Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 266 del 17/2/2003
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Discussione del disegno di legge: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 gennaio 2003, n. 4, recante disposizioni urgenti per la prosecuzione della partecipazione italiana ad operazioni militari internazionali (3564) (ore 15,55).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 gennaio 2003, n. 4, recante disposizioni urgenti per la prosecuzione della partecipazione italiana ad operazioni militari internazionali.


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(Discussione sulle linee generali - A.C. 3564)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare dei Democratici di sinistra-l'Ulivo ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del regolamento.
Avverto che le Commissioni III (Affari esteri) e IV (Difesa) si intendono autorizzate a riferire oralmente.
Il relatore per la III Commissione (Affari esteri), onorevole Michelini, ha facoltà di svolgere la relazione.

ALBERTO MICHELINI, Relatore per la III Commissione. Signor Presidente, il provvedimento in esame mira al sostegno economico dei nostri militari impegnati nelle missioni internazionali - si tratta di 26 missioni per un totale di quasi 10 mila uomini - e, quindi, ad assicurare le loro paghe, al fine di evitare quanto è avvenuto nella passata legislatura quando, per due mesi, chi era impegnato per la pace e la sicurezza di altri popoli è rimasto, appunto, senza lo stipendio.
Questo è lo scopo del reiteramento delle missioni e non sono in discussione le missioni stesse, anche se nell'ambito dell'Enduring freedom - con riferimento alla missione degli alpini - si è parlato di cambiamento sostanziale di questo impegno. Ed è su ciò che vorrei svolgere alcune considerazioni.
Occorre ricordare che l'operazione Enduring freedom è stata avviata in Afghanistan, a seguito degli attentati contro gli Stati Uniti dell'11 settembre 2001, con l'obiettivo di combattere il terrorismo internazionale e i regimi nazionali che lo sostengono.
L'11 settembre ha cambiato il mondo - lo ha cambiato radicalmente - e non perché sia stato colpito il cuore economico e finanziario di New York o il Pentagono (ricordiamoci che tra le 3.000 vittime, in quella giornata, erano rappresentate 90 etnie). In un mondo globalizzato, in un mondo sempre più interconnesso, nel quale non sfugge, anzi è esaltato, il valore dei simboli, dei segni, si può affermare che quel giorno (l'11 settembre) è stato colpito il mondo intero nei suoi valori più profondi: la libertà, democrazia, la civile convivenza, lo stesso genere umano, nonché il rispetto della persona e dei suoi diritti inalienabili.
È emerso, allora, in tutta la sua tragica dimensione il fenomeno del terrorismo internazionale, che basa sull'odio e sulla violenza indiscriminata la sua terribile azione. Dopo l'11 settembre - e tutti noi non dovremmo dimenticare quei giorni -, evidentemente il terrorismo è diventato la sfida più pressante per le democrazie del mondo libero. È il terrorismo che attecchisce, si alimenta e cresce nei regimi totalitari, che sono terreno fertile per questa piaga del XXI secolo.
Dopo l'attentato le Nazioni Unite, esse hanno preso posizione e l'eccezionalità dell'evento fu allora dimostrata dall'applicazione dell'articolo 5 del Trattato della NATO e dalla risoluzione n. 1373 dell'ONU, nella quale, tra l'altro, veniva riaffermato il diritto all'autodifesa.
È da qui che dobbiamo partire ed è in questa dimensione che è stata e continua ad essere inserita la partecipazione italiana in Afghanistan, proprio al fine di aiutare il radicamento della democrazia, la stabilità, che costituiscono la condizione per lo sviluppo e, dunque, per il benessere di quelle popolazioni tormentate da decenni di guerra.
Certo, è necessario spiegare, approfondire, far partecipare il Parlamento, la nostra opinione pubblica e l'opposizione che, in una situazione di cambiamento e di evoluzione rapida della scena internazionale, se oggi fosse stata al governo avrebbe avuto gli stessi strumenti legislativi e avrebbe dovuto assumere le stesse decisioni per non trovarsi fuori dal contesto internazionale. Evidentemente, avrebbe adottato tali decisioni con divisioni al suo interno e grazie ai nostri voti, come è


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accaduto anche nella scorsa legislatura per altri interventi, in particolare per quello nella ex Iugoslavia.
Durante il dibattito in Commissione sull'invio degli alpini, spesso ho sentito affermare dall'opposizione che si tratterebbe di una missione molto diversa da quella definita a suo tempo, discutendo sul significato delle espressioni peacekeeping o combact mission e così via.
È una posizione capziosa, perché è vero che in un primo tempo abbiamo mandato forze navali ma, in realtà, il pacchetto completo del nostro impegno, presentato anche alla Commissione e al Parlamento, fin d'allora parlava di forze aeree, navali e terrestri e, inoltre, fin dall'inizio era stato applicato il codice penale militare. Si trattava di una coalizione di sessanta paesi a guida americana per la lotta al terrorismo.
Ora, il nostro contributo si adatta alla nuova situazione sul terreno. C'è una diversa realtà operativa. Una cosa è stare a Kabul, per garantire la sicurezza dell'autorità interinale afgana, altra cosa, evidentemente, è stare nella zona di Khost, sul confine con il Pakistan. Anche a Kabul, tra l'altro, la missione è a rischio. Sono stato personalmente a Kabul, come inviato del telegiornale durante l'invasione sovietica: si tratta di situazioni di grave rischio, più in città che all'esterno. Del resto, sulla pericolosità della missione nessuno ha fatto mistero, a partire dal ministro Martino. C'è da osservare, tuttavia, che il contingente britannico, che ci ha preceduti in quella zona, in sei mesi non ha avuto neanche uno scontro a fuoco. E questo è un elemento che ci deve far pensare.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE FABIO MUSSI (ore 16)

ALBERTO MICHELINI, Relatore per la III Commissione. Gli scontri a fuoco si verificano anche durante operazioni di peacekeeping - diciamo così - puro. La finalità di queste operazioni di pattugliamento è proprio quella di mantenere la pace. Khost non è una prima linea, anche se le incursioni di terroristi con lancio di razzi contro la base e gli scontri tribali ne fanno una missione pericolosa, come tutti sappiamo. Di ciò siamo tutti consapevoli.
Da quel che leggo anche sui giornali, il SISMI sta operando sul posto per preparare il terreno, anche attraverso contatti con le autorità della zona di Khost, ufficiali e non, compresi i cosiddetti signori della guerra. Questo dovrebbe rappresentare una garanzia e - come dire - preparare il terreno. L'invito che rivolgo all'opposizione è il seguente: invece di confrontarci sul significato delle parole - anche se le regole di ingaggio, naturalmente, devono essere ben definite -, dovremmo dimostrare unanime solidarietà nei confronti del nostro contingente non soltanto con le parole ma anche con il voto in favore dell'impegno di pacificazione in un paese come l'Afghanistan, del quale l'Italia è, per molti motivi, partner privilegiato.
Siamo d'accordo sulla riforma del codice penale militare sulla quale siamo in ritardo. Siamo d'accordo sulla doverosa relazione sui risultati delle diverse missioni: ce ne sono ventisei in corso e bisogna capire se è il caso di continuare con alcune o se è il caso di concluderle e se siano state utili. È chiaro che ciò è necessario. Dobbiamo conoscere i risultati. Siamo d'accordo che ci troviamo all'ennesima reiterazione di missioni internazionali. Ogni sei mesi è la stessa storia. Quindi, va predisposta una legge quadro per evitare quest'assurdità. Siamo d'accordo a valutare l'opportunità di proseguire alcune missioni. Ma non possiamo essere d'accordo con un atteggiamento a volte catastrofista da parte dell'opposizione, che non tiene conto dell'impegno che il nostro Governo ha preso, che l'Italia ha preso nel suo insieme. In quei paesi ci sono i nostri uomini che appartengono a tutti. L'Italia, come Governo, ha preso l'impegno di fornire il suo contributo alla causa della pace e alla lotta contro il terrorismo.

PRESIDENTE. Il relatore per la IV Commissione, onorevole Ascierto, ha facoltà di svolgere la relazione.


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FILIPPO ASCIERTO, Relatore per la IV Commissione. Signor Presidente, il provvedimento in questione è teso a differire i termini relativi alla partecipazione dei contingenti di personale militare e civile ad operazioni internazionali in corso. Ricordiamo che, oggi, sullo scenario internazionale molti contingenti di militari stanno operando e contribuendo in modo efficace a mantenere la pace e a ricostruire lo strato sociale, giuridico e di sicurezza di diversi paesi.
Basti pensare alla Macedonia, al Kosovo, all'Albania, alla Sfor (Stabilization Force), alla MSU (Multinational Specialized Unit), alla MAPE, alla TIPH2 a Hebron, alla UNMEE in Etiopia. Ebbene, non è possibile, né pensabile mettere in discussione un'esigenza come quella del differimento dei termini. Piuttosto, ci auguriamo - ed è questo l'auspicio che abbiamo espresso anche in precedenza - che sia casomai l'ultima volta che dobbiamo differire i termini di questo decreto-legge e che il provvedimento deliberato dalla Commissione difesa possa trovare l'approvazione per poter stabilire in modo definitivo ciò che in realtà è definitivo, perché il nostro impegno per la pace nel mondo è fatto di atti concreti, come, appunto, l'impegno dei nostri militari. Si tratta di impegni che non saranno di breve durata, perché il percorso è molto lungo e pieno di disagi.
È proprio per questo motivo che la continua evoluzione degli scenari internazionali e dei relativi equilibri strategici, causati in primis dalla complessa attività di contrasto al terrorismo internazionale e dalle continue mutazioni delle dinamiche politiche e militari globali derivanti, impone anche per il nostro paese un'urgente ed intensa attività normativa intesa a dare continuità e copertura giuridica all'azione delle forze armate all'estero, in ragione dei numerosi impegni assunti dal nostro paese nelle varie sedi internazionali, come l'ONU, l'Unione europea, la NATO, l'OSCE e così via.
È questo lo scopo del decreto-legge in esame, inteso, come dicevo, a differire il termine relativo alle partecipazioni del nostro personale militare. L'intervento legislativo risulta necessario per dare la copertura finanziaria in ragione dei nuovi e maggiori oneri derivanti dalla partecipazione alle predette operazioni e del necessario adattamento alle particolari condizioni operative della disciplina prevista da talune disposizioni riguardanti il personale e le procedure per l'acquisizione di urgenza di beni e servizi. La scelta di intervenire con lo strumento del decreto-legge è giustificata dalla sussistenza dei requisiti di necessità ed urgenza determinata dall'avvenuta scadenza dei termini previsti dal precedente provvedimento di proroga. Infatti, i termini previsti dai precedenti decreti-legge, con le successive modificazioni, sono scaduti il 31 dicembre 2002.
Per la relativa disciplina, salvo taluni particolari profili, lo stesso provvedimento rinvia alle disposizioni del decreto-legge 28 dicembre 2001, n. 451 e successive modificazioni, che prevedono una regolamentazione uniforme per tutte le operazioni internazionali applicabile, però, esclusivamente entro i limiti temporali previsti dallo stesso provvedimento. Bisogna dire che alcuni sforzi sono stati fatti per omogeneizzare le missioni ed abbiamo visto come in passato vi erano trattamenti economici diversi da missione a missione. Ma ancora di più lo faremo all'interno del testo che in Commissione difesa ha visto l'impegno di tutte le parti politiche.
Peraltro, non sussistendo motivi che giustifichino modifiche all'assetto normativo delineato dal citato decreto-legge n. 451 del 2001, per le disposizioni da applicare al personale impiegato e per le altre particolari esigenze connesse con le operazioni internazionali, si è ritenuto rinviare alle relative disposizioni del provvedimento in parola, salvo taluni adeguamenti riguardanti specifiche autorizzazioni di spesa e la corresponsione del trattamento economico accessorio.
Parlando di trattamento economico abbiamo apportato una modifica al testo; tale modifica si è resa necessaria e va anche uniformata ad un altra missione di cui adesso farò menzione. In base alla


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legge 8 agosto 1996, n. 428, al personale militare, non facente parte dei contingenti, è attribuito, nella misura intera, il trattamento di missione all'estero di cui al regio decreto n. 941 del 1926. Per contro, al personale contingente è corrisposta l'indennità di missione ridotta al 90 per cento (abbiamo visto come, nel tempo, questa missione ha subito una variazione, passando dall'80 per cento al 90 per cento). Tuttavia, va rilevato che il personale dell'European Union Monitoring Mission (EUMM), che opera su tutto il territorio balcanico, non è inquadrato in contingenti militari ed era, rispetto agli altri, in condizioni di inferiorità. Ciò è avvenuto perché non poteva contare su una struttura militare dove alloggiare, necessaria per venire incontro alle esigenze del territorio. Pertanto, tale personale era sottoposto, rispetto agli altri, a spese e a diverse esigenze.
Noi abbiamo modificato tutto ciò attraverso un emendamento con il quale è stata aumentata la copertura del 30 per cento; in questo modo si è data la possibilità a tale personale di reperire alloggi in loco e tutto ciò che è possibile in termini di logistica.
Ora bisogna estendere queste misure anche alla EUMM, che opera nei territori dell'ex Iugoslavia e nell'ambito della quale operano poliziotti e carabinieri che hanno gli stessi disagi e le stesse necessità a cui facevo prima riferimento. Al personale militare vanno riconosciuti l'impegno e la nostra vicinanza, quindi mi auguro che, tra l'altro, si possa riconoscere l'intera missione. Infatti, quella decurtazione serve a coprire le spese logistiche di ciò che è stato messo a disposizione dal Ministero della difesa. In ogni caso, non si può fare altro: come si può, infatti, pensare di poter accogliere i militari od inviarli all'estero senza le strutture, le mense ed i presupposti logistici di cui abbisogna una missione? Bisogna fare uno sforzo e se questo provvedimento non lo renderà possibile, sicuramente a rendere giustizia sarà il testo approvato in Commissione difesa.
I contingenti militari sono stati retribuiti in dollari, in marchi, ed oggi in euro. A causa di questi passaggi e della svalutazione della moneta, i militari subiscono una diminuzione della retribuzione che ad essi spetta per la loro delicata missione.
I nostri militari rappresentano uno strumento effettivo di pace e sono impegnati in quei luoghi a dimostrare l'impegno dell'Italia per la pace tra i popoli. Essi, a cavallo delle legislature, hanno contribuito a dare un'immagine positiva del nostro paese, consolidata anche nel momento attuale. Quindi, è per questi motivi che dobbiamo riconoscere ai nostri militari il rispetto, la considerazione e l'affetto che, sicuramente, la stragrande maggioranza - se non la totalità - del nostro paese gli conferisce.
Sono questi i simboli concreti di pace che si accompagnano alle tante espressioni di pace che, in questo momento, si manifestano in tutto il mondo. Il nostro paese sta compiendo fino in fondo la sua parte e lo fa con la sua parte migliore - lo ripeto - rappresentata dai nostri ragazzi e dalle nostre ragazze in divisa.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

SALVATORE CICU, Sottosegretario di Stato per la difesa. Signor Presidente, il Governo condivide le relazioni e gli argomenti rappresentati dai relatori per quanto riguarda sia l'individuazione della natura delle missioni sia la rappresentazione dell'attuale discussione che è o dovrebbe essere limitata ad un percorso di proroga di missioni già discusse, approfondite, valutate, considerate e legittimate dal Parlamento. Si dovrebbe pertanto trattare di una conversione di un decreto-legge finalizzata soprattutto alla copertura finanziaria. È già, infatti, in atto il trasferimento di uomini, di soldati nei territori decisi dal Parlamento (con una particolare natura e destinazione). Oggi dovremmo limitarci a discutere della copertura finanziaria che risulta necessaria a garantire ulteriore dignità a questi nostri uomini rispetto alla credibilità e all'autorevolezza che stanno dimostrando in quello scenario, anche con riferimento alla responsabilità


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di identità nazionale che rappresentano nello scenario stesso.
Il Governo, così come non ha voluto sottrarsi alle richieste legittime e giuste che, in sede di Commissione, sono state ripetutamente rappresentate, ancora una volta, oggi, all'inizio di una discussione che vede coinvolto il Parlamento, non vuole certamente sottrarsi a quell'approfondimento, a quella riflessione, a quella richiesta di valutazione in ordine, peraltro (ciò è condivisibile) allo scenario internazionale che oggi si sta vivendo e alla sua pericolosità potenziale.
È chiaro, inoltre, che il Governo vuole dimostrarsi attento a questo percorso e partecipe di quell'ulteriore approfondimento che occorre in tutti i vari aspetti.
Bisogna però rilevare un aspetto: si è parlato tanto e, qualche volta a mio giudizio in maniera non troppo precisa, dell'informativa da trasmettere al Parlamento. In particolare, si è lamentato più volte che l'informativa al Parlamento, in Assemblea o nelle Commissioni, non sia stata resa. Tuttavia, se facciamo riferimento agli interventi che si sono susseguiti ed ai tempi in cui sono stati svolti, considerando la situazione in maniera serena e conforme al momento in cui stiamo vivendo, credo che possa essere smentita l'affermazione secondo la quale il ministro della difesa non abbia reso le opportune informazioni alle Commissioni, al Parlamento. Mi riferisco, in maniera particolare, alla presenza in Commissione difesa del ministro Martino il 17 dicembre dell'anno scorso. In quella data, il ministro della difesa, in maniera precisa, ha...

VALDO SPINI. Oggi è il 17 febbraio.

SALVATORE CICU, Sottosegretario di Stato per la difesa. Grazie per avermelo ricordato...

PRESIDENTE. La data è nota, onorevole Spini.

SALVATORE CICU, Sottosegretario di Stato per la difesa. Grazie, onorevole Spini. Lei è sempre così puntuale ed arguto. La ringrazio anche per questo suo intervento.
Come dicevo, già dal 17 dicembre, nell'ambito di un confronto che registrava la stessa riflessione che oggi rileviamo in aula, il ministro Martino puntualmente ha configurato le due fondamentali missioni che riguardano soprattutto la nostra presenza in Afghanistan, ribadendo ancora una volta quale significato assumessero la missione cosiddetta ISAF e la missione Enduring freedom. Essendo sulla missione ISAF tutti concordi, credo che l'approfondimento maggiore debba essere svolto sulla missione cosiddetta Enduring freedom. Già dal 17 dicembre il ministro Martino così dichiarava: «a metà gennaio, partirà l'advance party che svolgerà le attività organizzative per lo spiegamento del contingente. Nel mese di febbraio avrà luogo il trasferimento del main body; dopo un periodo, di circa due settimane, di integrazione e di familiarizzazione con le forze statunitensi, le nostre unità passeranno sotto il controllo operativo americano. Pertanto il transfer of authority avrà luogo prevedibilmente a metà del mese di marzo per un impiego non superiore a sei mesi. Esso sarà rilasciato a seguito di attenta valutazione e chiara definizione dei compiti, delle regole di ingaggio e dei limiti d'impiego. Scelti per le loro caratteristiche e capacità, i reparti che prevedibilmente saranno impegnati nelle operazioni stanno svolgendo intense attività addestrative».
Al di là di questo aspetto e ad ulteriore precisazione di quelli che sarebbero stati il compito e la natura dell'operazione, a seguito di un'interrogazione dell'onorevole Deiana, il ministro ritornava in Parlamento e chiariva, in maniera puntuale e precisa tutte le modalità, e in maniera particolare il percorso delle cosiddette regole di ingaggio, così specificando: quanto alle regole di ingaggio, esse attengono a profili tecnico-operativi, riguardando le modalità pratiche che danno attuazione alla missione, come definita nelle sue finalità e dunque sono espressione della discrezionalità tecnica della catena di comando militare che è responsabile della


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loro applicazione. Al riguardo ricordo che il comando operativo delle forze resta al capo di Stato maggiore della difesa italiano. Nondimeno, è ancora prematuro parlare di regole di ingaggio che per loro natura dovranno essere aderenti alla situazione di fatto in cui si dovrà operare. Quello che comunque posso garantire è che esse comunque autorizzeranno l'uso della forza nel rispetto del diritto internazionale, della legge sui conflitti armati, nonché delle leggi e dei regolamenti nazionali che saranno congrui alla finalità della missione assegnata e dunque per concorrere alla neutralizzazione di tutte le sacche di terrorismo ancora presenti, al fine di creare le condizioni di sicurezza e di stabilità necessaria alla riedificazione dell'Afghanistan.
Il ministro Martino quindi dopo il 17 dicembre, rispondendo all'interrogazione presentata dall'onorevole Deiana, spiegava e riferiva sulle regole di ingaggio, rinviando in ogni caso, attraverso quelle che sono le modalità tecnico-operative che rientrano nella discrezionalità del capo di Stato maggiore della difesa, alla metà di marzo. Oggi, come giustamente ricordava l'onorevole Spini, e lo ribadisco, siamo al 17 febbraio ed il termine della metà di marzo deve ancora arrivare.
Nel momento in cui arriveranno l'assegnazione e la modulazione dei compiti, ci sarà allora l'individuazione definitiva, rispetto alla situazione che si determinerà sul territorio, e rispetto al ruolo e alle responsabilità che dovranno essere assegnate alla scala del comando operativo, delle regole d'ingaggio, senza sottrarsi come è logico alle ulteriori sollecitazioni del Parlamento e dei singoli parlamentari rispetto a quello che è il ruolo delle Commissioni competenti.
In ordine ad altri aspetti di notevole interesse, il rappresentante del Governo, anche in relazione a questi non si è sottratto. Mi riferisco alla cosiddetta questione che riguarda l'applicazione del codice di procedura penale.

SILVANA PISA. Di guerra.

SALVATORE CICU, Sottosegretario di Stato per la difesa. Per quanto riguarda tale aspetto, noi abbiamo più volte ribadito che non vogliamo assolutamente sottrarci ad una valutazione che porti ad una rivisitazione e ad una sistemazione organica; anzi, abbiamo assunto questo impegno e lo stiamo portando avanti.
Il ministro Martino, sin dal 17 aprile 2002, ha costituito un'apposita commissione di studio, composta da rappresentanti della magistratura militare ordinaria e amministrativa, da esponenti del mondo accademico e da qualificati ufficiali delle Forze armate, con il compito di proporre, secondo ampie linee guida, lo schema di disegno di legge delega per la revisione delle leggi penali militari di pace e di guerra, la ridefinizione dei limiti delle giurisdizioni penale e militare e l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario militare.
La complessità e la delicatezza della materia, l'elaborazione, che è oramai in fase avanzata, rendono necessari ulteriori approfondimenti, nonché una proroga - peraltro limitata nel tempo - dei termini per la scadenza relativa al deposito di questa bozza di lavoro al 31 marzo prossimo venturo.
Capisco che in passato, durante i precedenti governi, tutti gli ordini del giorno venivano puntualmente definiti, ottemperati ed eseguiti (cosa che non è assolutamente vera); ma vorrei far rilevare che quell'ordine del giorno prevedeva un impegno che è stato assunto e che verrà ottemperato, conformemente a quanto dichiarato dal Governo anche nelle Commissioni, entro il mese di marzo di quest'anno. Quindi, anche su questo, il Governo vuole rassicurare circa il fatto che si sta lavorando e si sta lavorando con la cura che la delicatezza della materia richiede, per definire un aspetto che mai prima d'ora era stato sollecitato e che è stato responsabilmente attuato da questo Governo per dare ancora una volta serenità - in questo caso giuridica e giudiziaria - ai soldati che si trovano a rappresentare la credibilità delle istituzioni.


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Per quanto riguarda le altre missioni, credo che il sottosegretario Baccini abbia fornito un'esaustiva risposta davanti alle Commissioni riunite affari esteri e difesa, facendo il punto della situazione per ciascuna delle missioni e delineandone anche l'evoluzione futura.
Credo pertanto sia auspicabile che, al di là del giusto confronto, dei giusti approfondimenti, dei giusti rilievi e delle giuste istanze, questo Parlamento possa trovare una condivisione, una unanimità di vedute rispetto alla partecipazione dei nostri soldati alle missioni internazionali di pace, soprattutto in un momento in cui questo Parlamento può dare un segnale forte rispetto a situazioni che nulla hanno a che vedere con il problema dell'Iraq, che con esso non hanno alcun legame, essendo missioni internazionali che il Parlamento ha potuto valutare, verificare e legittimare in passato e che ancora oggi può verificare e legittimare - rispetto peraltro ad una semplice copertura finanziaria, essendo il resto della missione già stato definito - in ordine ad una partecipazione che deve avere sostegno di tutto il Parlamento e di tutti gli italiani (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia e di Alleanza nazionale).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.

ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, vorrei innanzitutto ringraziare il sottosegretario Cicu per l'estrema attenzione con cui ha cercato di ricostruire i vari passaggi attraverso i quali il Governo ha risposto alle obiezioni e ai problemi relativi agli impegni militari dell'Italia all'estero. Ovviamente, non condivido nulla di quello che il sottosegretario ha detto: non condivido la ricostruzione e, soprattutto, non condivido la logica politico-istituzionale - che lui, invece, ha fortemente ribadito - circa la natura di questo voto.
Sostanzialmente, signor sottosegretario, lei partecipa di un meccanismo culturale e politico-istituzionale che ha preso vigore - non soltanto con questo Governo, devo dire la verità, ma durante gli ultimi dieci anni -, un meccanismo di slittamento sostanziale della dimensione militare dalla responsabilità politica - ad esempio, la politica estera, la valutazione politica delle nostre alleanze e delle nostre priorità all'estero - ad un contesto di primato del militare ovvero di un nascondimento del militare sotto la specie di compiti burocratico-amministrativi.
Per cui, adesso, praticamente, il problema sembra essere quello di assicurare il salario ai nostri militari. Non è questo il problema! Non è assolutamente questo! Il rinnovo di una missione è un atto politico, una scelta politica, cari colleghi! Non è routine amministrativa. Non è assolutamente routine! È una scelta, un'opzione e risponde a strategie ed interessi, ad un'idea della politica estera e della difesa italiana. Questo è il punto che solleviamo continuamente e su cui continuiamo a fare chiarezza, e non perché non sia chiaro. Credo che ciò sia assolutamente chiaro a moltissimi colleghi e al sottosegretario Cicu il quale non credo non capisca quale sia il problema. Però, far finta che il problema non esista, fa parte del modo in cui si gestisce, culturalmente ed istituzionalmente, la dimensione militare, la guerra - parliamoci chiaro - che, nella nostra cultura, nella gente italiana, non incontra un grande gradimento, come la manifestazione del 15 febbraio scorso - su cui non voglio spendere parole - ha dimostrato.
Si tratta, dunque, di confezionare la minestra in vari modi: con l'ideologia che ha accompagnato, nei dieci anni che abbiamo alle spalle, le nuove guerre, con il nuovo concetto strategico di difesa; con un abbassamento, un depotenziamento della responsabilità politica nel rinnovare tale scelta. Per questo motivo, diventa un problema amministrativo, di routine, di cassa, di bilancio. Credo che ciò debba essere spezzato, soprattutto perché comporta un passaggio grande e significativo di chiarificazione delle politiche complessive estere di difesa che il nostro paese persegue, e restituisce dignità e potere sovrano a questo


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Parlamento che non è fatto di minori e sarebbe il caso che discutesse veramente della posta in gioco.
Noi abbiamo sotto gli occhi un decreto-legge, recante disposizioni urgenti per la prosecuzione della partecipazione italiana ad operazioni militari internazionali, che mette insieme cose diversissime (già questo, come metodo, non è casuale; e non è imputabile soltanto a questo Governo); si impacchettano scelte, missioni, partecipazioni italiane ad operazioni che hanno - ed hanno avuto - una natura, una funzione ed un obiettivo completamente diversi. Ciò fa parte, appunto, di quell'operazione culturale di depotenziamento e nascondimento della posta in gioco reale, di ciò che vi è dietro queste scelte. Più volte, abbiamo chiesto che ogni missione militare all'estero venga discussa nel merito, per quello che è, in maniera circostanziata e non burocratica perché servono i soldi e i soldati! Questo mi sembra veramente un'offesa al Parlamento. Dopo vari mesi, a che punto siamo nel Kosovo? Quasi quattro anni, fa la NATO ha scatenato una campagna di bombardamenti contro l'ex Iugoslavia alla fine della quale la provincia del Kosovo è passata sotto amministrazione ONU.
Qual è la situazione? Qual è la politica estera italiana in Kosovo? Com'è il bilancio dell'operazione? Positivo? Non credo proprio! La situazione è, per molti versi, drammatica: quella economica è catastrofica, mentre continua la pulizia etnica, in direzione diversa da quella che ha giustificato e legittimato la cosiddetta guerra umanitaria, e continuano gli scontri violenti tra le comunità albanesi.
Allora, rinnovare la nostra partecipazione all'operazione può essere considerato alla stregua di un atto routinario (perché c'è bisogno di dare soldi ai nostri soldati)?

FILIPPO ASCIERTO, Relatore per la IV Commissione. C'è bisogno di continuità!

ELETTRA DEIANA. Io contesto radicalmente tale impostazione, la quale concorre a far slittare sempre di più la dimensione della politica estera e della strategia della difesa, da una parte, sul terreno del niente strategico e politico-culturale e, dall'altra, su quello dell'assecondamento delle strategie di altri paesi, il che è visibilissimo in ciò che sta accadendo intorno alla questione irachena.
Mi spiace, sottosegretario, di dover contestare radicalmente l'affermazione da lei fatta circa la soluzione di continuità che vi sarebbe tra Enduring freedom e l'Iraq. Lo faccio utilizzando i documenti del Pentagono, le dichiarazioni di Bush e quelle del consigliere alla sicurezza nazionale, Condoleezza Rice. In un'intervista rilasciata a Panorama, quest'ultima ha spiegato assai bene come vi sia una connessione strettissima tra Enduring freedom, la guerra al terrorismo e l'Iraq. Lo dice non solo la signora Rice - non lo dico io! -, ma anche, in ogni occasione, il Presidente Bush!
Quando si è svolto il dibattito parlamentare in questa sede, alcuni colleghi dell'opposizione hanno cercato di camuffare l'operazione Enduring freedom separandola dall'operazione ISAF. Il comando americano, tuttavia, ha spiegato che ambedue fanno parte della stessa strategia: Enduring freedom. Allora, si possono fare tutte le scelte che si desiderano, ma ciò deve avvenire in un contesto di trasparenza parlamentare massima e di assunzione di responsabilità. Se si vuole che l'Italia riprenda l'elmo ed il moschetto, lo si dica e si convinca la gente che ciò corrisponde ai nostri interessi strategici, alla nostra sicurezza e non so bene a cos'altro. Si tratta di una posizione che io ritengo aberrante, ma che, comunque, dev'essere discussa per quello che è e non ricorrendo a continue infiorettature buoniste che cercano di nascondere la reale natura dell'operazione, sostanzialmente per non disturbare eccessivamente un'opinione pubblica che, come è stato dimostrato il 15 febbraio scorso, su questi temi ha introiettato una sensibilità ed una forza civile di opposizione di grandissima portata.
Credo che, con la guerra in Iraq, ci troviamo di fronte ad un vero e proprio


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salto di qualità sul piano delle concezioni strategiche della difesa dei paesi occidentali, al tentativo degli Stati Uniti d'America di imporre al mondo il proprio primato militare, geopolitico e strategico, alla deflagrazione di quel contesto di regole, istituzioni internazionali, trattati e convenzioni di varia natura che, nel secondo dopoguerra, avevano faticosamente cercato di separare la politica dalla guerra. Siamo in un contesto che, nel corso dei dieci anni che abbiamo alle spalle, ha progressivamente minato alla radice un insieme di vincoli, di lacci e lacciuoli, di natura positiva, che impedivano, tentavano di impedire, o hanno impedito, in una certa misura, la possibilità di ogni singolo Stato di ricorrere all'uso individuale della forza militare.
Oggi siamo al ritorno di una giungla per quanto riguarda la possibilità del ricorso della forza militare, con la differenza, rispetto al tragico novecento, che coloro che possono ricorrere alla forza militare, coloro che si dichiarano legittimati a ricorrere alla forza militare sono gli Stati Uniti d'America. E noi stiamo avallando questa strategia, noi stiamo avallando il processo di depotenziamento e di deflagrazione degli istituti internazionali, delle regole, del diritto. Siamo in una situazione per la quale ci stiamo assumendo una responsabilità gravissima.
L'operazione Enduring freedom e, quindi, la partecipazione del contingente italiano di alpini è, da questo punto di vista, sintomatica e paradigmatica di quello che sta avvenendo. Il settimanale tedesco Der Spiegel ha scritto che da parte degli Stati Uniti è calato uno strano silenzio sul nemico numero uno: Osama bin Laden. In altre parole, il principe del male, che ha affannato l'opinione pubblica internazionale nei mesi successivi ai tragici avvenimenti dell'11 settembre, è sparito dall'agenda delle priorità degli Stati Uniti. Ed è sparito al punto che l'impegno militare angloamericano nella zona più pericolosa dell'Afghanistan, cioè il sud est, è deperito molto rapidamente negli ultimi mesi. Questo perché un nuovo principe del male si è affacciato all'orizzonte, e questo nuovo principe del male reca il nome di Saddam Hussein.
Allora, come si fa a dire che la guerra all'Iraq non c'entra niente con la guerra all'Afghanistan? I bambini piccoli ci possono credere. Il Governo italiano fa come quello americano: cerca di rincretinire, infantilizzare l'opinione pubblica democratica, pacifista e semplicemente di buonsenso. Nel provvedimento in esame si mette insieme, in questa logica che ho spiegato, tutto quanto: dai carabinieri impegnati ad Hebron, di cui non si sa nulla, all'operazione Nibbio.
Io credo che questa operazione di partecipazione alla guerra, in un contesto di guerra sul territorio, guerra guerreggiata, sollevi delle questioni gigantesche, cioè si inserisca in quel contesto di guerre continue, che hanno caratterizzato gli anni novanta all'insegna di una costruzione di una nuova strategia mondiale sprezzante delle regole e continuamente ricorrente a meccanismi ideologici a mio modo di vedere amorali, come la guerra umanitaria o altre cose del genere. In questo caso, però, si tratta di un ulteriore passaggio, all'interno di quel contesto, che solleva questioni di primo grado.
In primo luogo, quella guerra in Afghanistan fa parte dello stesso teatro operativo della guerra in Iraq e fa parte della stessa strategia definita da Bush guerra infinita ed indefinita, suffragata dalla nuova teoria militare americana della guerra preventiva, che fa carta straccia del ruolo dell'ONU e di quel dettato, presente in alcune Costituzioni, presente nel Trattato della NATO, nella Carta delle Nazioni Unite, secondo il quale è meglio, anzi, costituisce un obbligo ricorrere alla pace per dirimere le controversie internazionali, lasciando da parte la guerra.
Noi, in questo contesto, stiamo assistendo ad un rovesciamento dei meccanismi di funzionamento del rapporto tra Consiglio di Sicurezza e singoli Stati. Secondo gli articoli della Carta delle Nazioni Unite è il Consiglio di Sicurezza a decidere, non uno Stato, ancorché potentissimo come gli Stati Uniti, a dettare le


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regole. Noi, praticamente, stiamo avallando tutto questo. Lo vogliamo dire che stiamo avallando tutto questo? Perché lo avalliamo? Spiegatecelo, cari colleghi dell'opposizione!

PRESIDENTE. Della maggioranza!

ELETTRA DEIANA. Non dell'opposizione. È stato un lapsus freudiano!

PRESIDENTE. Ha sbagliato legislatura, onorevole Deiana.

PIERO RUZZANTE. Pensava alla prossima.

FILIPPO ASCIERTO. Non ti illudere.

ELETTRA DEIANA. Ho sbagliato legislatura. Giusto.
Colleghi della maggioranza e signori del Governo spiegateci perché questo va bene, ma non raccontateci favole!
Per quanto riguarda il collegamento con l'Iraq, il provvedimento contiene un elemento straordinario di rottura; è di chiarificazione da una parte (io sono anche contenta che si chiarisca) ma, dall'altra, è di estrema gravità perché un'operazione come la partecipazione di soldati italiani ad una guerra sul territorio comporterà anche dei rischi per loro. Il collega Ascierto è sempre molto propenso ad esaltare certi valori; io, però, prima di esaltare certi valori vorrei capire il perché di questi valori e perché si debba mettere in gioco la vita. Quali sono i motivi? Quali sono gli interessi? Ci sono gli interessi, e allora parliamo degli interessi italiani, così che possiamo avere la possibilità di discutere sapendo le cose come stanno e non semplicemente ricorrendo a retoriche patriottiche che non servono assolutamente a nulla: né a dare appoggio e comprensione a quei ragazzi, né a chiarire il ruolo dell'Italia nel contesto internazionale. Tutto questo riguarda il collegamento con l'Iraq.
In secondo luogo, vi è la questione degli ingaggi che non è affatto chiara. Si tratta di un punto essenziale: qual è il rapporto tra il comando statunitense e il comando italiano? Non è chiaro perché ci sia un comando italiano, un generale italiano e vi sia poi il primato di un comando statunitense. Ciò rende più oscuro il contesto logistico-operativo del contingente italiano sul piano militare; non lo chiarisce affatto. Tra l'altro - e qui voglio sottolineare un altro aspetto -, in una dinamica internazionale, in una storia internazionale come quella cui stiamo assistendo, in cui gli Stati Uniti d'America si permettono di dichiarare infidi, di mettere sotto scacco grandi paesi europei come la Germania e la Francia, quasi accusati di essere complici, o comunque poco propensi a combattere adeguatamente il nuovo principe del male, quali garanzie possiamo avere di un corretto rapporto, egualitario tra il comando italiano e quello statunitense? Io non ho alcuna fiducia che questo funzioni, quindi temo che il contingente italiano possa essere utilizzato per condurre una guerra che ha già mostrato aspetti nefasti. Al dramma della guerra, al dramma dei bombardamenti sulla popolazione civile afgana si sono aggiunti, infatti, episodi a dir poco inquietanti.
Vi è la sicurezza che il veto di cui dispone il comandante italiano abbia effettivamente una funzione di controllo e di autorità rispetto a quello che le truppe italiane non possono fare? Insomma, credo opportuno, alla luce di tutte queste considerazioni, che il Parlamento sia messo nelle condizioni di svolgere una discussione seria sulla politica internazionale e sulle alleanze. Siamo in una fase in cui tutto cambia: la logica, prima ancora degli assetti, la cultura, i meccanismi di fondo. In un contesto di questo genere, accontentarsi della bella favola secondo la quale staremmo semplicemente per approvare un fondo finanziario per i soldati in partenza, costituirebbe l'ennesima riprova di una scelta che, da una parte, è irresponsabile e, dall'altra, cerca furbescamente di costruire un contesto di banalizzazione per scelte di politica estera e di concezione della difesa che hanno ormai stravolto definitivamente l'obbligo costituzionale di ripudiare la guerra, nonché il


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contesto internazionale in cui quell'obbligo era operativo. Mi riferisco agli articoli della Carta delle Nazioni Unite che individuavano l'ONU come soggetto istituzionale terzo e non come lacchè degli Stati Uniti (lo ripeto: non come lacchè degli Stati Uniti). Oggi noi siamo qui ad assecondare e a legittimare questo travolgimento.
Per questi motivi, non possiamo che essere contrari al provvedimento e ribadire le posizioni che sin qui abbiamo sostenuto.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Spini. Ne ha facoltà.

VALDO SPINI. Presidente Mussi, onorevole Cicu, onorevoli colleghi, innanzitutto vorrei ringraziare la Presidenza della Camera, che ha voluto attribuire questo decreto-legge all'esame congiunto delle Commissioni esteri e difesa, con ciò smentendo l'ipotesi e l'idea che si trattasse semplicemente di un fatto burocratico ed aprendo una discussione di vasto raggio sulle modalità e le finalità delle missioni italiane all'estero. È da componente della Commissione esteri che svolgerò il mio intervento: però, se mi è permesso, vorrei prima fare un passo indietro, tornando alla mia precedente responsabilità di presidente della Commissione difesa, per dire che trovo veramente incoerente, ed anche poco serio, il fatto che si incrementino gli impegni di difesa all'estero del nostro paese mentre il bilancio della difesa subisce forti tagli. In altre parole, per non far pagare le tasse ai ricchi non solo si diminuiscono i fondi per la sanità, l'assistenza sociale, la scuola, la ricerca scientifica, ma si tagliano anche le risorse destinate alla difesa, e ciò nel momento in cui si incrementa il numero dei nostri uomini e delle nostre donne impegnate all'estero. Ciò è poco serio, onorevoli colleghi, e mi sia consentito di farlo rilevare.
Per quanto riguarda il decreto-legge, credo si debbano vedere, in molte delle sue voci, alcuni spunti importanti di politica estera: si parla di Hebron, si sente riecheggiare la Macedonia, l'interposizione tra Etiopia ed Eritrea, la Bosnia Erzegovina, lo stesso Kosovo. Sono tutti spunti che appartengono ad un'età politica, cioè ad un tentativo di corresponsabilizzare le istituzioni internazionali nell'affrontare, e risolvere, le contraddizioni aperte all'indomani della caduta del muro di Berlino, all'indomani della guerra fredda. In molte occasioni è cioè sembrato possibile, grazie alla caduta della pregiudiziale ideologica, poter avviare il mondo verso situazioni in cui questi problemi venivano affrontati con un forte concorso internazionale e con la possibilità di mobilitare le istituzioni internazionali sugli stessi.
Tutto ciò rende ancor più stridente il contrasto con la situazione attuale, nella quale, invece, una vicenda, quella dell'Iraq, viene affrontata con ricorrenti prese di posizioni unilaterali. Ciò, tra l'altro, ha reso evidente quale sia la perdita sul piano politico dell'aver dismesso la precedente impostazione, che voleva prima la formazione di una grande coalizione e poi la definizione delle scelte su come affrontare determinati problemi.
Avere, invece, invertito l'ordine dei rapporti nel senso di affermare «adesso vi dico l'obiettivo poi, in qualche modo, gli altri seguiranno», credo abbia effettivamente messo in difficoltà ed in crisi un importante concerto di relazioni internazionali. Vorrei far rilevare che tra i pacifisti americani - ce lo dicono oggi autorevoli giornali internazionali - vi è chi ha gridato «grazie Francia e Germania», volendo in qualche modo sottolineare che è stata l'azione di alcune nazioni europee a rivalutare ed a rimettere al primo posto gli organismi internazionali come le Nazioni Unite. Certo, purtroppo, questi pacifisti non possono gridare «grazie Italia», questo va da sé.
Credo si debba guardare a queste missioni con la volontà di affrontarle singolarmente. Non è vero che non si sa niente di nostri carabinieri a Hebron: l'onorevole Selva, che è giustamente e correttamente presente, si ricorderà che, quando siamo stati in missione in Israele, essi ci hanno parlato anche del trattamento non sempre


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benevolo che ricevevano dai coloni israeliani. Credo, quindi, che questo possa essere ricordato.
Vorrei dire che, ad esempio, rispetto alla situazione della Macedonia, che molti davano per perduta, considerandola ormai una spirale di confronto interetnico in qualche modo inarrestabile, l'intervento di peacekeeping è stato positivo ed ha ottenuto risultati importanti. Vorrei, anzi, far rilevare che, tra queste missioni, ve ne sono due in cui avviene qualcosa di molto significativo, ossia la cessazione di un intervento sotto l'egida NATO e l'assunzione di un intervento ufficialmente da parte dell'Unione europea. Ciò avviene per la forza di polizia in Bosnia Erzegovina ed avviene per la Macedonia. Certo, questo è qualcosa di importante, se solo si pensi che, quando l'Italia affrontò il tema dell'Albania con l'operazione Alba, di fronte alla mancata partecipazione di alcuni partner europei, la missione fu effettuata da soli europei, ma non poté fregiarsi del nome dell'Unione europea. Pertanto, questi aspetti devono essere certamente presi in considerazione e sottolineati.
Credo, tanto più, che vada apprezzata la nostra volontà di discutere a fondo il tema dell'Afganistan. Ringrazio il sottosegretario di non essersi riservato di intervenire al termine della discussione, ma di essersi esposto con considerazioni preliminari: ciò dimostra una correttezza di cui vorrei assolutamente dargli atto. Tuttavia, credo che questo tema debba essere veramente trattato in profondità. Non è che non abbia letto attentamente tutte le dichiarazioni rese dal ministro Martino e da altri uomini di Governo; tuttavia ho anche il torto di leggere altre dichiarazioni sui giornali; ad esempio, sul Corriere della Sera ho letto alcune dichiarazioni - che spero siano autentiche (mi fido del giornalista) - del capo della base Salerno, dove si stanno recando i nostri alpini, il maggiore John Hansen. Secondo quanto riportato dall'articolista, questo maggiore americano, che è lì da sei mesi, afferma: «È un posto pericoloso, infido». Ed indicando le montagne ad est aggiunge: «I razzi arrivano sempre da lì: quattro alla settimana. Snervante. È la linea del fronte, quel che rimane di questa guerra. Di notte attraversano il confine, sparano. Mirano gli elicotteri, il simbolo di ciò che odiano: noi. Sono contento di andarmene». Questo è scritto sul Corriere della Sera di oggi. Allora non credo che siamo fuori dal seminato chiedendo che cos'è questa missione.
È vero - come è stato giustamente detto - che ogni missione, anche quelle classiche di peacekeeping, presenta dei rischi: non vi è alcun dubbio, altrimenti non le condurrebbero dei militari. Tuttavia, il problema vero è la caratteristica della missione, ossia se questa possa essere - come abbiamo pensato anche inizialmente, esprimendo nell'aprile dell'anno scorso un voto favorevole - una missione di peacekeeping o se, invece, abbia caratteristiche diverse, cioè di sostituzione di militari americani in operazioni attive di ricerca e, quindi, di attacco nei confronti di formazioni guerrigliere o terroristiche di vario genere o di vario segno.
Se così fosse, il Governo avrebbe il dovere di dirlo con chiarezza al Parlamento e di consentire a quest'ultimo di esprimersi sulla missione così com'è. Il sottosegretario Cicu ha affermato giustamente che, come affermato dal ministro Martino, conosceremo le regole di ingaggio verso metà marzo.
Tuttavia, rispetto alle decisioni che dobbiamo prendere, questo ci priva di un punto di orientamento. Penso che, nell'ambito della discussione sulle linee generali, si abbia diritto di sviluppare argomenti molto importanti aventi anche attinenza con gli emendamenti.
Vi ricorderete che quando ad aprile abbiamo affrontato il tema di Enduring freedom il nostro gruppo, già allora, chiese il motivo per cui tale operazione avesse il codice penale militare di guerra e non quello di pace. Ci venne risposto che entro breve tempo si sarebbe provveduto al mutamento del suddetto codice e ad un chiarimento in tale direzione. Oggi dobbiamo registrare che tale mutamento, anche se tuttora annunciato, non vi è stato.


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La singolarità dell'adozione del codice militare di guerra rispetto alle altre missioni (che hanno il codice militare di pace) forse è veramente la riprova di quanto diciamo: non siamo di fronte ad un'operazione di peacekeeping, ma ad un'operazione di altro segno. Ciò anche perché - come sapete - dal codice militare di pace discende una responsabilizzazione personale dell'operatore militare, mentre dal codice militare di guerra discende una dispensa da tale responsabilizzazione personale ed una responsabilizzazione del comandante che si suppone debba trovarsi di fronte ad una serie di minacce alle quali ha il diritto di reagire per la tutela dei suoi uomini.
Della serie di dichiarazioni succedutesi da parte degli americani ricordo quella del portavoce di Enduring freedom che ha detto: gli alpini vengono a combattere. Dunque, ritengo che quanto detto legittimi i nostri interrogativi. L'onorevole Alberto Michelini, relatore per la III Commissione, chiede unanime solidarietà intorno alle nostre truppe. Diamo volentieri tale solidarietà, ma credo sia giusto politicamente discutere le finalità, i modi e la situazione in cui le nostre truppe si trovano. Devo dire onestamente che leggendo oggi la suddetta dichiarazione i nostri dubbi vengono confermati. Non vorrei che quando a marzo avremo le regole di ingaggio sia troppo tardi per vederli smentiti.
Vogliamo una discussione sulle linee generali seria per trattare i temi che abbiamo posto e che trovano sbocco anche negli emendamenti da noi presentati. Infatti, sul codice militare di guerra vi è un emendamento dei nostri rappresentanti in Commissione difesa (l'onorevole Minniti, l'onorevole Ruzzante qui presente ed altri) affinché tra 60 giorni questo non sia più in vigore. Sapete che nel frattempo al Senato è insorto un problema molto delicato, cioè si è fermato il provvedimento sull'abolizione totale della pena di morte nell'ordinamento italiano collegata alla vicenda del codice penale militare di guerra.
Credo non si possa oggettivamente negare che quando abbiamo votato ad aprile il sostegno alla partecipazione dell'operazione Enduring freedom gli Stati Uniti non avessero ancora cominciato a parlare di intervento in Iraq. Di tale intervento si è cominciato a parlare in estate ed a settembre, fortunatamente, le Nazioni Unite hanno avuto la forza e la capacità di assumersi il problema. Probabilmente, se non se lo fossero assunto, un'iniziativa unilaterale vi sarebbe già stata. Lo dico anche a chi pensa che le Nazioni Unite siano ormai qualcosa di talmente vuoto o caduco che si debba prescinderne. Invece, credo che un'analisi degli avvenimenti ci faccia comprendere che l'Assemblea generale di settembre ha permesso alle Nazioni Unite di riprendere il filo di tale vicenda.
È evidente che una volta manifestatasi la questione dell'Iraq stia avvenendo una sostituzione di truppe americane, che vengono dirottate altrove, con truppe italiane.
Credo quindi sia legittimo che - di fronte a una posizione che, del resto, ogni tanto, in modo oscillante, anche i membri del Governo hanno condiviso, cioè che non si può parlare di intervento in Iraq senza una deliberazione delle Nazioni Unite - da parte nostra si ponga il problema (non solo di difesa, ma anche di politica estera) di cosa significhi questa missione degli alpini in Afghanistan, vale a dire in quale quadro di politica estera essa si collochi. Naturalmente, ciò non diminuisce assolutamente la nostra solidarietà politica e non impedisce neanche il soddisfacimento della richiesta, poi approvata in Commissione, che questi militari abbiano delle indennità adeguate. Infatti, aver letto che essi si trovavano di fatto di fronte ad una decurtazione della loro indennità, in una situazione così difficile e così complessa, ha trovato ovviamente la nostra protesta e quindi il nostro voto favorevole per un emendamento al riguardo. L'onorevole Ascierto ha detto che si augura che il Governo accetti tale emendamento. Ebbene, io spero proprio che lo accetti perché, qualora così non fosse, l'onorevole Ascierto sarebbe coerente con le sue battaglie in favore delle forze armate (e quindi con i voti e con le posizioni da lui assunte nel passato) non votando questo decreto. Tuttavia, mi auguro che il Governo


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accetti questo emendamento, in quanto ritengo che esso sia un emendamento di buon senso.
Proprio perché vogliamo mantenere il massimo di solidarietà politica - peraltro mi sono anche intrattenuto su talune missioni (tra cui anche quella dei Balcani) proprio per sottolineare alcuni aspetti e dati positivi conseguiti pur in una situazione difficile - intendiamo però enucleare con chiarezza i problemi politici. Se gli alpini vanno al posto dei soldati americani a snidare i terroristi di Al Qaeda il Governo ha il dovere di dirlo e di chiedere su questo un voto trasparente e di non dire che si tratta di peacekeeping, dove si sa che si può rischiare la mina o si può rischiare l'attacco, ma non si va in maniera attiva a cercare il nemico: almeno queste sono le regole di ingaggio del peacekeeping che abbiamo sempre conosciuto, perché altrimenti si passa ad altre figure che si sono manifestate nel diritto internazionale, come peaceenforcing.
Credo quindi sia giusto da parte nostra chiedervi, visto che ci dite che si tratta di un'operazione di peacekeeping, di giustificare che questa sia realmente un'operazione con tali caratteristiche. Credo peraltro che nell'esame dei nostri emendamenti non mancherà la possibilità di dimostrarlo, mentre manca attraverso una di queste cartine di tornasole che è quella del diverso codice penale militare che viene utilizzato in questa situazione rispetto ad altre. Ma non manca anche rispetto al dato che saremmo in una situazione ben diversa nel valutare questo punto se il Governo avesse avuto un altro atteggiamento per esempio sulla questione irachena, di fronte alla quale mi sia consentito di dire che - diretta TV o non diretta TV - l'impostazione del Governo non credo rappresenti oggi la tendenza maggioritaria del popolo italiano e la sua iniziativa. Noi parliamo praticamente in simultanea perché so che oggi alle 18 comincia il vertice straordinario europeo dei primi ministri e quindi non possiamo sapere come andrà, però certamente se posso lanciare un auspicio è quello che si abbia maggiore consapevolezza del valore dell'unità dell'Unione europea cercando di evitare di mettere sullo stesso piano documenti bilaterali che si sono sempre fatti in Europa (li abbiamo fatti anche noi) e documenti multilaterali a otto che rappresentano non il documento bilaterale di due paesi che si sono incontrati, ma una sorta di prefigurazione di un polo alternativo all'interno dell'Unione europea.
Ecco dunque che le questioni che poniamo mi sembrano estremamente serie, siano esse sull'Afghanistan, siano esse sull'Iraq. Quindi il Parlamento italiano, se si riserva il giudizio sull'Iraq, in rapporto anche al tema delle Nazioni Unite, coerentemente dovrebbe riservarsi il giudizio su forze che invece vanno a sostituire militari americani che vengono disimpegnati per portarli nell'area del Golfo. Ho cercato di sceverare l'argomento anche entrando veramente nei particolari, ma oltre a ciò ed oltre a quello che faranno gli altri colleghi che interverranno, credo proprio che siano anche i nostri emendamenti a rappresentare l'occasione di una verifica, in un senso o nell'altro, della situazione. Difatti, non è certamente impossibile discutere di queste cose. Ho già una volta citato il senatore Kennedy, il quale a proposito di Iraq ha detto: wrong war in wrong moment (guerra sbagliata in un momento sbagliato).
Ma ho visto che l'ex comandante della NATO, Wesley Clark, ha dichiarato: non abbiamo mostrato rispetto per paesi come la Germania e la Francia e, finché resteremo uniti all'Europa, potremo smuovere il mondo, ma da soli no. Inoltre, ha accusato il Presidente di fare un'operazione chirurgica sbagliata attaccando l'Iraq, invece di concentrarsi nella lotta contro Al Qaeda ed impedire il riarmo atomico della Corea del nord. Dunque, se anche un ex comandante della NATO può permettersi tali affermazioni, non credo che se le diciamo noi ciò dimostri un atteggiamento antioccidentale o antiamericano, in quanto si parla di una discussione politica estremamente legittima.
Magari, io avrei evidenziato altre priorità rispetto a quelle sottolineate dal generale Wesley Clark, soprattutto la risoluzione


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del problema israeliano-palestinese, che mi sembra veramente il punto focale e fondamentale per isolare il terrorismo nel mondo islamico e, in particolare, nel mondo arabo. Tuttavia, la lettura della suddetta dichiarazione ci porta ad affermare che un dibattito è comunque lecito.
Allora, vogliamo aprire questo dibattito e riteniamo che le dichiarazioni del Governo siano senz'altro in buona fede, ma fanno riscontro a dichiarazioni di altra natura che hanno bisogno di una verifica e di una considerazione che, probabilmente, è ottenibile solo con le regole di ingaggio.
Tra l'altro, so che qui sono presenti anche esperti in materia, come l'attuale presidente della Commissione difesa, onorevole Ramponi, che ha un pedigree militare di tutto rispetto e che credo sappia benissimo quanto sia determinante il tema delle lettere di ingaggio.
Vorremo, inoltre, capire se l'inserimento che sta per avvenire all'interno del comando operativo americano lasci dei margini al generale italiano per muoversi ed eventualmente far valere altre impostazioni.
Questo decreto-legge per essere approvato a larga maggioranza ha veramente bisogno di trasparenza, di chiarezza e di precisione. Perché se si tratta di peacekeeping si può ripetere quanto è avvenuto ad aprile, cioè si può assumere un atteggiamento favorevole, ma se si gabella su un punto particolare per peacekeeping quello che non è, il nostro atteggiamento evidentemente è di grande interrogativo e perplessità.
Dunque, anche se do atto della buona volontà al sottosegretario Cicu, ritengo non basti citare le dichiarazioni dell'onorevole Martino rese il 17 dicembre (per questo ho fatto - e me ne scuso - quell'interruzione sul fatto che oggi è il 17 febbraio). Dal 17 dicembre di acqua sotto i ponti ne è passata e ne è passata molta, le dichiarazioni sono state rese; c'è veramente bisogno di capire quale sia l'atteggiamento. Ecco perché anche il nostro voto è collegato alla posizione che il Governo assumerà nei confronti dell'Iraq; infatti - come è stato giustamente sottolineato - il tema dell'Afghanistan è estremamente connesso a quello dell'Iraq e, da questo punto di vista, vogliamo un'assunzione di responsabilità di politica estera da parte del Governo veramente a tutto tondo.
Credo che, se l'Italia avesse avuto una vocazione di politica estera, sarebbe stata quella di recitare un ruolo di ricucitura in Europa e non invece un ruolo di schieramento così fermo nei confronti della parte britannica come si è verificato.
Vi è anche una pronuncia del Presidente della Repubblica che invita a ricercare il bandolo della matassa nella solidarietà o nella funzione di aggregazione in Europa che può essere esercitata dai sei paesi fondatori. Ma devo anche qui rilevare che l'Italia è stato l'unico dei sei paesi fondatori a firmare la lettera degli otto paesi solidali con gli Stati Uniti, che avrebbe avuto la funzione di dimostrare che l'Europa non sarebbe solidale, ma che alcuni paesi sentono il bisogno di esprimere questa solidarietà.
Ritengo che la battaglia contro il terrorismo ci debba trovare solidali, ma credo - e su questo sarei d'accordo con le affermazioni del generale americano - che sarebbe prioritario colpire e chiedere solidarietà contro la rete di Al Qaeda, piuttosto che facendosi promotori di una guerra preventiva, con la conseguente instaurazione di un principio pericolosissimo nelle relazioni internazionali, quale quello che viene oggi prefigurato.
Sono queste considerazioni aprioristiche o di propaganda? No, colleghe e colleghi, si tratta di considerazioni di estrema serietà, che ho svolto suffragandole con prove fattuali, con le dichiarazioni e con le situazioni concrete che abbiamo di fronte.
Allora, non dubitiamo che venga fatto tutto il possibile perché il nostro contingente si muova nelle migliori condizioni di sicurezza. Ma mi sembra di aver dimostrato che è il contesto di politica estera che cambia e che non ha chiarezza di collocazione. Ed è sul contesto di politica estera che i Democratici di sinistra pongono, in modo forte ed esigente, questi


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problemi nel corso della discussione, chiedendo lo scioglimento, speriamo positivo, di nodi di grandissimo rilievo dal punto di vista della politica estera e della politica di sicurezza. Come dicevano anche autorevoli commentatori, siamo convinti che, se l'Italia ritrovasse il bandolo della solidarietà europea, in particolare fra i sei paesi fondatori, avrebbe, probabilmente, una grossa voce da far sentire. Ho letto, oggi, articoli ed interventi di estremo interesse che ci incitavano in questo senso. È evidente che un'Italia unita su questo aspetto potrebbe esercitare un ruolo importante nella politica europea e nella politica estera.
Ma non potete chiederci di avallare uno spostamento rispetto alle tradizionali posizioni europeistiche del nostro paese, quelle che hanno caratterizzato anche forze politiche di grande rilievo ed importanza negli anni scorsi. Non potete chiederci di capovolgere questo atteggiamento, in favore di una linea che, invece, ha visto la divaricazione con il nucleo originario degli Stati fondatori e l'indebolimento della posizione europea.
Allora, credo stia a voi muovervi. Sta a voi ritornare sui vostri passi e riacquisire la capacità di movimento che rappresenta, veramente, ciò che può impedire una divaricazione pericolosa tra Stati Uniti ed Europa. Tale divaricazione non si impedisce facendo il «più 1» e, in qualche modo, l'alleato più fedele e cercando di emarginare paesi come la Francia, la Germania e il Belgio. La situazione si recupera attraverso la capacità di ripristino di una vera e seria rispettabilità delle istituzioni internazionali, del multilateralismo, di una filosofia avversa ad ogni intervento unilaterale. Sta, quindi, a voi muovervi, se volete questa solidarietà. Sta, quindi, a voi cambiare le vostre impostazioni, se volete la solidarietà del Parlamento. Noi, con le nostre impostazioni, siamo fedeli e coerenti a quella che è sempre stata un'impostazione europeistica e multilaterale della politica estera italiana. In questo senso, non c'è diversità tra ciò facevamo al Governo e ciò che facciamo all'opposizione. C'è la volontà di mantenere fermi e costanti questi fili che sono importanti elementi della politica estera del nostro paese.
Ho parlato, sperando che questo discorso possa servire, vale a dire non per informarvi sulla nostra posizione, ma sperando di poter concorrere a formare una posizione. Nei prossimi giorni ci aspettano scadenze molto importanti, tra le quali il dibattito di politica estera sull'Iraq. Ebbene, il mio appello è il seguente: non dimenticate la tradizionale politica estera italiana, che è multilaterale e che non è di sostegno all'unilateralismo. Non dimenticate l'europeismo del nostro paese. Non uscite da questo alveo. Ascoltate la gente. Anche il Presidente della Camera ha espresso questi concetti, commentando la grande manifestazione di Roma: bisogna ascoltare la gente. Ecco: ascoltate la gente.
Allora, credo che non serva venire a ripetere che la nostra impostazione originaria, per quanto riguarda l'Afghanistan, è stata un'impostazione di peacekeeping. Occorre saper collocare queste affermazioni nel contesto di una presa di posizione chiara e precisa sullo scacchiere di politica estera, così determinante e importante nel nostro tempo, per ciò che andiamo ad affrontare.
Per questo, non si tratta semplicemente di approvare un finanziamento, che speriamo, tra l'altro, sia congruo, perché all'inizio non lo era; si tratta, invece, di esprimere, da parte del nostro paese, una visione di politica estera che dia un senso di pace - veramente di pace - a queste missioni e non un contributo all'acutizzazione della tensione internazionale, il che non consente, evidentemente, una grande coalizione nella lotta contro il terrorismo.
È con questa argomentazione e con l'invito a modificare il vostro atteggiamento ed a seguire anche l'opinione pubblica italiana che siamo intervenuti nella discussione sulle linee generali.
Onoreremo il dibattito fino in fondo, con tanti oratori, perché sia chiaro che proprio questi temi, oggi, hanno la priorità a livello internazionale. Da parte dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra, oggi, si parlerà. E si parlerà in


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diversi. Si parlerà in molti, proprio perché siamo convinti che il Parlamento italiano non debba semplicemente mettere un timbro ma debba essere protagonista degli indirizzi di politica estera e, quindi, di politica militare del nostro paese (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Molinari. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE MOLINARI. Signor Presidente, signor sottosegretario, la Camera si trova nuovamente riunita ad affrontare la conversione in legge dell'ennesimo decreto-legge di proroga di missioni internazionali concernenti l'impiego delle nostre Forze armate.
Anche in considerazione dell'evolversi degli avvenimenti internazionali, avremmo auspicato che il Governo venisse qui rappresentato dal ministro Martino, senza nulla togliere all'autorevolezza del sottosegretario. Del resto, noi apprendiamo per via epistolare, come è consuetudine ormai, che il ministro sarebbe stato disponibile a riferire in Parlamento rispetto alle concessioni di strutture logistiche ed infrastrutturali del paese (strade, autostrade, ferrovie, porti ed aeroporti) al servizio delle forze armate USA. Si tratta di una concessione avvenuta - questa sì, senza «se» e senza «ma» - senza alcun dubbio e necessità di informare il Parlamento, sin dalla richiesta pervenuta da parte degli USA e non successivamente alla concessione. Allora, quale occasione migliore per il ministro della difesa di riferire su tutto ciò al Parlamento in una discussione generale di un provvedimento delicato ed importante, come la proroga delle missioni militari internazionali? L'avremmo sicuramente apprezzato e ritenuto un gesto di grande sensibilità istituzionale rispetto alle lettere che ci invia su decisioni già prese.
Questa che si apre è una settimana importante per il nostro paese. La manifestazione pacifica e massiccia di tanti milioni di cittadini in Italia e nel mondo per dire «no» alla guerra deve indurre tutti noi ad una riflessione su quanto sta accadendo. Il decreto-legge in esame si presenta come uno di quei cosiddetti decreti omnibus nei quali vi è contenuto di tutto, perché magari non si è avuta la forza e la volontà di affrontare legislativamente alcune questioni e quindi di ritenere molto più efficace lo strumento della decretazione d'urgenza per i tempi brevi dell'approvazione e l'efficacia immediata delle sue disposizioni.
Sulle missioni internazionali, prima di affrontare il merito del provvedimento, vorremmo far presente al Governo una questione di merito già sollevata. In Commissione difesa è fermo il disegno di legge concernente la materia delle missioni internazionali di pace. Come è noto, si tratta di un disegno di legge che prende origine al termine della scorsa legislatura e che ha trovato consenso pressoché unanime tra le forze politiche dei diversi schieramenti presenti in Parlamento.
Il disegno di legge si è arenato perché, nel corso di questi mesi, il Governo non è stato in grado di indicare una adeguata copertura finanziaria e, infatti, dopo essere approdato in aula per la discussione generale, il testo unificato è ritornato in Commissione dove dovremmo riprenderne l'esame tra qualche settimana.
È fin troppo evidente che visti gli immutati scenari internazionali il ruolo dell'Italia necessita di un quadro legislativo e normativo in grado di sostenere gli sforzi e l'impegno che le nostre Forze armate profondono sotto l'egida di organismi internazionali per la ricerca e la costruzione di condizioni di pace in luoghi lontani e martoriati dai conflitti.
Ai nostri uomini, che sono circa 10 mila, impegnati in missioni internazionali va il ringraziamento della Margherita e, credo, di tutto il Parlamento per l'impegno ed il rischio che corrono per il paese e per garantire ad altri condizioni di vita migliori.
In particolare, vorrei salutare il contingente militare degli alpini in missione in Afghanistan, in quanto, pur nella diversità delle opinioni e dei giudizi sulla natura dell'intervento, credo che la solidarietà e


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la vicinanza ai nostri militari sia un obbligo morale e un dovere di tutti gli italiani.
La Margherita ha votato a favore della risoluzione che ha determinato l'impiego degli alpini ma ribadiamo che quell'impiego risponde ad una decisione del Parlamento e a nessun altro organismo. Riteniamo gravi le interferenze determinate dalla dichiarazione del portavoce delle Forze armate americane, così come dal portavoce della Casa Bianca rispetto alle regole di ingaggio e del nostro contingente militare secondo i quali si tratterebbe di missione di combattimento e di guerra guerreggiata. La Margherita intende qui ribadire che quelle affermazioni sono prive di reale fondamento.
Apprezziamo, invece, quanto dichiarato dal sottosegretario Cicu in Commissione anche questa sera, che confermano le caratteristiche di pace e non di guerra: testualmente, il sottosegretario ha affermato che si tratta di una missione che deve difendere le posizioni di pace raggiunte. Più perplessi e preoccupati ci lascia l'indeterminatezza circa le regole di ingaggio del contingente rinviate al momento del completamento dell'invio dei militari in territorio afgano e a quando i capi di stato maggiore di Italia e di Stati Uniti definiranno la destinazione in base alla situazione verificabile di quel momento: è questa discrasia, egregio sottosegretario, a renderci preoccupati. Infatti, stiamo assistendo, al riguardo, ad un mutamento della missione Enduring freedom e i chiarimenti richiesti sul transfert non ci appaiono sufficienti proprio per l'incolumità dei nostri militari. Il contingente alpino si trova ad operare in condizioni difficili con compiti di pattugliamento di zone di confine in un clima sia meteorologico che civile avverso.
Bene fanno i nostri militari e le strutture di supporto alla base Salerno a cercare il dialogo con la popolazione locale ed a fornire loro aiuto logistico e materiale in quanto il nostro contingente è lì per una missione di pace, un'attitudine che da sempre caratterizza le nostre missioni.
Anche per queste ragioni vorremmo comprendere, già nel corso di questo dibattito, in che modo queste nostre azioni si concilieranno con le discordanti affermazioni provenienti da parte dell'amministrazione della difesa statunitense, ed in quale modo verrà tutelata l'autonomia gerarchica ed operativa del contingente militare italiano.
Per senso di responsabilità, e convinti che la lotta al terrorismo sia un impegno della comunità internazionale, abbiamo votato a favore della missione internazionale degli alpini, anche se avremmo preferito dal Governo meno ambiguità e meno indeterminatezza rispetto ad una sorta di sudditanza psicologica nei confronti dell'alleato statunitense. Crediamo, infatti, che sia stata proprio questa indeterminatezza e questa oscillazione pendolare del nostro Premier in politica estera a consentire quelle dichiarazioni da parte di autorevoli esponenti delle forze militari e politiche dell'amministrazione americana. È una sudditanza che non ci pone nel ruolo di alleati, ma in un qualcosa di meno rispetto ad una tradizione che ci vede alleati, ma con l'autonomia ed il rispetto di un ruolo che ha caratterizzato storicamente il nostro paese, quale avamposto del dialogo verso l'est e verso le alte sponde del Mediterraneo, anche in ragione della peculiare e strategica posizione dell'Italia nello scacchiere geopolitico.
Il Presidente del Consiglio dei ministri in una conferenza stampa ha affermato che le condizioni in Afghanistan sono mutate rispetto ad ottobre e, certo, non in senso positivo. La crescente tensione nel golfo - con un conflitto che tutti sembrano voler evitare, anche se pare che nessuno voglia impegnarsi sino in fondo per scongiurarlo, venendo così affidato al destino e non alla volontà ed alla determinazione degli eventi - rischia di creare notevoli difficoltà al contingente militare italiano in Afghanistan. Anche per questo, la Margherita aveva evidenziato la necessità del rafforzamento della missione ISAF e non di Libertà duratura dopo la caduta del regime talebano. È noto a tutti che si sta verificando un aumento esponenziale


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degli attentati sul territorio afgano e che le fragili intese tra i signori della guerra sono ben lontane dal rappresentare un embrione di società democratica. Il controllo del territorio non è assolutamente capillare da parte del Governo di Kabul: permangono, quindi, tutte le ragioni dei rischi conflittuali, in quanto se le bombe hanno smantellato strutture ed infrastrutture della rete terroristica Al Quaeda, sul territorio afgano resta il brodo primordiale delle divisioni che, sin dalla fine dell'occupazione sovietica, hanno impedito un radicamento della democrazia in quella nazione.
Quindi, voglio dire al Governo che la Margherita sarà conseguenziale rispetto al voto o, meglio, ai voti parlamentari precedenti sulle missioni internazionali. È proprio questo senso di responsabilità che ci autorizza ad esprimere riserve ed osservazioni rispetto al modo di agire del Governo italiano.
Innanzitutto, non comprendiamo le ragioni di questo assembramento disordinato di misure e di disposizioni normative che rendono il provvedimento eterogeneo e difficilmente organico nel quadro degli interventi legislativi. Abbiamo presentato degli emendamenti a nostro giudizio migliorativi, o comunque rispondenti alle reali necessità. Faccio l'esempio del trattamento economico delle forze armate in missione; pochi giorni fa è apparsa su tutti gli organi d'informazione la notizia della decurtazione della busta paga dei militari impegnati all'estero, di una somma pari ad un milione di vecchie lire (516 euro), a causa di una tecnicalità nel cambio euro-dollaro che penalizza i nostri soldati. Inoltre, è bene inquadrare legislativamente i parametri e l'entità delle indennità che, altrimenti, corrono il rischio di restare soggette ad una alterazione che non ha alcuna giustificazione, soprattutto se ci ricordiamo delle promesse che, in particolar modo, la maggioranza ha dispensato in campagna elettorale.
Un altro punto su cui esprimiamo le nostre riserve riguarda il codice militare penale di guerra. Si tratta di un codice la cui riforma, già nel corso della conversione di un precedente decreto-legge, avevamo ritenuto essere una priorità date le circostanze. Non è infatti pensabile ad un codice degli anni quaranta, nato in un contesto diverso e nel quale vengono ignorate o sovradimensionate fattispecie e tipologie di reati che oggi vanno ridefiniti e riconsiderati in relazione ai tempi. Il Governo ha istituito una Commissione - come ci ricordato il sottosegretario - per la riforma del codice, ma i lavori non sono andati speditamente, come invece si era immaginato.
Anche durante i lavori in Commissione abbiamo sollevato il problema ricevendo assicurazioni verbali, mentre noi invitiamo l'esecutivo a dare certezze nei tempi e a considerare i nostri emendamenti come funzionali alla riforma necessaria ed improcrastinabile. Inoltre, vi è un nuovo, grave elemento, richiamato anche dall'onorevole Spini; ad un passo dalla cancellazione definitiva, la maggioranza di centrodestra ha deciso di mantenere in vigore in Costituzione la pena di morte prevista in periodi di guerra. Questo è avvenuto al Senato nell'ambito dei lavori di approvazione del disegno di legge costituzionale per la cancellazione della pena di morte, nei casi previsti dal codice di guerra.
Ci preoccupa questo rinvio che allunga i tempi di approvazione di quel disegno di legge e, soprattutto, che ciò avvenga in un contesto internazionale particolare (mi riferisco ai nostri alpini impegnati in Afganistan ed ai venti di guerra sempre più forti).
L'attuale quadro normativo, nonostante la legge n. 589 del 1994, considererebbe la reintroduzione per decreto della pena di morte per i militari in guerra. Ci sembra un segnale davvero inquietante.
Noi esprimeremo, signor sottosegretario, un voto favorevole sul provvedimento in esame, ma ci auguriamo che il Governo si ponga in maniera costruttiva di fronte alle nostre osservazioni, ricercando un confronto di merito ed accogliendo i nostri emendamenti.


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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Crucianelli. Ne ha facoltà.

FAMIANO CRUCIANELLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, in questo breve intervento non posso non manifestare forti perplessità, ed aggiungo contrarietà, sulle modalità con cui il Governo ha presentato il provvedimento in esame.
Siamo di fronte ad una materia di grandissima delicatezza, siamo nel cuore della questione per eccellenza, vale a dire la guerra e la pace. Raccolgo le precisazioni espresse anche dal sottosegretario Cicu, ma devo rilevare che, ancora una volta, ci troviamo a discutere - non è la prima discussione in merito - in assenza di un serio bilancio sulle diverse missioni che si sono susseguite. Ho letto ed ascoltato le dichiarazioni del sottosegretario Baccini che, sicuramente, ha avuto il merito di svolgere un intervento di un certo tipo (anche l'onorevole Spini è venuto in soccorso), ma bisognerebbe compiere un formale e serio bilancio, missione per missione. Credo che ciò lo si debba soprattutto a quegli uomini, a quei militari che sono impegnati in esse in modo generoso e spesso rischioso.
Quel che è più grave è che siamo di fronte ad un classico provvedimento omnibus nel quale il sacro si mescola al profano, me lo si consenta. Vi sono disposizioni relative a missioni di pace, alla funzione di stabilizzazione democratica o di peacekeaping, nonché ad una vera e propria missione di guerra, come quella afgana. È una missione che avviene nel contesto di Enduring freedom e non in quello delle Nazioni unite, come noi abbiamo più volte e ripetutamente richiesto, della quale non sono chiare o almeno note le regole di ingaggio. Lei ha precisato che, a metà marzo, otterremo questi chiarimenti, ma credo che serviranno poco a questo dibattito. È una missione le cui chiare finalità sono state illustrate dal colonnello Roger King, quando ha ben chiarito che quella degli alpini è una classica missione militare di guerra. Come è noto, siamo contro questo tipo di missione, se è tale.
Aggiungo che il Governo, con una sciocca ed anche un po' provocatoria furbizia, ha voluto fare di tutta un'erba un fascio, mescolando la natura diversa delle diverse missioni, tentando per questa via di sfumare le proprie responsabilità e le proprie scelte e pensando, in questo modo, di creare una difficoltà a quanti nell'opposizione sono contrari e non accettano una missione di guerra. Credo che il Governo si illuda con questo trucco di avvelenare i rapporti fra noi e quanti nel mondo sono impegnati nelle missioni di pace e ancor più di confondere, di manipolare, l'opinione pubblica (la straordinaria manifestazione di sabato, le migliaia e migliaia di manifestazioni ed iniziative che ogni giorno si svolgono, dalle parrocchie alle scuole, dai consigli comunali al territorio), malgrado la televisione di regime - in questo caso il termine è giusto - sia la più chiara testimonianza non solo dell'attenzione, ma anche della chiarezza di idee dell'opinione pubblica.
Noi siamo per la chiarezza e siamo favorevoli alle missioni autenticamente legate all'obiettivo della pace. Non condividiamo la missione militare in Afganistan perché si configura come una missione di guerra.
Le ragioni di questa scelta sono semplici e si possono individuare su tre piani: il contesto afgano, l'evoluzione della situazione mediorientale e la prospettiva del mondo, alla luce della nuova teoria politica e militare dell'amministrazione Bush.
Credo che di ciò si debba discutere; comprendo le osservazioni che il sottosegretario Cicu ha svolto all'inizio quando invitava ad una discussione tecnica. In realtà, noi siamo nel cuore della politica quando stiamo discutendo di tali missioni. E di ciò non possiamo non discutere: so bene che ne discuteremo anche mercoledì ed in altre occasioni, ma è evidente che nel momento in cui parliamo di una missione come quella afgana, non possiamo discutere di quale sia il suo significato politico. Una guerra, quella in Afghanistan, figlia,


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come è noto, delle tragedie dell'11 settembre, ma che, voglio dire con chiarezza, ha smarrito, e per responsabilità precise, le sue ragioni strategiche. Una guerra fatta per abbattere un regime odioso, quello dei taliban, per catturare e uccidere bin Laden e la sua banda, ma soprattutto per togliere le radici della nuova barbarie rappresentata dal terrorismo. Ora il regime dei taliban è stato battuto, bin Laden e Al Qaeda, come è noto, sono in libertà e, soprattutto, come testimoniano le dichiarazioni dell'amministrazione americana, la lotta contro il terrorismo non ha fatto passi sostanzialmente in avanti, né poteva, aggiungo, essere diversamente, perché nulla si è fatto per isolare il fanatismo ed il fondamentalismo dalle grandi masse disperate del mondo, dalle quali poi scaturisce il figlio degenere o il frutto degenere del terrorismo.
Vorrei ricordarvi un'affermazione del Presidente francese Chirac nella Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo dei paesi poveri del mondo tenutasi a Monterey, quando il Presidente francese disse: noi dobbiamo mettere la stessa intensità, la stessa forza, la stessa determinazione che abbiamo mostrato nella guerra in Afghanistan, nella lotta contro la povertà e la miseria, se vogliamo venire a capo dell'estremismo religioso da cui viene il frutto malato del terrorismo.
Ora non si è fatto pressoché nulla! Nulla, nulla sul fronte delle grandi ed immense fortune finanziarie che ogni giorno si muovono sui mercati internazionali; nulla sul debito e sugli interessi del debito che strangolano l'economia dei paesi del sud del mondo, nulla sul fronte degli accordi commerciali che fondamentalmente sono a tutela dell'egoismo dei paesi ricchi. Non si è fatto nulla sulla cooperazione attiva e funzionale nei confronti dei popoli del sud del mondo.
Devo dire che suona come una beffa, una macabra beffa l'affermazione del Presidente americano che sempre a Monterey consigliava ai paesi poveri di seguire le regole del libero mercato.
Alla fine di questa storia noi ci troviamo con centinaia e centinaia di milioni di uomini e donne poveri che vivono nella più grande miseria - come voi sapete due miliardi di persone vivono con un dollaro al giorno - e ai quali resteranno lutti, macerie e, aggiungo, un odio crescente nei confronti dell'occidente. In queste condizioni, gli estremisti religiosi e gli stessi terroristi, non è difficile comprendere, si muoveranno come pesci nell'acqua.
Vorrei anche ricordare, per venire alla seconda questione, che sempre all'alba della guerra afgana vi fu un solenne impegno da parte di tutti, preso anche in quest'aula, - penso tuttavia in primo luogo al Presidente degli Stati Uniti d'America che conta qualcosa di più -, affinché in tempi rapidi si arrivasse ad una soluzione giusta del conflitto israelo-palestinese. Ora, a che punto siamo dopo quasi due anni? Quali passi avanti si sono compiuti? Cosa si è fatto per indurre Israele a far rispettare le risoluzioni delle Nazioni Unite e ad abbandonare i territori palestinesi occupati per costruire un percorso di pace con la parte più consapevole e moderata dei palestinesi sulla base del principio fondamentale: due popoli, due Stati? Nulla! Anzi, è cresciuta la vocazione militarista del Governo Sharon come insensata e illusoria risposta alla violenza cieca del terrorismo.
Il fossato che divide i due popoli diventa sempre più incolmabile e la grande tragedia del popolo palestinese si trasforma ogni giorno, nelle grandi masse, in ragioni e sentimenti contro Israele e contro l'occidente.
Come si vede, la vera lotta al terrorismo, che è molto di più di un'operazione militare e di una guerra, non è ancora iniziata e rischia di diventare disperata se dovesse prevalere nel mondo la dottrina dell'Amministrazione Bush della guerra preventiva, ovvero l'idea che per battere il terrorismo occorre ipotizzare qualche decennio di guerre continue contro i diversi Stati canaglia, l'Iraq in testa; in realtà, con la guerra preventiva si vuole disegnare un mondo nel quale il principio motore è rappresentato dalla legge del più forte, dall'uso unilaterale della forza e della forza militare come principio.


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La vittima preventiva di questa nuova ideologia è il diritto internazionale, è l'organizzazione multilaterale per eccellenza, le Nazioni Unite, che l'Amministrazione Bush intende delegittimare ignorandola nei suoi deliberati o anche piegandola alla propria volontà, alla scelta di una guerra che nulla ha a che vedere con il terrorismo e che appare pretestuosa nelle altre motivazioni.
La seconda vittima di questa strategia è l'Europa - e i fatti lo stanno testimoniando ogni giorno - che si vuole vassalla, priva di una sua autonomia, di una sua identità, di una sua credibilità. Grave è stata - ed è - la scelta del Governo italiano, che si muove come fiancheggiatore passivo e supino dell'amministrazione americana, senza la dignità di un paese europeo e in evidente e lacerante conflitto con la grande maggioranza della società italiana.
Ma le vittime finali rischiamo di essere noi tutti, compreso il popolo americano. Con la guerra preventiva, con la guerra all'Iraq, si apre un vaso di Pandora, dal quale può uscire di tutto. Il rischio ultimo e drammatico è quello di un conflitto di civiltà che può coinvolgere in profondità una gran parte dell'umanità e i cui esiti possono essere distruttivi per tutti. Soprattutto in questo vedo la straordinaria forza morale del messaggio di pace che viene dalla Chiesa e dal suo Pontefice. Quello dell'Iraq non è il primo capitolo, ma rischia di essere il capitolo fondamentale delle guerre del futuro. Per tale motivo sono sorpreso di questo tipo di dibattito!
Per tutte queste ragioni, l'invio dei nostri alpini - mi si dimostri il contrario - è una scelta sbagliata e irresponsabile, per ragioni in primo luogo di ordine generale e poi per ragioni che attengono al contesto nel quale viene votata e realizzata questa missione. Il resto sono discussioni che si possono sempre fare, ma che, francamente, sono dettagli rispetto alle strategie di fondo.
Debbo dire che c'è anche un motivo concreto, fattivo, di fronte a noi: i nostri alpini, come è stato detto e ripetuto più volte, vanno in un teatro di guerra e sostituiranno o meglio libereranno forze inglesi e americane destinate al teatro della guerra in Iraq. Noi, da questo punto di vista, siamo già da oggi coinvolti nella guerra contro l'Iraq e va al Governo la responsabilità fondamentale di questa scelta.
Per queste ragioni, la nostra critica rispetto a questo provvedimento è una critica di metodo e di sostanza: di metodo, per come questo decreto-legge è stato presentato, perché, per la volontà di creare una confusione, al suo interno convivono missioni che hanno le nature più disparate; di sostanza, perché la scelta che viene fatta con questo decreto-legge, la riconferma della scelta favorevole alla missione in Afghanistan può essere foriera di gravi conseguenze (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bricolo. Ne ha facoltà.

FEDERICO BRICOLO. Signor Presidente, onorevole sottosegretario, colleghi, il decreto-legge oggetto del provvedimento di conversione, approvato dal Consiglio dei ministri il 17 gennaio scorso, deriva dalla necessità di disporre l'ulteriore proroga delle missioni che coinvolgono in importanti operazioni multinazionali - dai Balcani fino all'Asia centrale - le Forze armate e le forze dell'ordine italiane.
L'articolo 1 del decreto-legge proroga alla medesima scadenza di fine giugno 2003 le missioni militari che le Forze armate italiane stanno svolgendo in questo momento all'estero, nei vari scacchieri (in Albania, in Bosnia, in Kosovo, in Macedonia, a Hebron, nel Corno d'Africa).
Per quanto riguarda gli interventi che il nostro Governo sta portando avanti nei Balcani, va sottolineato come la Lega nord, da sempre, abbia cercato di sollecitare il Governo affinché questi interventi siano finalizzati anche a dare nuove forze ed energie alle forze di polizia locali presenti in quei territori. Devo dire che queste sollecitazioni sono state sicuramente ascoltate dal Governo, tant'è che adesso, in


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Albania, siamo riusciti finalmente a fermare i flussi di immigrazione clandestina che arrivavano direttamente nel nostro paese. Le motovedette della Guardia di finanza italiana pattugliano le coste albanesi, in accordo con la polizia locale.
La stessa polizia, attraverso l'aiuto delle nostre forze dell'ordine, si è sviluppata ed è riuscita anche ad essere più incisiva nel contrasto di questo fenomeno. Devo dire che i risultati sono stati raggiunti in modo concreto. Sicuramente, ciò rappresenta un fatto positivo. Occorre insistere attraverso tale iniziativa perché sicuramente ne trae beneficio il nostro paese.
Con il provvedimento al nostro esame si proroga anche, fino alla fine di giugno 2003, la partecipazione italiana all'ISAF, ossia alla forza di stabilizzazione inviata a Kabul per mantenere al potere Hamid Karzai. I militari italiani - più o meno 400 - continueranno, con i colleghi dell'ISAF, ad essere impiegati solo nella capitale afgana.
Con il provvedimento al nostro esame - forse è l'aspetto sicuramente più contrastato - si ribadisce l'apporto italiano all'operazione Enduring freedom. Quest'operazione avrà, nei prossimi mesi, anche un ulteriore sviluppo e ci sarà anche una componente marittima ed una terrestre. Quella marittima è inserita nel quadro di Euromarfor, una forza quadrinazionale europea, attualmente sotto il controllo italiano - cui contribuiamo con il cacciatorpediniere Mimbelli - che potrà svolgere operazioni di monitoraggio del traffico marittimo sospetto.
Devo dire che questa attività ha già dato degli ottimi risultati, tant'è che, nello scorso mese di dicembre, ha permesso alla marina spagnola di intercettare una nave carica di missili Scud proveniente dalla Corea del nord e diretta nello Yemen. Evidentemente, anche queste iniziative riescono a produrre risultati concreti.
Tuttavia, è il contingente terrestre, sicuramente, il vero elemento di novità. Mille alpini sono in via di schieramento nella zona di Khost, un'area turbolenta ai confini con il Pakistan che è già stata teatro di aspri combattimenti.
A questo proposito, va sicuramente sottolineato come questa missione, affidata ai nostri alpini, sia di gran lunga la più pericolosa mai svolta dalle forze armate italiane in questo dopoguerra e sia stata già annunciata dal Governo mesi fa.
Il gruppo della Lega nord Padania, consapevole dei rischi che questa campagna contro il terrorismo internazionale comporta e delle problematiche che ne deriveranno, sostiene questa iniziativa, in ogni caso, anche per un obbligo di coerenza. La Lega, infatti, dopo gli attentati dell'11 settembre, fin dal primo momento, si è schierata immediatamente, appoggiando la decisione del Governo di partecipare attivamente alla campagna antiterroristica che ha portato poi al rovesciamento del regime talebano e all'abbattimento della rete terroristica di Al Qaeda in Afghanistan.
Quest'obbligo di coerenza, evidentemente, non sembra uniformarsi a quella cospicua parte del centrosinistra che, nei mesi scorsi, aveva votato a favore di questo provvedimento che, comunque, non ha mutato il suo fine: i nostri militari andavano a schierarsi ai confini, fra l'Afghanistan ed il Pakistan per cercare di frenare, di debellare, queste ramificazioni terroristiche che, purtroppo, sappiamo essere ancora presenti su quel territorio.
Il centrosinistra, a quel tempo, aveva espresso con differenziazioni, parere favorevole nella sua maggioranza. Ora, evidentemente, le cose sono cambiate ed i mass media sono localizzati sui temi della pace. Abbiamo visto come la manifestazione di ieri sia stata strumentalizzata dalla sinistra stessa. Dunque, vi è un cambiamento di rotta. Ora, questo provvedimento arriverà in aula con almeno cinque posizioni diverse nel centrosinistra: la posizione di Rifondazione comunista, quella dei Verdi, dei Comunisti italiani e del correntone dei Democratici di sinistra, la posizione dei Democratici di sinistra che viene delegittimata dallo stesso correntone che ha appunto una posizione diversa, la posizione della Margherita ed infine quella dei Socialisti democratici e dell'UDEUR. Ancora una volta, il centrosinistra - questo


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è giusto puntualizzarlo, Presidente - si presenta in quest'aula, dimostrando all'intero paese, l'incapacità di avere una posizione comune di Governo, sia in politica estera sia nella politica della difesa.
Questa è una cosa che deve essere opportunamente evidenziata: per cavalcare la tigre del pacifismo, i giornali parlano solo delle manifestazioni di piazza che organizzano, ma non delle grandi incongruenze interne, della loro incapacità di essere forza di Governo e del loro sapersi porre soltanto come forza di opposizione che strumentalizza demagogicamente vicende complesse che, invece, vanno valutate in modo adeguato (cosa che, credo, noi stiamo facendo).
L'Afghanistan non è la guerra all'Iraq! L'operazione Enduring freedom è stata condivisa da questo Governo subito dopo l'attentato dell'11 settembre alle torri gemelle e la nostra partecipazione è stata ribadita lo scorso anno: non c'è nulla di nuovo, se non l'opposizione del centrosinistra a questo provvedimento.
Detto ciò, signor Presidente, è giusto ricordare che, di fronte a questi gravosi obblighi, il Governo ricorre, ancora una volta, ai nostri alpini, i quali, negli ultimi tempi, non sono stati affatto tutelati (nei cinque anni di governo del centrosinistra sicuramente no). A mio modo di vedere, essi hanno una caratteristica territoriale che li ha resi famosi in tutto il mondo e che li rende capaci di operare in quasi tutti i teatri bellici del mondo e rappresentano, dunque, una grande risorsa per il nostro paese. Dispiace, perciò, che partano per questa difficilissima missione senza l'appoggio dell'intero Parlamento.
Questa scelta ricadrà sulle coscienze di chi, nel centrosinistra, deciderà di votare contro tale invio e di rifiutare l'appoggio morale a questa iniziativa rischiosa, il cui scopo è quello di debellare il terrorismo internazionale. È questo che si sta facendo in Afghanistan! Non si va a fare una guerra o qualcos'altro: si va semplicemente a debellare le cellule terroristiche ancora presenti in quel territorio.
Gli alpini, che partiranno, purtroppo, senza l'appoggio di tutto il Parlamento, faranno onore comunque al nostro paese. Chiaramente, chi voterà contro questo provvedimento non darà il giusto riconoscimento a questi nostri soldati che, eroicamente, andranno a difendere i nostri interessi. Grazie, signor Presidente.

PIERO RUZZANTE. Non hai votato una volta a favore nella passata legislatura!

FEDERICO BRICOLO. Prenditela con i tuoi, che non hanno una posizione unitaria!

PIERO RUZZANTE. Non hai votato una volta a favore nella passata legislatura!

FEDERICO BRICOLO. Non siamo andati in Afghanistan nella passata legislatura!

PRESIDENTE. Onorevole Ruzzante, avrà la parola a momenti.

PIERO RUZZANTE. Presidente, lezioni da questo non ne prendiamo!

LUIGI RAMPONI, Presidente della IV Commissione. Signor Presidente, c'è un dibattito acceso in aula!

PIERO RUZZANTE. Non hai mai votato una missione all'estero nella passata legislatura, Bricolo!

PRESIDENTE. Onorevole Ruzzante, le darò la parola tra poco.
È iscritta a parlare l'onorevole Pisa. Ne ha facoltà.

SILVANA PISA. Signor Presidente, il primo elemento di criticità è di metodo, come hanno ricordato in molti: questo decreto-legge prevede, in maniera generica, la proroga di alcune missioni internazionali, senza compiere alcuna distinzione, di merito e di forma, tra operazioni che, in realtà, sono molto diverse tra loro.
Hanno detto molti colleghi, e desidero ripeterlo brevemente, che si passa da missioni


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vere di peacekeeping a quelle di monitoraggio, come quella dei carabinieri ad Hebron, fino ad arrivare alla missione Enduring Freedom in Afghanistan, che è una vera e propria missione di guerra; ciò avviene senza che il Governo abbia avvertito la necessità di prevedere differenziazioni tra situazioni così diverse e di accogliere la richiesta, da molti di noi avanzata in Commissione, di aprire un ampio confronto sui principi che hanno orientato, e continuano ad orientare, di fronte a profondi mutamenti internazionali - veramente siamo di fronte ad un mondo che cambia! -, la nostra politica estera.
D'altra parte, nelle Commissioni congiunte III e IV, in relazione alle specificità delle varie missioni, alcuni di noi hanno chiesto al Governo di predisporre più provvedimenti, in modo da affrontare più analiticamente le operazioni sottoposte a proroga e di consentire, democraticamente - questo è il punto, insomma; e mi spiace che il collega Bricolo se ne sia andato -, espressioni di voto anche diversificate su singole missioni così diverse tra loro.
Il problema, lo abbiamo detto spesso anche in Commissione, è l'utilizzo di questo strumento per la missione Enduring freedom. Insomma, il Governo, con questa forzatura formale e furbesca, si prende la responsabilità di legare il destino di fondamentali missioni - per esempio è stata ricordata anche in Commissione la missione ONU ai confini tra Eritrea ed Etiopia (è solo un esempio, potrei citarne molti altri) - alla concessione della proroga anche per quelle in Afghanistan, con conseguenze complesse, infischiandosi, nei fatti, di ottenere una politica bipartisan.
E vengo ad Enduring freedom, che trova la sua origine nella risposta all'attacco delle torri gemelle (lo ha ricordato qui anche l'onorevole Michelini): origine apparente. Perché apparente? Nonostante tutti noi avessimo provato forti sentimenti di solidarietà per il popolo americano colpito dal tragico attacco dell'11 settembre e per le tante vittime innocenti, alcuni di noi, già in occasione del voto dell'autunno 2001, ritenevano che contro il terrorismo la guerra non fosse assolutamente efficace. La riflessione era che la guerra producesse solo altri morti, nella maggioranza innocenti - c'era uno slogan americano che si usava a quei tempi: occhio per occhio e il mondo resta cieco - e che il virus del terrorismo si propagasse magari altrove (come è successo, per esempio, in Indonesia).
Il terrorismo, è stato ricordato anche prima dal collega Crucianelli, si vince prevenendone le ragioni, isolando i fanatici, togliendo l'acqua ai pesci, come si diceva quando eravamo giovani. Non solo, la sicurezza non è divisibile, nel senso che non si crea sicurezza sulla insicurezza politica, sociale ed economica altrui, né si può ritenere che le bombe siano un modo per esportare democrazia. Infatti, ad un anno di distanza, vediamo che in Afghanistan c'è la guerra civile e la cosa non ci rallegra affatto; e non si tratta solo di fatti di resistenza talebana, si tratta dei signori della guerra che c'erano prima e che, dopo il regime talebano, hanno continuato ad insistere e hanno rialzato la testa. Questi signori della guerra a volte sono nemici giurati dei talebani che non hanno però aderito agli accordi di Bonn e non riconoscono la legittimità del Governo Karzai, e, quindi, radunano guerriglieri contro di lui.
Le ragioni vere, secondo me - anche questo è stato ricordato - le ragioni strategiche dell'intervento in Afghanistan stanno altrove. Lo ricordò, a proposito della discussione sugli alpini che si svolse in quest'Assemblea, molto lucidamente il collega Vertone, citando Brezinski. Egli disse in quell'occasione: l'asse portante - è una citazione - degli interessi americani nel mondo è quello tra il mar Caspio ed il golfo Persico, perché lì c'è il petrolio, ma anche perché da lì si controllano Russia e Cina. È il nuovo controllo geostrategico che interessa; il controllo politico e geostrategico. Questa è proprio la ragione per cui, svolta la prima tappa dell'Afghanistan, ora si affronta la seconda tappa dell'Iraq; la prossima volta sarà l'Iran, e poi avanti il prossimo. Come dire, la guerra diventa lo strumento normale per disegnare il nuovo ordine mondiale, il dominio del


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mondo, e per difendere il modello di vita americano: american dream, american way of life (lo ha ricordato anche Rumsfeld, che non è precisamente un sovversivo).
Le alleanze in questa concezione diventano variabili. Si chiamano così: «coalizioni tra volenterosi», che possono rafforzare o sostituire le istituzioni internazionali, ONU e NATO, e cancellare il diritto internazionale: una strategia unilaterale, culturalmente prima ancora che politicamente. Lo vediamo in questi giorni a proposito dell'intervento in Iraq: se gli altri Stati, le Nazioni Unite, aderiscono, tanto meglio, in caso contrario gli Stati Uniti intendono intervenire ugualmente.
Questo disegno è diventato una teorizzazione organica con la raccapricciante teoria della guerra preventiva enunciata da Bush nel documento sulla strategia e la sicurezza nazionale del settembre 2002 nel quale vengono rigettati tutti i cardini della politica estera degli Stati Uniti degli ultimi cinquant'anni: la deterrenza, il contenimento, le alleanze, gli aiuti internazionali, rompendo il contesto giuridico e politico istituzionale che cercava di regolare le relazioni internazionali e stabilendo un nuovo ordine del giorno mondiale, secondo il quale le nazioni che dipendono dalla stabilità internazionale, vale a dire i sudditi, devono contribuire ad impedire la diffusione delle armi di sterminio di massa che, viceversa, possono crescere e moltiplicarsi negli Stati Uniti che non hanno nemmeno sottoscritto il trattato contro l'utilizzo di armi chimiche. Insomma, l'Afghanistan e l'Iraq sono entrambe pedine del nuovo scacchiere mondiale, di questa visione, anche se le motivazioni formali per queste guerre possono variare e lo abbiamo visto: in Afghanistan era la lotta al terrorismo, qui, oltre ai legami col terrorismo, peraltro non provati, al di là degli improbabili messaggi che ogni tanto arrivano puntuali di bin Laden, l'altro motivo è la distruzione dell'arsenale iracheno che l'ispettore Scott Ritter, nel 1998, affermava essere distrutto al 90 o 95 per cento e non era solo lui, peraltro ex agente CIA, a dirlo, lo stesso affermano anche i servizi segreti israeliani in questi giorni (parlo di notizie di giornali). Si tratta di armi assolutamente obsolete che, comunque, vanno distrutte in seguito alle attuali ispezioni; queste ultime, però, devono essere condotte senza il fiato sul collo; l'importante è che le armi siano distrutte. È chiaro che questa partita avrà i suoi tempi; negli anni novanta ci hanno messo più di cinque anni, in questo caso devono fare tutto in tre mesi! Manca una logica in tutto questo.
Gli esponenti della maggioranza, quando il 3 ottobre si votò per l'invio degli alpini, pur non accogliendo quelle parti della mozione - mi riferisco, ad esempio, alla mozione dell'onorevole Castagnetti - che impegnavano, già in quella sede, il Governo a fare uno sforzo nelle sedi europee ed internazionali per evitare ogni intervento preventivo unilaterale nei confronti dell'Iraq, si dichiararono comunque (è agli atti, è una dichiarazione di Giuseppe Cossiga) contrari ad ogni intervento preventivo e unilaterale: una dichiarazione forte; non vollero votare la mozione però fecero questa dichiarazione forte. Ebbene, la storia degli ultimi mesi sta dimostrando assolutamente il contrario: stiamo già concedendo il diritto di sorvolo, basi, uso di infrastrutture per una guerra, al momento, unilaterale e preventiva all'Iraq che ci conferma nel nostro ruolo di zelanti fornitori di catering (l'espressione è del deputato Lapo Pistelli), subalterni agli Stati Uniti con buona pace dell'immagine e del prestigio internazionale sempre citati dalla destra.
Dunque, l'intervento in Afghanistan è legato a quello iracheno e lo conferma anche il fatto che i nostri alpini vanno a sostituire truppe anglo-americane dirottate verso l'Iraq. Non solo: non è mai stata un'operazione di peacekeeping nonostante il balletto indecoroso di dichiarazioni del Presidente del Consiglio e del ministro Martino (ma di questo ho già parlato in Commissione, non voglio ripetermi). Che fosse un intervento non di peacekeeping ma di guerra lo ha riconosciuto, sempre nel citato dibattito parlamentare, anche l'esponente di Alleanza nazionale Pietro Cannella, affermando che la missione non


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era cambiata; cito testualmente: «Abbiamo sempre saputo che i nostri militari non sarebbero andati in una normale missione di peacekeeping ma che sarebbero stati impegnati in un'importante azione antiterrorismo». Allora, oggi noi non diciamo che è cambiata la natura della missione, la natura è sempre quella; il punto è che è cambiato il contesto internazionale, completamente! È cambiato sia rispetto all'Iraq, sia rispetto Afghanistan dove c'è la guerra civile, e sono cambiate anche - e per noi della Commissione difesa è importante - le funzioni che svolgeranno là i nostri soldati. All'inizio erano previsti compiti di scorta armata e di supporto alle organizzazioni umanitarie, adesso si tratta di compiti diversi come ci ha ricordato anche il dibattito odierno, con funzioni non di peacekeeping.
Dunque, cambia la fisionomia della missione e si impongono valutazioni diverse, molto più preoccupate.
Signor sottosegretario, sono esiti che riguardano la vita di uomini e di donne in carne ed ossa! Si tratta dei nostri soldati! È per tale motivo che riteniamo sia essenziale chiarire questo aspetto.
Vi è poi un altro fatto che rappresenta bene l'ambiguità e l'ipocrisia dimostrata sull'argomento dalla maggioranza. Come molti di voi ricordano, pochi mesi dopo il voto con il quale si approvò la missione in Afghanistan, mi sembra il 28 gennaio 2002, numerose colleghe segnalarono come fosse profondamente pericolosa ed incostituzionale l'applicazione alla missione del codice militare penale di guerra. Il Governo si affrettò a far approvare un decreto raffazzonato, con il quale si tentava di eliminare gli aspetti più incostituzionali del testo originario in modo da garantire la sua applicazione alla missione, impegnandosi però in tempi brevi ad adoperarsi per mettere mano all'intera materia.
Il sottosegretario ci ha detto che la Commissione è al lavoro, anche se ancora non abbiamo visto alcun risultato. Con il voto di oggi proroghiamo quindi ancora la vigenza di quelle norme che stridono profondamente con il nostro dettato costituzionale. Il fatto che il testo non sia pronto nasconde però la vera difficoltà del Governo; la realtà è che alla Commissione è stato chiesto un lavoro impossibile: predisporre un codice che discuta degli aspetti di missioni come quella in Afghanistan senza entrare in diretto contrasto con l'articolo 11 della Costituzione! Già quando fu approvato il codice militare di guerra, da diverse parti dell'opposizione furono avanzate numerose critiche rispetto tale questione.

PIERFRANCESCO EMILIO ROMANO GAMBA. Nel 1930!

SILVANA PISA. Il lavoro chiesto alla Commissione non è allo stato possibile, perché, pur facendo ricorso alla vastissima terminologia coniata per mascherare la reale situazione, quella in Afghanistan è, a tutti gli effetti, una missione di guerra e, quindi, se si vogliono disciplinare le singole fattispecie che si possono creare, collega Gamba, bisogna anzitutto risolvere il problema del divieto imposto dall'articolo 11 della nostra Carta costituzionale. Il Governo dica se intende modificare quell'articolo della Costituzione eliminando il ripudio della guerra dai nostri principi fondamentali. Berlusconi, a suo tempo, lo disse. Cito: l'articolo 11 dimostra la sua età e la sua inadeguatezza. Sappia però il Governo che, per far questo, si dovrà schierare contro la volontà della stragrande maggioranza della popolazione italiana (lo ripeto: contro la volontà della stragrande maggioranza della popolazione italiana) che, con la grandissima manifestazione di sabato, ha confermato, che continua fortemente a credere, nel valore dell'articolo 11 della Costituzione, per il quale l'Italia ripudia la guerra.
L'ultima osservazione riguarda le regole di ingaggio; capisco, signor sottosegretario, che ciò rischia di divenire un tormentone, però, anche se il ministro è venuto a dare una spiegazione in proposito, questa era generale e generica e non ha dissipato tutti i dubbi. I nostri alpini vengono inviati a Khost, ai confini con il Pakistan, in una zona tribale tra le più pericolose, in una


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zona d'azione dei locali signori della guerra, in una missione che, vistosamente, con il peacekeeping non ha nulla a che fare. Proprio per il mutamento delle funzioni il problema delle regole di ingaggio e di comando esiste.
In Commissione ho accennato alla Somalia: è opportuno ricordare quel precedente, quando i militari italiani, soldati ed ufficiali, presero le distanze dalle fughe cruente del comando degli Stati Uniti privilegiando pazienti negoziati. Allora gli americani adottarono una linea dura, al di fuori di ogni nostro controllo, con rastrellamenti e scontri a fuoco che causarono decine di morti. Ciò avvenne nel tentativo di catturare il famoso signore della guerra Aidid, che i militari italiani avrebbero potuto probabilmente bloccare senza spargimento di sangue. Le decisioni vennero prese dagli americani senza consultare adeguatamente le nostre forze e tali scelte provocarono una escalation di violenza e di scontri a fuoco che rese impossibile la convivenza con il contingente italiano, senza parlare poi del prezzo, alto, in termini di morti, militari e civili. Anche considerando quell'esperienza, le deleghe riguardanti le regole di ingaggio e la catena di comando diventano fondamentali, e di ciò dovrà discuterne Parlamento, con l'auspicio che queste siano più chiare possibili. Insomma, credo che su tali aspetti dovremmo cercare di dare certezze.
Vorrei esprimere un'ultima breve considerazione. Tanto più sono contraria alla missione, quanto più ci tengo che i nostri alpini ritornino presto. Anche per questo motivo, mi sembrerebbe saggio farli tornare subito. Lo sappiamo: sono volontari, sono ragazzi giovani, spesso provengono da zone del sud prive di opportunità di lavoro e sono generosi nel loro slancio per il paese. Spetta a noi, al Parlamento, la responsabilità di decidere se sia giustificato impegnarli in questa rischiosa missione (in Commissione dissi per chi e per che cosa).
Chiedo, pertanto, al Governo, un'ultima volta, di sopprimere l'articolo che riguarda la parte relativa ad Enduring freedom, provvedendo a predisporre uno specifico testo di legge da sottoporre all'attenzione del Parlamento (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Ruzzante. Ne ha facoltà.

PIERO RUZZANTE. Signor Presidente, credo che questo dibattito non possa non essere influenzato da quanto avvenuto nelle piazze di tutto il mondo il 15 febbraio. Credo che le manifestazioni che si sono svolte in tante parti del mondo (si è calcolato che siano scese in piazza oltre 100 milioni di persone) rappresentino forse il più grande evento nella storia civile e democratica del nostro pianeta, in cui così tante persone si sono trovate unite nel lanciare un messaggio di pace, un messaggio che si collega anche ai temi delle libertà, delle democrazie e dei diritti civili. È, quindi, inevitabile che vi sia un legame rispetto ai temi del disegno di legge sottoposto all'attenzione dell'Assemblea.
Come ha ribadito qualcuno anche sul piano istituzionale (mi riferisco alle parole del Presidente della Camera), credo che la piazza vada sempre ascoltata; dopodiché, si può condividere o meno ciò che viene detto, ma credo che essa incida ed influenzi il nostro dibattito politico o, almeno, così dovrebbe essere. Proprio perché quella piazza andrebbe ascoltata, ritengo sia ancora più grave ciò a cui abbiamo assistito in queste ore, ossia la scelta dei vertici del servizio pubblico radiotelevisivo di non trasmettere in diretta quella grande manifestazione, quel grande evento anche da un punto di vista semplicemente commerciale. Non entro neanche nel merito dell'aspetto politico, ma di fronte ad una piazza che ospitava 2 o 3 milioni di persone, credo che la RAI avrebbe avuto tutto l'interesse, anche da un punto di vista meramente commerciale, a trasmettere in diretta quell'evento, perché milioni di cittadini si riconoscevano sui contenuti di quella manifestazione. Pertanto, cogliamo l'occasione di questo dibattito per ribadire la nostra richiesta delle dimissioni di quel che rimane


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del consiglio di amministrazione della RAI.
Oltretutto, trovo che una dichiarazione da parte del presidente Baldassarre sia stata offensiva non solo nei confronti di quanti hanno manifestato in piazza il 15 febbraio, ma anche nei confronti di tutti i parlamentari della Camera e del Senato e ritengo che tale considerazione sia condivisa anche dai colleghi della maggioranza. Infatti, l'affermazione secondo cui il Parlamento, se vi fosse stata la diretta televisiva, sarebbe stato meno libero di decidere sulle proprie assunzioni di responsabilità in merito ai provvedimenti, alle discussioni ed alle mozioni parlamentari è un'offesa all'intelligenza di ciascun deputato e di ciascun senatore. Infatti, ogni parlamentare, secondo quanto previsto dalla nostra Costituzione, vota liberamente ed è libero di lasciarsi condizionare da chi vuole e quando vuole; vota secondo coscienza e secondo il principio costituzionale in assoluta libertà.
Detto ciò, credo che il tema del provvedimento di oggi si colleghi strettamente al tema generale della politica estera. Ritengo sia stata una scelta giusta quella di affrontare i temi contenuti nel provvedimento congiuntamente nella Commissione difesa e nella Commissione affari esteri.
Proprio oggi è stato pubblicato un sondaggio da parte dell'osservatorio del nord est, lo cito perché si tratta di una zona particolare del paese che vede tradizionalmente una fortissima presenza militare. Vorrei precisare che si tratta di un giudizio su quanto sta avvenendo oggi, non nei confronti degli Stati Uniti: non strumentalizziamo i contenuti di tale sondaggio. Il 78 per cento dei cittadini del nord est ritiene che quel modello di politica estera non sia una garanzia per la nostra sicurezza. Questo è il punto centrale del dibattito politico delle ultime settimane.
Dobbiamo dare una risposta a tale domanda senza tirare fuori vecchie divisioni ideologiche che oggi non hanno più alcun senso, né alcun significato. Oggi affermare che vi è una politica antiamericana è un nonsense della politica. In discussione non vi sono gli Stati Uniti, ma la politica estera che oggi l'amministrazione Bush sta portando avanti. Cosa c'entra l'antiamericanismo in tutto questo? Siamo chiamati ad esprimere un giudizio in tale direzione. I cittadini del nord est, interrogati, hanno espresso un dubbio sul fatto che oggi tale modello di politica estera rappresenti un elemento di garanzia e sicurezza per l'Italia e per l'Europa. Questa è la domanda che molti cittadini pongono e credo che su di essa dovremmo riflettere tutti insieme.
Il dibattito politico vedeva, fino a qualche mese fa, la stragrande maggioranza dei paesi, praticamente tutti, uniti nella lotta contro il terrorismo; oggi non è più così. Assistiamo ad una divisione dell'Europa con riguardo alla quale vi è anche una responsabilità, a nostro avviso, da parte del Governo Berlusconi che ha evidenziato le differenze anziché gli aspetti che ci uniscono all'interno dell'Unione europea. Oggi - non so se tale notizia sarà smentita - è apparso sui giornali che una parte dell'amministrazione Bush sta valutando l'idea di rimuovere le basi NATO dalla Germania a causa del comportamento del Governo Schröder.
Collega Gamba, vi è poco da sorridere su tali cose perché quando si arriva anche solo a pensarle, non dico ad attuarle, è evidente che stiamo facendo un passo indietro. Non si tratta di un passo avanti verso una politica di stabilità e di sicurezza nell'ambito europeo e mondiale. Se si incrinano i rapporti tra Stati Uniti e Germania o tra Stati Uniti ed Europa la nostra sicurezza viene meno rispetto ai livelli raggiunti nel corso degli ultimi decenni. È evidente a tutti che stare all'interno di una stessa alleanza non può significare essere appiattiti sulle posizioni del paese predominante. Un'alleanza significa sapersi ascoltare, anche quando vi sono posizioni diverse tra i partner che la compongono.
Dunque, credo che questo sia il tema centrale del dibattito politico che abbiamo di fronte. Tutto il resto sono argomentazioni di parte utilizzate in maniera assolutamente


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strumentale. Dopo anni, siamo di fronte ad una frizione vera tra Stati Uniti ed Europa.
Siamo di fronte a divisioni profonde nell'ambito dell'Unione europea che sono la prima causa di insicurezza e ritengo che ciò i cittadini lo abbiano perfettamente capito. Dopodiché, a mio avviso è evidente che il concetto di alleanza, della quale l'Italia fa parte, è un concetto che ci deve consentire, ora e sempre, di poter esprimere liberamente il nostro punto di vista, perché i temi dei quali stiamo parlando oggi in quest'aula sono temi centrali: essi riguardano la politica estera, così come la politica di difesa. Allora è fondamentale che il nostro paese possa esprimere liberamente il proprio punto di vista, che peraltro deve anche tenere conto del punto di vista del popolo italiano. Spesso vi richiamate ai concetti del «punto di vista», delle «opinioni espresse», del «mandato ricevuto dal popolo italiano». Ebbene, quel mandato va verificato, non certo per modificare le maggioranze esistenti all'interno del Parlamento, ma relativamente alle singole proposte che vengono avanzate da parte del Governo. Non mi pare che oggi il Governo Berlusconi esprima il punto di vista e l'opinione che la maggioranza del popolo italiano ha in qualche modo espresso attraverso le manifestazioni (rilevato d'altronde da tutti i sondaggi, anche quelli in mano al Governo stesso).
Con riferimento ai contenuti del provvedimento al nostro esame, la nostra posizione diverge da quella della maggioranza. Essa diverge per questioni sia di metodo sia di merito, ma anche perché l'attuale maggioranza non ha avuto la capacità di mantenere gli impegni che si era precedentemente assunta (nel merito dei contenuti del decreto-legge).
Innanzitutto ricordo perfettamente che all'inizio della legislatura in Commissione difesa, poi in Commissione esteri e più volte direttamente in quest'aula (ma ricordo anche i dibattiti della passata legislatura), i rappresentanti della Casa delle libertà criticarono molto la questione e il metodo della proroga delle missioni, dicendo che con loro al Governo tale metodo sarebbe cambiato radicalmente. Sono passati due anni ormai, colleghi, e in due anni non avete assolutamente modificato il ricorso ai decreti-legge, né il metodo delle proroghe delle missioni.
A fronte di questo impegno che vi eravate assunti in quest'aula e nelle Commissioni (difesa ed affari esteri), il risultato è che siamo ancora all'interno delle proroghe di missioni: dopo di questa ce ne sarà un'altra e ci sarà un nuovo decreto-legge.
Ritengo che uscire dalla logica emergenziale e dalla proroga delle missioni sia un'esigenza di tutto il Parlamento. Pertanto siamo anche disponibili ad assumerci la nostra parte di responsabilità in questo, perché riteniamo che da questo punto di vista, una volta che si è assunta una decisione e nel momento in cui una missione non modifica le sue caratteristiche iniziali, non ha senso continuare ad adottare decreti-legge che logorano l'Assemblea e che in qualche modo rappresentano il segno di una pessima amministrazione delle questioni inerenti alla difesa.
In proposito avevamo avanzato una proposta, che ci differenzia fortemente rispetto alla maggioranza sui contenuti di questo provvedimento: avevamo proposto di separare la questione degli alpini dalla missione Enduring freedom e comunque di separare le 18 missioni contenute all'interno di questo decreto-legge dalla questione degli alpini. Ciò in quanto diverse sono le caratteristiche di questa missione: lo avete detto voi, lo hanno detto i rappresentanti dell'Amministrazione Bush, i quali sono più volte intervenuti su questo tema, così come lo dicono i militari impegnati in quella missione. Lo dicono tutti! Allora perché mantenere quella missione, che ha caratteristiche fondamentalmente diverse rispetto a tutte le altre missioni - il collega Bricolo pochi secondi fa l'ha definita la missione più pericolosa senza ombra di dubbio e con caratteristiche diverse da tutte le altre missioni -, in questo provvedimento?


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Si poteva tranquillamente tenere separato l'aspetto della missione degli alpini e affrontare il tema delle missioni all'estero.
Volevate veramente il voto responsabile dell'opposizione sui temi della politica estera della difesa? Semplicissimo, signor sottosegretario, bastava separare da questo decreto-legge solo la questione degli alpini! Ci sono 18 missioni: su 17 (e un pezzo) gran parte dell'opposizione si sarebbe assunta la sua responsabilità e avrebbe espresso un voto favorevole per il prosieguo di quelle missioni all'estero. Perché questa è la posizione che, dall'inizio di questa legislatura, abbiamo sempre manifestato in merito alle missioni di pace all'estero.
Il tema sul quale non siamo d'accordo - perché non sono chiare le regole di ingaggio, perché non si conoscono fino in fondo gli aspetti relativi alla catena di comando, perché non si comprendono fino in fondo i collegamenti tra la missione in Afghanistan e quanto sta avvenendo rispetto alle ipotesi di conflitto in Iraq - è la parte di missione relativa agli alpini.
Non volevo fare polemiche e chiedo scusa al Presidente se prima ho interrotto il collega Bricolo, il quale ha la sfortuna che io, nella passata legislatura, ero in quest'aula, ero in Commissione difesa e 17 di quelle missioni le abbiamo non solo votate, ma anche decise, visto che la maggioranza che allora governava l'Italia era di centrosinistra. Solo per tale motivo, Presidente, ho interrotto il collega Bricolo.
Noi non siamo come una parte della Casa delle libertà - mi riferisco al gruppo della Lega nord - che, nella scorsa legislatura, espresse un voto contrario su tutte le 17 missioni. Non possiamo dimenticare che, mentre c'era un impegno in Kosovo, il massimo rappresentante del gruppo della Lega nord incontrava Milosevic; questo non possiamo dimenticarlo!

GUSTAVO SELVA. Evangelicamente, si fa più festa per una pecorella smarrita che torna all'ovile!

PIERO RUZZANTE. Allora, non si può richiamare al senso di responsabilità un gruppo parlamentare che questo senso di responsabilità non l'ha mai avuto!
Su 17 missioni di pace il gruppo della Lega nord espresse un voto contrario, collega Selva; lei se lo ricorda perfettamente! Il gruppo della Lega nord non è che non condividesse una parte delle missioni, ha espresso un voto contrario sempre e su tutte le missioni.
Tutti ricordate che, tra la prima guerra nel Golfo e l'attuale situazione, nel dicembre del 1998 - durante il Governo D'Alema -, ci fu un momento di tensione. Ritengo di essere ancora coerente con la posizione che allora il Governo D'Alema assunse, vale a dire di contrarietà rispetto a quella breve situazione di conflitto in Iraq. Ricordo perfettamente le manifestazioni dei radicali davanti a Palazzo Chigi con le bandiere della Gran Bretagna e degli Stati Uniti d'America in polemica contro la decisione del Governo D'Alema di non appoggiare quelle ipotesi di conflitto. Ma ricordo anche i titoli de La Padania - mi dispiace per il collega Bricolo -, che definivano quel conflitto come un conflitto voluto dall'imperialismo americano contro il povero Saddam Hussein.
Allora, io sono rimasto coerente rispetto alla posizione che il Governo D'Alema, di fronte al conflitto USA-Gran Bretagna contro Saddam Hussein, assunse nel 1998, mentre ritengo che i colleghi della Lega nord non solo si smentiscano rispetto a tutte le 17 missioni sulle quali i gruppi dell'Ulivo hanno mantenuto le stesse posizioni, ma anche con riferimento alla questione mediorientale.
Infine, voglio ricordare che è depositata una mozione parlamentare sottoscritta da tutti i capigruppo dell'Ulivo. Non ho ancora visto presentare una mozione della Casa delle libertà rispetto al tema dell'Iraq, ma tanto tra due giorni affronteremo tale questione in Parlamento e, dunque, potremo verificare.
Ho letto sui giornali che un gruppo di sessanta parlamentari della Casa delle libertà, attorno all'onorevole Costa, esprime dubbi rispetto all'ipotesi della missione e rispetto dell'ipotesi di un conflitto con l'Iraq.


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GUSTAVO SELVA. Aspettiamo cosa succede questa sera a Bruxelles!

PIERO RUZZANTE. D'altra parte, è inutile nascondersi dietro ad un dito. E mi rivolgo sempre al collega Bricolo, visto che è stato, in qualche modo, un protagonista in quest'aula, in parte insieme al gruppo di Alleanza nazionale. In queste ultime settimane non ho visto una grande coesione nella Casa delle libertà. Non l'ho vista durante l'esame del provvedimento sul Corpo forestale dello Stato, quando la Lega nord ha assunto una posizione diversa rispetto alle altre forze della maggioranza. Si potrebbe dire che si tratta di un tema parziale. È ovvio che il Corpo forestale dello Stato rappresenti un tema parziale. Ma non sono, sicuramente, temi parziali la sicurezza e la giustizia. Allora, sul tema dell'amnistia ho visto la Lega nord e Alleanza nazionale assumere posizioni diametralmente opposte rispetto a quelle di Forza Italia e dell'UDC.

GUSTAVO SELVA. Parliamo di un altro argomento questa sera!

PRESIDENTE. Onorevole Selva...

PIERO RUZZANTE. Anche questi sono temi interessanti! Credo, quindi, che da questo punto di vista i richiami alla coesione rivolti dal collega Bricolo ai gruppi dell'opposizione siano da rispedire al mittente. Insomma, avevamo avanzato una proposta e ci dispiace che non sia stata raccolta, perché avrebbe consentito all'Italia di essere un paese più forte e, forse, più serio. Se il Governo si fosse presentato con un provvedimento relativo alle 17 missioni sulle quali non c'è divisione, salvo piccoli aspetti assolutamente parziali, avrebbe consentito all'opposizione di esprimere una convergenza e all'Italia, forse, di presentarsi con una posizione più forte nel dibattito internazionale in una fase così delicata. Ci accorgiamo che questa scelta non è stata adottata. Ricordiamo che non soltanto abbiamo detto «no» all'invio degli alpini nell'ambito di questa parte della missione Enduring freedom ma, oltretutto, abbiamo avanzato una controproposta, quella di rafforzare la missione ISAF, vale a dire la missione ONU a sostegno del Governo Karzai e della lotta al terrorismo. Ritenevamo che quello fosse il contributo più adeguato rispetto alla fase politica.
Vorrei sottolineare anche un altro aspetto, cogliendo l'occasione offertami da questo dibattito parlamentare. Mi rivolgo anche alla Presidenza. Trovo sia ancora inusuale il metodo utilizzato dal Governo e dal Ministero della difesa che, attraverso una lettera inviata ai presidenti delle Commissioni difesa della Camera e del Senato, ci informa di aver dato la disponibilità all'uso delle basi e al sorvolo, prima, e all'uso delle strutture logistiche, adesso, agli alleati della Alleanza atlantica.
Come già sottolineato presso il sottosegretario, ritengo che questo sia un metodo sbagliato. Riteniamo che questo tipo di comunicazione non dovrebbe essere inviata ai presidenti delle Commissioni, per quanto riconosca che questi ultimi hanno informato i gruppi parlamentari di Commissione. Ritengo che il metodo corretto sarebbe quello di indirizzare questo genere di comunicazioni alla Presidenza della Camera e alla Presidenza del Senato che potrebbero decidere di inviarle non soltanto ai presidenti delle Commissioni difesa ma, per esempio, anche ai presidenti delle Commissioni esteri, dal momento c'è anche una valenza legata agli accordi internazionali e alla politica estera. È evidente che, a nostro avviso, sarebbe corretto che la Presidenza della Camera e la Presidenza del Senato inviassero analoga comunicazione ai presidenti di tutti i gruppi parlamentari. Sottolineiamo nuovamente la questione, al di là della posizione - che è nota - da noi espressa su questi temi. Riteniamo si tratti di una questione di metodo e chiederemo di modificarlo.
In merito al provvedimento, per brevità vorrei ricordare soltanto due delle questioni che abbiamo posto anche attraverso la presentazione di appositi emendamenti e che riteniamo assolutamente centrali.
La prima riguarda l'applicazione del codice penale militare in tempo di guerra.


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La maggioranza e il Governo, anche attraverso un apposito ordine del giorno, hanno assunto l'impegno di avviare un processo di riforma del codice penale militare in tempo di guerra. Ci rendiamo perfettamente conto che si tratta di un tema importante, che non è risolvibile in quattro e quattr'otto, però, su questo tema abbiamo concesso sei mesi di tempo non per approvare il testo di legge ma, almeno, per presentare un disegno organico di modifica del codice penale militare in tempo di guerra. Nonostante l'impegno contenuto nell'ordine del giorno, nonostante siano passati ben più di sei mesi - visto che ormai siamo a 10 mesi dall'assunzione di quell'impegno -, la maggioranza non è ancora stata in grado di formulare e di presentare questo progetto di riforma, al punto che riguardo a questo decreto-legge - leggo il dossier del servizio studi della Camera - le leggi di conversione dei decreti-legge precedenti intervengono in attesa di una riforma organica della legislazione penale militare: nei decreti-legge precedenti sono state introdotte alcune modifiche a quelle parti del codice penale militare di guerra ritenute maggiormente - sottolineo «maggiormente» - in contrasto con i principi costituzionali. Allora, domando anche alla Presidenza della Camera se ci possano essere dei contenuti maggiormente in contrasto con i principi costituzionali e delle parti di testo che in qualche modo tocchino o siano in contrasto con i principi costituzionali in maniera minore: o si è dentro o non si è dentro alla Costituzione. Noi siamo perfettamente consci - ma credo che su questo punto lo siano anche i colleghi della maggioranza - che il codice penale militare di guerra è fuori dai contenuti della nostra Carta costituzionale e pertanto, è assolutamente necessario modificare quei punti. In questo senso, anche a questo decreto-legge è stato presentato un emendamento, ma in ogni caso chiediamo venga predisposta rapidamente una riforma del codice penale militare in tempo di guerra.
L'ultimo punto che voglio affrontare riguarda le condizioni dei militari che mandiamo all'estero nelle missioni di pace, perché anche su questo tema vogliamo sottolineare un impegno che era stato assunto da parte dei rappresentanti della Casa delle libertà e che non è stato assolutamente mantenuto. Ci riferiamo al fatto che ancora oggi quei militari sono sottoposti ad una decurtazione dell'indennità del 10 per cento a titolo di rimborso per le spese di vitto e di alloggio sostenute dall'amministrazione militare. In altre parole, non solo li mandiamo all'estero in situazioni oggettivamente difficili in termini di condizioni - pensate a come possano essere il vitto e l'alloggio in paesi dove c'è appena stato un conflitto -, non solo li mandiamo in una situazione di pericolosità, come è il caso degli alpini, ma addirittura continuiamo a decurtare loro il 10 per cento di quello che spetta loro di diritto perché l'amministrazione militare sostiene le spese di vitto e di alloggio. Sinceramente, mi pare una previsione che vada cassata e ritengo debba essere garantita ai militari un'indennità al 100 per cento.
Il costo di questo emendamento, se non ricordo male, è di circa 80 miliardi di lire, quindi, è un costo assolutamente non eccessivo; credo possa essere tranquillamente affrontato. Infatti, riguardo alla solidarietà ai nostri militari non bastano le parole, non bastano le dichiarazioni rese in quest'aula ogni volta che si parla dei nostri militari all'estero, ma dobbiamo riempirle di contenuti concreti. E vi è un modo molto semplice per dare un contenuto concreto: approvare quell'emendamento che prevede 80 miliardi di lire in modo da corrispondere ai nostri militari, a tutti quelli che sono impegnati in tutte le 18 missioni di pace all'estero, il 100 per cento dell'indennità. Credo questo sia l'unico modo per dimostrare concretamente la nostra solidarietà ai nostri militari; e state sicuri che l'opposizione farà la sua parte per assumere questo impegno.
Del resto, lo abbiamo dimostrato nel corso del dibattito sulle questioni internazionali con l'applauso rivolto al Presidente della Camera quando ha richiamato l'attenzione su questo aspetto, pur nella differenza


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politica, di contenuto, di visione rispetto alla politica estera e di difesa del nostro paese, che ho cercato di esplicitare nel mio intervento e che ritengo dovrebbe preoccupare anche i colleghi della maggioranza. In questo senso, non solo con in nostro applauso abbiamo espresso la nostra solidarietà a quei militari impegnati in tutte le missioni di pace all'estero, ma vorremmo anche concretizzarla attraverso l'approvazione di quell'emendamento che consentirà ai militari di percepire l'indennità piena e non ridotta del 10 per cento.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gamba. Ne ha facoltà.

PIERFRANCESCO EMILIO ROMANO GAMBA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, è assolutamente vero che, come qualcuno ha sottolineato, il testo del disegno di legge di conversione del decreto-legge in esame si riferisce, sostanzialmente, agli aspetti di carattere burocratico ed amministrativo. Probabilmente, la discussione avrebbe dovuto limitarsi agli aspetti relativi, in particolare, alle questioni finanziarie, che costituiscono poi la vera e principale ragione della necessità di queste proroghe attivate attraverso successivi decreti-legge. È altrettanto vera l'osservazione secondo cui le decisioni relative alla partecipazione italiana a tutte queste varie operazioni hanno costituito oggetto di ampi dibattiti da parte del Parlamento - perlomeno quelle avviate sotto l'attuale Governo - ed hanno portato a delle decisioni largamente condivise da questa Assemblea. Infatti, nel corso delle discussioni sono stati sollevati molti di quei problemi che oggi tendono ad essere riproposti in maniera, evidentemente, strumentale. Non sfugge a nessuno come il dibattito riguardante la conversione in legge di questo decreto-legge sia fortemente condizionato da aspetti che, probabilmente, nulla avrebbero a che vedere con l'approvazione in senso stretto del provvedimento in oggetto.
Comunque, non vogliamo sottrarci a questo dibattito, alle osservazioni, alle perplessità, ai contrasti ed alle contrarietà che sono venuti da molti degli interventi delle opposizioni, che anche in questa occasione, hanno dimostrato la loro completa divisione. Le opposizioni hanno trattato temi che, certamente, riguardano l'aspetto dell'attività militare, dell'intervento militare in politica estera e di ciò che ne consegue; in ogni caso, vi è stata da parte loro anche una notevole oscillazione che ha visto anche forme di pacifismo pregiudiziale che, in qualche modo, rifiutano a prescindere - come diceva un noto comico - la possibilità di un intervento militare.

PRESIDENTE. Non si tratta di un noto comico, ma di qualcosa di più!

PIERFRANCESCO EMILIO ROMANO GAMBA. Ha ragione, signor Presidente: si tratta di un illustre esponente della nostra cultura.

PRESIDENTE. Così va meglio!

PIERFRANCESCO EMILIO ROMANO GAMBA. Grazie, signor Presidente. L'altro lato dell'oscillazione del pendolo ha fatto, invece, riferimento - credo più puntualmente da parte di molti colleghi - a delle questioni di osservazione e di discussione riguardo la politica estera intesa in senso più puntuale e non pregiudiziale.
È vero che in occasione delle discussioni relative alla conversione dei decreti-legge di proroga di queste missioni, spesso si sono ripetuti aspetti della discussione che già erano stati trattati nell'ambito delle decisioni iniziali. Probabilmente, però, non si tratta di ripetere riti stantii ed osservazioni intervenute in quelle iniziali circostanze; infatti dobbiamo anche essere consapevoli di affrontare le questioni politiche connesse alla proroga di queste missioni. Certamente, il trascorrere del tempo ed il prolungarsi di queste missioni portano alla necessità di alcune osservazioni in occasione delle varie proroghe. Credo, però, che un'osservazione serena di quanto è accaduto dall'inizio di ciascuna missione ad oggi non possa che portare coscientemente, serenamente e decisamente questo Parlamento a riconfermare


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la partecipazione italiana a tutte le missioni contemplate dall'articolo 1 dello stesso decreto-legge.
Quindi, se non deve costituire occasione per la ripetizione di riti stantii, certamente questa discussione consente anche di replicare a molte osservazioni, perplessità - tardive in molti casi -, spesso strumentali, che sono venute da molti degli interventi dell'opposizione.
Onorevole Deiana, apprezzo la coerenza con la quale porta avanti la sua iniziativa in Commissione ed in quest'aula e, certamente, concordo con lei nel stigmatizzare l'eventualità che si cerchi - ma non mi pare ciò sia intendimento di nessuno - di nascondere la reale valenza degli interventi rappresentati dai contingenti militari italiani dietro a questioni bassamente burocratiche e finanziarie.
Il rinnovo delle missioni è certamente una questione politica, non è un problema di routine, di cassa, come ella ha affermato. In realtà, la politica di intervento in molti contesti internazionali, in cui direttamente o indirettamente sono coinvolti interessi italiani da tutelare in maniera diversa e diversificata, costituisce non soltanto un contributo al mantenimento e alla preservazione di quell'interesse generale, collettivo, supremo internazionale che è la pace internazionale, ma anche una tutela di interessi specifici dell'Italia (che sono diversificati anche nell'ambito delle diverse missioni) sui quali tante volte si è discusso e parlato e che si vuole ipocritamente dimenticare in circostanze come quelle attuali.
La pace è certamente un valore, ma il rafforzamento ed il mantenimento della stessa sono termini che, spesso, vengono utilizzati in maniera strumentale, dimenticando che la pace deve essere ottenuta e, spesso, costruita ed riottenuta anche eventualmente, quando è necessario, attraverso l'intervento militare e partecipazioni come quella italiana alla missione di Enduring Freedom che costituisce un intervento di contrasto ad alcune attività che tutti considerano illegali sia sotto il profilo dei singoli diritti nazionali sia, certamente, sotto quello del diritto internazionale. Se intervenire vuol dire anche partecipare ad alcuni conflitti e contrasti che, magari, non sono da considerarsi come delle guerre in senso convenzionale, ma certamente rientrano nella tipologia dei conflitti tra soggetti diversi, comunque dei conflitti internazionali, ciò non può essere ottenuto - come molto brillantemente, con una battuta, ha affermato il presidente della Commissione difesa - attraverso l'invio di plotoni di suore.
Dobbiamo, una volta per tutte, anche nel corso di questi dibattiti, utilizzare una base di serietà e la serietà, da parte dei parlamentari di questo paese, non può sempre confliggere - come, invece, accade - con la volontà ipocrita di interpretare i termini a seconda degli interessi e delle contingenze che dipendono dall'appartenenza alla maggioranza o all'opposizione. In senso contrario, onorevoli Ruzzante e Crucianelli, vorremmo che ci fosse spiegato come questi principi di pacifismo assoluto si conciliano con alcune decisioni dei Governo precedenti, in particolare del Governo D'Alema, che hanno visto, in quell'occasione, l'appoggio dell'allora opposizione costituita da molte delle parti politiche che, attualmente, appartengono alla maggioranza. Evidentemente, in quelle circostanze, senza l'intervento del Consiglio di sicurezza dell'ONU, senza molte delle decisioni che adesso si invocano, l'Italia partecipò ad attività di tipo militare che comportarono anche azioni di bombardamento, come sappiamo benissimo e, soprattutto, senza che queste pruderie, queste ipocrisie di oggi fossero patrimonio di allora.
In certi casi, l'Italia ha deciso e decide di partecipare, come è stato ed è per l'operazione Enduring freedom, ad una guerra, alla guerra al terrorismo e questa espressione è riecheggiata, in maniera chiarissima, in quest'aula, in occasione del dibattito iniziale. Rispettiamo - e ci mancherebbe altro - le posizioni di chi ha contrastato quel tipo di intervento, ma rispettiamo molto meno quelle di coloro che cercano di nascondersi dietro a veli, modificando posizioni per il semplice -


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ma nemmeno troppo semplice - fatto che molte delle contingenze internazionali si sono modificate.
Non è assolutamente vero che ci sia stato infingimento e che non ci sia stata chiarezza riguardo ai compiti della missione Enduring freedom e della nostra partecipazione a quella missione.
Il ministro della difesa Martino, nella seduta del 17 dicembre 2002 davanti alle Commissioni riunite della difesa di Camera e Senato testualmente diceva - ed eravamo al 17 dicembre 2002 -: «Dopo una prima fase di preparazione ed una seconda di campagna aerea, è in atto - riferendosi naturalmente all'Afghanistan - una terza fase di neutralizzazione delle formazioni terroristiche. Caratterizzata da un periodo iniziale di intensi combattimenti, questa fase sta evolvendo in operazioni di interdizione di area per la completa bonifica del territorio». Naturalmente, la bonifica e l'interdizione non si fanno né con i plotoni di suore né con altri mezzi come i girotondi, le raccolte di firme, le belle parole, le manifestazioni e quant'altro.
«Sono operazioni - continuava il ministro - condotte mediante pattugliamenti, posti di blocco ed eliminazione delle residue presenze di Al Qaeda» - organizzazione che non scompare attraverso l'utilizzo di bacchette magiche e di altri strumenti taumaturgici - «sulla base delle attività di intelligence. In tale quadro, alla nostra forza sarà assegnato il compito prevalente di interdire eventuali rientri dei terroristi» - come noto non particolarmente aderenti alle teorie pacifiste - «dal Pakistan in Afghanistan. Le nostre forze, che potranno essere impiegate in qualunque parte del paese, saranno dislocate, dunque, con priorità nella cosiddetta Sanctuary denial area, al confine con il Pakistan».
A me non sembra che queste parole siano particolarmente difficili da comprendere e mi sembra che viceversa si voglia - a distanza di molti mesi, quando semplicemente vengono sostituite alcune forze italiane, da quelle navali ad altre forze attualmente di supporto, con un contingente terrestre, che si aggiunge a quello impegnato nella missione ISAF a Kabul - modificare alcune posizioni per motivi che potrebbero essere anche legittimi se fossero dichiarati apertamente e non nascosti dietro infingimenti sin troppo facili da disvelare.
Sicuramente, chi ritiene che il diritto internazionale preveda anche la possibilità di utilizzare strumenti coercitivi - e quindi anche l'eventualità di interventi militari per contrastare il terrorismo internazionale e coloro che non si adeguano alle regole della civile convivenza, in questo caso internazionale (può trattarsi anche di Stati) -, non può condividere la cultura imbelle del pacifismo ad ogni costo. Questa, tra l'altro, viene oggi sostenuta da molti che qualche anno fa erano sicuramente molto meno pacifisti e si distinguevano per le attività di contrasto ad oppositori politici...

FILIPPO ASCIERTO. Perlomeno pacifici.

PIERFRANCESCO EMILIO ROMANO GAMBA. ...piuttosto come poliziotti di natura tutt'altro che pacifica e non violenta, magari con la scusa dell'antifascismo permanente, che rappresenta sempre un ottimo palliativo. Già allora costoro erano noti per voler disarmare la polizia di Stato e i Carabinieri ed oggi vengono a farci questi fervorini sul pacifismo ad ogni costo.
L'uso della forza da parte dello Stato è legittimo se finalizzato alla repressione e al contrasto di chi non si adegua alle leggi penali interne, regole che disciplinano la civile convivenza. Allo stesso modo, ciò vale per il diritto internazionale e per il comportamento degli Stati. Se così non fosse, coloro che celebrano in tutti i modi la cultura pacifista, dovrebbero anche per coerenza, ed attendiamo gli sviluppi in questo senso, non auspicandoli ovviamente, lamentare e contrastare l'intervento dello Stato attraverso le Forze dell'ordine contro il terrorismo interno, le organizzazioni criminali, i vari fenomeni di sovvertimento o di messa in pericolo


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della sicurezza interna, utilizzando legittimamente la forza. Il concetto è assolutamente identico.
Naturalmente ben sappiamo, al di là dei paventati stravolgimenti delle regole del diritto internazionale di cui ci ha parlato l'onorevole Spini con singolare contraddittorietà, che è un aspetto assai più delicato la decisione relativa a chi spetti applicare queste sanzioni in ambito internazionale.
Però non si può essere d'accordo sull'intervento militare e sull'invio delle forze italiane - e, in questo caso, anche del cosiddetto contingente Nibbio - prevedendo che gli alpini e tutte le altre forze militari che sono di supporto al contingente principale non debbano, ovviamente, farsi sparare addosso e non debbano sparare a loro volta, per prevenire possibilmente anche questa forma di messa in discussione della propria sicurezza. Insomma, che vadano, purché si nascondano, non dicano nulla e non si facciano vedere. Ma questo è un comportamento di assoluta ipocrisia! Molto meglio allora coloro che si dichiarano pienamente, completamente, pregiudizialmente contrari a qualunque forma di intervento militare!
Quale sarebbe la dignità di uno Stato che, dopo aver deciso, attraverso il proprio Parlamento, di partecipare ad una missione internazionale - che aveva quegli scopi con cui l'Iraq ancora non aveva niente a che fare - si sottraesse invece a quell'obbligo, proprio quando tocca a lui, quando è il suo turno di guardia, con la scusa di un'invenzione (che non sappiamo proprio da dove sia stata tratta da alcuni esponenti dell'opposizione) della sostituzione di forze, segnatamente inglesi ed americane, che verrebbero trasferite in un altro ambito, cioè nello scenario iracheno? Questa è un'invenzione assolutamente apodittica! Non vi è alcuna prova di ciò, non vi è alcuna dichiarazione di questo intendimento, anche perché è a tutti noto che, normalmente, qualunque tipo di contingente militare, impiegato in un teatro di operazioni per un certo numero di mesi, necessita di un periodo non dico di riposo, ma certamente di inattività, per poter ripristinare la propria prontezza operativa in vista delle fasi successive. Quindi è assolutamente improbabile - almeno questo ce lo consentirete - che le forze che verranno sostituite dal contingente militare italiano vengano immediatamente ridislocate sullo scenario iracheno (sempre che questo scenario si configuri).
Come si può sostenere, onorevole Spini (cosa che - ahimè - in questi giorni abbiamo sentito fare da molti esponenti dell'opposizione, di varia estrazione), che l'Italia abbia contribuito con il suo atteggiamento, con l'atteggiamento del suo Governo a dividere l'Unione europea, per aver aderito ad un consesso di altri sette Stati europei - sui quali, evidentemente, è meglio non discutere, perché non devono essere molto europei se hanno partecipato a questa intesa -, quando invece la Francia e la Germania con il loro comportamento, evidentemente, non solo hanno contribuito, ma hanno anche innescato la disgregazione di una politica unitaria europea con atteggiamenti, comportamenti e dichiarazioni assolutamente unilaterali, che hanno assunto senza consultare nessuno, men che meno il Governo italiano?
Vorremmo ci si spiegasse, almeno dal punto di vista del metodo, per quali ragioni la Germania e la Francia, che attualmente mantengono una posizione contraria all'intervento americano, debbano essere presi a campione del mantenimento dell'unità europea! Ci giunge veramente nuovo che una nazione non si debba (giustamente!) appiattire sulle posizioni dell'alleato più potente, più forte, la superpotenza atlantica, ma viceversa si debba «appecoronare» - consentitemi il termine non elegante - alle posizioni decise sempre unilateralmente dalla Francia e dalla Germania! No, noi non crediamo che questa sia stata un'operazione di conservazione e mantenimento dell'unità, dell'identità europea e della sua politica estera che, purtroppo, constatiamo ancora una volta essere una fola. Viceversa, apprezziamo molto l'intervento e gli sforzi fatti dal Presidente del Consiglio, Berlusconi, per tentare di ricucire le posizioni, che si sono così gravemente allontanate, di


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Stati Uniti, Francia e Germania e quindi la parte rilevante - ma, consentiteci, non totalitaria - dell'Unione europea (fermo restando che - vivaddio - tra i sei paesi fondatori, speriamo si possa ritenere che il Belgio, il Lussemburgo e l'Olanda abbiano una importanza anche lievemente minore rispetto a quella del nostro paese).
Con ciò, vogliamo riconfermare che la scelta di prorogare queste missioni internazionali - a cominciare dalla missione Enduring freedom - è assolutamente opportuna e non inficia minimamente le future decisioni relative agli scenari che si configureranno, anche se - come è stato detto più volte - non nascondiamo la testa sotto la sabbia e riteniamo che questo Parlamento avrà l'occasione di discutere, con serenità ma anche con chiarezza - e speriamo senza il ricorso reiterato all'ipocrisia - delle decisioni relative agli eventuali scenari futuri che possano coinvolgere la questione della crisi irachena.
Dunque, non vi è stravolgimento del diritto internazionale, non vi è alcun atto contrario alle politiche precedenti italiane - anche se, in questo senso, una certa discontinuità non può, da parte nostra, che essere auspicata -, ma vi è una forte similitudine rispetto a decisioni assunte in altri contesti, da Governi precedenti - compreso quello D'Alema riguardo all'intervento militare che tutti ricordiamo - e specialmente vi è la necessità di smontare un'ulteriore serie di infingimenti ed ipocrisie come quelle che hanno aleggiato in quest'aula con riferimento al problema del codice penale militare di guerra.
Premetto che il codice penale militare di guerra non è stato approvato - come forse qualcuno erroneamente ritiene - in tempi relativamente recenti, e che per questo non mi sembra che l'opposizione possa aver potuto esprimere (si era negli anni quaranta), forti critiche al contenuto stesso del testo. Premetto ancora che, comunque, quel codice penale militare di guerra, dal punto di vista della costruzione tecnica, è un buon codice, così come molti altri codici prodotti in una stagione ampia. Infatti, molti degli aspetti contenuti in tali norme erano assolutamente innovativi per quel tempo e pienamente rispondenti, a differenza di molti altri codici penali militari di guerra di altri paesi, alle convenzioni internazionali - compresa quella riguardante il trattamento dei prigionieri -, alle norme (discendendo dalla convenzione de L'Aia prima e di Ginevra dopo) relative a tutte quelle vicende molto complesse sul trattamento dei belligeranti, degli avversari, dei prigionieri, dei civili e quant'altro. Certamente, alcuni aspetti sono divenuti anticostituzionali, onorevole Ruzzante, maggiormente o in misura minore.
Lei non può sicuramente dimenticare che il codice penale italiano, attualmente in vigore, risale al 1930 e che molti suoi aspetti, con il succedersi della Carta costituzionale, con la successiva entrata in funzione della Corte costituzionale, abbiano portato, via via, a modifiche, chiusure e dichiarazioni di illegittimità costituzionale da parte della Corte. Tuttavia, questo compito spetta, vivaddio, alla Corte costituzionale. È giusto: il Parlamento, il Governo, in occasione della prima necessità di riutilizzo effettivo del codice penale militare di guerra, hanno il compito di occuparsi di questa vicenda e di porre mano ad una revisione, ma la cosa non è così drammatica. Non tutti gli articoli del codice penale militare di guerra sono - come lei sostiene - anticostituzionali o assolutamente inadeguati. Finalmente, per la prima volta, evitando l'ipocrisia che aveva contraddistinto i comportamenti precedenti, con riferimento ad una missione che non può essere considerata come missione rientrante in un'attività militare in tempo di pace nello Stato, si è deciso - anche su ciò mi pare che alcune parti dell'opposizione non fossero così contrarie - che fosse applicato il codice militare di guerra, senza il coinvolgimento di assurdità relative alla pena di morte, certamente previste in alcuni di questi articoli ma - come tutti sanno - sostituite, ai sensi di una legge del 1994, con la pena dell'ergastolo.
Sicuramente, il Governo si è assunto l'impegno - e non è una graziosa concessione del Parlamento, delle opposizioni -


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di revisionare questo codice. Lo sta facendo - come ha dichiarato il sottosegretario Cicu - con i tempi che un'opera di questo genere richiede. Quest'opera è, comunque, è in via di conclusione.
Certamente, potremo valutare e ridiscutere tutte le questioni relative alla nuova formulazione di tale codice, che deve tenere conto, in particolare, dei nuovi aspetti della guerra cosiddetta non convenzionale o non tradizionale - quelli, forse, più delicati -, ma non possiamo imputare alla maggioranza di introdurre un elemento di distonia: con le modifiche più urgenti, approvate da questo Parlamento, il codice è assolutamente applicabile, ferma restando la vigilanza, sotto il profilo della legittimità costituzionale, da parte della Corte a ciò preposta.
In conclusione, riteniamo che, in queste circostanze, si debba manifestare solidarietà alle nostre ragazze ed ai nostri ragazzi, come familiarmente li definiamo, per il grande impegno, il senso di estrema dignità, l'operosità ed il grande contributo che essi danno all'immagine internazionale del nostro Stato, che - consentitemi, colleghi - è molto migliorata negli ultimi tempi grazie ad un'attività decisamente diversa da parte del Governo attualmente in carica (e, forse, ciò costituisce motivo per una certa agitazione da parte dei molti che dalla passata politica dell'«appecoronamento» hanno evidentemente tratto vantaggio).
La solidarietà che noi vogliamo manifestare non può essere, però, soltanto quella a parole, che proviene, praticamente - e giustamente -, da tutti i banchi di quest'aula, e nemmeno può limitarsi, onorevole Ruzzante, al «soldo», al riconoscimento di qualche soldo in più (glielo dice chi ha presentato un emendamento in tal senso): il sostegno e la solidarietà, al di là delle diverse posizioni, vanno dati a questi ragazzi perché vanno a rischiare la pelle, in quei contesti, e non a compiere operazioni che qualcuno vuole definire, ipocritamente, nei modi più variopinti.
Queste italiane e questi italiani vanno a compiere attività molto rischiose, così come fanno le forze dell'ordine quotidianamente nell'opera di contrasto alla criminalità (organizzata e non). Allora, pur nel contrasto, possibile, tra le opinioni politiche, dobbiamo avere la serietà di attribuire a chi svolge ruoli difficili la massima solidarietà sostanziale, anche avendo riguardo all'onore ed alla dignità di chi va ad operare in contesti così difficili come quello di cui trattasi.
Anche per quanto concerne il problema dell'ingaggio, speriamo che il Governo adotti regole volte a preservare la sicurezza dei nostri contingenti prevedendo, in caso di necessità, la possibilità dell'impiego della forza (così com'è previsto da tutti gli ordinamenti, nazionali e internazionali). Non vorremmo, infatti, che si ripetesse quanto è già successo nell'ambito della stessa operazione Enduring freedom: gli operatori italiani, segnatamente le navi militari che vengono a trovarsi in situazioni difficili, non debbono essere costretti a rivolgersi, a causa della limitatezza delle regole di ingaggio, alle forze americane o a quelle di altri paesi (allora sì in imposizione subordinata). Queste regole devono essere adeguate ai rischi ed ai compiti, che sono stati ben delineati, come ricordavo, e non sono certamente stati nascosti: sono stati chiari sin dall'inizio, checché voglia sostenere chi, oggi, si nasconde dietro cortine fumogene (Applausi dei deputati del gruppo di Alleanza nazionale)!

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

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