Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 386 del 10/11/2003
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Discussione del disegno di legge: S. 1281 - Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa (approvato dal Senato) (3890) e delle abbinate proposte di legge: Peretti; Perrotta (1160-2574) (ore 18,35).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge, già approvato dal Senato: Modifiche ed integrazioni


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alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa; e delle abbinate proposte di legge d'iniziativa dei deputati: Peretti; Perrotta.
La ripartizione dei tempi è pubblicata in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 3890)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra-l'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Il relatore, onorevole Bressa, ha facoltà di parlare.

GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore. Signor Presidente, il disegno di legge oggi all'esame dell'aula - modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa - è un provvedimento particolarmente complesso. Io non leggerò integralmente la relazione che accompagna il disegno di legge rimandando al testo scritto l'illustrazione di quelle parti che non tratterò direttamente. Approfondirò, invece, quegli articoli che ritengo essere maggiormente significativi per le novità che introducono.
Una legge sul procedimento amministrativo serve alla salvaguardia dello Stato di diritto nell'esecuzione della legge, all'emanazione concreta e razionale di decisioni materialmente corrette da parte della pubblica amministrazione, all'ordinata partecipazione di coloro che vengono colpiti dall'azione amministrativa, alla preparazione della decisione. Questo era il pensiero di un giurista tedesco riportato durante l'esame di quella che poi divenne la legge n. 241 del 1990. Il presente provvedimento, a distanza di 13 anni dall'entrata in vigore di questa fondamentale legge, si propone di completare e di integrare la suddetta legge alla luce dell'esperienza applicativa di questi anni e per compiere ulteriori passi verso l'obiettivo che aveva ispirato il legislatore del 1990. L'obiettivo è quello di instaurare il rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione sempre più ispirato da principi di efficienza, economicità e imparzialità, un rapporto, cioè, che pur partendo dalla consapevolezza del peculiare interesse che la pubblica amministrazione deve perseguire nel suo agire si avvicini sempre più ad un modello paritario dei rapporti tra cittadini ed amministrazioni. È significativo che il presente provvedimento, analogamente a quanto avvenne in occasione dell'approvazione della legge n. 241 del 1990, sia all'esame del Parlamento nello stesso momento in cui si discute nelle medesime aule della esigenza di modifiche costituzionali tese, in linea di principio, a rendere più efficienti le istituzioni anche attraverso un nuovo assetto dei rapporti tra gli organi costituzionali. Non può, infatti, non condividersi ancora la tesi esposta dall'allora presidente della I Commissione affari costituzionali, che al momento dell'approvazione della legge n. 241 del 1990 affermò che la democrazia politica si rinvigorisce anche e soprattutto attraverso questo tipo di interventi legislativi oltre che mediante le riforme dei «rami alti» del sistema costituzionale. Un corretto e trasparente rapporto tra la pubblica amministrazione ed i cittadini è, infatti, un problema di democrazia politica, non meno fondamentale della riforma del bicameralismo, della forma di Governo o delle leggi elettorali.
Il testo del disegno di legge del Governo, approvato con modificazioni dal Senato, da cui trae origine il testo ora all'esame dell'Assemblea, riprende a sua volta l'impostazione contenuta nel progetto di legge n. 6844 approvato dalla Camera nel corso della XIII legislatura con voto quasi unanime ma successivamente decaduto, una volta trasmesso al Senato, per la fine della legislatura. È anche il frutto di un lavoro di critica, approfondimento


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e sistemazione effettuato dalla commissione per l'esame di iniziative legislative in tema di attività amministrativa e tutela del cittadino, costituita con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2001 e presieduta dal ministro per la funzione pubblica, di cui fa parte anche il professor Vincenzo Cerulli Irelli già presentatore della proposta di legge n. 6844 nel corso della XIII legislatura.
La I Commissione ha dedicato all'esame del provvedimento un approfondito e attento lavoro istruttorio consistente in sette sedute in sede referente e cinque riunioni del Comitato ristretto. La Commissione, con lo svolgimento di una serie di audizioni informali, ha aperto anche un proficuo confronto e dialogo con il mondo accademico e con esponenti della magistratura amministrativa che ha dato la possibilità alla Commissione stessa di apportare modifiche significative rispetto al testo trasmesso dal Senato, pur mantenendo la condivisione sull'impianto generale e sui principi di fondo dell'intervento normativo.
I tratti essenziali caratterizzanti il testo esaminato dalle Camere nella XIII legislatura sono confermati dal presente provvedimento: il richiamo al principio di legalità sul quale si fonda tutta l'azione amministrativa; il riconoscimento della possibilità per le pubbliche amministrazioni di utilizzare gli strumenti di diritto privato anche nel perseguimento dei propri fini istituzionali; la compressione dell'area delle invalidità giuridiche degli atti amministrativi mediante l'individuazione di vizi a carattere meramente formale non invalidanti.
Il provvedimento è completato da modifiche che incidono sull'istituto della conferenza dei servizi e sul diritto all'accesso ai documenti amministrativi e da una norma relativa all'ambito di applicazione delle disposizioni della legge n. 241 del 1990, alla luce del nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione.
Venendo all'illustrazione puntuale del contenuto del provvedimento, non si può non rilevare come la modifica proposta dall'articolo 1 del provvedimento ora all'esame dell'Assemblea all'articolo 1 della legge n. 241 del 1990 disveli tutto il filo conduttore del complessivo intervento normativo che si propone.
L'intervento riformatore, infatti, intende rispettare l'impianto originario della legge n. 241, apportando ad esso quelle correzioni ed integrazioni la cui necessità si è resa evidente, secondo le elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali nei 13 anni della sua applicazione. Tutto ciò, anche al fine di adeguarne il contenuto alle innovazioni del sistema costituzionale e normativo nel frattempo intercorse.
Già dalle modifiche introdotte dall'articolo 1 si manifesta, quindi, la filosofia di fondo della riforma che intende definire principi e norme generali ulteriori sull'attività amministrativa, per favorire un rapporto sempre più paritario e garantistico tra cittadini e amministrazione.
Il comma 1, lettera a), dell'articolo in oggetto riformula, infatti, il comma 1 dell'articolo 1 della legge n. 241 del 1990, prevedendo una riscrittura dei principi generali dell'attività amministrativa ivi enunciati, con lo scopo di arricchirne il catalogo, nel senso della continuità di principio.
Ferma restando l'affermazione del principio di legalità (l'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge), ai criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità, che reggono l'azione amministrativa ai sensi del vigente comma 1, viene aggiunta, unitariamente ai principi del diritto comunitario, la trasparenza, che, come è stato chiarito durante le audizioni, è principio diverso dalla pubblicità ed è la base per un corretto rapporto con il cittadino, in grado di determinare una diminuzione del tasso di contenzioso.
Durante l'esame in Commissione, si è deciso di non allargare ulteriormente il catalogo dei principi espressamente richiamati nell'articolo 1 della legge n. 241, come era, invece, previsto anche nel testo approvato dal Senato, non perché non se ne condivida il contenuto, bensì perché si è ritenuto che nell'articolo 1 di una legge


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fondamentale, quale è la legge n. 241 del 1990, si debba privilegiare la sintesi e perché molti dei principi che ci si proponeva di elencare espressamente sono già contenuti indirettamente, mediante il richiamo ai principi dell'ordinamento comunitario.
Si ricorda in proposito che il generico richiamo recato nella novella ai principi del diritto comunitario, quale fonte di disciplina dell'azione amministrativa, è già contenuto nella legge n. 59 del 1997 che prevede all'articolo 20, tra i principi informatori dell'ampia attività di delegificazione e di semplificazione di procedimenti amministrativi lì preconizzata, anche l'adeguamento della disciplina sostanziale e procedimentale dell'attività e degli atti amministrativi ai principi della normativa comunitaria.
Rilevante dal punto di vista sistematico-ordinamentale è il comma 1, lettera b), che aggiunge il comma 1-bis all'articolo 1 della legge n. 241. Il nuovo comma 1-bis introduce il principio generale secondo cui la pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, può agire secondo le norme del diritto privato, quando la legge non disponga altrimenti. Si tratta del riconoscimento normativo della possibilità che le amministrazioni pubbliche operino attraverso gli strumenti del diritto privato, anche nel perseguimento dei propri fini istituzionali consistenti nella cura concreta degli interessi pubblici ad essi affidati dalla legge.
La nuova disposizione non incide, pertanto, sulla natura della funzione amministrativa che rimane finalizzata al miglior perseguimento dell'interesse pubblico, ma soltanto sulla sua forma che si potrà esprimere, quando non è richiesta necessariamente l'adozione di atti di natura autoritativa, attraverso i moduli dell'agire consensuale, pur restando assoggettata ai principi di carattere pubblicistico, enunciati nel nuovo comma 1 dell'articolo 1 soprarichiamati.
La disposizione esprime la tendenza dell'ordinamento verso il superamento del dogma che, storicamente, attribuiva all'amministrazione il dovere di agire, mediante poteri di imperio ed atti unilaterali. In tal senso, la riforma si inquadra nelle moderne tendenze di privatizzazione, volte a ridimensionare le connotazioni pubblicistiche dell'amministrare e si configura non soltanto come una scelta tecnica, ma anche come una scelta culturale ed istituzionale, volta ad incentivare un modello paritario e non gerarchico nei rapporti tra i cittadini e le amministrazioni.
Preme alla Commissione sottolineare tutto ciò, anche se, dopo un serrato dibattito e confronto, si è privilegiata una formulazione della norma diversa da quella approvata al Senato.
Attraverso l'inserimento di un nuovo comma 1-ter all'articolo 1 della legge n. 241 del 1990 la Commissione intende garantire inoltre che anche i privati che siano preposti all'esercizio di attività amministrative debbano assicurare il rispetto dei principi di cui al comma 1.
Questa è indubbiamente una significativa novità: la pubblica amministrazione può agire secondo le norme del diritto privato quando la legge non disponga altrimenti. Si tratta di una norma che trova i suoi precedenti già nell'articolo 106 dell'atto Camera n. 3931 votato dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, nonché nell'articolo 2 dell'atto Camera n. 6844 approvato dalla Camera dei deputati il 25 ottobre 2000, poi decaduto per la fine della XIII legislatura, che consente alle amministrazioni pubbliche di operare generalmente secondo le norme del diritto privato e di realizzare quindi i propri compiti istituzionali anche mediante moduli negoziali.
Quella operata dalla norma in esame non è soltanto una scelta tecnica, come abbiamo appena ricordato, ma anche una scelta culturale e politica. Si accoglie un principio tendenziale dell'attuale ordinamento che aspira al superamento del vecchio dogma che attribuiva in generale alla pubblica amministrazione il dovere di agire mediante poteri di imperio e attraverso atti unilaterali.
Nel regime tracciato dalla nuova norma, ai fini dell'esercizio dell'azione amministrativa, il modello pubblicistico e


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quello negoziale diventano intercambiabili, sempre che la loro reciproca sostituzione non sia vietata espressamente sul piano legislativo e che, nel caso concreto, tanto al provvedimento quanto al negozio possa riconoscersi eguale capacità tecnica per il conseguimento degli effetti al quale l'azione amministrativa è preordinata.
Soprattutto la possibilità che la pubblica amministrazione possa utilizzare lo strumento negoziale in via alternativa rispetto al provvedimento unilaterale resta sempre finalizzata al miglior perseguimento dell'interesse pubblico, posto che l'agire consensuale è rilevante nell'ottica funzionale e perciò sul fronte della migliore realizzazione del fine pubblico.
Questa immanente funzionalizzazione dell'attività amministrativa produce delle conseguenze: l'attività negoziale di un'amministrazione e la sua fungibilità con gli strumenti pubblicistici dell'azione restano condizionate al rispetto dei principi generali, segnatamente di rango costituzionale.
In primo luogo, la sostituzione fra atto amministrativo e negozio non può incidere sui principi di imparzialità e buon andamento ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione e sulle loro dirette derivazioni: la funzionalizzazione del potere, l'economicità del suo esercizio, che assoggetta anche l'attività negoziale al controllo e alla giurisdizione della Corte dei conti; la ragionevolezza del suo esercizio che fa escludere azioni discriminatorie non supportate da adeguate istruttorie; la trasparenza e la pubblicità che accompagnano la scelta e l'utilizzo del modulo negoziale e quant'altro. Anche quando agisce mediante moduli negoziali, all'amministrazione non può quindi riconoscersi un ambito di piena autonomia.
In secondo luogo, l'intercambiabilità fra strumenti pubblici e privati dell'azione amministrativa deve ispirarsi al principio generale che risulta da una combinazione tra il principio di autonomia negoziale fondato sull'articolo 2 e sull'articolo 41 della Costituzione e il principio della parità di trattamento giuridico di tutti i soggetti dell'ordinamento assicurato dall'articolo 3 della la Costituzione, secondo il quale l'area dei poteri amministrativi, in quanto derogatoria della disciplina di diritto comune, deve essere contenuta nei limiti dello stretto indispensabile, secondo criteri di proporzionalità. Questo principio vale tanto per il legislatore, tendendo all'eliminazione della normazione pubblicistica eccessivamente pervasiva rispetto alle attività private, quanto per l'interprete e l'amministrazione agente, come limite all'utilizzo in concreto di strumenti eccessivamente limitativi della sfera privata.
Gli articoli da 7 a 12 del provvedimento in esame apportano modifiche di rilievo alla disciplina delle conferenze di servizi recata dagli articoli 14 e seguenti della legge n. 241 del 1990. L'articolo 8, in particolare, diviso in tre lettere, interviene sull'articolo 14-bis della legge n. 241 del 1990, che disciplina il ricorso alla conferenza di servizi cosiddetta preliminare per la realizzazione di progetti di particolare complessità e di opere pubbliche di interesse pubblico.
La disciplina viene espressamente riferita anche alla realizzazione di insediamenti produttivi; la richiesta di convocazione della conferenza di servizi deve essere documentata, se non da un progetto preliminare, almeno da uno studio di fattibilità; tra i cosiddetti interessi sensibili meritevoli di tutela costituzionale, specificamente elencati al comma 2 - tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o della salute -, è inserita anche la tutela della pubblica incolumità (lettera b); la particolare procedura prevista nell'ipotesi in cui, in sede di conferenza di servizi, emerga il dissenso delle amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili, è estesa alla conferenza preliminare.
Su questo ultimo aspetto, pur mantenendo delle perplessità di fondo sull'estensione di tale procedura anche alle ipotesi di conferenza di servizi preliminare, la Commissione, modificando il testo approvato dal Senato, ha ritenuto opportuno prevedere la sua applicazione non solo per l'ipotesi di dissenso espresso dall'amministrazione preposta alla tutela della pubblica incolumità, con riferimento alle


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opere interregionali, ma anche al dissenso espresso da quelle altre amministrazioni preposte alla tutela di tutti gli altri interessi sensibili previsti dalla normativa generale in tema di conferenza di servizi (lettera c).
Le modificazioni apportate dall'articolo 9, suddiviso in otto lettere, all'articolo 14-ter della legge n. 241 del 1990 rispondono principalmente a finalità di snellimento procedurale.
L'articolo 10 modifica ed integra in misura rilevante la disciplina recata dall'articolo 14-quater della legge n. 241 del 1990 relativa all'espressione del dissenso da parte di una o più amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi e agli effetti di tale dissenso sul procedimento. Le innovazioni proposte sono dichiaratamente finalizzate ad integrare l'elenco degli interessi sensibili costituzionalmente protetti, in relazione ai quali si prevede che la conferenza di servizi non possa superare il motivato dissenso dell'amministrazione preposta alla relativa tutela, e che tale dissenso determini la rimessione della decisione ad altra, superiore istanza; a ridefinire l'individuazione degli organi chiamati ad assumere la determinazione sostitutiva, adeguandola alla nuova ripartizione di competenze tra i diversi livelli di governo introdotta dalla riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione; a coordinare, secondo criteri di snellimento, tempi e modalità delle relative procedure. Il testo in esame attribuisce fra l'altro alla Conferenza Stato-regioni ed alla Conferenza unificata competenze decisionali sulle materie in oggetto.
L'articolo 13 del disegno di legge prevede l'inserimento di un nuovo capo - il IV-bis - nella legge n. 241 del 1990. Si tratta di un capo relativo all'efficacia ed invalidità del provvedimento e della revoca e del recesso dai contratti da parte della pubblica amministrazione.
Il nuovo articolo 21-bis della legge n. 241 del 1990 interviene in materia di efficacia degli atti amministrativi disciplinando il profilo della comunicazione dei provvedimenti. Viene prevista la regola secondo la quale gli atti, con effetti limitativi della sfera giuridica dei destinatari, acquistano efficacia nei confronti di ciascun destinatario con la comunicazione allo stesso.
Al fine di tutelare il principio della certezza dell'azione amministrativa, durante l'esame in Commissione, si è previsto comunque che la comunicazione possa essere effettuata anche nelle forme per la notifica agli irreperibili nei casi previsti dal codice di procedura civile e che qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, l'amministrazione possa provvedere mediante forme di pubblicità idonee, di volta in volta stabilite dall'amministrazione medesima.
Il provvedimento non avente carattere sanzionatorio può contenere una motivata clausola di immediata efficacia. I provvedimenti cautelari ed urgenti sono immediatamente efficaci. La disposizione non incide sulla disciplina dei termini procedimentali che resta quella stabilita dalle leggi e dai regolamenti di settore.
Si prevede, inoltre, che per tutti i provvedimenti non aventi carattere sanzionatorio si possa apporre una clausola motivata d'immediata efficacia e che i provvedimenti cautelari ed urgenti siano immediatamente efficaci. La disposizione in commento rappresenta un importante rafforzamento del profilo della trasparenza dell'azione amministrativa e degli istituti di difesa del cittadino destinatario di un provvedimento limitativo della sua sfera giuridica.
Questa è stata una questione lungamente dibattuta in Commissione. La disposizione che prevede che i provvedimenti a contenuto restrittivo acquistino efficacia soltanto al momento della loro comunicazione ai destinatari integra il vigente articolo 3 della legge n. 241 del 1990, che già prevede l'obbligo di comunicare all'interessato la decisione amministrativa. Si tratta di un importante rafforzamento del profilo della trasparenza dell'azione amministrativa e degli istituti di difesa del cittadino destinatario di un


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provvedimento limitativo della propria sfera giuridica. La disposizione si inserisce, quindi, a pieno titolo nel solco del processo di accentuata modernizzazione che coinvolge il diritto amministrativo da ormai più di un decennio.
Fino agli anni sessanta era indiscussa la concezione cosiddetta potestativa del provvedimento, in base alla quale la decisione amministrativa produceva i suoi effetti tipici al momento e per il solo fatto della sua adozione, conclusiva del procedimento. Poiché l'attività di partecipazione degli interessati restava del tutto estranea alla struttura del provvedimento amministrativo, all'istituto della comunicazione del provvedimento ai suoi destinatari era tradizionalmente negata la funzione integrativa dell'efficacia dell'atto amministrativo, rilevando essa tutt'al più come strumento per attivare le garanzie difensive, rappresentando cioè il termine a quo per l'impugnazione.
La successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha trasformato i privati, da passivi fruitori della funzione pubblica, sempre più in protagonisti della formazione della decisione amministrativa, ai quali la stessa deve essere comunicata...

PRESIDENTE. È lunga la serata, onorevole Bressa, dunque, la invito a concludere.

GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore. Presidente, non è un mio desiderio tirarla per le lunghe, ma si tratta di un provvedimento...

PRESIDENTE. Ho capito, ma tutti i provvedimenti sono uguali. Per me è uguale. Il tempo è terminato. Concluda il suo intervento, poi, se vuole, la restante parte può consegnarla per la pubblicazione in calce al resoconto stenografico.

GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore. Concludo, dunque, questo periodo che è particolarmente importante, poi consegno. È importante non per me, quanto per l'interpretazione che ne può essere data...

PRESIDENTE. Intanto, la sua relazione resta agli atti. Saranno i giuristi a valutarlo, successivamente.

GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore. Mi lascia concludere il periodo?

PRESIDENTE. Sì, ha ancora un minuto di tempo.

GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore. La successiva elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha trasformato i privati, da passivi fruitori della funzione pubblica, sempre più in protagonisti della formazione della decisione amministrativa, ai quali la stessa deve essere comunicata, segnatamente laddove essa abbia contenuto limitativo della loro sfera giuridica attraverso la creazione di obblighi positivi o negativi ovvero estinguendo o limitando poteri, diritti o facoltà.
Si è così consolidata, in sede teorica, la nozione di atto ricettizio, individuato come quel provvedimento a comunicazione necessaria, ossia quel provvedimento che, per la sua incidenza negativa sugli interessi dei destinatari, prima di poter svolgere i propri effetti tipici ed essenziali, deve essere necessariamente portato alla conoscenza degli stessi destinatari onde consentirne l'attenuazione delle conseguenze afflittive o di evitare gli ulteriori pregiudizi derivanti dall'esecuzione del suo contenuto precettivo.
Chiedo alla Presidenza l'autorizzazione in calce al resoconto stenografico della seduta odierna della restante parte del mio intervento.

PRESIDENTE. La Presidenza lo autorizza sulla base dei consueti criteri. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

LEARCO SAPORITO, Sottosegretario di Stato per la funzione pubblica e il coordinamento dei servizi di informazione e sicurezza. Il Governo si riserva di intervenire in sede di replica.


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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Marone. Ne ha facoltà.

RICCARDO MARONE. Signor Presidente, come ho già avuto modo di dichiarare in Commissione, affronto con grande rispetto e timore le modifiche alla legge n. 241 per due ragioni. In primo luogo, perché questo paese non era mai riuscito a dotarsi di una legge generale sul procedimento amministrativo (ci è riuscito solo nel 1990); in secondo luogo, perché uno degli ispiratori e maggiori protagonisti di questa legge fu il compianto professor Mario Nigro, uno dei grandi maestri del diritto amministrativo. Credo che grazie a lui e al Governo dell'epoca fu realizzata una legge che mi sembra avesse una sua disciplina unitaria di grandissima importanza.
È ovvio che, a distanza di 13 anni, questa legge richiedeva di alcune modificazioni e di alcuni adeguamenti conseguenti anche alle profonde innovazioni che ci sono state nella pubblica amministrazione nel corso degli anni novanta e alle riforme che, in particolare, sono state portate avanti dai governi di centrosinistra.
È chiaro che, dal nostro punto di vista, non possiamo che essere favorevoli ad una normazione che integri ed adegui l'originale legge n. 241 al profondo processo di riforma che è stato realizzato, in questi anni, nel nostro paese, con particolare riferimento alla pubblica amministrazione.
Ovviamente, bisogna tenere conto della necessità di avviare un processo di trasformazione e di contemperarlo con l'adeguata verifica sul campo di tutto ciò che è avvenuto e di tutti gli effetti che la normazione ha avuto in questi anni sull'andamento della pubblica amministrazione.
È chiaro, infatti, che non possiamo semplicemente contentarci di affermazioni di principio sulla necessità di riformare e sull'importanza delle trasformazioni, ma, proprio alla luce del profondo processo di trasformazione che c'è stato in questi anni, oggi, abbiamo e sentiamo la necessità di una verifica sul campo di tutti i processi di trasformazione della pubblica amministrazione che ci sono svolti questi anni. Alla luce di questa verifica, che io ritengo indispensabile, credo occorra adeguare la norma generale sul procedimento amministrativo.
Nel momento in cui dettiamo una normativa generale sull'azione amministrativa, com'è la legge n. 241 del 1990 e come vuole essere il presente disegno di legge di modificazione ed integrazione, è chiaro che la difficoltà che ci pone il nostro lavoro - lo segnalo, in particolare, al Governo - non è costituita dal dovere specificare le discipline di dettaglio, che sono già contenute in centinaia e centinaia di altre leggi che approviamo in continuazione, ma esattamente dal dovere seguire il processo inverso: riuscire a ricavare da tutta l'enorme mole di legislazione approvata in questi anni quelle norme di principio che diano unitarietà all'ordinamento.
Quindi, il lavoro difficile che dobbiamo fare, il lavoro difficile che credo abbiamo fatto, è quello di riuscire ad eliminare il più possibile le normative di dettaglio per arrivare, finalmente, a determinare alcuni principi fondamentali dell'ordinamento amministrativo e del procedimento amministrativo che possano costituire norme di principio e, quindi, norme di interpretazione di tutta la restante legislazione concernente l'ambito della pubblica amministrazione. Credo che questo sia il compito di questo provvedimento. Questo è il compito che ci siamo attribuiti in Commissione nel corso dei lavori di questi mesi, operando sia in sede di audizioni, sia in sede di discussione nel Comitato ristretto ed in Commissione.
A tale proposito, non posso non dare atto al relatore - che ringrazio - dello sforzo enorme che ha compiuto per cercare di arrivare ad un punto di identificazione dei principi che fosse soddisfacente per tutti e che, quindi, ci conducesse all'approvazione di una normativa condivisa, così mi auguro, da tutti, ma, comunque, dal maggior numero di soggetti possibile. Credo che lo sforzo fatto un po' da tutti, ma, principalmente, dal relatore, abbia portato, alla fine, a questo risultato.


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Può darsi che ciascuno resti parzialmente insoddisfatto sotto qualche profilo, ma questa è la natura delle cose.
Dopo aver letto con attenzione la lunga ed approfondita relazione dell'onorevole Bressa, desidero offrire alla discussione solo qualche fugace osservazione, che non ha la pretesa di assurgere a discorso unitario, come quello che ha caratterizzato la relazione al disegno di legge, ma, più che altro, si propone come uno spunto di riflessione anche in vista dell'esame degli articoli e dei relativi emendamenti, al quale ci dedicheremo nel corso di questa settimana. Infatti, anche alla luce degli emendamenti che ho presentato, credo che alcuni punti meritino ancora qualche riflessione.
Prima di discutere di questo argomento, vorrei dedicare una brevissima notazione a quella che appare la norma più caratterizzante del provvedimento: la modifica dell'articolo 1 e l'introduzione dei principi di diritto privato anche nell'azione amministrativa.
Ovviamente, non possiamo che essere favorevoli al processo che è stato avviato in tal senso nel nostro paese. È un processo che, ormai, va avanti da molti anni. È un processo che ha indubbiamente prodotto uno snellimento dell'azione amministrativa. È un processo che è nato con la legge n. 241 del 1990. Quest'ultima era ancora molto caratterizzata in senso pubblicistico, ma, comunque, ha avuto il merito di avviare quel processo di partecipazione all'azione amministrativa che ha segnato tutta la vita amministrativa degli enti pubblici in questi anni e, ancora di più, la legislazione di questi anni.
Muovendoci nel solco aperto dalla menzionata legge del 1990, abbiamo la necessità di adeguare la strada che allora fu aperta a tutte le modifiche, a tutti gli adeguamenti degli anni successivi, relativamente ai quali abbiamo, oggi, la necessità di trovare una normazione di principio che inquadri definitivamente tutto il processo di trasformazione.
Ciò detto, credo che la riflessione di fondo da fare oggi riguardi un po' tutti i settori. Penso a quante volte abbiamo riscritto, in quest'aula, nel corso degli anni, la norma sulla trasformazione privatistica dei servizi pubblici. Quante difficoltà di elaborazione ci sta creando quella trasformazione, pur con la coscienza, da parte di tutti, che si tratta di un processo che bisogna completare. Ma quanto è difficile costruirlo! Analogamente, quanto è difficile, in questo caso, inserire i principi di diritto privato in un settore nel quale non può essere la libera volontà delle parti soltanto a dominare il rapporto, ma la libera volontà delle parti che tenga conto degli interessi di tutti, anche di quelli dei terzi.
Quindi, coniugare il processo di privatizzazione con l'articolo 97 della Costituzione, io credo che oggi sia la vera difficoltà su cui tutti stiamo lavorando e credo che la soluzione trovata in sede di elaborazione dell'emendamento, oggi, a questo stato di elaborazione, sia la più soddisfacente possibile. Quindi credo che abbiamo fatto un passo avanti indispensabile, senza averne fatti due più del necessario. Poi, ovviamente, il resto si vedrà e credo che il processo potrà andare avanti così come sta andando avanti. Anche perché, come ho già avuto modo di dire, io credo che la necessità delle ulteriori trasformazioni di principio che vanno fatte richieda oggi una approfondita verifica di tutto il processo che è stato fatto in questi anni, un esame di quale sia stato l'impatto sull'azione amministrativa, sui singoli enti, per poter verificare quanto possiamo ancora andare avanti nel processo di trasformazione.
Detto questo, io credo che alcune altre brevissime considerazioni - prima che il Presidente mi sgridi per aver parlato troppo - vadano fatte. Io ho presentato alcuni emendamenti più che altro per segnalare un problema. In primo luogo, quello dei tempi del procedimento. Credo che nel 1990 si sia elaborata una norma indispensabile in quel momento, nella quale si prevedevano i vari tempi del procedimento. Era una norma giustissima, perché l'amministrazione sostanzialmente non aveva limiti nei suoi procedimenti, non c'era alcun criterio che potesse indicare quando il procedimento o quando la


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lunghezza del procedimento diventava patologica e, quindi, fu una norma di grande innovazione. Abbiamo verificato e credo che tutti abbiano verificato che nella elaborazione dei regolamenti per determinare i tempi del procedimento vi sia stata una tale frammentarietà e un tale allungamento dei tempi che quella che era una norma a garanzia del cittadino per accelerare i tempi dell'amministrazione molte volte invece è diventata una norma che consente alla pubblica amministrazione di ritardare i tempi del procedimento più del fisiologico, arrivando a tempi patologici.
In questa occasione potremmo, oltre che avviare uno studio su questa variegata gamma dei tempi del procedimento, anche stabilire un limite massimo ai tempi delle decisioni della pubblica amministrazione, in modo da evitare - è un esempio che fanno tutti - che in molti regolamenti addirittura, per autorizzare l'esercizio di un ascensore, si prevedano tempi di due anni. È una cosa che fa sorridere un po', ma è la verità, perché oggi ci sono tempi del procedimento che addirittura sono di questa natura.
Un altro tema, su cui credo che forse possiamo fare un'ulteriore riflessione - e invito il Governo in questo senso -, è se occorra o meno la diffida per formare il silenzio della pubblica amministrazione. Anche qui noi abbiamo una necessità. Io capisco che molte volte le norme sono ovviamente pensate per favorire il cittadino e per rendere più facile la tutela del cittadino, ma molte volte, pensate con questo scopo, le norme poi si rivelano tali da ottenere esattamente l'effetto opposto.
Qual è la funzione della diffida in presenza di amministrazioni molto ampie? Ovviamente qui non stiamo pensando all'ipotesi di piccole amministrazioni, ma stiamo pensando ad ipotesi di amministrazioni di grandi dimensioni in cui la semplice istanza si può perdere, come si dice, nei meandri della burocrazia. Allora, prevedere la diffida quanto meno, a mio avviso, porta l'attenzione dell'amministrazione ad un livello superiore a quello che avrebbe una semplice domanda.
Noi invece con la norma, così come l'abbiamo approvata in Commissione su richiesta del Governo, abbiamo costruito un procedimento per il quale non è necessaria la diffida, il silenzio si forma con la semplice istanza e abbiamo anche costruito un termine, per la proposizione dell'azione giurisdizionale, di un anno, un termine che francamente è incerto e non è né di decadenza né di prescrizione. Quindi, è un tertium genus che francamente non riesco a capire che cosa significhi.
Perché non prevedere la diffida che, del resto, è stata sollecitata anche in sede di audizioni? É vero che essa ritarda di un poco la possibilità del cittadino di adire la tutela giurisdizionale, ma è anche vero che, probabilmente, in molti casi, risolverebbe il problema perché la pubblica amministrazione, di fronte ad una diffida, è certamente molto più sensibile ed attenta a rispondere di quanto non faccia con riferimento ad una delle semplici domande che arrivano a centinaia presso le pubbliche amministrazioni.
Non dirò nulla di tutta la legislazione sulla conferenza di servizi. Francamente, ritengo che si sia scritto anche fin troppo. Ritengo, però, e ciò lo segnalo al Governo, che questa non sia una normazione di principio. Credo che, alla luce di una legislazione così di dettaglio sulla conferenza di servizi, noi, ancora volta, facciamo esattamente il contrario di quello che vorremmo fare. Con questa disposizione, che dovrebbe snellire i procedimenti amministrativi, data una legislazione così di dettaglio inserita in una legge di principio, oltretutto sull'azione amministrativa, corriamo il rischio di andare a bloccare, per come è prevista, i procedimenti in una maniera talmente rigida da creare più effetti negativi di quanti ne vogliamo creare, invece, di positivi.
Desidero svolgere delle ulteriori considerazioni. Innanzitutto desidero soffermarmi sulla questione relativa alla revoca. Signor sottosegretario, anche qui c'è un atteggiamento un po' contraddittorio perché questa disposizione sulla revoca e sull'obbligo di indennizzo è una previsione


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che non ho capito se voglia essere una norma a favore del cittadino oppure una norma di tutela della pubblica amministrazione. Francamente, non lo comprendo. Sembra essere una norma a favore del cittadino perché si prevede che ogni volta che una pubblica amministrazione voglia revocare deve prevedere l'indennizzo per il cittadino. Si usa, però, il termine «indennizzo», e da ciò mi sembra di capire che l'uso di questa parola voglia evitare che possa parlarsi di risarcimento. Qual è allora la portata di questa disposizione? È una norma di tutela della pubblica amministrazione o e una norma di tutela per il cittadino? A mi avviso, quello che è certo è che, di fronte alla necessità di prevedere nel provvedimento amministrativo l'obbligo di indennizzo, questa disposizione bloccherà qualsiasi volontà della pubblica amministrazione o di qualsiasi amministratore locale di adottare provvedimenti di revoca. Perché, se già interviene con il provvedimento di revoca l'amministratore, prevedendo l'obbligo dell'indennizzo, si sarà già autocondannato; per cui ritengo che qualsiasi amministratore pubblico aspetterà che il giudice amministrativo annulli l'atto. Allora, quella che vorrebbe essere una disposizione di favore per agevolare le revoche dei provvedimenti amministrativi si rivelerà, in realtà, una norma di blocco totale di questa possibilità. Sfido chiunque a trovare un amministratore pubblico così coraggioso da revocare il provvedimento e da dichiarare che vi sarà l'indennizzo e, probabilmente, ad autodenunciarsi davanti alla Corte dei conti. L'effetto di questa disposizione, che vuole apparire una norma a tutela del cittadino, sarà che, in realtà, revoche non se ne faranno più. Se poi questa disposizione è prevista a tutela della pubblica amministrazione, allora, la trovo una norma superflua ed inutile perché qualsiasi giudice certamente non fermerà la propria analisi di fronte al dato letterale e, comunque, se ci sarà la necessità di un risarcimento, allora il fatto che noi prevediamo il termine «indennizzo» e non «risarcimento» cambierà poi l'ammontare della cifra che il giudice determinerà. Pertanto, ritengo che sarebbe molto più opportuno evitare questa disposizione e lasciare la valutazione caso per caso, in modo da lasciare margini di transazione perché, tante volte, in una corretta gestione della pubblica amministrazione si può giungere ad una soluzione mediana, ad una transazione in cui si revoca il provvedimento e il cittadino rinunzia all'indennizzo. Pertanto, lasciamo la valutazione alle singole vicende; dico ciò perché non possiamo, anche qui, prevedere normative di eccessivo dettaglio quando la regola deve essere quella prevista all'articolo 97 della Costituzione, cioè della buona amministrazione. Pertanto, valuti l'amministratore qual è il principio di buona amministrazione.
Per quanto concerne il problema della efficacia, ho ascoltato con molta attenzione la dotta e interessante ricostruzione fatta dal relatore. Debbo però dire che questa non mi convince per varie ragioni.
L'esecutorietà dei provvedimenti amministrativi aventi carattere sanzionatorio fino ad oggi non ha significato negare la ricettività dell'atto stesso, perché è ovvio che, se si adotta un provvedimento di carattere sanzionatorio (ad esempio, il classico ordine di demolizione della costruzione edilizia abusiva), se esso non viene notificato al soggetto che deve eseguire il provvedimento ciò comunque non comporta conseguenze.
Noi non stiamo approvando una norma che disciplina una situazione paritaria tra la pubblica amministrazione e il cittadino, perché già oggi, in presenza di un atto sanzionatorio, la ricettività dell'atto, anche in caso di notifica, è contenuta nell'atto stesso, altrimenti non può essere eseguito: in caso contrario, infatti, il cittadino potrebbe dichiarare di non aver mai ricevuto alcuna notificazione.
Oggi diciamo, invece, un'altra cosa: infatti, affermiamo che l'atto diventa efficace con la notifica. Allora, avremmo diverse conseguenze. Innanzitutto, si potrebbe avere un atto, già adottato, che restarebbe nel limbo per non si sa quanto tempo se non dovesse essere notificato. Cos'è questo atto? Quali effetti produrrà nelle amministrazioni


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e quali effetti produrrà sul procedimento? Sarà possibile far proseguire il procedimento - come sarebbe necessario -, oppure non sarà più possibile adottare ulteriori atti fino a quando quell'atto endoprocedimentale non diventerà efficace? Sarà possibile proseguire nel procedimento o no?
Se poi l'amministrazione ha termini ben precisi entro i quali adottare il procedimento, vale l'adozione dell'atto o la sua notifica? A questo punto, varrà la notifica, perché se la notifica è obbligatoria a pena di efficacia, è chiaro che se oggi si deve concludere un procedimento espropriativo nel termine di cinque anni, occorrerà notificare il procedimento entro tale termine. Ho dubbi che ciò sarà possibile, perché è chiaro che, se ci si trova sulla soglia del limite di cinque anni, il cittadino potrà trovare sempre la possibilità di non farsi notificare il provvedimento, ed a quel punto l'azione amministrativa non andrà a buon fine.
Di fronte ai dubbi che sto avanzando, mi chiedo quale sia la vera portata di tale norma; in altri termini, qual è oggi la necessità o l'elemento di modernizzazione che, negando il principio secolare dell'esecutorietà degli atti nella pubblica amministrazione, introduciamo nella pubblica amministrazione? A mio avviso, si tratta di una costruzione puramente teorica.
Siamo in grado di verificare oggi gli effetti e la portata di una normativa di questo tipo? Si tratta di una domanda riguardo alla quale credo che sia necessario fornire una risposta in questa Assemblea, anche per quanto sostiene giustamente l'onorevole Bressa, perché, ai fini dell'interpretazione che successivamente gli interpreti daranno di questa normativa, gli atti parlamentari possono offrire spunti di riflessione, e credo che ciò sia importante.
Vorrei ribadire che temo che si possano creare dei vulnus nel procedimento amministrativo eliminando l'esecutorietà dell'atto amministrativo; tale eliminazione, d'altro canto, non comporterà alcun beneficio nel rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino. Ciò perché stiamo parlando, innanzitutto, di atti sanzionatori; pertanto, stiamo discutendo non di provvedimenti normali, bensì di atti in cui il cittadino ha commesso qualcosa che non doveva fare. Quindi, non c'è bisogno di tutta questa tutela; la tutela il cittadino ce l'ha dinanzi al giudice ordinario, e non vedo la necessità di essere così «paritari» negli atti che riguardano cittadini che hanno commesso qualche infrazione.
Mi rendo conto che questo Governo è particolarmente sensibile a tale tematica e che condona facilmente, e dunque non si pone questo problema, tuttavia vorrei sottolineare che stiamo ragionando rispetto a cittadini che hanno violato le norme. Ho ascoltato anche il relatore sostenere, giustamente, che l'intero provvedimento è ispirato al principio di legalità, ma allora vorrei ribadire, ancora una volta, che stiamo parlando di atti adottati nei confronti di cittadini che non hanno rispettato tale principio di legalità. Pertanto, non riesco francamente a comprendere le ragioni di tutta questa tutela.
Infine - e concludo, signor Presidente -, ho esaminato le proposte emendative presentate dal Governo che intendono inserire nuovamente una disciplina molto complessa del ricorso in materia di accesso.
Anche in questo caso, francamente vorrei dire che vi trovo qualcosa di schizofrenico. La legge n. 241 del 1990, infatti, venne varata quando la normativa sulla giustizia amministrativa era ancora la vecchia legge n. 1034 del 1971, quando il processo amministrativo faceva registrare tempi abbastanza patologici. Sembrò utile, dunque, prevedere uno strumento accelerato di ricorso, perché era più rapido e perché il legislatore del 1990 pensò che, attraverso il ricorso ex articulo 25 della legge n. 241, si potessero avere le carte più presto rispetto all'esperimento del vecchio ricorso (il silenzio e tutte le procedure previste all'epoca).
Oggi il Governo non tiene conto che, nel frattempo, è stata approvata la legge n. 205 del 2000. Con la normativa che proposta dall'esecutivo, infatti, si corre il rischio che occorra più tempo ad esperire


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un ricorso per ottenere gli atti che non a far decidere nel merito un ricorso su una gara d'appalto di centinaia di miliardi: oggi, infatti, se si propone ricorso rispetto ad una gara d'appalto di centinaia di miliardi, si arriva alla sentenza entro 15 giorni. Ripeto: con la legge n. 205 del 2000 entro 15 giorni non si ottengono gli atti amministrativi, ma si perviene alla sentenza!
Se lei propone il ricorso, alla prima camera di consiglio, il giudice introita nel merito la causa. Allora, noi oggi stabiliamo un procedimento complicatissimo per avere le carte, quando, dall'altra parte, è stata approvata una legislazione sacrosanta. Oggi, infatti, il processo amministrativo è di una rapidità estrema, tale che nel merito si decide al più presto. Allora, mi verrebbe voglia di domandarmi: perché non eliminiamo la norma di cui all'articolo 25? Essa, oggi non serve più a niente perché il processo nel merito è più rapido del procedimento di cui all'articolo 25. Non voglio giungere ad una proposta così radicale, ma credo che ci arriveremo perché è nelle cose. Infatti, oramai, quel procedimento fortunatamente è superato dalla legge n. 205 del 2000 che è stata approvata. Perlomeno, seguiamo l'iter che abbiamo approvato in Commissione. Se oggi dovessimo seguire il procedimento proposto dal Governo - lo ripeto - si avrebbe un iter talmente complesso soltanto per ottenere gli atti; dopodiché, dovrebbe cominciare il ricorso per decidere se quegli atti sono legittimi o meno. Invece, se si presenta il ricorso sulla base della legge n. 205, posso ottenere una sentenza di merito prima ancora di avere gli atti con quel procedimento.
Oltretutto, allo stato della legislazione, si possono anche instaurare entrambi i procedimenti perché nulla lo vieta. Pertanto, si potrebbe arrivare al paradosso per cui il cittadino che presenta entrambi i ricorsi, quello ex articolo 25 per avere gli atti e quello per conseguire la decisione nel merito, otterrà prima la decisione sul merito che non gli atti.
Vorrei svolgere un'ultima considerazione che mi sfuggiva e che riguarda l'efficacia. Signor sottosegretario, vi è un ulteriore aspetto che tengo a sottolineare ed a sottoporre alla sua riflessione. Se prevediamo che l'efficacia dell'atto amministrativo si conquisti solo con la notifica, reintroduciamo nel processo amministrativo ciò che è stato soppresso trent'anni, ossia l'obbligo di acquisire il provvedimento impugnato. Il giudice, infatti, non potrà più decidere nessun ricorso perché non si saprà se quell'atto amministrativo è efficace o meno. Ho cominciato ad esercitare la professione prima che fosse abolita la legge del 1934 (purtroppo, sono così vecchio) e ricordo (lo dico al sottosegretario: peraltro, anch'egli se lo ricorderà per ragioni di età) cosa significasse l'obbligo di acquisire il provvedimento impugnato nel giudizio. Mi chiedo se, come effetto perverso dell'articolo 3-bis, non avremo la necessità di acquisire il provvedimento impugnato (credo che ciò accadrà) nel corso di tutti i giudizi. Infatti, il giudice dovrà sapere se si sta discutendo di un atto efficace o meno; di conseguenza, finché non sarà stato esibito l'originale del provvedimento impugnato, non si potrà decidere ed avremo creato un'ulteriore occasione di rallentamento dei giudizi, perché l'amministrazione, che non vuole che sopraggiunga una decisione, sarà restia a depositare l'atto (come lo era trent'anni fa quando vi era l'obbligo di depositare l'atto). Oggi, finalmente, è sufficiente inserire nel ricorso una fotocopia e, anzi, se il ricorso non viene contestato non vi sono problemi e si giunge alla decisione. Se, però, si stabilisce che occorre la notifica, io resistente, che ho violato le norme essendo sottoposto ad un procedimento sanzionatorio, potrò chiedere l'esibizione degli atti notificati, sostenendo che altrimenti non sono efficaci. Allora, mi chiedo questo e glielo sottopongo come riflessione: saremo sempre certi che questi atti notificati saranno depositati in giudizio e saranno reperibili e che non accadrà che nel corso del giudizio, ad un certo punto, questi atti non si troveranno più? È necessario apportare questa modifica che mi sembra abbia più conseguenze negative di quante siano le


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conseguenze positive (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo)?

PRESIDENTE. Non ci sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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