la libertà basta darne una descrizione adeguata. Esiste una prima descrizione, al livello più basso, quello biologico, dove la libertà si identifica con la buona salute dell'organismo.
Esiste poi uno stadio più elevato e ci si sente liberi quando si possono realizzare i propri desideri: questo è l'epicureismo.
Ancora ad un livello superiore esiste la libertà della coscienza, dove la libertà si definisce come la possibilità di scegliere.
Se saliamo ancora, nel significato più pieno del termine, la libertà si definisce come un'attuazione volontaria cui concorre il più gran numero di motivi, secondo una scelta che può essere anche razionalmente giustificata agli occhi di tutti. Siamo arrivati a Kant, al razionalismo della libertà secondo cui un'azione è libera quando la coscienza si orienta contro i desideri sensibili, in funzione di un principio razionale. Da questo si desume chiaramente che la libertà non dipende da ciò che si fa, non da come lo si fa. La libertà è un atteggiamento, l'atteggiamento dell'uomo che si riconosce nella sua vita, che accetta le condizioni storiche del mondo e degli avvenimenti che vive.
E siamo arrivati a Jaspers e a Sartre secondo cui l'uomo diventa libero quando, invece di subire una data situazione, assume verso di essa un atteggiamento attivo; quando si impegna a prendere parte agli avvenimenti del suo tempo definendo il suo atteggiamento sia rispetto al regime dominante che agli altri uomini.
Allora, vorrei chiedere al Governo e al sottosegretario Ventucci: poiché la nostra storia non ha avuto appuntamenti con il destino di libertà il 9 novembre, quale di queste libertà volete evocare? Quella biologica, quella epicurea, quella kantiana, quella di Sartre? Quale delle cento altre definizioni di libertà volete celebrare?
Non pretendo di avere una risposta a questa mia provocazione. La provocazione basta a se stessa per dimostrare che per voi le leggi non sono il portato della storia e della sensibilità della nostra comunità. In una logica da Stato etico le leggi servono a riscrivere la storia, a costruire artificialmente un'emozione e una fedeltà.
Riflettete, finché siete in tempo, sulle conseguenze che questo vostro agire politico può avere. Non spingete il paese verso divisioni improprie ed inopportune, storicamente non fondate. Non fatelo, non serve nemmeno a voi (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-L'Ulivo, dei Democratici di sinistra-L'Ulivo e del Misto-Comunisti italiani)!

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Maran. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO MARAN. Signor Presidente, onorevoli colleghi, come ammoniva


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Barbara Spinelli in un bel libro di qualche anno fa, la memoria è un'attività che esige severità ed autocontrollo perché è materia ad alto rischio. Può destare le coscienze, ma anche - come abbiamo visto - alimentare odii, specie quando chi ricorda si concentra sulla propria condizione di vittima. Può venire in aiuto rivelando quel che fino a ieri era taciuto, ma può essere adoperata come mezzo politico per screditare un rivale.
Purtroppo, la capacità di ricordare con severità ed autocontrollo non ci ha accompagnati negli anni come invece è avvenuto in Germania, un paese che non smette di rivangare, nel suo doppio passato, fascista e comunista. La maggior parte delle volte nel nostro paese la memoria è stata usata politicamente, ma in questo modo ci siamo condannati ad una patologia singolare che Barbara Spinelli ha definito della «smemoratezza patteggiata» o della «reminiscenza vendicativa».
Insomma, il ricordo spunta a fasi alterne, improvviso, ma solo perché in quella circostanza torna utile. In tal modo la memoria nazionale si accende e si spegne come una lampadina che sembra sul punto di bruciarsi e le parole stesse perdono ogni rapporto con la realtà che pretendono di evocare. È il caso della parola «anticomunismo» che il centrodestra ha usato ed usa senza rispetto né conoscenza di quella che è stata la resistenza contro i regimi comunisti, ma che serve solo a screditare la sinistra e il centrosinistra italiani.
L'intento strumentale e propagandistico ad uso interno della proposta in esame è infatti evidente. L'istituzione del giorno della libertà in ricordo dell'abbattimento del muro di Berlino, lungi dal toccare - come invece ha detto il senatore Travaglia - un tema di grande delicatezza che pervade da decenni in modo più o meno esplicito la vita del paese, serve solo a screditare a posteriori la vicenda dei comunisti italiani - che per la libertà del nostro paese hanno combattuto - per poterne danneggiare i loro eredi.
Ma davvero si può pensare, come è stato detto, di identificare uno sbocco addirittura chiarificatore della storia, dell'idea e del potere comunista mondiali individuando una nuova solennità civile della Repubblica italiana? Come si fa a ritenere che basti una ricorrenza nazionale a ripensare addirittura il Novecento?
La verità è che si tratta, più modestamente, di un espediente che vi consente di usare la memoria politicamente. È accaduto, del resto, il mese scorso, in occasione della prima Giornata del ricordo delle foibe, dell'esodo e delle vicende del confine orientale, la cui istituzione abbiamo condiviso. Da sempre, l'intento della destra è stato quello di conferire al fenomeno delle foibe una dimensione metastorica: il genocidio degli italiani riecheggia l'olocausto degli ebrei ad Auschwitz, e il risultato è quello di pareggiare i conti con le responsabilità del fascismo rispetto allo sterminio nazista, per non parlare dei crimini di guerra e dell'occupazione militare italiana dei Balcani, rilevando la pari, se non superiore, violenza politica del comunismo.
Ma quel che più ha colpito, anche se forse non dovremmo sorprenderci, è stata la tendenza, specie nei mass media, a prendere per buona l'interpretazione che di questo tema, nel corso degli anni, ha dato Alleanza nazionale, senza che vi fosse neppure un accenno ai contenuti delle acquisizioni documentarie e interpretative maturate, quasi che quegli eventi siano solo un episodio della guerra civile tra italiani e i martiri delle foibe siano esclusivamente vittime dei comunisti, vale a dire le vittime di un conflitto tra comunismo e anticomunismo, tra fascismo e antifascismo. Si è taciuto il fatto che l'esodo è il capitolo finale di un conflitto lungo un secolo fra opposti nazionalismi che hanno lacerato un territorio da sempre plurale: l'Istria era davvero, come ha scritto Paolo Segatti, la casa comune di italiani e slavi. Ma non una parola è stata spesa, anche nel recente film sulle foibe, per spiegare ciò che per molti così ovvio non è. Si tratta di un conflitto che non si spiegherebbe senza far riferimento alle idee di nazione che entrambe le parti hanno coltivato con passione e trasformato,


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proprio grazie ai due totalitarismi, in armi di distruzione di massa, in persecuzione senza tregua per gli apolidi.
In questo senso, le vicende travagliate dei territori al confine orientale d'Italia appartengono interamente alla lunga storia dei nazionalismi europei, di Stati che si pensavano come nazionali ma non lo erano, o lo erano solo in parte, tanto che gli studiosi da tempo hanno tematizzato l'esodo non come una vicenda di storia locale, bensì come uno dei processi più caratteristici e devastanti della contemporaneità nell'area centroeuropea. La grande ondata di trasferimenti forzati di popolazioni interessò nei due dopoguerra buona parte dell'Europa centro-orientale e balcanica, dallo scambio di popolazione fra la Grecia e la Turchia nel 1923 all'espulsione dei tedeschi dai territori al di là della linea di confine dell'Oder-Naisse nel 1945.
È il caso di sottolineare che il ricordo di quelle vicende oggi non ha a che fare solo con l'appropriazione della memoria o con l'uso politico della storia, ma soprattutto con il discorso ufficiale sulla nazione, perché proprio quella frontiera, più di altre, ha animato diversi progetti e linguaggi intorno all'idea di nazione, e la causa delle tragedie di quelle terre - siamo infatti nell'ordine di idee dei delitti di Stato - sta proprio nelle idee di nazione coltivate da nazionalismi etnici aggressivi. Per questo tale vicenda non è solo un vecchio reperto della retorica post-fascista, ma un tema che pone problemi che riguardano ancora oggi tutti gli italiani. Infatti, interrogativi come quelli relativi al rapporto da instaurare in territori plurali tra cittadinanza e appartenenza nazionale e culturale e tra offerta di integrazione e l'idea di nazione che viene promossa dal centro statale, sono oggi attuali tanto per noi quanto per i nostri partner europei, vecchi e nuovi. E va da sé che in nessuna democrazia c'è una separazione completa tra cittadinanza e appartenenza culturale, ma ciò che fa la differenza è se una nazione è capace o meno di integrare civicamente i diversi, e questo dipende anche dall'idea di nazione in cui si riconoscono i suoi cittadini naturali, vale a dire da quanto credono nelle loro istituzioni statali e politiche e nella loro forza integratrice.
Di ciò non si è parlato, ma bisognerà pure cominciarne a parlare, se crediamo in quella ricorrenza. Non è, infatti, un mistero per nessuno che nell'idea di nazione degli italiani è debole proprio la percezione che anche le istituzioni, e non soltanto l'appartenenza culturale, la lingua, gli usi e i costumi radicati nella lunghissima storia culturale del nostro paese, possono produrre identità collettiva nella forma di comune cittadinanza. Ma quel che il revisionismo non comprende è che nell'epoca successiva alla seconda guerra mondiale l'idea di nazione che si è affermata non è separabile dal nesso fra antifascismo, welfare e interdipendenza.
Mi sono soffermato su questa vicenda perché anche alla luce di questo caso esemplare di reminiscenza vendicativa, rimarrebbe da osservare che rimeditare la storia e l'identità non è benefico in sé, per il solo fatto che ci si accinga all'impresa: è benefico se serve alla vita di oggi, se arricchisce le scelte politiche. Al nostro paese non serve una memoria monumentale, in cui abbellire il passato invece di analizzarlo, e non serve neppure quell'inclinazione conservatrice che è capace soltanto di arredare con i ricordi un nido familiare chiuso, autarchico, impenetrabile dall'esterno.
Quel che serve al paese è una memoria critica, una memoria che serve alla vita di oggi. Non è un difetto quantitativo di memoria quello che affligge il nostro paese. Il difetto sta, piuttosto, nell'assenza di quell'impulso a conoscere se stessi, che spinge a privilegiare la quantità a danno della qualità.
Il 26 gennaio scorso il Senato ha approvato il provvedimento che dichiara la solennità civile del 4 ottobre, in onore dei patroni d'Italia San Francesco e Santa Caterina da Siena, anche giornata della pace, della fraternità e del dialogo fra appartenenti a culture e religioni diverse. Ho anche notato che sono all'esame del Senato i disegni di legge aventi ad oggetto la commemorazione della strage di New


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York dell'11 settembre, quella del 12 dicembre e persino l'istituzione della festa della famiglia e della festa nazionale dei nonni! Ma vi chiedo - e le chiedo onorevole La Russa - se questo serve alla vita di oggi. Ovviamente non serve!
Sono persuaso, e lo dico per evitare equivoci, che delle vicende della prima Repubblica vada fatta storia comune, nella quale ex comunisti, ex democristiani ed ex socialisti possano riconoscersi senza riserve di fondo. Specie a sinistra, perché è impossibile costruire un partito vero, (come io mi auguro), un partito in cui ognuno si senta a casa propria, se le persone che dovranno abitare quella casa si portano appresso risentimenti e diffidenze che traggono origine da letture diverse dei rapporti che hanno avuto nella prima Repubblica.
Insomma, che la vittoria della democrazia cristiana di De Gasperi nel 1948 sia stata una fortuna per il paese non deve essere una considerazione che i leader del centrosinistra si bisbigliano all'orecchio, ma va proclamata e spiegata apertamente. E che, sulle questioni che veramente contano, sull'idea di socialismo e su molte delle politiche economiche per il nostro paese, Craxi avesse ragione e Berlinguer torto, va anch'esso proclamato e spiegato. Come va proclamato e spiegato che non bisogna rubare!
Ma se foste capaci di ricordare con severità e autocontrollo, potremmo affrontare le questioni che la vostra proposta, concentrata soltanto sulla propaganda interna, elude. E, cioè, quel secondo patto delle memorie (che avremmo dovuto porre a fondamento dell'Unione allargata), la questione concernente la guerra fredda contro il totalitarismo, la sua legittimità, la sua necessità e, per finire, il significato della liberazione del 1989. Naturalmente, ponendo la questione dove questa va posta (come ha ricordato il collega Bressa), ossia in Europa, dove l'idea comunista è nata, dov'è andata al potere, dov'è stata tanto popolare alla fine della seconda guerra mondiale e dove, per morire, ha impiegato o trent'anni, da Kruscev a Gorbaciov. Perché l'Europa, madre del comunismo, ne è stata anche il teatro principale, la culla e il cuore della sua storia, al punto che i suoi inventori, Marx ed Engels, non avevano immaginato che quell'idea potesse avere un immediato futuro fuori dall'Europa, e grandi marxisti come Kautsky avevano negato l'influenza della Russia dell'ottobre del 1917, in quanto troppo periferica per recitare un ruolo di avanguardia.
Solo se foste capaci di ricordare con severità e autocontrollo, allora la valutazione delle battaglie combattute dalle democrazie, battaglie condotte con i metodi della dissuasione nucleare, dell'esclusione dei partiti comunisti dal potere, della contrapposizione intellettuale, non dovrebbe essere lacunosa e parziale. Ma, per tornare sul passato senza che i ricordi vengano utilizzati per aggiustare le biografie personali, bisogna porre a confronto quei ricordi con quelli di chi ha conosciuto e combattuto il totalitarismo dell'Est, e per questo è oggi animato da uno spirito europeo più tenace, più scettico verso le rigide sovranità degli Stati, più interessato al formarsi di una società politica fatta di persone capaci di liberarsi da paure e da fughe nel privato.
Come si fa a costruire una politica di lungo respiro senza l'attivazione di queste memorie parallele? Come si fa, senza queste memorie, a ripensare la guerra fredda, il senso che ebbe per la sopravvivenza delle democrazie, la vittoria difficile e instabile che ottenne nel 1989?
La verità, però, come ha scritto uno scrittore ungherese, Peter Nadas, in un articolo severo pubblicato nel 1999, è che non volete conoscere queste esperienze: non volete conoscerci, non volete vederci! La verità è che gli Stati liberali hanno dimenticato il prezzo morale che pagarono per ottenere la coesistenza pacifica. Non solo erano partiti dall'idea che l'unica strada possibile fosse la distensione, ma in più credevano che quest'ultima rappresentasse anche l'unica soluzione morale. È una convinzione che pesa tuttora sulla vita interna dei paesi dell'Unione europea. Il selvaggio matrimonio con le dittature seminò confusione nel loro senso morale, e


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semina confusione ancora oggi. Avevano vissuto in concubinato con un sistema la cui realtà non vollero apprendere allora, e non intendono apprendere oggi. Quasi non si erano accorti (concludeva Nadas), presi come erano dalla pur legittima paura di una III guerra mondiale, che dietro la cortina di ferro esisteva gente che aveva dovuto far proprie non sono le ragioni della coesistenza, ma anche quel che discendeva da tali ragioni: l'accettazione della necessità fatale della dittatura e del suo permanere.
Senza guardare in faccia questa realtà, questo pezzo di verità (non devo ricordare i timori espressi allora dall'onorevole Andreotti per la riunificazione della Germania o la paura del processo di allargamento e del suo consolidarsi, che ha pervaso e pervade tuttora le vostre file), sarà molto difficile inventare nuove visioni, contratti sociali, strategie, che salvaguardino la capacità di decisione sovrana dell'Europa nel processo di mondializzazione.
Certamente, la politica della memoria è la strada che può permettere alle nazioni d'Europa di agire nel mondo di oggi con coerenza, di unificarsi oltre i vecchi muri, di ricominciare ad incidere davvero sulle scelte internazionali, facendo tesoro delle lezioni buone e cattive apprese dall'esperienza di ieri.
L'inclinazione degli europei a trattare i paesi dell'est come nazioni inferiori, esibendo comportamenti perfino da colonizzatori, ha un vizio d'origine proprio nell'incapacità di paragonare i due totalitarismi, che porta a sminuire lo spartiacque liberatorio rappresentato dal 1989, a sminuire le resistenze antitotalitarie dell'est, tanto da rendere impossibile in quei paesi lo slancio riedificatore che avemmo in Germania, in Italia, in Francia dopo la liberazione del 1945: ma si può ricordare davvero con l'anticomunismo, più elettoralistico che meditato, presente nella proposta di legge in esame?
Si può davvero ricordare con chi non vuole paragonare, come è possibile e doveroso, Auschwitz alla Kolyma, ma vuole parificare ai partigiani italiani quanti hanno militato per la Repubblica di Salò, agli ordini dei nazisti tedeschi e contro il legittimo Governo italiano, dal 13 ottobre 1943 in guerra contro la Germania? Non si può fare, perché non è la prossima scadenza elettorale: è per le democrazie europee e per le generazioni future che serve un nuovo rapporto con la memoria del Novecento, e non ve la cavate con il libro nero del comunismo!
Il 1989 riguarda anche la destra europea, perché esso ha alzato il sipario su una civiltà europea di pensieri alternativi, di esperienze vissute che hanno confutato e messo in discussione non poche certezze dell'Occidente, facendo piazza pulita di molte convinzioni attorno alla volontà generale, all'interesse collettivo, alla nazione, al potere accentrato degli Stati.
I dissidenti dell'est hanno avuto modo di subire sulla propria pelle le perversioni degli ideali collettivisti e le falsità del divieto di ingerenza negli affari interni; hanno avuto modo di restituire importanza alla persona, con i suoi diritti e doveri, non più assistita dalla giovinezza alla vecchiaia, chiamando in causa la necessità di riapprendere la libertà e con essa la responsabilità.
Vi devo ricordare, forse, che la patologia più nefasta covava proprio nella regione dove il comunismo era parso più addomesticato, più vicino all'Occidente, in quella federazione iugoslava dove i dirigenti locali si sono subito predisposti al riciclaggio nazionalista? Ma quel che hanno da insegnare uomini come Havel o come Geremek cosa ha a che fare, quanto pesa in questa specie di ricorrenza nazionale cui pensate di affidare il compito di educare i giovani italiani e addirittura di pensare il Novecento?
Il fatto è che l'insistere di Havel sulle calamità morali arrecate dal comunismo, sull'antitotalitarismo, sulla priorità della persona rispetto ai collettivi, sulla gravosa nascita di una società civile responsabile infastidisce i conservatori anche ad Occidente; ma è proprio questa negligenza colpevole che vi ha indotto a pensare e a proporre un provvedimento meramente propagandistico, che vi porta a sottovalutare


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quelle idee. Ma con le loro riflessioni sul potere e sullo Stato centrale, sui diritti e doveri dell'individuo nella società civile, sul senso del limite dei possibili disastri delle utopie, i dissidenti dell'est hanno consegnato un tesoro prezioso all'ovest e all'Europa, su cui questa può meditare e che può fare proprio.

PRESIDENTE. Onorevole Maran...

ALESSANDRO MARAN. Se non siete capaci di farlo, è perché non esiste nella destra italiana una cultura liberale - concludo, Presidente - antitotalitaria capace di una simile iniziativa, che abbia la stessa ambizione, la stessa costanza o la stessa iniziativa di cui è stato capace il socialismo riformista, che da Bernstein ad oggi non ha rappresentato un princìpio antagonista che allude ad un'altra società, ma il movimento che mira ad arricchire e ad estendere i diritti liberali.
Il fatto è che, per superare il retaggio del fascismo, bisogna interrogarsi sui presupposti ideologici, prima che sulle realizzazioni del regime, e bisogna buttare a mare le ragioni per cui il fascismo nega la primazìa dell'individuo sullo Stato ed individua in una identità collettiva (lo Stato, la nazione) un bene superiore al singolo cittadino. È tutto qui, ma non è poco, perché segna lo spartiacque tra fascismo e liberalismo, e per far questo - l'onorevole La Russa aveva citato alcuni libri - occorre definitivamente togliere Evola dalla libreria e mettere Tocqueville al suo posto.
In questa frenetica attività commemorativa vedo un rischio ulteriore. È giusto indicare le ferite inferte dai due totalitarismi e rammentare i diversi modi in cui patirono gli italiani, per colpa di nazisti come Priebke o di comunisti come Tito, ma sarebbe insufficiente una consapevolezza che fabbricasse su questi episodi una identità fittizia, quella di un popolo vittima, di un patriottismo sempre buono, innocente, sempre penalizzato da nemici o da assalti stranieri.
Potrebbe accadere anche a noi quello che è accaduto a popoli che sono pronti a glorificare i propri martiri, ma che sul passato e sul proprio ruolo di attori non sanno dire nulla. Limitarsi ad elencare le nostre vittime incita a dimenticare quello che noi abbiamo fatto e a non provarne disgusto. Mi riferisco a quello che abbiamo fatto in Africa, nei Balcani, prima della strage delle foibe; crimini che - beninteso - non giustificano niente, ma che non possono essere ignorati. La salvaguardia delle memorie d'Europa è un patrimonio troppo importante perché lo si possa risolvere e dissolvere in una ricorrenza che è concepita semplicemente come una festa di partito (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-L'Ulivo, della Margherita, DL-L'Ulivo e Misto-Comunisti italiani - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare per dichiarazione di voto l'onorevole Gibelli. Ne ha facoltà.

ANDREA GIBELLI. Signor Presidente, il gruppo della Lega Nord Federazione Padana ha presentato una proposta di legge in materia, abbinata ad un'analoga proposta già approvata dal Senato, con un obiettivo diverso rispetto al dibattito che oggi sta animando l'Assemblea su questa sorta di revisionismo storico tra destra e sinistra, tra comunismo e fascismo.
Lo spirito che ha animato la nostra proposta di legge, che - ricordo - è stata sottoscritta da ben 103 parlamentari di diversi gruppi, aveva un altro obiettivo: quello di porre in rilievo, una volta per tutte, che dietro la caduta del muro di Berlino non vi è stata soltanto la sconfitta del comunismo storico proprio dell'Unione Sovietica o la sola vittoria dell'Occidente, inteso come insieme di nazioni che si opponevano al totalitarismo.
I colleghi del centrosinistra non si sottraggono all'imbarazzo storico di dover dimostrare, a distanza di poco più di un decennio, che avevano torto rispetto ad un passato che ancora pesa. Risale a qualche giorno fa quanto ha affermato l'onorevole D'Alema, il quale addirittura ringraziava il Santo Padre di aver portato al dissolvimento dell'Unione Sovietica: peccato che fino al 1989 lui e i suoi compagni di


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viaggio pensavano che, al di là di quel Muro, vi fosse qualcosa da salvare! Oggi, invece, la storia ha dimostrato altro.
Il gruppo della Lega Nord Federazione Padana si sottrae al confronto destra-sinistra che sta animando questo dibattito. Quello che a noi preme sottolineare è che dal 9 novembre 1989 si sono messe in moto non le libertà oggettive, che il provvedimento approvato dal Senato sta cercando di definire, ma i popoli, con il loro principio di autodeterminazione e con la loro capacità di rendersi liberi. Un'aspirazione continua che, tramite il principio di autodeterminazione, va oltre e supera il concetto di nazione e quello di nazionalismo. Di ciò si ha la prova proprio nei paesi dell'est, in particolare in Cecoslovacchia, nei quali si è registrata una maggiore coincidenza tra l'idea di Stato e quella di popolo, che parte da un principio che non viene ricordato dal provvedimento approvato al Senato. Mi riferisco al principio di identità, che è connaturato ad un popolo, a quell'idem sentire che consente alle rivoluzioni di abbattere i muri e di superare i totalitarismi ideologici che, in questa sede, non possono essere ridotti ad un antagonismo storico tra destra e sinistra, o tra fascismo e comunismo, o, ancora, tra ex fascisti ed ex comunisti.
In maniera molto più pertinente, noi abbiamo proposto una titolazione più articolata del provvedimento, ed essa sarà oggetto di valutazione in sede di esame degli emendamenti. Questa diversa articolazione è condivisa, lo ricordo soprattutto all'onorevole relatore, da ben 103 deputati.
Noi della Lega non abbiamo ritenuto di presentare emendamenti ad un provvedimento di cui accogliamo integralmente lo spirito, augurandoci che il suo iter sia agevole. Desidero soffermarmi, però, su una questione che è già stata indicata.
L'esame degli articoli ci fornirà l'occasione per approfondire il discorso relativo alla necessità, per le argomentazioni già esposte, di riportare la storia là dove i popoli l'hanno forgiata, attraverso il loro sacrificio, e di definire il «Giorno della libertà» come «Giorno della libertà e dell'indipendenza dei popoli europei», ponendo l'accento non sulle definizioni di libertà ideologiche, letterarie e filosofiche, come qualcuno ha tentato di fare, ma sulla coppia libertà-popolo come binomio inscindibile, come necessità storica che, attraverso l'autodeterminazione, modifica gli assetti istituzionali esistenti e ne definisce di nuovi, e come realtà che non è possibile definire in maniera statica, secondo lo schema del nazionalismo. La scelta della Lega Nord di intervenire con una propria iniziativa va esattamente in questa direzione.
La storia è un patrimonio che non può essere mediato dal revisionismo o da forme astratte di contrapposizione tra destra e sinistra. La storia non può essere asservita alla volontà di identificare in un giorno così importante - il 9 novembre - una festa di partito. D'altro canto, è inaccettabile la critica della sinistra relativamente alla necessità di consentire alle generazioni future di avere come riferimento un giorno per riflettere su quanto è accaduto in Europa fino al 1989. Negli interventi che hanno preceduto il mio si legge tutto l'imbarazzo di chi, in quest'aula, ancora tenta di dare una giustificazione astratta ad un comunismo il cui fallimento è stato decretato dalla storia: esso non ha retto né sul piano culturale né sul piano delle libertà, ed è stato bollato come disumano dalla storia stessa.
Oggi ci troviamo di fronte ad un bivio: o consentiamo ai popoli di riconquistare una posizione di centralità nel proprio percorso storico o definiamo il concetto di libertà in una maniera che finirebbe per essere assolutamente astratta ed improduttiva rispetto al significato anche storico che una parola così importante ha.
La nostra proposta è quella di affiancare al tema della libertà quello dell'indipendenza dei popoli europei. Attraverso la lotta dei popoli per la loro identità è stato possibile costruire un continente che ancora oggi stenta a riconoscere se stesso. Perché lo dico? Perché, mentre gli Stati, ancora soggetti al pericolo di una deriva nazionalista, tentano di costruire un'Europa burocratica e tecnocratica, i popoli ci chiedono - e fino ad oggi non siamo stati


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capaci di farlo! - di inserire in quella Costituzione tante volte evocata in quest'aula uno dei fondamenti di quest'Europa: quell'identità cristiana che ancora oggi è assente dalla memoria storica di questo continente. Sono proprio le comunità locali che ci chiedono di ricordare la storia in questi termini.
Qualcuno ha affermato, nel corso di tante discussioni svoltesi in quest'aula, che l'Europa non è soltanto il cristianesimo. Io ripeto che l'Europa è anche il cristianesimo: duemila anni di storia non possono essere dimenticati!
Quindi, è bene porre al centro dell'attenzione un evento storico molto importante accaduto il 9 novembre 1989, che ha aperto la strada non ad una nuova contrapposizione tra due blocchi, est ed ovest, ma alla possibilità di far fiorire nazioni che hanno una maggiore vicinanza con i concetti di identità e di libertà, che troppe volte, anche in quest'aula, sono rimasti inascoltati e che noi, invece, intendiamo ribadire nella giornata del ricordo dell'abbattimento del muro di Berlino. Per noi tutto ciò assume un diverso significato storico, poiché riguarda l'identità dei popoli, che non possono essere relegati all'interno di nazioni che, ancora in Europa, sono espressioni ottocentesche ed artificiali.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Montecchi. Ne ha facoltà.

ELENA MONTECCHI. Signor Presidente, quella in cui è stato abbattuto il muro di Berlino è stata una bellissima giornata, per tutti noi. Quelle brecce, quei giovani, quella folla simboleggiavano l'inizio di una nuova era. Per i cittadini del mondo è stata una giornata di vere emozioni. Si apriva una nuova era, densa di possibilità, di incognite e di nuove potenzialità per l'Europa. Molte di queste potenzialità, ancora oggi, non sono dispiegate e restano un punto molto problematico, come, ad esempio, l'emergere di nazionalismi come nuova forma identitaria.
Ci sono state forme di risposta al crollo delle statualità comuniste oppure la presenza, anche nell'ambito dei paesi dell'Unione, di nazioni rette da ristrette oligarchie o di dimensioni di piccole patrie. Come il collega Gibelli ha ricordato, queste autodeterminazioni dei popoli altro non sono che risposte identitarie chiuse, che determinano consistenti problemi al processo di unificazione europea.
Quel crollo ci ha dato la possibilità di arrivare alla costruzione dell'Europa unita, all'Europa dei 25, che ha avuto il suo punto culminante (a mio parere, ma non solo, si tratta del punto più alto dell'archiviazione delle vicende della guerra fredda) nella sigla della Costituzione europea a Roma, nell'ottobre del 2004. L'Europa dei 25 porta con sé anche la necessità, per gli intellettuali europei e per chi ha responsabilità pubbliche nei singoli paesi europei, di riflettere sulla storia di ogni singolo paese e come quella storia trovi un crocevia che guarda al futuro comune, quello dei 25 paesi. Non c'è dubbio, ad esempio, che la sensibilità, recentemente ricordata, della Presidente lituana, a nome del suo popolo, rispetto agli effetti dello stalinismo, delle pulizie etniche e dei gulag è profondamente diversa dalla sensibilità che hanno i paesi occidentali, che non sono stati toccati dal comunismo, ma che hanno vissuto la guerra fredda; tra questi, vi è l'Italia.
Ecco, dunque, una delle questioni che abbiamo cercato di porre in modo assolutamente tranquillo. Vorrei ricordare a chi continua a fare riferimento agli ex comunisti, che il partito comunista italiano, da quindici anni, non esiste più e molte persone, membri di questa Assemblea, non hanno mai vissuto la storia del partito comunista italiano e, dunque (lo ricordava qualche collega), non appartengono al patrimonio politico di classi dirigenti che sono qui rappresentate. Quindi, non si usino vecchie forme di propaganda, semplicemente i ricordi delle generazioni degli anni Settanta (i giovani fascisti, i giovani comunisti), perché tutto ciò appartiene ad una minorità, che certamente ha poteri in questo paese, ma è una minorità!


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Francamente, trascinare una nazione in un dibattito di questo genere rischia di essere piuttosto irresponsabile.
Vi è un tema, a mio parere, a nostro parere, che riguarda il modo con il quale questa nazione reca un contributo al processo di costruzione culturale dell'Europa; si tratta del rispetto delle libertà individuali, dell'affermazione della dignità della persona, della necessità che lo Stato democratico contenga anticorpi profondi contro il totalitarismo e del senso dell'inviolabilità e del rispetto dei corpi.
A proposito di autodeterminazione dei popoli, vorrei osservare che sta suscitando scalpore il fatto che cinque sorelle stiano sfidando l'IRA a Belfast; IRA che ha determinato connivenze e paure a seguito alla denuncia che costoro hanno fatto dell'assassinio del fratello: stanno diventando un caso. L'Irlanda è un paese che a pieno titolo fa parte dell'Unione europea e che non è ancora immune dalla violazione dei sacri principi del rispetto della dignità della persona, delle libertà individuali, delle differenze e dell'inviolabilità dei corpi.
Dobbiamo riflettere a fondo, per così dire in modo non peloso, su cosa abbiano significato le risposte che nell'ambito della guerra fredda l'impero sovietico ha dato nei momenti di crisi; cosa siano state le repressioni antisemite e le pulizie etniche degli anni cinquanta e sessanta e cosa siano stati i gulag.
Come ci si immunizza da tutto ciò se non si traccia un quadro preciso della storia dell'Europa? Dunque, perché il Governo italiano non ha contribuito stanziando fondi al fine di partecipare al gruppo di ricerca sui gulag? Un gruppo di ricerca internazionale al quale hanno aderito diversi paesi europei e che, capitanato dall'università di Stanford, consente, proprio grazie al contributo di diversi paesi dell'Europa occidentale, di avere un quadro scientifico di cosa sia accaduto; un gruppo che consentirà ai giovani studiosi di capire profondamente, fuori dalla propaganda, il dramma, la tragedia e la commistione tra repressione politica e - insisto - dimensione della pulizia etnica. Infatti, proprio ciò accomuna comunismo e stalinismo alle altre forme di totalitarismo.
Dunque, perché, come nazione, siamo colpevolmente assenti? E perché si propone l'istituzione di una solennità civile con una legge che stabilirebbe, unici in Europa, cerimonie commemorative e che prevedrebbe, altresì, circolari e direttive per le scuole? Cosa esattamente dovranno ricordare i nostri giovani studenti? E come si può pensare che i nostri giovani studenti guardino al futuro con la consapevolezza critica del passato se si stabilisce - mi sia consentito - una qualche forma di retorica di regime?
Ricordo che alle elementari non sopportavo la celebrazione di Cristoforo Colombo; non perché stessi dalla parte degli indiani ma perché il fatto storico celebrato mi veniva trasmesso in forma retorica. Il 12 ottobre era una solennità civile sicché il Ministero della pubblica istruzione diramava le sue circolari su come ricordare un grande italiano. Imparai ad apprezzare cosa accadde con la scoperta dell'America solo perché ebbi, molti anni più tardi, un grande professore che ci rese affascinante la materia.
No, colleghi, la nostra contrarietà all'istituzione di una nuova solennità non è legata all'imbarazzo circa il giudizio da dare sull'Europa del comunismo; è invece legata al fatto che questa proposta di legge, così com'è correttamente scritto nella relazione dei proponenti, nasce da una logica tutta interna e tutta nazionale - e, mi sia consentito, anche provinciale - tesa a rivisitare il novecento ad uso della polemica quotidiana. No, sulla polemica quotidiana siamo disposti a mostrare unghie, denti ed intelligenza.
Ma colpisce questo costante intreccio di passato e presente, effettuato da una classe dirigente che ha costantemente la testa rivolta al passato per legittimare il proprio presente; badate che ciò non esprime volontà di futuro.
Se si vuole dare un contributo, come nazione, alla storia d'Europa, noi siamo pronti: siamo favorevoli, infatti, a destinare risorse finanziarie agli istituti di


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ricerca, e siamo altresì disponibili a partecipare a pool di studi internazionali. Tuttavia, se si vuole insegnare anche in Italia, ancor più di quanto non lo sia oggi, il valore libertà - ma vorrei aggiungere anche la tolleranza -, e se si vuole che si abbia memoria e, insieme, capacità analitica e disponibilità a guardare al futuro (penso, soprattutto, alle giovani generazioni), non credo che siano queste le operazioni che servono.
Penso agli studenti ed agli insegnanti della scuola pubblica italiana, che dovranno ottemperare ad una legge, ricordando il 1989 attraverso le circolari. Credo che tali circolari prescrittive, frutto della volontà di una maggioranza parlamentare che cerca di ricostruire una genealogia storica per via politica, siano un problema.
Si tratta di un problema che riguarda anche il modo con il quale rispettiamo il dettato costituzionale di garantire la libertà della ricerca storica e dell'educazione. Tale principio costituzionale, infatti, non si rispetta istituendo, come si sta facendo, una miriade di solennità civili, che prevedono, fondamentalmente, una sorta di «storia di Stato»: si tratta del contrario di quel principio liberale cui molti di voi affermano di attenersi (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-L'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Garagnani. Ne ha facoltà.

FABIO GARAGNANI. Signor Presidente, vorrei ricordare che anch'io, a nome dei colleghi appartenenti al gruppo di Forza Italia, ho presentato una proposta di legge sulla celebrazione della memoria come quella testè discussa in questa sede. Preannuncio che sarò brevissimo, poiché mi riconosco in molti degli interventi già svolti dai colleghi della Casa delle libertà.
Vorrei innanzitutto ribadire che ci troviamo dinanzi ad un'esigenza di rispetto della verità, che abbiamo colto con profonda convinzione, di fronte ad una «congiura del silenzio» che, in questi anni, si è verificata anche e soprattutto nel nostro paese. Proprio perché la proposta di legge in esame prevede che dovranno essere tenute commemorazioni nelle scuole, è bene ricordare che nelle scuole italiane non sempre, ma molto spesso, in questi anni è stato steso, nella migliore delle ipotesi, un «velo di silenzio» proprio in ordine alle vicende accadute nell'Est europeo.
L'Italia presenta proprio questa peculiarità. Non intendo fare il processo alle classi dirigenti attuali, tuttavia rimane il fatto che, fino a poco tempo fa, in Italia esisteva il più grande partito comunista europeo, e questo partito comunista, attraverso numerosi suoi dirigenti - l'ho sentito con le mie orecchie, poiché provengo dalla «bassa» bolognese -, parlava, fino a qualche decennio fa, di «superiorità morale» dell'Est europeo.
Allora, di fronte alla dimenticanza che ha caratterizzato le milioni di vittime dell'Est europeo, una ricorrenza come questa, celebrata soprattutto nelle scuole, riveste un alto significato morale. Ciò perché non indichiamo soltanto tale ricorrenza, ma ricordiamo anche la vicenda della Resistenza, anche se, sulla Resistenza stessa - a proposto di commemorazioni civili e di enfatizzazione -, ci sarebbe molto da dire. Infatti, occorrerebbe ricordare, accanto al rispetto verso coloro che si batterono veramente per la libertà contro il nazifascismo, anche coloro che si batterono non certo per la libertà, ma per instaurare un regime analogo a quello nazifascista, se non peggiore.
Anche ciò costituisce un fatto che credo debba indurci a riflettere, come pure deve indurci a riflettere ciò che avvenne negli anni 1945-1948 in Emilia-Romagna, nonché in altre zone del Nord d'Italia, una volta cessata la guerra civile, in nome del desiderio di instaurare un regime che nulla aveva a che fare con le idee di libertà e di tolleranza, perché si rifaceva all'esperienza dell'Est europeo e dello stalinismo.
Di fronte a ciò, credo che la proposta di legge in esame, come ho già detto, abbia un alto valore morale: si tratta, infatti, di insegnare alle giovani generazioni a battersi per la libertà, ovunque e comunque,


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ed a ricordare quanto è avvenuto in una parte dell'Europa. Ciò perché vorrei ribadire che, in questa parte d'Europa, in nome dell'arco costituzionale, oppure di esigenze politiche, molto spesso si è taciuto buona parte dei misfatti commessi. Se le giovani generazioni possono apprendere tali esperienze e fare tesoro delle cose orrende che si sono viste, credo che ciò rappresenti un elemento di crescita civile per il nostro paese, e non certo un'opera di demonizzazione, di colpevolizzazione o di bieca strumentalizzazione politica.
Di fronte a ciò, dobbiamo, con comprensione, farci carico del problema, che fa riferimento anche ad un'esigenza profondamente sentita in Europa e in Italia: è vero, la guerra fredda è finita, ma nel suo perdurare abbiamo verificato - soprattutto nel nostro paese -, e fino in fondo, come essa abbia caratterizzato le divisioni ed anche la coscienza civile del nostro popolo. Dobbiamo superare tali momenti, che superati non lo sono del tutto, perché vi è una parte dello schieramento politico che, ancora oggi, tende a ribadire «quel di più in positivo» che ha caratterizzato l'esperienza del socialismo reale! Dobbiamo allora avere il coraggio di rammentare alcuni fatti. Basti citare soltanto ciò che è avvenuto, fino a quattro o cinque anni fa nella redazione dei libri di testo di storia per le scuole medie superiori, in cui, accanto ad una vulgata resistenziale anche troppo enfatizzata, che taceva fatti di sangue molto dolorosi e gravi e di cui non abbiamo mai parlato, vi era un ridimensionamento dei crimini del socialismo reale, dell'Unione Sovietica di Stalin e di altri paesi. Si tratta di un ridimensionamento che faceva - e fa - vergogna e che non depone ad onore di coloro che hanno insegnato e di coloro che hanno scritto tali libri.
Si tratta pertanto di ripristinare la verità storica, non soltanto ad usum Delphini o per farsi carico di una propaganda politica che oggi non avrebbe nemmeno senso. Si tratta, ripeto, di rispondere ad un'esigenza di rispetto della verità e delle vittime, per tentare di ricomporre nella verità stessa e nella chiarezza le vicende storiche che hanno caratterizzato il nostro paese. Ancora oggi, si parla della resistenza, delle vittime del nazismo e di quelle del comunismo. Credo vi sia una data che dovrebbe metter d'accordo tutti: il 18 aprile 1948, che, molto più del 25 aprile 1945, è servito ad unificare il nostro paese nella difesa della libertà e della democrazia, facendo superare tutta una serie di violente contraddizioni.
Concludendo, non capisco - e chiedo scusa al Presidente se ho un po' abusato del tempo a mia disposizione - le reazioni del centrosinistra. Se si legge il provvedimento in esame si comprende ciò che è scritto e ciò che noi proponiamo. Questa è la ragione per cui noi, come gruppo di Forza Italia, assieme a tutta la maggioranza, ci sentiamo in dovere di approvare questo provvedimento, proprio perché corrispondente pienamente a sentimenti che crediamo siano non solo nostri, ma della grande maggioranza del popolo italiano.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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