...
scatenarsi, ha destato, in Italia e nel mondo, non poche perplessità anche al di fuori del mondo del pacifismo pregiudizialmente anti-americano;
se l'Italia, con gli alleati europei, non ritenga di dover promuovere senza indugio una politica di riduzione delle tensioni che si stanno profilando all'orizzonte al fine di avvitare il rischio che l'Arabia Saudita ceda alla tentazione di rinsaldare i rapporti con Al-Qaida.
nelle mani del «governatore» degli Stati Uniti d'America -:
mediorientale a contare sull'appoggio degli Stati Uniti d'America, tenuto conto del grave disastro civile e politico creato dal conflitto della primavera scorsa;
appare evidente che una cotal politica di interventismo armato nelle varie regioni del mondo, senza la preventiva autorizzazione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, deve essere attentamente valutata dal nostro Paese che non può acriticamente schierarsi a favore dell'alleato senza un'attenta considerazioni di questi indecifrabili comportamenti da parte degli Stati Uniti d'America -:
legittimato dal riconoscimento internazionale -:
dopo l'archiviazione della guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein, ancorché lo stillicidio quotidiano di caduti statunitensi indichi che, sul piano strettamente militare, la campagna irachena non è purtroppo del tutto conclusa, era stata immediatamente affacciata la possibilità che la tappa successiva sarebbe stata l'iniziativa contro l'Iran;
la stampa nazionale ed internazionale del giorno 5 agosto 2003 ha dato grande risalto alla preparazione, da parte del Presidente degli Stati Uniti d'America, del cosiddetto dossier Iran che dovrebbe essere sottoposto, nel mese di settembre, all'attenzione degli alleati nel tentativo di ripristinare un'ampia alleanza contro il terrorismo internazionale al fine di spianare la strada ad un nuovo intervento militare;
l'accusa più rilevante degli Stati Uniti d'America nei confronti dell'Iran è quella di perseguire una politica nucleare finalizzata alla costruzione della bomba atomica e di lavorare quindi in aperta violazione del Trattato di non proliferazione del 1968;
è doveroso, a questo proposito, manifestare cautela ed anzi scetticismo alla luce di quanto accaduto durante la crisi irachena a proposito della politica nucleare e delle armi di distruzione di massa;
è inoltre necessario sottolineare agli alleati statunitensi che non è possibile perpetuare una politica che, muovendo da indagini approssimative, approda successivamente all'embargo se non all'iniziativa militare -:
se non ritenga di dover raccomandare al governo alleato degli Stati Uniti d'America la massima prudenza nelle iniziative da assumere nei confronti del governo iraniano, rappresentando il principio italiano ed europeo secondo cui debbono essere percorse tutte le normali vie diplomatica e debbono essere assunte iniziative nel rispetto del diritto internazionale, senza cedere alle tentazioni sbrigative delle azioni militari, anche in relazione al fatto che dai Balcani all'Afghanistan all'Iraq nessuna operazione bellica può dirsi realmente conclusa e nessuna di quelle regioni pare definitivamente e stabilmente pacificata.
(3-02609)
si stanno ormai chiaramente delineando i tratti della politica estera degli Stati Uniti d'America nell'area del Golfo dopo la rimozione del regime iracheno di Saddam Hussein;
è forse ora possibile comprendere appieno il senso di una guerra che, al suo
il Presidente degli Stati Uniti d'America Gorge Bush, ancorché formalmente mantenga un inalterato rapporto con l'Arabia Saudita, in realtà sta presumibilmente sganciando - senza traumi apparenti - l'Occidente dal suo pluridecennale rapporto preferenziale con la dinastia saudita;
in tal senso si sono colti precisi ed inequivocabili segnali;
nella primavera del 2003 il rapporto del «Defense Policy Board», organo di consulenza del Pentagono, ha apertamente accusato l'Arabia Saudita di sostenere il terrorismo internazionale;
successivamente sono state redatte le famose 28 pagine (il cui contenuto è stato secretato) del rapporto sull'11 settembre 2001 che conterrebbero espliciti e provati riferimenti della collusione saudita con Al-Qaida;
il 24 luglio 2003 al Congresso americano, 191 deputati, democratici e repubblicani, hanno votato un emendamento che pretendeva l'inclusione del regno saudita nell'elenco dei Paesi che sostengono il terrorismo internazionale;
l'emendamento, ancorché respinto dal voto di 231 deputati, rivela comunque la grande difficoltà nei rapporti fra Stati Uniti d'America ed Arabia Saudita;
gli analisti politici ritengono che Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Richard Cheney e Condoleeza Rice avrebbero sposato la tesi secondo cui l'Iraq del dopo-Saddam potrebbe diventare il nuovo alleato strategico degli Stati Uniti d'America e, in tale quadro, la nuova base militare americana per il controllo dell'intera area;
appare significativa, in proposito, l'affermazione di Michael Ledeen, membro dell'American Enterprise Insitute, vicino all'ala più intransigente del Pentagono: «Il nostro rapporto con il regime saudita è un classico esempio di alleanza con un tiranno amico. L'abbiamo avuto con Stalin, con Marcos, con Duvalier e tanti altri. Ma vanno sempre a finire nello stesso modo: prima o poi arriva il momento in cui ce ne liberiamo» (cfr. «Il Sole-24 Ore» di venerdì 8 agosto 2003 alla pagina 6);
poiché anche il regime saudita ha la evidente consapevolezza della crisi di fondo del rapporto con gli Stati Uniti d'America, è facilmente prevedibile una radicalizzazione fondamentalistica della società saudita;
segno tangibile di tale radicalizzazione è costituito ad avviso dell'interrogante dalla decisione del governo saudita di costruire 62 scuole elementari e medie religiose, assunta in data 8 agosto 2003, quali a voler sottolineare il venir meno di ogni caratterizzazione laica del regime;
appare necessario favorire un processo di detensionamento dell'intera area senza assecondare politiche destinate a spingere l'Arabia Saudita a rinsaldare rapporti con le organizzazioni terroristiche internazionali;
rispetto al disegno portato avanti dagli Stati Uniti d'America, l'Italia e l'Europa debbono mettere a frutto i tradizionali e consolidati buoni rapporti con il mondo arabo per contrastare la tendenza dell'Arabia Saudita ad una involuzione, altrimenti inevitabile, favorita dalla politica estera statunitense che, ormai, in prospettiva, vede nell'Iraq del dopo-Saddam l'alleanza strategica dell'area -:
se effettivamente risulti alla nostra diplomazia la tendenza degli Stati Uniti d'America a sostituire la tradizionale alleanza con l'Arabia Saudita con una nuova alleanza strategica con l'Iraq del dopo-Saddam;
se non sia ritenuto grave il rischio di una accentuazione della tendenza fondamentalistica della società saudita quale inevitabile risposta alla posizione diplomatica via via assunta nei suoi confronti dal governo degli Stati Uniti d'America;
(3-02610)
in data 14 agosto 2003 il Consiglio di Sicurezza dell'Organizzazione delle Nazioni Unite ha approvato, con la sola astensione della Siria, la risoluzione n. 1500 sulla situazione irachena;
il Ministro degli Esteri dell'Italia ha salutato con estremo favore la detta risoluzione ritenendola fondamentale per il ripristino della normalità nella martoriata terra irachena;
in realtà, gli osservatori più attenti hanno rilevato come nessun crescente coinvolgimento dell'ONU nell'occupazione irachena sia emerso dall'approvazione della risoluzione n. 1500;
il deliberato dell'ONU, invero, si limita a registrare un maggiore allargamento dell'appoggio internazionale all'occupazione militare sotto la leadership anglo-americana, obiettivo considerato, in questo momento, l'unico oggettivamente raggiungibile da parte dell'amministrazione americana e dell'amministrazione britannica;
del resto il quotidiano New York Times ha rivelato che il Presidente degli Stati Uniti d'America George Bush ha inteso contrastare qualunque piano che offra un ruolo maggiore all'Organizzazione delle Nazioni Unite, richiesto, invece, da Francia ed India (confronta «Il sole-24 Ore» di venerdì 15 agosto 2003 alla pagina 4);
gli Stati Uniti d'America prediligono, invece, una nuova offensiva per «reclutare altre nazioni a fianco della missione già in corso, guidata da 139 mila soldati statunitensi» (confronta ibidem);
il testo della risoluzione n. 1500, dunque, si presenta come un difficile e per molti versi insoddisfacente compromesso fra posizioni assolutamente inconciliabili perché frutto di una «filosofia politica» del tutto diversa;
la risoluzione si limita a dare il «benvenuto» al nuovo governo iracheno, ma è da registrare come gli Stati Uniti d'America abbiano ritirato, all'ultimo momento, la parola «riconoscimento» per evitare possibili fratture con membri autorevoli e prestigiosi del Consiglio di Sicurezza dell'ONU;
la risoluzione, inoltre, si limita ad avviare una missione dell'ONU per la supervisione ed il controllo degli aiuti offerti dall'organizzazione, ben guardandosi dall'assegnare ruoli di più marcata influenza al sistema giuridico internazionale;
è evidente la volontà di Stati Uniti d'America e di Inghilterra di mantenere una posizione assolutamente autonoma senza «imprigionarsi» all'interno di un'operazione diretta e governata dall'ONU che fatalmente limiterebbe le loro possibilità di intervento militare, politico ed istituzionale interno;
si tenta, dunque, di offrire una maggiore legittimazione internazionale ad un'operazione militare decisa al di fuori delle autorizzazioni dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, senza peraltro trasferire i poteri all'organizzazione medesima;
è palese l'intento di mantenere il controllo fermo e rigoroso della situazione interna, anche per la doppia fragilità strutturale del governo iracheno appena insediato, sia per il gran numero di gruppi e partiti che lo compongono (spesso fortemente ostili l'uno nei confronti degli altri), sia per la formula bizzarra e produttiva di sicura inefficienza secondo cui la direzione dell'esecutivo si trasferisce a cadenza mensile da un gruppo all'altro, consentendo dunque, per forza di cose, il mantenimento dei livelli decisionali effettivi
se non ritenga, in realtà, piuttosto preoccupante la risoluzione n. 1500 del 14 agosto 2003 del Consiglio di Sicurezza dell'Organizzazione delle Nazioni Unite nella parte in cui di fatto tiene ai margini l'organizzazione stessa limitandosi a tentare l'allargamento del consenso internazionale all'occupazione anglo-americana e per sapere se, ferma restando la posizione di stretta collaborazione del governo italiano con il governo degli Stati Uniti d'America, non si ritenga opportuno lavorare per un progressivo coinvolgimento dell'ONU medesima per conferire piena legittimità giuridica, sia pure a posteriori, ad una situazione nella quale, a partire dallo scoppio della guerra nel mese di marzo del 2003, Stati Uniti d'America ed Inghilterra si sono mossi in un quadro piuttosto nebuloso dal punto di vista delle norme del diritto internazionale.
(3-02613)
in data 1o maggio 2003 il Presidente degli Stati Uniti d'America Gorge Bush annunciò al mondo intero la fine delle ostilità in Iraq a seguito della vittoria delle truppe anglo-americane;
a distanza di quattro mesi da tale ottimistico annuncio, la situazione in Iraq, ancorché sia stato di fatto deposto il Presidente Saddam Hussein, è non soltanto precaria ma decisamente drammatica;
il numero delle vittime fra i militari anglo-americani, dal 1o maggio ad oggi, ha ormai superato il numero delle vittime nei combattimenti;
è in atto una imponente e preoccupante guerriglia non soltanto da parte dei seguaci dal Presidente Saddam Hussein, ma anche da parte di gruppi di integralisti sciiti, mentre appare di tutta evidenza che la popolazione civile mal sopporta quella che ritiene essere, comunque, una occupazione militare da parte di Paesi stranieri;
ormai anche la stampa statunitense, smaltiti gli entusiasmi del prematuro annuncio di vittoria totale da parte del Presidente George Bush, e non ancora del tutto smaltite le perplessità circa le menzogne utilizzate per giustificare l'attacco militare agitando l'inesistente imminenza del pericolo delle armi di distruzione di massa, segue con grande ed esplicita preoccupazione l'evolversi della situazione interna irachena;
il prestigioso quotidiano New York Times del 18 agosto 2003 interpreta gli attacchi della guerriglia alle infrastrutture come segnali di una nuova tattica che mira a colpire anche bersagli civili (cfr. Agenzia ApB 18 agosto 2003);
il quotidiano inglese The Indipendent del 18 agosto 2003 esprime forte preoccupazione dopo gli attacchi contro l'oleodotto che trasporta il greggio verso la Turchia e dopo il danneggiamento del principale acquedotto di Baghdad e scrive: «Il sabotaggio mette a rischio l'economia dell'Iraq» (cfr. ibidem);
i quotidiani britannici The Guardian e The Financial Times del 18 agosto 2003 esprimono preoccupazione per le dimensioni delle azioni di sabotaggio alle infrastrutture irachene;
oltre agli attacchi diretti contro le truppe anglo-americane, dunque, sembra che la guerriglia abbia operato un salto di qualità, colpendo in contemporanea delicate infrastrutture che frenano la politica di stabilizzazione e di pacificazione, con l'evidente obiettivo di aumentare il livello, già elevato, di intolleranza dei cittadini iracheni nei confronti delle truppe occupanti;
fra l'altro, la situazione irachena, tutt'altro che pacificata e tutt'altro che consegnata ad un sistema democratico, pare non aver raggiunto neppure l'obiettivo di stimolare gli altri paesi dell'area
addirittura sale la tensione fra gli Stati Uniti d'America e la Giordania, da sempre alleata fedele, a causa dell'inserimento di Ahmad Chalabi, fortemente sostenuto dagli americani, già leader dell'Iraq National Congress, nel Consiglio di Governo di Baghdad, tanto che un gruppo di parlamentari giordani ha avviato una campagna per l'estradizione di Chalabi atteso che questi ha subito una condanna, da parte del Tribunale Penale di Amman, a 22 anni di reclusione per bancarotta fraudolenta in relazione al dissesto della «Petra Bank»;
l'attuale Ministro per il Petrolio del governo iracheno Thamir Ghadban, insediato dagli Stati Uniti d'America, ha mestamente dichiarato: «Nel passato regime avevamo la polizia del petrolio, l'esercito, la collaborazione delle tribù, oltre a quello che chiamiamo la sicurezza interna. Ora tutto questo è sparito. C'è un vuoto di sicurezza» (cfr. Il Messaggero di lunedì 18 agosto 2003 alle pagine 1 e 6);
la partecipazione dell'Italia alle operazioni di sicurezza in Iraq era concepita ed approvata dal Parlamento in funzione della ricostruzione, della pacificazione e della normalizzazione che avrebbero dovuto nascere dalla fine delle ostilità che, invece, continuano con ferocia e creano seri rischi e problemi di incolumità per tutte le forze armate presenti sul territorio iracheno e provenienti dai Paesi stranieri;
la stessa recente risoluzione n. 1500 dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, approvata in data 14 agosto 2003, non prevedendo l'intervento dell'ONU in sostituzione delle truppe occupanti anglo-americane, è la dimostrazione della difficoltà di approdare ad un serio e fecondo dopo-guerra e della volontà degli Stati Uniti d'America, malgrado le difficoltà quotidianamente incontrate, di mantenere i tratti della politica neo-imperiale che ha condotto al conflitto armato;
il peggioramento della situazione sta creando le premesse per rendere difficile, se non impossibile, una normalizzazione anche con un mandato dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, che, se pur tardivo, dovrebbe offrire al mondo una parvenza di legittimità a quel che è accaduto in Iraq;
la situazione, dunque, sembra che stia evolvendo verso la ripetizione di quanto accade in Afghanistan, ove la cosiddetta vittoria militare degli Stati Uniti d'America ha creato semplicemente le premesse per una polverizzazione dell'autorità statale e per la moltiplicazione incontrollabile delle azioni di guerriglia, con Osama Bin Laden divenuto, per l'estremismo islamico, addirittura leggendario per la sua imprendibilità -:
quale sia l'opinione del Governo italiano in relazione all'intensificazione degli attacchi della guerriglia in territorio iracheno non soltanto nei confronti delle forze armate anglo-americane ma anche nei confronti delle infrastrutture civili ed industriali ed alle gravi conseguenze psicologiche su una opinione pubblica che, come addirittura espresso dal Ministro per il Petrolio in carica, esprime confronti con il passato regime di Saddam Hussein rimpiangendo i sistemi di sicurezza assicurati ai cittadini iracheni;
se non ritenga di dover riesaminare con l'alleato governo degli Stati Uniti d'America la filosofia complessiva dell'intervento armato occidentale in Iraq nel cosiddetto dopo-guerra, anche alla luce della prospettiva, sicuramente preoccupante, di una permanenza, in territorio iracheno, molto più lunga e soprattutto molto più pericolosa di quanto fosse lecito attendersi a seguito delle prospettive derivanti dalla prematuramente dichiarata vittoria delle forze armate anglo-americane nella guerra irachena.
(3-02615)
la stampa nazionale ed internazionale ha dato ampio risalto al contenuto del rapporto del Congresso degli Stati Uniti d'America sugli accertati collegamenti fra Al Qaida e le autorità saudite anche in relazione all'attentato dell'11 settembre 2001 a New York;
secondo quanto riportato da New York Times e da Los Angeles Times due dei dirottatori - Khalid al-Mihdhar e Nawaf al-Hamzi - nel gennaio 2000 giunsero a Los Angeles provenienti da Bangkok dopo aver partecipato in Malaysia ad un incontro segreto nel corso del quale venne deciso l'attacco alle torri gemelle;
i due personaggi sarebbero stati accolti da Omar al-Bayoumi, un saudita registrato come studente ma considerato dall'FBI un ufficiale dall'intelligence saudita con disponibilità di fondi illimitati da Riad;
i servizi segreti americani avevano notato ed accertato, a conferma dei loro sospetti, che Omar al-Bayoumi non si recava mai al lavoro presso l'azienda aeronautica saudita «Dallah Avco» dalla quale, peraltro, continuava a ricevere regolarmente lo stipendio;
secondo il Los Angeles Times l'amministrazione americana avrebbe indirizzato i propri sospetti addirittura nei confronti del Ministro degli Interni saudita, principe Nayef, che da una parte sarebbe stato al corrente dell'attività dei due dirottatori e che dall'altra imputò «agli ebrei» la responsabilità degli attacchi dell'11 settembre 2001;
a seguito di tali rivelazioni (cfr. «La Stampa» di domenica 3 agosto 2003 alla pagina 7) una missione di investigatori americani composta da uomini dell'FBI, del Ministero del Tesoro e del Consiglio per la Sicurezza Nazionale è partita, proprio in data 3 agosto 2003, alla volta di Gedda per discutere direttamente ed apertamente con i sauditi della pista che porta i sospetti sono alla famiglia reale di quel Paese;
in proposito, anzi, il senatore statunitense e repubblicano del Maine Susan Collins (cfr. ibidem) ha affermato quanto segue: «Vi sono ampie prove che alti funzionari sauditi e membri della famiglia reale sono coinvolti nel sostegno a organizzazioni a doppio uso, legittima opera di carità e terrorismo»;
proprio a seguito dell'attentato dell'11 settembre 2001 ha subito una violenta accelerazione la campagna mediatica contro l'Iraq su cui si addensavano i sospetti circa l'organizzazione dell'attentato nuovayorchese che ha portato, in una incredibile escalation di menzogne (dalla inesistenti prove circa la presenza di armi di distruzione di massa all'altro altrettanto inesistente tentativo di ottenere dal Niger uranio per i programmi iracheni di riarmo nucleare al falso rapporto dell'ottobre 2002 dell'intelligence inglese sui siti che ospitavano armi di distruzioni di massa), alla ricercatissima guerra del marzo 2003 contro l'Iraq;
appare ora difficilmente spiegabile, anche alla luce del più volte ribadito impegno del Presidente degli Stati Uniti d'America Gorge Bush di punire militarmente e senza pietà i responsabili del sanguinoso attentato di New York, l'atteggiamento dell'amministrazione americana che, in possesso di informazioni precise circa il coinvolgimento nell'attentato di elementi sauditi che porterebbero addirittura alla famiglia reale saudita, mantiene a tutti i costi un rapporto di alleanza privilegiata proprio con l'Arabia Saudita;
si tratterebbe evidentemente di una questione, poco commendevole da parte degli Stati Uniti d'America, ma di natura interna se il sistema di alleanze non avesse portato altri Paesi alleati ad intervenire a sostegno della guerra anglo-americana prima ed a intervenire, dopo la fine della guerra, con contingenti militari, come è accaduto all'Italia;
se risulti al Governo italiano che le notizie riportate dai quotidiani americani New York Times e Los Angeles Times, riprese dalla stampa di tutto il mondo e dalla stampa italiana, relativamente alla conoscenza preventiva, da parte del governo saudita, della volontà di compiere l'attentato dell'11 settembre 2002, possano essere considerate credibili e se comunque siano in possesso delle nostre autorità;
in caso affermativo, quali siano le ragioni, a conoscenza del Governo italiano, che hanno spinto ad indirizzare nei confronti dell'Iraq i sospetti circa le responsabilità dell'attentato, mentre sono state accuratamente nascoste le provate responsabilità dell'Arabia Saudita;
se non si ritenga di dover chiarire, con l'amministrazione americana, l'atteggiamento degli stessi Stati Uniti d'America con l'Arabia Saudita, non già per interferire in scelte che competono, ovviamente, ai soli USA, ma per avere idee più chiare circa la politica estera americana per un Paese, come l'Italia, che sta facendo un grosso sforzo per mantenere contingenti di pace in molte aree del mondo a fianco delle truppe anglo-americane, mentre non un solo provvedimento, di alcuna natura, e men che meno di natura militare, è stato assunto nei confronti dell'Arabia Saudita che, sempre secondo gli statunitensi, avrebbe una diretta responsabilità, anche come paese finanziatore, nell'attentato dell'11 settembre 2001.
(3-02617)
i giornali di tutto il mondo hanno dato notizia dell'esito delle indagini tecniche condotte dalla Dia (Defense Intelligency Agency) sulle due «roulottes» ritrovate in Iraq e considerate dagli americani veri e propri laboratori mobili per lo studio e per lo sviluppo delle armi biologiche di cui l'ex-presidente iracheno Saddam Hussein avrebbe voluto dotarsi;
gli scienziati iracheni arrestati subito dopo la fine della guerra contro l'Iraq hanno sempre escluso che le due «roulottes» servissero per gli scopi bellici immaginati e denunciati dagli Stati Uniti d'America, ma tali dichiarazioni rese dagli scienziati prigionieri erano state considerate una vera e propria copertura per le illecite attività del regime;
ora, secondo le notizie pubblicate dagli organi di informazione (cfr. «La Stampa» di domenica 10 agosto 2003 alla pagina 6), la conclusione degli ingegneri e dei tecnici della Dia è nel senso che, in realtà, le due «roulottes» erano effettivamente utilizzate dagli iracheni per produrre l'idrogeno necessario per far salire i palloni aerostatici ad uso meteorologico;
la notizia, secondo quanto riferisce «La Stampa», ha trovato rilievo sul «New York Times» di sabato 9 agosto 2003, e negli Stati Uniti d'America contribuisce al quotidiano crescere delle perplessità circa gli effettivi armamenti di cui disponeva il regime di Saddam Hussein e circa dunque la sussistenza delle condizioni necessarie e sufficienti per scatenare la guerra del marzo 2003 -:
in ragione di quanto comunicato al nostro Paese dagli Stati Uniti d'America nel periodo antecedente lo scoppio della guerra contro l'Iraq, quali fossero le informazioni esatte trasmesse al nostro governo, e quali comunicazioni siano state effettuate dal governo italiano (che sulla base di tali informazioni si è recato in Parlamento a riferire) al governo degli Stati Uniti d'America per segnalare il disappunto per una messe di notizie assolutamente prive di ogni fondamento.
(3-02620)
la stampa ha dato risalto alla notizia secondo cui le forze armate americane, nella campagna militare di primavera 2003 contro l'Iraq, avrebbero fatto uso di bombe al napalm;
secondo esperti militari, la smentita del Comando Centrale anglo-americano è assolutamente ineccepibile sul piano tecnico in quanto le bombe in questione, denominate «Mark 77 Mod. 5», sono in effetti prive di napalm, ma certamente sono bombe assolutamente simili negli effetti;
gli Stati Uniti d'America peraltro non hanno mai ratificato una disposizione della Convenzione internazionale contro le armi inumane del 1980, che mette al bando tali armi contro i civili;
sembra che gli effetti di tali armi siano devastanti anche perché hanno come elemento base il kerosene;
secondo i portavoce dell'11o Gruppo Aereo dei Marines, in un commento su tali armi avvenuto durante l'illustrazione delle immagine riprese dai velivoli americani durante i bombardamenti in Iraq, «si tratta di un brutto modo di morire» (cfr. Il Giornale di giovedì 7 agosto 2003 alla pagina 13);
diventa francamente difficile, da una parte, condividere le politiche statunitensi mirate al ripristino dei valori di libertà, di democrazia e di tolleranza e contemporaneamente assistere a bombardamenti con armi che sicuramente sono da considerarsi inumane e che continuano ad essere utilizzate non avendo ritenuto, gli Stati Uniti d'America, di sottoscrivere le convenzioni internazionali che le mettono al bando -:
se non ritenga di dover intraprendere, nei confronti dell'alleato governo degli Stati Uniti d'America, un'opera di convincimento per addivenire alla messa al bando, anche da parte degli Stati Uniti d'America, di tutte le armi disumane, ivi comprese le bombe «Mark 77 mod. 5», da considerarsi «figlie legittime» delle vecchie bombe al napalm.
(4-07239)
a seguito della fine delle ostilità in Iraq, è stato formato un governo di coalizione con una formula francamente sconcertante ad avviso dell'interrogante, atteso che la leadership, in questa fase, durerà, a turno, per un mese soltanto, con ciò essendo del tutto evidente l'impossibilità di sviluppare una politica coerente, anche in ragione delle note e profonde differenze fra le varie componenti dell'esecutivo;
la compagine governativa è peraltro notoriamente soggetta al controllo del «governatore» americano cui, in questa fase, deve rispondere;
la situazione, dal punto di vista giuridico, attiene dunque alla legittimità internazionale del governo iracheno, atteso che essa viene contestata da molti Paesi;
nell'ambito dell'Opec, ad esempio, il Ministro del Petrolio degli Emirati Arabi Uniti, dopo avere auspicato che l'Iraq torni a buon diritto a far parte dell'organizzazione, si è premurato di aggiungere: «Allorché a Baghdad sarà stato formato un governo legittimo» (cfr. La Stampa di lunedì 28 luglio 2003 alla pagina 19);
ancor più esplicitamente, il Ministro del Petrolio del Venezuela ha chiarito che i delegati iracheni non saranno ammessi nell'Opec finché non ci sarà un governo «internazionalmente riconosciuto» in carica nel Paese attualmente occupato dagli anglo-americani (cfr. ibidem);
è evidente che la normalizzazione dell'Iraq postula, come elemento pregiudiziale e necessario, la presenza di un governo
quale sia l'opinione del Governo italiano circa la legittimità internazionale del governo iracheno attualmente in carica e quali iniziative si intendano assumere per favorire la formazione di un governo progressivamente più affrancato rispetto agli occupanti anglo-americani.
(4-07247)