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e punitivo, saccheggiamento dei beni, setacciamento sistematico delle città, rastrellamenti;
tra i militari e tra i civili dei centri abitati circostanti -:
il 6 aprile 1941 l'esercito italiano e quello tedesco invasero la Jugoslavia ed in seguito a tale invasione la Slovenia venne smembrata fra Italia (il territorio che diventa provincia di Lubiana) e Germania. Per quanto riguarda la Croazia il 18 maggio Aimone di Savoia, diventa re di Croazia, con il collaborazionista Ante Pavelic come primo ministro;
il Regio Esercito praticò - scrive lo storico Carlo Spartaco Capogreco nel saggio «I campi del Duce» (Einaudi 2004) - l'internamento dei civili su larga scala soprattutto nelle aree della Jugoslavia occupate o annesse nel 1941, dove mise in atto una strategia che spesso mirava a fare «piazza pulita» delle popolazioni locali di intere zone abitate. Una prassi questa che caratterizzò le frequenti «operazioni di polizia» volte al controllo del territorio e si abbinò agli speciali «cicli operativi» antipartigiani, trasformandosi talvolta in vera e propria deportazione di massa, in violazione delle più basilari norme del diritto internazionale. Inoltre, contravvenendo alla convenzione sulla prigionia di guerra, il Regio Esercito sottopose a «internamento civile» anche un gran numero di militari dell'ex esercito jugoslavo;
i comandi militari italiani esercitarono una politica della violenza che si esplicò nelle più svariate forme: esecuzioni sommarie sul posto, incendi di paesi, deportazioni di massa, esecuzioni di ostaggi, rappresaglie sulle popolazioni a scopo intimidatorio
in questo contesto, prese corpo il progetto di deportazione totale della popolazione, con il trasferimento forzato degli abitanti della Slovenia, progetto che i comandi discussero con Mussolini in un incontro a Gorizia il 31 luglio 1942;
in Jugoslavia l'esercito italiano ricorse all'internamento dei civili nel quadro di un'occupazione violenta con l'obiettivo di allontanare dalle principali località gli individui che potevano aiutare i partigiani o agire in prima persona contro gli occupanti italiani, perseguendo spesso anche il fine della «sbalcanizzazione» del territorio;
nel clima di repressione instauratosi con l'occupazione militare nel territorio jugoslavo, per il regime fascista nacque inevitabilmente l'esigenza di creare delle strutture per il concentramento di un gran numero di civili, deportati da quelle regioni;
nei territori jugoslavi annessi le autorità italiane si servirono per l'internamento dei civili di diversi campi di concentramento. Le strutture principali furono tre: il campo di Arbe (Rab) per le esigenze del quadrante adriatico settentrionale (il Fiumano e la Slovenia); il campo di Melada (Molat) per l'area centrale (la Dalmazia); i campi integrati di Mamula e Prevlaka per il quadrante adriatico meridionale (principalmente le Bocche di Cattaro, territorio montenegrino che venne accorpato alla Dalmazia annessa all'Italia come «Governatorato civile» nel 1941);
il campo di maggiori dimensioni - quello allestito sull'isola di Arbe - fu sottoposto all'intendenza della II Armata (dal 5 maggio 1942 denominata «Supersloda»). Da essa dipesero pure, per il movimento degli internati, cinque grandi campi per internati jugoslavi ubicati in Italia: Gonars e Visco nella Venezia Giulia; Monigo e Chiesanuova in Veneto; Renicci in Toscana;
il campo di Arbe fu aperto nel luglio del 1942 ed ospitò complessivamente circa 15.000 internati tra sloveni, croati, anche ebrei. In poco più di un anno di funzionamento (il campo cessò di esistere l'11 settembre del 1943), il regime di vita particolarmente duro causò la morte di circa 1.500 internati. Vennero messi in funzione vari campi satellite, uno dei quali era destinato esclusivamente a donne e bambini: le testimonianze affermano che fosse situato ai limiti di una palude pestilenziale e che le latrine traboccassero in caso di forti temporali, allagando i campi. Gli internati vivevano in tende militari per nulla impermeabili e dormivano su paglia, con una leggera coperta: il tutto infestato da pidocchi e cimici;
il caso del campo di concentramento di Arbe (in croato Rab), una delle isole che costellano il lato orientale dell'Adriatico (oggi territorio della Repubblica di Croazia), è uno degli esempi più tragici dei crimini italiani commessi nei territori occupati della Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale;
dipendeva invece dal Governatorato civile della Dalmazia, il campo di Melada (Molat), secondo per dimensioni tra quelli allestiti nei territori jugoslavi. Dal V Corpo d'Armata furono invece controllati i campi minori, prevalentemente di transito, di Buccari (Bakar), Porto Re (Kraljevica), e dal XVIII Corpo d Armata il campo di transito di Scoglio Calogero (Osljak); i due campi di Mamula e Prevlaka dipesero, invece, dal VI Corpo d'Armata. Numerosi civili jugoslavi furono internati, inoltre, nei campi di concentramento sottoposti alla IX Armata o «Superalba» («Comando Superiore Albania»), allestiti ad Antivari (nel Montenegro) e a Kukes, Klos, German, Kavaje, Puke, Scutari e Durazzo (in Albania);
nel dicembre 1941 vicino ad Udine il campo di concentramento di Gonars venne aperto per far fronte alla necessità di deportare i civili della Jugoslavia. A Gonars in una baracca potevano essere ospitati fino a 130 detenuti che dovevano vivere in condizione di igiene proibitive;
la vicenda di questo campo è emblematico del modo in cui questi crimini siano praticamente assenti dalla topografia della nostra memoria nazionale e di come il silenzio in Italia contrasti con la memoria viva dei luoghi e delle popolazioni coinvolte;
da un saggio pubblicato nel 2002 dagli storici Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer «La questione dei criminali di guerra italiani e una Commissione d'inchiesta dimenticata» risulta che dalla Jugoslavia veniva reclamata l'estradizione di 729 presunti criminali di guerra italiani -:
se il Governo abbia notizia di quanti presunti responsabili di detti crimini furono estradati e se e quali tribunali celebrarono processi a loro carico.
(3-03176)
non si può escludere che tra i tanti (sui 180) iracheni e africani sbarcati in Sicilia vi siano terroristi o elementi facenti parte delle organizzazioni terroristiche;
fino a quando si consentiranno gli sbarchi sulle coste della Sicilia, invece di intercettarli e trainarli nei luoghi di partenza;
se non vi sarà fermezza, con il bel tempo, approderanno a miglia gli africani e gli asiatici, tra i quali non si sa quanti possano essere i militanti del terrorismo -:
se intendano adottare iniziative, anche normative, volte a non permettere più gli sbarchi, anche al fine di garantire la sicurezza nazionale.
(4-09362)
l'11 marzo scorso, in un'intervista apparsa sul quotidiano Unione Sarda, Fabio C., 27 anni, ex caporale dell'esercito ammalatosi di tumore al testicolo nel 2000, un anno dopo aver partecipato a esercitazioni militari nei poligoni militari di Capo Teulada e Perdasdefogu in Sardegna, residente a Catanzaro, e che ricorrerà al Tar della Calabria per ottenere il riconoscimento della causa di servizio, ha testualmente affermato: «Durante le esercitazioni prendevamo i proiettili a mani nude. Di protezioni, di manovre da compiere in sicurezza non ho mai sentito parlare. Mi sono ammalato quand'ero sotto le armi e sono stato scaricato. L'esercito si è ricordato di me solo in un'occasione. Mi viene da ridere per non piangere. Le autorità militari si sono degnate di battere un colpo soltanto quando hanno decretato la mia morte. I miei genitori hanno ricevuto un telegramma di condoglianze, con tanto di riferimento all'uranio impoverito»;
«dopo il tumore al testicolo» - ha proseguito il caporale Fabio C. nella suddetta intervista - «è spuntato quello al polmone. Ho fatto diversi cicli di chemioterapia, sono stato operato a Milano. Ho ricevuto la lettera con cui sono stato riformato per malattia nel dicembre del 2001, appena tre giorni prima della scadenza della mia ferma. Poi è calato il silenzio. Tanti saluti e neanche un grazie. L'amarezza per il trattamento ricevuto mi ha spinto a mettere l'Esercito fra le cose da dimenticare. Sono geometra, ora lavoro in un'impresa di costruzioni. Devo capire come e perché è nato il mio calvario, quello di tanti soldati. A me tutto sommato è andata bene. Altri militari impegnati in attività simili alle mie sono morti nel giro di pochi mesi»;
a parere dell'interrogante, le cose raccontate dal giovane caporale calabrese destano preoccupazione e angoscia;
ormai le denunce si moltiplicano di giorno in giorno e testimoniano che nei poligoni si svolgono continue esercitazioni con uranio impoverito che causano vittime
se non ritenga urgente e opportuno intervenire, presso i soggetti interessati, al fine di fare piena luce su quanto denunciato dal caporale sopra menzionato, allo scopo di affrontare una volta per tutte la situazione e quali atti intenta adottare al fine di appurare in via definitiva i rischi che anche l'attività dei poligoni arreca all'ambiente, ai militari e ai cittadini.
(4-09377)