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PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i gruppi parlamentari dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e della Margherita, DL-l'Ulivo ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto che la XI Commissione (Lavoro) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Maninetti, ha facoltà di svolgere la relazione.
Prima di dare la parola all'onorevole Maninetti, vorrei salutare i ragazzi della scuola media di Corsano in provincia di Lecce che sono qui presenti (Applausi). Prego, onorevole Maninetti.
LUIGI MANINETTI, Relatore. Signor Presidente, il provvedimento che ci accingiamo a discutere giunge in aula dopo un esame presso la Commissione durato oltre un anno, un tempo, sì, lungo, ma certamente necessario per effettuare i dovuti confronti e le dovute audizioni.
La particolare importanza della materia trattata, ovvero la riforma del sistema previdenziale, ha infatti richiesto dapprima una lunga fase di confronto con gli enti istituzionali interessati, al fine di acquisire tutti gli elementi necessari per avere un quadro completo della situazione. Si è proceduto quindi ad una serie di audizioni con i rappresentanti sia del mondo sindacale ed imprenditoriale nelle sue varie componenti sia degli enti che gestiscono le diverse forme previdenziali attraverso cui si sono individuati aspetti particolarmente problematici dell'intervento riformatore e rispetto ai quali si è ricercata una più ampia convergenza possibile.
La delega in oggetto si inserisce in un iter normativo di riforma iniziato negli anni novanta, le cui tappe fondamentali sono costituite dalla riforma Amato del 1992-94, dalla riforma Dini 1995-97 e dalla riforma Prodi del 1997. Un iter caratterizzato dalla gradualità degli interventi tesi a garantire il riequilibrio finanziario del sistema previdenziale e l'equità delle prestazioni. Tuttavia, a nessuno sfugge che i profondi e rapidi mutamenti economici e sociali degli ultimi anni impongono sia una accelerazione del processo riformatore sia degli interventi che permettono di conseguire gli obiettivi non ancora raggiunti, primo fra tutti il consolidamento della previdenza complementare, il cosiddetto secondo pilastro, con adeguati incentivi.
L'obiettivo fondamentale che si intende perseguire è quello di garantire maggiore sostenibilità e competitività del sistema nel suo complesso, nonché maggiore equità intra ed intergenerazionale. A fronte dei dati preoccupanti relativi all'incremento della spesa pensionistica, emerge l'esigenza di pervenire ad un livello economicamente sostenibile del rapporto tra la spesa pensionistica ed il prodotto interno lordo, nella più ampia prospettiva di una stabilità finanziaria complessiva, obiettivo primario perseguito da questo Governo e dalla maggioranza che lo sostiene.
Precise indicazioni in tal senso, del resto, provengono dagli accordi a livello comunitario in materia previdenziale ed occupazionale, nonché dal patto di stabilità. Il dato demografico che indica un progressivo invecchiamento della società rende necessarie strategie comuni dirette a contemperare l'esigenza di adeguatezza dei sistemi pensionistici con la sostenibilità delle finanze pubbliche.
L'impianto fondamentale del disegno di legge in esame si articola in tre linee di indirizzo: la prima assicura la tutela dei diritti pensionistici acquisiti ed incentiva alla permanenza al lavoro. In tal senso viene garantito in via generale il diritto di ottenere in ogni caso le prestazioni pensionistiche maturate; si liberalizza l'età pensionabile e si introducono sistemi di
incentivazione di carattere fiscale e contributivo tesi a rendere conveniente la continuazione dell'attività lavorativa.
Si introduce inoltre la disposizione relativa alla progressiva abolizione del divieto di cumulo fra pensioni di anzianità e redditi da lavoratore dipendente ed autonomo che ha un risvolto positivo in relazione all'emersione del sommerso ed all'incremento delle risorse finanziarie dell'Istituto nazionale della previdenza sociale.
La seconda linea di indirizzo prevede incentivi alla previdenza complementare attraverso la destinazione di flussi di finanziamento a forme pensionistiche del cosiddetto secondo pilastro. La disposizione di maggior rilievo in tal senso prevede il conferimento alla previdenza complementare degli accantonamenti relativi al trattamento di fine rapporto.
Parallelamente a questo tipo di intervento si prevede l'introduzione graduale di misure di incentivazione di nuova occupazione, attraverso la riduzione del costo del lavoro, compatibilmente con le esigenze di fiscalità generale.
La terza linea di indirizzo contempla un'opera di riordino degli enti previdenziali e di assistenza al fine di assicurarne, da una parte, una maggiore funzionalità e razionalità organizzativa e, dall'altra, una riduzione dei costi gestionali.
Passando ad un esame più approfondito delle singole disposizioni vorrei mettere in evidenza gli aspetti maggiormente qualificanti, con particolare attenzione alle modifiche introdotte a seguito dell'esame svolto in Commissione con l'apporto di tutti i soggetti interessati.
LUIGI MANINETTI, Relatore. In tal senso credo che il serio lavoro e l'impegno profuso da parte di tutti abbiano consentito di apportare sensibili interventi migliorativi del provvedimento in esame, nel rispetto dei limiti costituzionali attinenti alla sua natura di legge delega.
Nell'articolo 1, in ottemperanza dell'articolo 76 della Costituzione, vengono indicati i tempi, individuati gli oggetti e previsti i principi e i criteri direttivi.
Il comma 1 contiene gli obiettivi della delega, rivolti in prevalenza ad introdurre maggiore flessibilità: certificazione del conseguimento del diritto alla pensione di anzianità al momento della maturazione dei requisiti per la pensione stessa, sancendo in via definitiva e generale la garanzia dei lavoratori in relazione ai diritti già acquisiti a fronte di eventuali interventi normativi che possano apportare delle modifiche; introduzione di sistemi di incentivazione di natura fiscale e contributiva che spingano i lavoratori che abbiano maturato i requisiti per la pensione di anzianità a continuare l'attività lavorativa; liberalizzazione dell'età pensionabile; eliminazione progressiva del divieto di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro; incentivazione dello sviluppo di forme pensionistiche complementari.
Il comma 2 specifica i criteri direttivi cui attenersi nel perseguire gli obiettivi suddetti. In particolare, si prevede l'esenzione totale dal versamento dei contributi in caso di prosecuzione dell'attività lavorativa almeno per un biennio e la liberalizzazione dell'età pensionabile.
La norma prevede inoltre l'applicazione degli incentivi fiscali e contributivi al proseguimento dell'attività lavorativa anche per i lavoratori che maturano i requisiti per la pensione di anzianità, previo accordo con il datore di lavoro. A tal proposito, si è ritenuto opportuno specificare con un intervento emendativo - migliorato oggi stesso da un intervento del Governo - che per le pensioni liquidate esclusivamente secondo il sistema contributivo il lavoratore ha facoltà di proseguire in modo automatico l'attività lavorativa fino ai 65 anni.
Per quanto riguarda l'abolizione progressiva del divieto di cumulo tra pensione di anzianità e redditi da lavoro dipendente e autonomo, è vero che essa è stata in parte anticipata da una disposizione contenuta nella legge finanziaria per il 2003, ma poiché quest'ultima ha disposto la
totale cumulabilità solo per i lavoratori che all'atto del pensionamento abbiano un'anzianità contributiva pari a 37 anni e 58 anni di età, la previsione inserita nella delega conserva invece uno spazio di operatività considerevole, soprattutto se si tiene conto che in essa si dispone l'estensione al settore del pubblico impiego dei criteri direttivi della delega, con priorità proprio per il principio della cumulabilità tra pensione e redditi da lavoro dipendente e autonomo.
Nel corso dell'esame in Commissione è stata introdotta una disposizione relativa all'adozione di misure che consentano la progressiva anticipazione della possibilità di richiedere la liquidazione del supplemento di pensione sino a due anni dalla data di decorrenza della pensione, sempre nell'ottica di favorire la permanenza in attività dei lavoratori.
Anche in tal caso la sostenibilità finanziaria di tali misure dovrà essere verificata dalla legge finanziaria. La disposizione, infatti, è stata riformulata in termini di obiettivo piuttosto che precettivi, in base alle indicazioni fornite dalla Commissione bilancio, proprio per assicurare alla legge finanziaria quello spazio di flessibilità necessario per attuare gli aspetti quantitativi della riforma stessa.
Come sottolineato in precedenza, uno dei punti di rilievo del progetto riformatore è costituito dal consolidamento della previdenza complementare, da realizzarsi attraverso l'incremento dei flussi di finanziamento alle cosiddette forme pensionistiche del secondo pilastro, con contestuali incentivi alla nuova occupazione. In particolare, si prevede il conferimento del trattamento di fine rapporto in corso di maturazione alle forme pensionistiche complementari che, con una modifica introdotta in Commissione, potranno essere istituite anche dagli enti privatizzati di cui ai decreti legislativi n. 509 del 1994 e n. 103 del 1996.
Per rendere ancora più efficace tale disposizione si prevede che, in caso di mancato esercizio della facoltà di scelta, i decreti legislativi potranno individuare forme tacite di conferimento ai fondi cosiddetti chiusi, costituiti in base a contratti ed accordi collettivi. A tale proposito, si è ritenuto specificare che, se il lavoratore ha diritto a un contributo dal datore di lavoro, da destinare alla previdenza complementare, questa debba affluire alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso o alla quale intenda trasferirsi.
Un'altra importante modifica in materia concerne la finalità di equiparare le forme pensionistiche e l'adozione di misure per favorire l'adesione in forme collettive ai fondi pensione aperti con il relativo diritto di trasferimento del contributo del datore di lavoro e delle quote di trattamento di fine rapporto.
A fronte della rinuncia, da parte delle imprese, del trattamento di fine rapporto, si prevede l'introduzione di meccanismi agevolativi. Si prevede, infatti, una riduzione, fino a 5 punti percentuali, degli oneri contributivi dovuti dal datore di lavoro, senza effetti negativi sulla determinazione dell'importo pensionistico del lavoratore, per le nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato delle categorie dei lavoratori, da definire in sede di attuazione della delega.
Dal punto di vista dell'individuazione delle risorse, la valutazione di tale misura è demandata alla legge finanziaria, al fine di verificarne la compatibilità con la fiscalità generale, ed è subordinata alla mancanza di oneri per le imprese da realizzare con interventi compensativi.
Si delega, inoltre, il Governo a rendere il sistema di vigilanza sul settore della previdenza complementare maggiormente unitario ed omogeneo e a semplificarne le procedure amministrative.
La disposizione contenuta nella lettera l) dell'articolo 1 si incentra sulla ridefinizione della disciplina fiscale della previdenza complementare, al fine di ampliare la deducibilità fiscale della contribuzione ai fondi pensione, di eliminare la penalizzazione per coloro che scelgono la liquidazione in capitale e di rivedere, in senso più favorevole, la tassazione dei rendimenti delle attività delle forme pensionistiche.
Si dispone, in seguito, l'adozione di misure specifiche volte all'emersione del lavoro sommerso dei pensionati, con riferimento ai redditi di impresa e di lavoratore autonomo, in perfetta sintonia con la politica messa in atto dal Governo attraverso la legge n. 383 del 2001 sull'emersione dell'economia sommersa.
Il Governo, nell'esercizio della delega, dovrà completare il processo di separazione, necessario ed utile, fra assistenza e previdenza. Vorrei sottolineare, in particolare, l'introduzione delle disposizioni in materia di totalizzazione dei periodi assicurativi, resasi necessaria a seguito della constatazione dell'eccessiva frammentazione del nostro sistema previdenziale e a fronte dei costi notevolmente elevati delle procedure di ricongiunzione assicurativa.
Il fine è quello di ampliare progressivamente la possibilità di sommare i periodi assicurativi con l'obiettivo di estendere la totalizzazione ai lavoratori che abbiano raggiunto i sessantacinque anni di età o i quarant'anni di anzianità contributiva ed abbiano versato almeno cinque anni di contributi presso ciascun fondo interessato, anche nell'ipotesi in cui siano raggiunti i requisiti minimi per il diritto alla pensione in uno dei fondi, limite, questo, già previsto dalla legislazione vigente.
Si precisa, inoltre, che ogni ente presso cui sono stati versati i contributi sarà tenuto pro quota al pagamento del trattamento pensionistico secondo le proprie regole di calcolo. Anche in questo caso, condividendo il parere della Commissione bilancio, la disposizione è stata riformulata in termini di obiettivo.
Continuando il nostro rapido excursus, vediamo che l'articolo 2 è finalizzato a destinare tutti i maggiori risparmi e tutte le maggiori entrate alla deduzione del costo del lavoro e ad incentivare lo sviluppo della previdenza complementare, anche per i lavoratori autonomi.
L'articolo 3 - non previsto nel disegno di legge originario - introduce l'obbligo di iscrizione, alla gestione dei cosiddetti lavoratori parasubordinati, di due nuove categorie attualmente escluse: gli associati in partecipazione, ai sensi degli articoli da 2549 a 2554 del codice civile, ed i titolari di redditi da prestazioni lavorative occasionali per importi superiori ai 4.500 euro annui. Ciò comporterà, di conseguenza, un aumento delle entrate contributive per detta gestione.
Importanti novità sono state inserite anche nell'articolo 4, introdotto dalla Commissione. In esso si contempla, infatti, l'istituzione, presso l'INPS, di un casellario centrale per la raccolta dei dati e delle altre informazioni concernenti i lavoratori iscritti attivi a tutti i regimi previdenziali a carattere obbligatorio, nonché ai regimi facoltativi gestiti dagli enti previdenziali. Esso fungerà, quindi, da anagrafe generale delle posizioni assicurative, condivisa da tutte le amministrazioni dello Stato e da tutti gli enti previdenziali. Vorrei sottolineare che la disposizione assume particolare importanza nel contrastare il lavoro sommerso e nel monitorare la situazione finanziaria degli enti.
L'articolo 5 contiene una delega, ulteriore rispetto a quella di cui all'articolo 1, da esercitarsi negli stessi termini e con le stesse procedure, ad emanare uno o più decreti legislativi tesi al riordino degli enti pubblici di previdenza e di assistenza obbligatoria, al fine di conferire una maggiore funzionalità ed efficacia dell'attività da essi svolta e di ottenere una riduzione dei costi gestionali.
Non vengono enunciati in modo esplicito e diretto i principi ed i criteri direttivi della delega, per i quali si rimanda a quelli desumibili dalla legislazione vigente, contenente una delega analoga i cui termini sono scaduti senza che essa fosse effettivamente esercitata.
Un'ulteriore aggiunta all'impianto originario della delega si ritrova nell'articolo 8, in cui si prevede la redazione di un testo unico in materia previdenziale, teso ad un'opera di semplificazione tenuto conto della proliferazione della normativa di settore, che avrà come effetto anche la riduzione del contenzioso in materia previdenziale.
All'articolo 7, infine, sono contenute le procedure e le disposizioni finanziarie.
Anche sotto tale aspetto si riscontrano importanti novità. Posto che, in base all'articolo 81, comma 4, della Costituzione, la legge delega deve indicare i mezzi di copertura degli oneri finanziari derivanti dalla sua attuazione, ciò, in base all'orientamento della Corte costituzionale, può avvenire (e deve avvenire) in modo indiretto. Infatti, l'articolo in questione, in relazione alle disposizioni onerose, pur non indicando espressamente l'esatto ammontare, non facilmente prevedibile, delle risorse necessarie, demanda il compito di individuarle al complesso costituito dal documento di programmazione economico-finanziaria e dalla legge finanziaria stessa. Tali disposizioni sono quelle relative alla riduzione degli oneri contributivi per nuove assunzioni, alla soppressione del contributo dovuto dalle imprese al Fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto, all'elevazione dell'esenzione contributiva nei contratti di secondo livello, alla revisione della disciplina fiscale dei fondi pensione.
A parte queste eccezioni, i decreti legislativi emanati in attuazione della delega non dovranno comportare oneri aggiuntivi, rispondendo al criterio di compensazione o a quello di neutralità finanziaria, così come indicato specificatamente nella relazione tecnica del Governo.
Rispetto alla precedente formulazione elaborata in Commissione, si è ritenuto opportuno adeguarsi alle indicazioni della Commissione bilancio in relazione al coordinamento degli interventi da adottare, in particolare con riferimento alla determinazione della data di entrata in vigore delle disposizioni contenute nei decreti delegati, da una parte, e della legge finanziaria, che dovrà indicare le risorse finanziarie di cui in concreto si può disporre, dall'altra. Di conseguenza, l'articolo 7 definisce un procedimento che rafforza il controllo parlamentare sull'effettiva neutralità finanziaria dei decreti legislativi attuativi della delega.
Vorrei, in conclusione, ringraziare la Commissione ed il Governo per il lavoro svolto in piena collaborazione, grazie al quale è stato possibile portare a conclusione l'esame del provvedimento apportando a questo importanti modifiche e miglioramenti sulla base delle indicazioni e degli orientamenti espressi da tutte le parti coinvolte, nella logica di costruire una piattaforma di consensi la più ampia possibile. Sono convinto, infatti, che sia nell'interesse di tutti portare a compimento il processo di riforma assicurando uno sviluppo armonico del sistema previdenziale che riesca a coniugare le esigenze di stabilità e di equilibrio finanziario con quelle, altrettanto importanti, di solidarietà e di equità sociale (Applausi dei deputati dei gruppi dell'Unione dei democratici cristiani e dei democratici di centro e di Forza Italia).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il ministro del lavoro e delle politiche sociali, onorevole Maroni.
ROBERTO MARONI, Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.
PRESIDENTE. Sta bene.
È iscritta a parlare l'onorevole Cordoni. Ne ha facoltà.
ELENA EMMA CORDONI. Signor Presidente, signor ministro, onorevoli colleghi, il passaggio, in sede referente, in Commissione lavoro del collegato previdenziale alla finanziaria del 2002 - e siamo nel febbraio 2003! - il cui iter è durato più di un anno, non ha apportato modifiche sostanziali al disegno di legge tali da indurci a cambiare il nostro giudizio di fondo sul provvedimento: il nostro era, e rimane, un «no» deciso e fermo ad un progetto che tende a smantellare la previdenza pubblica riducendola, nei fatti, alla garanzia di una pensione minima, in particolare per gli attuali e futuri giovani lavoratori, anche in considerazione della precarizzazione del mercato del lavoro che l'attuale Governo intende promuovere, come testimoniano le leggi in materia di mercato del lavoro.
Questa delega, anche se da una parte si mira a tranquillizzare i lavoratori dicendo che niente cambierà rispetto ai diritti maturati (va in questa direzione la certificazione dei diritti pensionistici acquisiti), di fatto, introduce, tramite la decontribuzione, un cavallo di Troia nel sistema previdenziale pubblico, corrodendone progressivamente le fondamenta e obbligando, di fatto, il legislatore nel prossimo futuro ad intervenire per ridurre le erogazioni pensionistiche, fino a ridurle alla garanzia di una pensione minima, di fatto slegata dai contributi effettivamente versati.
La delega, viceversa, secondo noi, doveva partire dai risultati conseguiti dalle precedenti riforme - Amato, Dini, Prodi - e intervenire sui problemi che sarebbero emersi da tale verifica, ma tornerò più tardi su questo punto. Infatti, per quanto riguarda la sostenibilità finanziaria, la verifica dei risultati della riforma Dini, svolta dalla commissione presieduta dal sottosegretario Brambilla, ha confermato il sostanziale raggiungimento degli obiettivi e la sostenibilità della spesa previdenziale in percentuale del PIL nel medio periodo ed è emerso che tale percentuale è ormai piatta e di poco superiore al 13 per cento. Si sono constatati risparmi finanziari superiori alle previsioni. Gli effetti delle riforme, il calcolo con il metodo contributivo, la non indicizzazione delle pensioni alla dinamica salariale, il raffreddamento delle pensioni di anzianità, l'equiparazione tra norme del settore pubblico privato, sono cambiamenti strutturali, tant'è che la proiezione sui 50 anni prevede la stessa percentuale attuale sul PIL per la spesa pensionistica, malgrado l'invecchiamento della popolazione.
Questo nostro sistema previdenziale appare il più stabile rispetto all'analoga spesa di tutti gli altri paesi dell'Unione europea. Con la riforma Dini, oltre ad operare per la stabilizzazione della spesa previdenziale pubblica, si era anche sottolineato l'esigenza e l'importanza di rilanciare la previdenza complementare, utile per un riequilibrio del sistema previdenziale del nostro paese. La nostra opzione era e rimane che la previdenza complementare pubblica debba rappresentare il pilastro principale, essendo la pensione integrativa, appunto, complementare.
Durante i Governi di centrosinistra non siamo riusciti a far decollare la previdenza complementare; il problema del rilancio quindi effettivo della previdenza complementare rimane, ma il vostro disegno di legge compie un'altra operazione: intende mutare l'equilibrio tra previdenza pubblica e previdenza complementare, che da complementare dovrebbe diventare fondamentale. D'altra parte, su questo la Confindustria, durante le audizioni, è stata molto esplicita e molto chiara. Infatti, continuate, nonostante la discussione in Commissione, nonostante i conti presentati dall'INPS, nonostante l'opinione della Commissione bilancio, a proporre la riduzione dei contributi previdenziali per i nuovi assunti. Pensate di poter arrivare fino a cinque punti, anzi fino a sei, perché ci sono anche le percentuali stabilite dai contratti integrativi aziendali.
Il rischio è quello sottolineato dall'ex presidente dell'INPS, Massimo Paci, allora vituperato - con riferimento al quale poi il Governo ha presentato una relazione, obbligato dalla Commissione lavoro e dalla Commissione bilancio - , che disse: siamo di fronte ad un forte indebolimento se non ad uno sgretolamento del cosiddetto pilastro pubblico e ad una espansione di grande momento della previdenza complementare. Questo in relazione al fatto che pensate di trasferire obbligatoriamente il trattamento di fine rapporto alle forme previdenziali complementari. Continuate a pensarlo anche in un momento in cui la congiuntura economica ha palesato anche ai risparmiatori più ingenui i rischi sul lungo periodo degli investimenti azionari ed obbligazionari degli stessi, pur assai prudenti, fondi pensione.
Nel 2002 i risultati dei fondi negoziali sono stati quasi tutti negativi e comunque inferiori ai risultati del TFR che ha garantito un rendimento del 3,5 per cento. Certo, il rendimento di anno in anno in sé non è molto indicativo perché i fondi hanno un orizzonte di riferimento di lunghissimo
periodo, tuttavia, esemplifica bene i rischi di fondi a contribuzione definita ed è particolarmente preoccupante proprio nella fase di avvio del secondo pilastro previdenziale.
Noi continuiamo a ripetere che dovreste abbandonare l'ipotesi della decontribuzione anche se così rivista e rimodulata dalla Commissione bilancio, perché con questa azione voi - semmai riuscirete a metterla in campo, perché dovete trovare le risorse pubbliche per finanziarla - conseguirete, comunque, il risultato di far aumentare la spesa previdenziale pubblica che è già (siamo tutti attenti lettori dei quotidiani), da anni, un punto discusso nel nostro paese. State precostituendo le condizioni perché in futuro questo tipo di intervento possa portare alla messa in discussione della previdenza pubblica e a riduzioni e tagli incisivi e forti nel nostro paese. E non solo. Con questa ipotesi e con le decisioni che prenderete, farete sì che i giovani, in futuro, avranno pensioni più basse. Non crediamo che riuscirete a fare una decontribuzione finanziata con la finanza pubblica, ma siamo anche preoccupati del fatto che pensiate di poterlo fare. C'è un problema delle imprese? C'è un problema del costo delle imprese? Noi ne siamo consapevoli. È il problema su cui, la volta scorsa, si è arenato il provvedimento del Governo di centrosinistra. Siamo consapevoli di dover individuare risposte ai bisogni che le imprese rappresentano quando viene ipotizzato un forte utilizzo del trattamento di fine rapporto, ma non è certo attraverso la decontribuzione che ciò si può realizzare. Nelle nostre proposte, lo vedremo durante il dibattito parlamentare, individuiamo diverse strade che ci portano a rispondere alle esigenze delle imprese, specialmente delle piccole imprese, per andare incontro ai problemi che con l'utilizzo del TFR, si possono presentare, ma, sicuramente, non con l'operazione che intendete fare voi, cioè con la decontribuzione.
Ancora, voi parlate di poter utilizzare il trattamento di fine rapporto dei lavoratori, che è il salario differito - vorrei che non lo dimenticassimo mai, è salario, dunque fa parte della contrattazione con i sindacati -; voi decidete l'obbligatorietà del trasferimento. Ma quale libero arbitrio! Se volete aiutare i lavoratori, come noi vogliamo, a costruire una previdenza complementare, non possiamo sfuggire alla costruzione di una responsabilità dei lavoratori, di un loro coinvolgimento, di un loro consenso. Non è con atti che sottraggono al lavoratore il TFR non prevedendo alcuna tutela in termini di rendimento che si può fare un'operazione di questo tipo. I lavoratori capiscono ciò che si sta facendo, si vuole togliere loro un pezzo del salario senza neanche coinvolgerli e senza neanche chiedere loro se sono d'accordo o meno. Credo si possa dire che si tratta di una specie di scippo delle liquidazioni. E badate che lo dice chi, come il mio gruppo parlamentare, l'Ulivo, pensa che la previdenza complementare debba essere realizzata. Noi riteniamo, però, che la strada maestra sia quella di ricercare il consenso del lavoratori. Abbiamo anche previsto formule come quella del silenzio-assenso, certo più forte di una esplicitazione di volontà per indurre un comportamento, ma non possiamo totalmente sottrarre alla libera opinione del lavoratori questo tipo di decisione. Si sta decidendo del loro salario, si sta decidendo del loro futuro pensionistico; credo debbano avere la possibilità di scegliere se questa è la strada che vogliono intraprendere.
Vogliamo ribadire con forza che, per noi, il primo pilastro della previdenza rimane la previdenza pubblica e pensiamo alla previdenza complementare con l'utilizzo del trattamento di fine rapporto come secondo pilastro, integrativo e non sostitutivo.
In secondo luogo, non riteniamo si possano mettere in campo ipotesi di previdenza complementare individuale utilizzando il trattamento di fine rapporto. È una falsa concezione della libertà: il singolo lavoratore, di fronte a chi gli offre prodotti sul mercato, non ha la possibilità di contrattare le migliori condizioni, non ha la possibilità di contrattare il percorso dei propri fondi. È per questo che, quando
si è introdotta nel nostro paese la questione della previdenza complementare, si è scelto un percorso, che andava verso la contrattazione collettiva per poi aprirla, dopo alcuni anni, ai fondi aperti. Il tutto è avvenuto attraverso un percorso di accompagnamento. Al contrario, in questo provvedimento si lascia una grande ambiguità circa il tipo di terreno sul quale si vuole agire e non so se alla fine, con questo provvedimento, con tutte le introduzioni operate, ci troveremo a pensare che si trasferiscono obbligatoriamente alle assicurazioni i fondi dei lavoratori sul piano individuale.
Con questo provvedimento, così come avete fatto per il mercato del lavoro, mandate a monte un lavoro di dieci anni; di ciò sono stupita, perché a questo lavoro ha contribuito anche la Lega: nel 1995 la riforma Dini è stata varata anche con il contributo forte da parte della Lega! Oggi si reintroducono norme di differenziazione tra lavoratori pubblici e privati! Lo si è fatto sul mercato del lavoro, lo si fa oggi con questo provvedimento, perché non si ritiene di applicare ai lavoratori pubblici gli stessi criteri e gli stessi percorsi che riguardano i lavoratori privati, sia rispetto al trattamento di fine rapporto sia rispetto all'incentivazione per rimanere al lavoro, nonché rispetto ad altre questioni che poi affronteremo durante il dibattito.
Vi è un problema che ci saremmo aspettati avreste affrontato: mi riferisco alla questione dei giovani lavoratori, tutti con il sistema contributivo, che sono di fronte ad un lavoro precario, con carriere non stabili e redditi molto bassi. Questo è un problema legato al nuovo mercato del lavoro che si sta definendo, che la legge Dini non ha sufficientemente affrontato, e che noi avremmo dovuto mettere in campo pensando non solo al domani o al dopodomani, ma al futuro, alla pensione di questi lavoratori. Ecco, questa era la sfida che ci saremmo aspettati di dover affrontare; invece, da questo versante, troviamo soltanto una proposta di aumento dell'aliquota previdenziale, accompagnata con generiche affermazioni sul piano della protezione sociale e dei diritti di tali lavoratori.
Penso che questo tipo di esigenza, relativa alla continuazione della riforma nata in questo decennio, non possa seguire il percorso da voi individuato. Certo, durante il dibattito in Commissione abbiamo anche operato alcuni interventi di cambiamento, sostitutivi, alcuni migliorativi, alcuni anche peggiorativi. Penso, per esempio, al fatto che, per la prima volta, si è compiuto un passo in avanti sul terreno della totalizzazione, nonostante legga sui giornali che alcuni autorevoli esponenti del Governo, a partire del Vicepresidente del Consiglio, mettono in questi giorni in discussione il percorso che state attuando con le casse di previdenza per rendere possibile la totalizzazione del sistema pensionistico. Questo è uno dei modi con cui si risponde alla flessibilità del mercato del lavoro! Se le persone nella vita cambiano lavoro, da lavoratore autonomo a lavoratore dipendente, a professionista, non è possibile che, per il sistema presente in Italia, debbano poi trovarsi senza pensione. Nel 2000 noi abbiamo provato ad introdurre una prima norma: sappiamo che è costoso! Sappiamo che occorre gradualità! Questa, però, è la strada che dobbiamo seguire perché, altrimenti, non rispondiamo alle modificazioni del mercato del lavoro. Non vi è solo un problema di diritti o di flessibilità ingiusta per i lavoratori, ma vi sono anche le conseguenze che ciò comporta sul sistema previdenziale. Allora, dobbiamo accompagnare queste riforme affinché cambiare lavoro non significhi anche mettere in discussione la pensione. Penso che ciò che abbiamo scritto sia un passo ancora ulteriore rispetto alla finanziaria del 2000 che, con i governi di centrosinistra, aveva aperto la porta: ancora oggi, nel 2003, non è stata però varata la norma applicativa. Ci aspettiamo che si cominci, almeno per quelle persone che arrivano a 65 anni avendo lavorato 40 anni senza comunque aver mai maturato i minimi nei fondi pensione: che questi possano avere almeno la pensione di vecchiaia! Ciò ci sembra il
minimo che può essere fatto, anche se sappiamo che ciò non è sufficiente per rispondere al problema dei versamenti dei contributi.
Ho evidenziato poco fa i rischi e le conseguenze della scelta che avete compiuto: quali conseguenze potrà produrre nei prossimi anni sul sistema previdenziale? Sta di fatto che in questo Parlamento si continuano ad approvare deleghe prive di copertura. Il Governo si fa dare le deleghe e non sapremo mai quando sarà in grado di attuarle. Ciò è valso per la riforma della scuola e oggi vale per la materia previdenziale. Pertanto, vi sarà un problema: forse, un decreto verrà emanato prima e l'altro in seguito ed il primo sarà finanziato o non lo sarà. Credo, veramente, che ci troviamo di fronte ad un modo di legiferare che definirei abbastanza curioso, per non usare un termine più pesante.
È più di un anno che questo provvedimento di delega è fermo in Commissione. Certamente, abbiamo avuto modo di confrontarci e di discutere e non possiamo lamentarci dei tempi; ma tutto ciò dimostra che voi sapevate che questa delega era priva di copertura. Per alcuni mesi avete provato a dire che non vi erano oneri contributivi e speravate che la formulazione contenuta nella legge delega fosse così ambigua da permettere una lettura diversa. Dopodiché, i conti hanno rivelato che così non era e siete stati obbligati ad inventarvi una copertura. Si tratta, però, di una copertura che ha la conseguenza di aumentare la spesa previdenziale e che, quindi, può essere foriera di possibili futuri interventi che oggi negate, anche se il Governo ha voci diverse su questo capitolo a seconda di chi parla.
Invece, in Commissione lavoro sembra che si sia vissuto un altro tipo di dibattito. Infatti, ogni giorno sui giornali veniva riportato un dibattito che era esattamente l'opposto rispetto a ciò di cui stavamo discutendo. Pertanto, eravamo anche un po' curiosi, non riuscendo a capire rispetto a quella discussione quale sarebbe stato l'esito in Commissione.
Rimane il problema fondamentale di cui parlavo in precedenza: non diamo risposte rispetto ad un terreno, che è il più delicato ed il più scoperto su cui dovremo lavorare. Mi riferisco ai giovani lavoratori atipici, che occorre aiutare a costruirsi una pensione adeguata. Per questo motivo, confermiamo, come dicevo all'inizio, il nostro voto contrario sul provvedimento. È un voto contrario di merito. Chi è stato in Commissione sa che non abbiamo posto in essere alcun atteggiamento ostruzionistico. Vi sono proposte per ogni nostra ipotesi di discussione. Se si approvassero le nostre proposte, si potrebbe mettere in piedi una previdenza complementare: lo vogliamo anche noi, ma non lo vogliamo nei modi e nelle forme che ci proponete. Prevediamo anche di intervenire sui costi delle imprese, ma non attraverso la decontribuzione, perché pensiamo che sia una disgrazia per il sistema previdenziale italiano.
Vi diciamo anche che bisogna lavorare con più convinzione, per fare in modo che i giovani lavoratori abbiano prestazioni previdenziali più dignitose nel momento in cui andranno in pensione.
Ancora, vi richiamiamo ad un impegno che voi stessi avete assunto con il paese, ossia quello dell'aumento delle pensioni al minimo. Lo avete promesso, ma non state mantenendo tale promessa fino in fondo, perché - come avete scritto nella legge finanziaria - i destinatari di questo provvedimento sono soltanto un milione e seicentomila persone. Il prossimo anno, se saremo ancora qui, scoprirete che in molti casi si darà luogo ad indebiti (se ne sta discutendo in questi giorni), per cui, se le regole non si cambiano, fra un anno o due, l'INPS sarà obbligato a dover chiedere a quelle persone che hanno ricevuto l'aumento al minimo, di dover restituire molti dei soldi che oggi sono stati loro dati. Tuttavia, anche in merito a ciò, continuate a non voler considerare neanche i dati oggettivi e le cose scritte nero su bianco.
Ancora, vorrei richiamare un punto di questa nostra discussione. Signor ministro, lei nei giorni scorsi ha voluto liquidare la discussione in Commissione lavoro e le opinioni che abbiamo espresso con emendamenti nel corso del dibattito dicendo
che il centrosinistra non vuole cambiare nulla, che è per la conservazione. Ebbene, signor ministro, se lo risparmi: non è questo il punto. Stiamo proponendo altri contenuti della riforma previdenziale. Abbiamo così a cuore il sistema previdenziale pubblico che in questi dieci anni abbiamo effettuato quelle operazioni che oggi ci consentono di presentarci in Europa con soluzioni più avanzate di quelle degli altri paesi europei. Possiamo rispondere all'Europa con la nostra riforma perché siamo l'unico paese in Europa che è passato dal sistema retributivo al sistema contributivo. Siamo il paese che ha saputo uniformare le condizioni del lavoro pubblico a quelle del lavoro privato. Leggete riguardo al dibattito in Francia e scoprirete che fra pubblico e privato vi sono differenze. Leggete riguardo al dibattito in Germania e scoprirete quali sono i sistemi di calcolo utilizzati per le pensioni. Vedrete, allora, che in Italia è stata realizzata una grande riforma nel 1995, anche con il contributo della Lega.
Adesso questa riforma dice e non dice, sembra voler continuare su quella strada dato che non date scossoni proponendo la pensione sociale o il terzo livello. Però state costruendo i presupposti perché fra qualche anno si verifichino le condizioni di implementazione della spesa: ciò renderà obbligatorio intervenire e, a quel punto, saranno lacrime e sangue per i lavoratori. Sicuramente in questi anni avrete favorito il privato rispetto alla previdenza pubblica.
Per quanto riguarda la previdenza complementare, vi invitiamo a ritornare al decreto legislativo n. 124. Non apriamo ai fondi individuali perché mettiamo a rischio i salari ed i risparmi dei lavoratori. Lavoriamo su alcune garanzie che permettano ai lavoratori di credere in questo investimento. Facciamo in modo di garantire ai lavoratori almeno il rendimento che il TFR oggi garantisce. Non possiamo non mettere in campo ipotesi di organizzazione dei fondi complementari che non abbiano tutti le stesse condizioni di omogeneità, di trasparenza e di gestione. Stiamo decidendo del salario dei lavoratori e della loro futura pensione.
Poiché l'esperienza che abbiamo alle spalle, a partire dalla vicenda americana, ci dice quanto può essere a rischio questo terreno, dobbiamo avere una grande prudenza nell'individuare le norme che renda possibile ai lavoratori, alla fine della loro vita lavorativa, una pensione dignitosa costituita dalla somma della previdenza pubblica e di quella complementare. Su questo punto avete presentato molte modifiche che tendono, in verità, a rendere eguali ed a mettere nelle stesse condizioni i fondi complementari aperti e chiusi. Vi invitiamo su questo ad essere prudenti, vi invitiamo a ragionare sul fatto che stiamo decidendo - lo ripeto per la terza volta - del salario differito dei lavoratori e dell'entità e congruità delle loro pensioni (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).
PRESIDENTE. Vorrei rivolgere un saluto ai ragazzi della scuola media di Corsano, in provincia di Lecce, presenti nelle tribune.
È iscritto a parlare l'onorevole Di Teodoro. Ne ha facoltà.
ANDREA DI TEODORO. Signor Presidente, ovviamente non posso condividere le considerazioni svolte dalla collega Cordoni. Ciò non perché non condivida la valutazione positiva sul primo effetto che la riforma Amato del 1992 e la riforma Dini del 1995 hanno cominciato a dispiegare sugli squilibri del nostro sistema pensionistico, ma perché non ritengo - come la maggior parte degli esperti - che tali riforme abbiano sortito effetti strutturalmente decisivi.
Ricordo che, anche dopo la riforma Dini del 1995, il rapporto tra debito pensionistico e PIL è rimasto del 130 per cento, che oggi tale debito è di circa 100 mila miliardi e che esso ricade pressoché
interamente sulle spalle delle giovani generazioni. Ci vorrebbe molto tempo per descrivere la storia di quegli anni di follia che, dagli anni sessanta fino al 1992, hanno portato alla creazione di questa voragine nei conti pubblici. Certo è che, come ha scritto un esperto del settore, Onorato Castellino, ci vorranno cinquant'anni di faticoso rientro per cominciare a porre rimedio a quei 25 anni di follia.
Se la riforma Amato e la riforma Dini avessero sortito questi effetti così decisivi non si spiegherebbero i continui richiami da parte delle istituzioni comunitarie europee al nostro paese affinché intervenga sulla materia previdenziale. Questo a partire dal Consiglio europeo di Lisbona, che ha inaugurato appunto la cosiddetta strategia di Lisbona, nella quale punto centrale e qualificante è dato proprio dalla modernizzazione dei sistemi di previdenza e di assicurazione sociale, laddove modernizzazione significa capacità di adattamento dei sistemi previdenziali non solo al mutare dei bisogni, ma anche al mutare delle condizioni demografiche, economiche e sociali (dunque al mutare della congiuntura dei mercati delle comunità della nostra Europa).
Non è questo il momento per ricordare tutte le varie tappe dei Consigli europei, che si sono succeduti a quello di Lisbona e che hanno, soprattutto nel corso del 2001, rimarcato la necessità di intervenire sui sistemi di previdenza da parte degli Stati membri nella direzione dell'adeguatezza, della modernizzazione, dell'estensione dell'inclusione sociale, dell'allungamento della vita lavorativa, dello sviluppo delle forme di previdenza complementare e della maggiore solidarietà intergenerazionale. Recentemente, il 21 gennaio 2003, quando il Consiglio Ecofin ha espresso parere positivo sul programma di stabilità presentato dall'Italia, si è ritornati proprio su questi due punti: la necessità di promuovere forme di previdenza complementare e la necessità di affrontare i nodi ancora irrisolti all'interno del nostro sistema, accelerando la transizione al metodo di calcolo contributivo, al quale la riforma Dini ha aperto la strada ma che di certo non si è compiutamente radicato nel nostro sistema.
A mio parere il contenuto di questo disegno di legge delega va nella direzione indicata dall'Europa. Come è stato già detto ampiamente dal relatore, in questo provvedimento sono previste alcune norme che vanno proprio nella direzione dell'incentivazione alla continuazione dell'attività lavorativa anche dopo il raggiungimento dei requisiti per la pensione. Viene inoltre sancito il principio della liberalizzazione dell'età pensionabile, eliminando progressivamente il divieto di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro, così come viene favorito lo sviluppo di forme di previdenza complementare. Allo stesso tempo viene stabilito il principio della certificazione del conseguimento del diritto alla pensione al momento della maturazione dei requisiti e dunque da questo punto di vista vengono salvaguardati e tutelati i diritti acquisiti. Ma soprattutto, con il provvedimento al nostro esame, si interviene sul nodo irrisolto tra entrate contributive e costo del lavoro.
La decontribuzione, uno degli aspetti del provvedimento più criticati da parte dell'opposizione, rappresenta a mio parere uno degli elementi più innovativi e positivi di questo disegno di legge delega. Essa infatti mira a ridurre il cosiddetto cuneo fiscale che soffoca, appesantisce, grava il costo del lavoro, soprattutto dei più giovani, rendendolo non competitivo e insostenibile per le imprese. Inoltre, attraverso lo sviluppo della previdenza complementare (e quindi attraverso l'equilibrio tra previdenza complementare e previdenza pubblica), cerca di non far gravare sulle prestazioni della previdenza pubblica la riduzione delle aliquote contributive, prevista appunto con la decontribuzione da 3 a 5 punti percentuali (modificata in Commissione con una nuova dicitura: sino a 5 punti percentuali). Quindi, ricapitolando: equilibrio tra previdenza pubblica e previdenza privata, laddove tale equilibrio oltre a permettere una previdenza pubblica, permette anche la riduzione del carico fiscale sul lavoro (appunto la decontribuzione);
remunerazione delle imprese attraverso misure che le compenseranno del conferimento obbligatorio del TFR alle forme di previdenza complementare (misura necessaria per fare decollare queste ultime) e che quindi in questa maniera chiuderanno il cerchio di un sistema in cui tutto si tiene e dove ogni elemento va visto nel contesto e nella sintassi complessiva di un disegno riformatore organico.
Credo che, in sede di valutazione di questo disegno di legge di riforma del Governo, non si possa prescindere dal considerare l'elemento della solidarietà e dell'equità generazionale che, a mio parere, è particolarmente messo in luce proprio nella proposta della decontribuzione.
Dicevo prima che il debito pensionistico è valutato intorno ai 100 mila miliardi, che gravano soprattutto sulle spalle dei più giovani. Inoltre, questo debito pensionistico è nato negli anni sessanta quando, attraverso una serie di leggi - che non sto qui a ricordare - si è di fatto dato il via ad un maxitrasferimento patrimoniale dalle generazioni dei pensionati a quelle dei lavoratori attivi. Ciò è avvenuto soprattutto attraverso due sistemi: il metodo di calcolo retributivo e quello di calcolo a ripartizione.
Dunque, nel momento in cui a pagare le remunerazioni pensionistiche dei pensionati sono i contributi dei lavoratori attivi, ovviamente il sistema rimane in equilibrio se vi è una proporzionalità tra il rendimento offerto dalle remunerazioni pensionistiche e la base contributiva di coloro che attivamente erogano i contributi. Per ragioni demografiche, per ragioni di allungamento della vita nonché per ragioni di aumento della disoccupazione - che, in Europa, dagli anni settanta è tendenzialmente aumentata - nel sistema si è verificata una situazione di squilibrio. Questo ha significato che, non volendo cambiare i rendimenti pensionistici, si è necessariamente dovuto intervenire sul prelievo contributivo dei lavoratori attivi, innalzando tale prelievo e pesando sempre di più sul costo del loro lavoro.
Dunque, se fino agli anni sessanta-settanta, vi era un rapporto tra lavoratori e pensionati che si aggirava intorno al 2,50-2,60 per cento, tale rapporto, nel 2030, tendenzialmente potrebbe arrivare ad essere inferiore all'1 per cento. Ciò significa che, in un sistema a ripartizione - qual è il sistema pensionistico pubblico -, vi è una tendenza verso l'insolvibilità tecnica.
A ciò si aggiunge il peso che ancora grava su tale sistema, vale a dire quello del metodo di calcolo retributivo, che è stato affrontato in prima battuta dalla riforma del 1992 e, soprattutto, da quella del 1995, che hanno fatto salvo un lungo periodo di transizione, senza risolvere in via radicale questo sistema di calcolo che premia soprattutto le carriere più forti, più continuative, cioè coloro che hanno la possibilità di usufruire di lunghi periodi ininterrotti di contribuzione, che vedono crescere costantemente nel tempo la propria retribuzione e che, quindi, hanno visto calcolare la propria uscita pensionistica sulla media della remunerazione degli ultimi anni di lavoro.
Questi due elementi messi insieme hanno fatto sì che ci si trovasse di fronte ad una vera e propria - come è stata definita da qualcuno - «piramide finanziaria», che rappresenta il nostro sistema pensionistico, nel quale vi sono giovani di trent'anni - non a caso un economista, Pennisi, ha scritto un libro intitolato La guerra dei trentenni - che pagano contributi molto più alti rispetto a quelli che pagavano i loro padri o i loro nonni proprio al fine di finanziare le pensioni di questi ultimi, con la prospettiva di pensioni molto più basse se non addirittura dimezzate rispetto a quelle dei loro padri e dei loro nonni. Dunque, tali soggetti finanziano un sistema pensionistico, senza partecipare ai benefici dello stesso.
È, quindi, un sistema iniquo dal punto di vista generazionale; è un sistema strutturalmente ingiusto; è un sistema che Giuliano Cazzola ha chiamato trappola insidiosa ed accattivante, in cui sembra che vi sia un trasferimento solidale da una generazione all'altra ma, in realtà, questo trasferimento è un vero e proprio depauperamento di una generazione a favore dell'altra.
Allora, per concludere, il disegno di legge di delega affronta, anche se non con interventi radicali ma con interventi progressivi, il nodo di una maggiore solidarietà generazionale, tendenzialmente sostenendo l'allungamento dell'attività lavorativa e, quindi, il mantenimento dei lavoratori anziani nel mercato del lavoro e sgravando il sistema pensionistico pubblico. Con la decontribuzione, inoltre, si affronta il problema della riduzione degli oneri contributivi sul costo del lavoro e, soprattutto, sul costo del lavoro giovanile. Insomma, a mio parere, questo provvedimento fornisce una prima traccia di sviluppo per la possibile soluzione di questioni che dovrebbero essere affrontate in futuro - qui, peraltro, è presente il ministro -, anche ponendo il problema di una più rapida evoluzione verso il metodo di calcolo contributivo e, quindi, intervenendo sul sistema di transizione previsto dalla riforma Dini che, certamente, è stato molto lungo.
Da questo punto di vista, vorrei apprezzare l'intento riformatore del Governo della Casa delle libertà, il coraggio dimostrato nell'affrontare un tema certamente delicato come quello delle pensioni e la volontà di uniformarsi agli indirizzi europei. Soprattutto, mi pare apprezzabile e da rimarcare positivamente l'incentivazione data allo sviluppo delle forme di previdenza complementare. Lo sviluppo della seconda gamba è, certamente, una delle chiavi di volta per ovviare all'involuzione del sistema pensionistico a ripartizione: si tratta, come ho cercato di descrivere, di un gatto che si morde la coda. Il sistema di previdenza complementare, ovviamente, è fondato sul principio della capitalizzazione e, quindi, della traduzione dei contributi versati in rendimento e in remunerazione pensionistica, senza che vi sia trasferimento di surplus ottenuto da altra fonte, ovvero, nel caso della ripartizione, dal frutto della ricchezza prodotta dal lavoro altrui. Credo che anche questo elemento vada valutato positivamente.
Da questi banchi vorrei, quindi, esprimere la mia soddisfazione non soltanto come parlamentare, ma anche come giovane italiano che si vede toccato in prima persona dal problema di una previdenza insolvente per i giovani: si tratta di un Enea che si trova a dover portare sulle spalle più di un Anchise - diciamo così - e che, in assenza di interventi risolutivi, rischia di rimanere prigioniero di una Troia in fiamma senza possibilità di scampo.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Alfonso Gianni. Ne ha facoltà.
ALFONSO GIANNI. Signor Presidente, siamo di fronte ad un provvedimento che dal punto di vista del Governo ha una grande valenza; quindi, per ciò che riguarda l'opposizione siamo di fronte ad un punto molto significativo su cui dare battaglia.
Siccome siamo in sede di discussione sulle linee generali, a questi termini mi limiterò, sottolineando come, dal nostro punto di vista, il provvedimento in esame rappresenti una delle gambe essenziali di un progetto profondamente negativo, che intende introdurre il sistema sociale del nostro paese all'interno del processo di globalizzazione, aderendo, in particolare, al carattere prevalente di quest'ultimo: mi riferisco alla riduzione di ogni forma di tutela e di garanzia per quanto riguarda la vita dei cittadini vuoi sul versante della sanità vuoi sul versante della scuola vuoi sul versante della previdenza. Perché avviene questo? Naturalmente, ci sono anche dei motivi di carattere politico-ideologico. La ventata di destra, di cui oggi conosciamo un culmine orgiastico nell'amministrazione Bush, indubbiamente, è un punto. In sostanza, l'idea che ognuno faccia da sé e che lo Stato debba retrocedere rispetto ai suoi doveri di intervento, di perequazione sociale e di tutela dei cittadini ha fatto larga strada.
Al di là di queste motivazioni, che sono vere, soprattutto per chi le porta avanti, perché io rispetto anche le opinioni che ritengo...
PRESIDENTE. I colleghi rispettino chi sta parlando...
ALFONSO GIANNI. A loro non interessa, non posso avere l'attenzione di tutti...
PRESIDENTE. Lei ha delle doti straordinarie. Sono io che non le ho. Prego, continui onorevole Alfonso Gianni.
ALFONSO GIANNI. Grazie, signor Presidente.
Dicevo che, indubbiamente, siamo di fronte anche ad un accanimento ideologico e politico, a una reazione politica nei confronti di un processo sociale e di emancipazione che ha costituito quello che oggi o ieri chiamavamo il Welfare State, ossia questo avanzamento delle classi sottoposte nei paesi occidentali, che non arrivava a un capovolgimento dei rapporti di forza e di potere, ma in ogni caso all'ottenimento di una serie di diritti e di garanzie. Infatti, si giungeva al fatto che lo Stato era costretto ad intervenire per garantire sicurezza sociale o gli uomini più illuminati all'interno del medesimo capivano che avrebbero dovuto farlo. Su questo tema sono stati scritti libri fondamentali e molte parole sono state dette. Naturalmente, vorrei ricordare al ministro Maroni - ma lui di certo ne sa più di me - e agli altri colleghi che tutto questo è stato costruito in periodi storici di grande difficoltà di quello che oggi voi chiamate Occidente. Mi riferisco, in altre parole, alla crisi economica del 1929, vale a dire alla manifestazione più evidente della validità delle teorie che preconizzavano lo scenario per cui un sistema capitalistico, così concepito, incorporasse l'inevitabilità di una crisi che avrebbe avuto conseguenze drammatiche su migliaia e migliaia, per non dire milioni, di famiglie. Questi interventi sono stati pensati negli anni della seconda guerra mondiale - il rapporto Beveridge è del 1944 - e lì si è costruita un'idea diversa di società.
Tutto questo a cui faccio riferimento, tutta questa cultura e progettualità che, a mio parere, in questo come in altri casi - ripeto: scuola, sanità e previdenza -, viene completamente travalicato, ha radici nell'Occidente. Non ditemi che adesso faccio riferimento ad una cultura o ad una civiltà altra. Anche se noi dovessimo accettare - ed io non l'accetto - il punto di vista di Addington, per cui siamo di fronte ad uno scontro tra civiltà, in questo momento è alla civiltà dell'Occidente che io faccio riferimento, quella a cui, teoricamente - secondo me, ipocritamente -, fa riferimento anche la Casa delle libertà. Lì è nata l'idea di una assistenza al cittadino e di un intervento del pubblico nell'economia che temperassero le malefatte - perdonatemi questa espressione - dell'iniziativa privata lasciata a sé stessa. Quindi, ci si riferiva ad un intervento che non metteva in discussione l'iniziativa privata, la sua liceità, il suo operare pratico e il suo carattere predominante nell'economia, ma che ne temperasse le conseguenze, appunto, con una rete di salvaguardia per le classi, i cittadini e i ceti più deboli.
Ora questo viene messo in discussione: è inutile girare attorno al problema ed affermare che non è così, poiché invece lo è da ogni punto di vista. Se noi privatizziamo l'istruzione, non introduciamo più libertà, ma privilegio per le classi più forti; se noi privatizziamo la sanità, non creiamo più efficienza, ma privilegio per le classi più forti. Si tratta, infatti, di un modello americano già comprovato che, in quella società, ha provocato disastri enormi che rischiano di essere ulteriormente ribaditi nella nostra.
Se nell'ambito della previdenza pubblica accettiamo il principio di una sua progressiva e rapida privatizzazione attraverso vari meccanismi che impongano al cittadino di difendersi - per ciò che concerne la sicurezza della propria anzianità - ricorrendo ad assicurazioni ed istituti di natura privatistica, siamo di fronte all'abbattimento di un pilastro di questo sistema sociale.
Questo è il quadro entro il quale si inserisce il disegno di legge in esame. Naturalmente non si possono imputare al gruppo di Rifondazione comunista i precedenti passaggi. Colleghi della maggioranza, vi richiamo ad una maggiore onestà politica: non potete continuare, attraverso un gioco da bambini - come è avvenuto oggi in Commissione - a ricordare fatti
avvenuti quando la sinistra era al Governo. Dite quello che pensate, quello che volete fare, ma non imputate ad altri una logica di schieramento che storicamente non ci appartiene. Noi eravamo contro la riforma Dini e, a causa di questo, si è persino verificata una miniscissione nell'ambito del nostro partito, che ne ha preceduta un'altra, ancora più corposa, quando chiedemmo al governo Prodi una svolta di politica sociale che, oltre i temi della riduzione dell'orario di lavoro e dell'occupazione, inglobasse anche un'attenzione nei confronti della condizione dei pensionati in questo paese.
La proposta di elevare a 500 euro le pensioni minime appartiene a Rifondazione comunista e non al Governo Berlusconi e al programma della Casa delle libertà, peraltro presentato ai cittadini dieci giorni prima del voto, come a dire: «Non me ne importa nulla del programma, ma ciò che conta è il potere». Il partito di Rifondazione comunista rivolse questa proposta al governo di centrosinistra che scioccamente, stupidamente non l'accettò, salvo poi verificare, anche nell'ambito di quel particolare ceto sociale, il disastro dei suoi consensi. Naturalmente, in questo caso, si tratta della conseguenza di atti sbagliati e di politiche più preoccupate delle alchimie di bilancio che non degli interessi e delle condizioni materiali in cui versano tanti lavoratori.
Detto questo, con il disegno di legge in oggetto, ci troviamo di fronte, da ogni punto di vista, ad una negativa accelerazione nei sensi che ho in precedenza indicato. Dove ha origine e come è stata motivata questa scelta effettuata dal Governo? Siamo di fronte ad una tipica concezione neoliberista, secondo la quale, per rilanciare la crescita economica e l'occupazione, sarebbe decisivo ridurre, contenere in modo consistente, da ogni punto di vista ed in ogni sua voce, il bilancio pubblico. Ciò, sotto il profilo del contenimento del sistema pensionistico pubblico e delle aliquote contributive che la finanziano, abbasserebbe il costo del lavoro e rilancerebbe la crescita e l'occupazione.
Si tratta di presupposti che non hanno un fondamento teorico, ma neppure un riscontro pratico se si fa riferimento ai paesi nei quali questi ultimi sono stati implementati e realizzati.
Un'analisi economica sincera, sufficientemente insensibile alle opzioni politiche di destra o di sinistra, per quanto possa essere una scienza obiettiva (non lo sarà mai fino in fondo perché su di essa incombono le aspirazioni, i desideri, i punti di vista, le opzioni culturali dei singoli che la esercitano, per cui l'obiettività assoluta non esiste e ciò, peraltro, è un bene) e depurata dalle propagande, dalle aspirazioni, dalle ansie di voler dimostrare teoremi precostituiti, può dimostrare che una pari riduzione di entrate e di uscite del bilancio pubblico ha, in realtà, un effetto negativo sulla domanda, sul PIL e sull'occupazione.
Si tratta del famoso teorema di Haavelmo, di una considerazione acquisita nella scienza economica la quale dovrebbe proteggerci dall'idea, dal presupposto - qui sì ideologico, nel senso della falsa coscienza - del risparmio della spesa pubblica, per giunta in settori decisivi e determinanti per la vita sociale come appunto quello di cui oggi ci stiamo occupando, vale a dire la previdenza (anche se parlassi di sanità o della scuola, non cambierebbe, sotto il profilo generale, il senso del mio ragionamento): l'idea di un risparmio in questi settori è, in realtà, nociva rispetto alla stessa crescita dell'economia in senso generale, a ciò di cui possono godere, sia pure in modo differenziato e diseguale, tutti gli strati sociali all'interno di un determinato paese o regione.
Vorrei sottolineare un aspetto con molta forza anche perché esponenti del Governo hanno contribuito a rafforzare questa mia idea. Peraltro, i dati (che il ministro Maroni ha definito essere di uno studio privato), forniti dal sottosegretario Brambilla, la dicono lunga rispetto al fatto che la spesa pensionistica italiana, depurata dalla quota dell'assistenza in tutte le sue parti ed in tutte le sue componenti, non è affatto la più elevata nel contesto
europeo e non è di per sé una spesa di carattere preoccupante. Vorrei ricordare, con riferimento ad un tema agitato sempre drammaticamente e drammaturgicamente, quello dell'incidenza eccessiva del costo del lavoro per unità di prodotto (ad essa viene attribuita una delle cause di intervento per quanto riguarda il problema della contribuzione), che non solo non è affatto uno dei più alti, ma addirittura si configura, in base alle ultime valutazioni, come uno dei più bassi in Europa (dati OCSE ed Eurostat).
Il valore italiano del costo del lavoro per unità di prodotto è pari a cento; è 174 quello tedesco, 142 quello francese, 136 quello belga, 133 quello britannico, addirittura 118 quello greco, 113 quello spagnolo e 105 quello olandese.
Vorrei soffermarmi sul dato tedesco che mi interessa maggiormente: siamo di fronte ad un'industria forte e competitiva in campo automobilistico (mentre noi, ministro Maroni, abbiamo deciso di affossare la FIAT, con un laissez-faire irresponsabile da parte di questo Governo); eppure, il costo del lavoro è alto. Peraltro, quella struttura industriale, quella capacità di produzione rende quel paese probabilmente più indipendente nello scenario internazionale per ciò che riguarda le scelte di politica e di alleanze.
Anche considerando il cuneo fiscale e contributivo nel nostro settore industriale, che pure è relativamente più alto rispetto ad altri, registriamo un valore pari ad 1,89 in Italia, quando questo, in un paragone con i paesi più industrializzati è di 1,93 in Francia e di 2,08 in Germania. In sostanza, l'allarmismo speso su questo terreno appare del tutto fuori luogo; d'altro canto, negli anni '90 l'Italia è stato uno dei paesi, tra i non moltissimi, nel quale il sistema pensionistico è stato interessato da riforme strutturali.
Si potrà discutere sulla portata, la dimensione ed il valore di queste riforme, ma non si può discutere, nel senso che è fuori dubbio, che interventi consistenti ed anche dolorosi vi siano stati. Gli obiettivi che sono stati perseguiti da questi interventi hanno riguardato il miglioramento della cosiddetta sostenibilità finanziaria del sistema pubblico obbligatorio, la razionalizzazione dei rapporti fra prestazioni e contributi sia dal punto di vista equitativo sia dal punto di vista attuariale nonché lo sviluppo della previdenza privata a capitalizzazione. Come vedete, si tratta di tre voci importanti, consistenti, che già hanno operato interventi molto forti rispetto al nostro sistema previdenziale.
Per quanto riguarda la sostenibilità finanziaria, un punto che viene sempre richiamato dai sostenitori dell'attuale controriforma del sistema pensionistico obbligatorio, è che nel corso degli anni '90 l'andamento del rapporto fra spesa e prodotto interno lordo si è stabilizzato ed ha invertito la tendenza, segnalando una riduzione del valore massimo, pari al 13,9 per cento raggiunto nel 1997, al 13,5 per cento nel 2000.
Nel corso di quest'anno il saldo fra le prestazioni previdenziali e i contributi sociali è stato negativo per un ammontare di quasi 30 mila miliardi di vecchie lire; tuttavia, nel corso dello stesso anno, le trattenute IRPEF operate dagli enti previdenziali a carico dei pensionati sono state pari a 40 mila miliardi delle vecchie lire, di modo che le prestazioni pensionistiche effettivamente erogate sono state inferiori di circa 10 mila miliardi di vecchie lire rispetto ai contributi incassati.
Potrei fare altri esempi: da questo punto di vista mi sembra che nel complesso sia maggiore l'allarmismo della realtà e che gli interventi che noi abbiamo contrastato in base ad una considerazione equitativa, che andava al di là del problema del deficit del bilancio, abbiano però già realizzato dal punto di vista, negativo a mio avviso, ma che ha prevalso, di chi li ha proposti, gli obiettivi prefissati. Perché allora intervenire ulteriormente attraverso questa pesante delega al Governo? Siamo di fronte ad una modificazione dei dati e ad una cancellazione della realtà per avanzare disegni che sono quelli di creare il prato verde, nell'espressione non degli ecologisti, ma degli economisti, a favore delle grandi finanziarie, per accendere
un sistema pensionistico in cui l'elemento privato rivesta la parte che sinora non ha avuto.
L'Eurostat include nella spesa pensionistica italiana i versamenti per i trattamenti di fine rapporto dei lavoratori dipendenti, i quali non sono assimilabili a prestazioni pensionistiche.
In secondo luogo, com'è già stato evidenziato - lo dicevo poc'anzi - le prestazioni pensionistiche italiane sono registrate al lordo delle ritenute fiscali, le quali, nel 1999, sono state di circa 40 mila miliardi, pari a quasi 2 punti percentuali del PIL. Se mettiamo insieme questi elementi, vediamo che l'allarme relativo al sistema pensionistico non ha ragione di essere.
Arrivo rapidamente alla conclusione, anche a causa - non capisco per quale ragione - della mancanza di voce.
PRESIDENTE. Prenda un bicchiere d'acqua.
ALFONSO GIANNI. Non è un problema. Al di là di ogni considerazione di carattere economico o econometrico, vorrei insistere su un punto. Ho cercato di dire - e lo dimostreremo anche nel corso del dibattito - che non siamo di fronte ad un rischio reale, ma ad una montatura che ha altre finalità. Però, se il problema c'è, questo deriva indubbiamente da due ordini di fattori, sui quali - allora sì - il Governo dovrebbe intervenire. Da un lato, se la base occupazionale si restringe e, quindi, la massa della contribuzione diminuisce, comunque la vogliamo intendere, evidentemente il sistema pensionistico ne soffre; dall'altro, se siamo di fronte ad una evasione contributiva così alta - credo che l'Italia detenga, se non il primato, il viceprimato dell'evasione contributiva, oltre più in generale di quella fiscale -, la previdenza ne soffre ancora di più. Bisognerebbe, quindi, agire su questi due elementi.
Per quanto riguarda il primo, mi rendo conto che non si tratta di un problema semplice, perché riguarda il rilancio complessivo dell'economia, il problema di porre il tema della piena occupazione al centro delle preoccupazioni della politica economica.
Quando nacquero quelle idee sul welfare State, cui prima facevo riferimento, come il famoso scritto del 1944 di Lord Beveridge, il presupposto era la ricerca della piena occupazione. La logica era che tutti dovessero lavorare e che questo garantiva un sistema efficiente e continuativo nel tempo di Stato sociale che poteva proteggere tanto i giovani, quanto i disoccupati - augurabilmente per un periodo breve -, quanto gli anziani.
Se viene meno il presupposto, cioè la ricerca della piena occupazione, evidentemente il sistema previdenziale è in difficoltà. Se si sostituisce l'obiettivo della piena occupazione con l'accettazione del precariato, della flessibilizzazione del rapporto di lavoro, dell'incertezza del domani, anche per chi è in età lavorativa, allora stiamo ancora peggio. Se si sostituisce il sistema retributivo con quello contributivo, da ogni punto di vista, si capisce che chi ha incertezza di continuità nei propri rapporti di lavoro, difficilmente potrà contribuire in maniera utile per garantire una propria pensione nell'età della vecchiaia.
Tutto si tiene, ma questa non è una grande scoperta! Dovrebbe essere l'ABC per chi si occupa di questo problema, non è cioè un tema di dottorato universitario! Si tratta di un tema di banale storia dell'economia come non si insegna e che si potrebbe insegnare nelle scuole italiane, al massimo a livello di primo liceo.
Allora, ministro Maroni, visto che lei è ministro del lavoro, qualora non solo telefonasse e quindi non fosse soltanto ministro facente funzioni delle telecomunicazioni ovvero fosse operatore del settore in un altro dicastero o consumatore...
ROBERTO MARONI, Ministro del lavoro e delle politiche sociali. La ascolto...
ALFONSO GIANNI. ...e si occupasse di programmi che riguardano lo sviluppo della piena occupazione, anche attraverso forme di riduzione di orario, anche con iniziative eccezionali di incontro di domanda
e offerta di lavoro, probabilmente questo tema della previdenza, negli anni futuri, si porrebbe in termini meno allarmistici, fermo restando che non è così e che l'allarmismo è un ricatto ideologico falso per aprire la strada alla previdenza privata.
Il secondo argomento riguarda l'evasione fiscale. Il Secit, qualche anno fa (non ho guardato nuovamente, poiché non ne ho avuto il tempo, gli ultimi dati disponibili) stimava, nell'ordine di 55 mila miliardi di vecchie lire, l'evasione contributiva (mi riferisco ai datori di lavoro che non pagano i contributi per i loro lavoratori). Si tratta di una voragine, naturalmente, all'interno di un'evasione fiscale generale che riguarda altre voci e che supera i 300 mila miliardi.
Siamo la maglia rosa o la maglia nera - a seconda dei punti di vista -, nel contesto europeo, per ciò che riguarda l'evasione fiscale. È un'anomalia italiana; è una cattiva specificità presente nel nostro paese. Sia chiaro: ciò non deriva dall'attuale Governo, ma affonda in radici lontane, in una sorta di compromesso sociale dei governi democristiani, poi dei governi del centrosinistra, per cui veniva sostanzialmente tollerata un'evasione fiscale, anzi, da alcuni, veniva anche teorizzata come una forma della vitalità del sistema economico italiano, di quella - diciamo così - iniziativa sotto pelle, nel tessuto, nella dimensione piccola che se ne frega (per usare un linguaggio che il compianto Sordi avrebbe, con termini ancora più pesanti, utilizzato) della legislazione ma che produce vivacità economica. Tutto questo ha funzionato per una breve stagione, quella rappresentata nei film di Alberto Sordi; oggi, francamente, non funziona più e, comunque, rappresenta un problema. Infatti, nel contesto europeo, un tasso di evasione, attorno al 14, 15 o 16 per cento - di fronte ad un tasso di evasione, questo sì, di carattere fisiologico, probabilmente non oltre comprimibile, che, nel caso tedesco, è stimato attorno al 5, 6 per cento - e, quindi, un differenziale di 10 punti, rappresenta un'anomalia negativa dell'Italia rispetto al contesto europeo.
Dovremmo agire su questi due fattori: allargare la base occupazionale, signor ministro, ma, anziché con quella porcheria di schema di decreto legislativo sull'orario di lavoro, facendo esattamente il contrario, riducendolo, almeno nel comparto manifatturiero, in modo da offrire occasioni di lavoro per i giovani, moltiplicando le iniziative che prevedono occupazione e combattendo contemporaneamente quest'enorme evasione fiscale. Se facessimo ciò, scopriremmo che, in fondo, questo sistema previdenziale si può prevedibilmente tenere in equilibrio e che, contemporaneamente, si potrebbero portare le pensioni, da troppo tempo vergognose e sotto il livello statisticamente acclarato della povertà, ad un livello almeno della dignità umana.
In questi ultimi anni si è creata molta ricchezza finanziaria. Gli analisti economici stimano che il rapporto tra le retribuzioni del lavoro dipendente ed i profitti è andato indietro rispetto addirittura ai mitici anni sessanta. Insomma, una ricchezza si è prodotta e, d'altro canto, una produttività è cresciuta. Questo lo vediamo (non occorre essere degli analisti economici o degli esperti di organizzazione del lavoro per constatare che la produttività è cresciuta), ma, evidentemente, i frutti di questa produttività hanno seguito altre strade, tra cui quella di una ricchezza senza confini, senza regole e senza possibilità di controllo che, peraltro, questo Governo di centrodestra ulteriormente vieta con una lunga serie di provvedimenti che, in questo anno, sono stati approvati esclusivamente a favore della proprietà, della nuda e cruda proprietà, da quella mobiliare a quella finanziaria a quella di altra natura. Sono state tutelate tutte le forme di proprietà.
Il problema riguarda la redistribuzione di questa ricchezza prodotta. Naturalmente, ciò deve essere fatto in considerazione soprattutto delle condizioni di chi è fuori dal mercato del lavoro e, quindi, degli anziani.
Dunque, il problema della previdenza, in tutti i suoi aspetti, torna ad essere centrale, spero, nella politica sociale del nostro paese. Non risolve il problema il tentativo di irreggimentare il sindacato all'interno di una logica neocorporativa di cui l'obbligatorietà del conferimento del trattamento di fine rapporto nei fondi pensione costituisce una delle manifestazioni concrete. È una strada contro la quale, per quanto sta in noi, ci batteremo con molta energia; è una strada che non risolve i problemi.
In sostanza, l'idea è: ti abbasso la pensione pubblica, la sua qualità, la sua certezza e, così, ti costringo ad accedere a forme individuali o collettive di pensione che hanno una natura puramente privatistica. Da questo punto di vista si arretra: si arretra rispetto alla civiltà europea, al sistema di Stato sociale, al tipo di convivenza civile, a quel compromesso, raggiunto tra le classi sociali, che ha segnato la storia ed anche - diciamo così - la relativa possibilità di crescita di tutti i settori sociali, sia pure in modo diseguale e, naturalmente, in un conflitto che, però, ha fatto la civiltà del modello europeo. Questo modello ha significato molto! Correre dietro a quello americano comporta, non a caso, in politica, anche l'accettazione del peggio dell'Amministrazione americana: una logica di guerra e di oppressione estesa sul globo terrestre!
Difendere il suddetto modello sociale significa anche collegarsi alle grandi battaglie per la pace; e, in nome della pace, signor Presidente, poiché ho superato il tempo a mia disposizione, la ringrazio per la tolleranza.
PRESIDENTE. Si figuri, onorevole Alfonso Gianni, non ha poi superato di molto il tempo concessole.
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