Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 192 del 25/9/2002
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(Interventi)

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Adornato. Ne ha facoltà.

FERDINANDO ADORNATO. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio...

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, vi prego... Chi vuole può non ascoltare, ma è pregato di consentire agli altri di farlo.

FERDINANDO ADORNATO. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, onorevoli colleghi...

PRESIDENTE. Onorevole Adornato, aspetti così ci calmiamo tutti e vediamo se possiamo cominciare, tanto il tempo devo farlo decorrere io, per cui le consentirò di recuperarlo.
Prego, onorevole Adornato.

FERDINANDO ADORNATO. Le pagine di storia che stanno attraversando la nostra


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vita sono pagine inedite, difficili, pagine che nessuno di noi avrebbe potuto immaginare. Tutti quanti avvertiamo, di conseguenza, l'estrema importanza delle scelte che siamo e saremo chiamati a compiere in quest'aula. L'importanza è obiettiva perché sono in discussione le nuove frontiere dell'ordine mondiale, ma anche soggettiva perché, a differenza del passato, oggi l'Italia gioca un ruolo protagonista nella politica internazionale ed europea.
Con questo Governo la nostra è tornata ad essere una delle nazioni più ascoltate del mondo occidentale (Commenti dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo): non è un dato contestabile, fa parte della cronaca politica...

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, vi prego di consentire all'onorevole Adornato di parlare. L'intolleranza non si giustifica quando un collega sta parlando in termini civili come sta facendo l'onorevole Adornato. Non si capisce proprio, anche perché dopo dovranno parlare altri (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia, di Alleanza nazionale, dell'UDC (CCD-CDU) e della Lega nord Padania).
Onorevole Adornato, le chiedo scusa.

FERDINANDO ADORNATO. Grazie, signor Presidente, come lei sa è un'abitudine.
Come dicevo, non è un dato contestabile, ma è un dato della cronaca politica, e mi si lasci dire che di questo dovremmo sentirci orgogliosi tutti, maggioranza ed opposizione. So che non avverrà, ma sarebbe davvero un'iniezione di serietà per la nostra salute pubblica se, in omaggio al reciproco riconoscimento costantemente invocato dal Presidente Ciampi, e proprio in un momento così carico di tensione politica tra noi, la sinistra riconoscesse la grande ingiustizia e l'inutile lacerazione inferta al paese catastroficamente profetizzando che con Berlusconi Premier sarebbe venuta meno l'affidabilità internazionale del nostro paese. È accaduto il contrario; non è obbligatorio, ma sarebbe saggio da parte vostra riconoscerlo. Vedete, il nuovo ruolo dell'Italia non è tanto un vantaggio per il centrodestra, ma è in primo luogo una preziosa risorsa comune, una chance a disposizione di tutto il paese.
Il nuovo ruolo internazionale dell'Italia, proprio perché ci consegna una più evidente capacità di influenza, ci destina anche inevitabilmente a più gravose responsabilità. Profonde devono essere, dunque, la meditazione e la convinzione intorno alle nostre scelte, maggiori devono essere la lucidità e la precisione delle nostre analisi, soprattutto in relazione all'evolversi dello scenario mondiale.
Il primo problema cui dobbiamo guardare con estrema attenzione in queste ore è la possibile apertura di grandi aree di diffidenza tra Europa e Stati Uniti. Mai come negli ultimi tempi, infatti, dalla crisi mediorientale al vertice di Johannesburg, fino all'attuale confronto sull'Iraq, si sono fatti più forti e ripetuti i segnali di distanza e di ostilità lanciati da alcuni paesi dell'Unione europea, in particolare dalla Francia e dalla Germania, verso Washington fino a far intravedere il pericolo di una frattura politico-culturale di ciò che fino ad oggi abbiamo chiamato Occidente.
Tali segnali non sono univoci e coerenti, anzi sono in genere caratterizzati da una palese contraddizione: da una parte si rimprovera infatti agli Stati Uniti un'arrogante unilatelarismo di iperpotenza (come nel caso dell'Iraq); dall'altra, all'opposto, li si accusa di isolazionismo (il mancato decisionismo sulla vicenda israelo-palestinese, le obiezioni al Protocollo di Kyoto e al Trattato sui tribunali internazionali). Insomma tutto e il contrario di tutto.
Sembra che parte delle classi dirigenti europee non abbiano ancora superato quella miscela di sudditanza e rancore, che da sempre caratterizza un certo dispettoso rapporto con gli Stati Uniti, almeno da quando Washington ci ha sottratto, nel secolo scorso, la leadership del mondo.
Ma non vogliamo qui tornare sulle profonde cause storiche e ideologiche dell'antiamericanismo. Vogliamo invece affermare con nettezza quello che noi consideriamo


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un punto fermo dell'attuale scenario geopolitico: una rottura con gli Stati Uniti sarebbe per il futuro dell'Europa un disastro economico, politico, etico. Sbaglia infatti chi pensa che gli «occidenti» siano due; al contrario, l'occidente è uno solo e, nonostante divisioni e incomprensioni, la madre Europa e la figlia America recitano nel mondo all'interno di uno stesso orizzonte di valori comunitari: dalle politiche della difesa a quelle della sicurezza, dalle relazioni commerciali a quelle culturali. Se l'isolazionismo americano è sempre stato per noi un male, un presunto isolazionismo europeo dagli Stati Uniti sarebbe un vero salto nel buio e per il mondo una pericolosa destabilizzazione.
Non è dunque solo la memoria a legarci a Washington, anche se l'Italia e l'Europa non potranno dimenticare mai il pegno di sangue e il debito di libertà contratto con l'America. No, non è solo il passato. È il futuro, soprattutto con le sue incognite, a chiederci di non spezzare quella rotta storico-culturale, che chiamiamo occidente.
Ecco allora uno dei ruoli più importanti che l'Italia può, e deve, giocare oggi nel mondo e che il nostro Premier ha cominciato a mettere in atto: impedire che questa frattura si crei; costruire un ponte politico e umano fra le diverse sensibilità europee e la strategia americana. Fermezza di principi e duttilità diplomatica: questa è la giusta ricetta di una moderna politica estera. È la ricetta che lei, signor Presidente del Consiglio, ha finora seguito. Continui lungo questa strada, lavorando tenacemente per l'unità del continente europeo, perché essa è l'unica che può restituire all'Unione europea un ruolo protagonista nel pianeta.
Molti si ostinano a non capirlo, ma non è più da tempo una questione di destra e di sinistra. Prova ne sia che i due principali modelli di comportamento che oggi l'Europa ha di fronte a sé non sono riducibili a questo schema: da una parte infatti vi è il modello Blair, che persegue un'alleanza di ferro con gli Stati Uniti, un'alleanza che riproduce l'asse etico-politico che portò il mondo a liberarsi dal nazismo; dall'altra, vi è il modello Schroeder-Chirac, che rielaborando il neutralismo preferisce in sostanza che l'Europa non abbia alcun ruolo, che sia lasciata in pace, fuori da eventuali rischi politici e militari.
Quale modello seguire? D'istinto e per convinzione la nostra parte politica sceglierebbe il modello Blair. Eppure oggi sentiamo una responsabilità in più: sentiamo che la principale missione che l'Italia deve portare avanti è quella di fare di tutto perché questi due modelli non diventino irrimediabilmente alternativi; perché non si apra nel cuore dell'Europa, in merito al rapporto con gli Stati Uniti, uno scontro fra l'asse franco-tedesco e quello italo-ispanico-inglese.
A tal proposito, abbiamo ascoltato con stupore e dispiacere il Presidente Prodi plaudire alla restaurazione dell'alleanza tra Parigi e Berlino come «nucleo portante» della politica dell'Unione. Va detto allora con chiarezza che un'eventuale egemonia dell'asse franco-tedesco, frutto di una miscela tra il colbertismo statalista francese e il modello renano, segnerebbe un pesante arretramento sociale dell'intero continente, facendo alla fine emergere un vero e proprio deficit di libertà. Ma ciò che più conta oggi è che questo non è il momento certo più adatto per ragionare con lo spirito dei derby calcistici; semmai bisogna far di tutto affinché l'Inghilterra acceleri la propria integrazione nell'Europa, perché il segreto dell'Unione è nell'alleanza più vasta tra tutte le sue componenti, nazionali e culturali e a questo vorremmo davvero si dedicasse il Presidente Prodi.
Signor Presidente, l'11 settembre del 2001 abbiamo tutti sgranato gli occhi di fronte al rinnovarsi dell'inaudito che stava prendendo forma a New York, e dopo che l'inferno aveva traslocato a Manhattan, tutti quanti - ve lo ricordate - commossi e angosciati abbiamo detto: nulla sarà più come prima. È cominciata una guerra nuova e più insidiosa.
Ebbene, per gli americani e per molti di noi quelle furono parole scolpite nella pietra, ma non sembra sia così per tutti:


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qualcuno è tornato a chiudere gli occhi, preferendo immaginare che tutto possa tornare come prima.
Certo, nella stretta imminenza dell'anniversario, si è tornati ad esibire montagne di retorica e a versare torrenti di lacrime, ma solo e soltanto alla memoria. Gli americani e gli inglesi, da allora, si sentono davvero in guerra; molti altri europei, al contrario, non hanno voglia di affrontare alcun tipo di conflitto, neanche di fronte all'evidenza che esso possa servire a prevenire altri inferni, altre Manhattan, altri 11 settembre.
In buona sostanza, parte delle nostre classi dirigenti sembrano avere archiviato quel feroce atto di guerra, di quel giorno di un anno fa, come un evento naturale, una sorta di terremoto, del quale onorare le vittime, ma che in nessun modo evoca la presenza di un nemico dal quale difendersi e del quale prevenire gli attacchi. E, invece, un nemico c'è: si chiama nuovo terrorismo internazionale e gode di potenti e pericolose coperture da parte di Stati ed articolate enclave economiche e finanziarie.
Se è vero - come Bush e Blair hanno dimostrato alla comunità internazionale - che Saddam non ha mai smesso di preparare armi chimiche, batteriologiche e persino nucleari e che quel paese è collocato in uno dei cuori strategici del mondo, si può forse pensare di chiudere gli occhi? Si possono chiudere gli occhi di fronte alle dichiarazioni di Kidir Hamza, lo scienziato che per tanti anni ha diretto il programma nucleare di Saddam e che, su la Repubblica dell'8 settembre, ha dichiarato: «Sbrigatevi, di tempo non ne è rimasto molto»? Sì, si possono chiudere gli occhi! Ma, allora, ricordiamoci di tenerli ben chiusi anche il giorno in cui ci dovessimo trovare di fronte ad una nuova Manhattan, perché quel giorno anche noi ne saremmo un po' responsabili.
Nonostante ciò, pur di fuggire da queste responsabilità, in alcune capitali europee, quasi quasi si punta a far apparire non già Saddam, ma George Bush come il vero pericolo per il mondo, come Hitler, ha detto un ex ministro di Schroeder, privo di senso della storia e, soprattutto, del ridicolo. Ed è il ritratto di Bush, non quello di Saddam, che campeggia come odiato nemico in molte manifestazioni di piazza.
Ci auguriamo, onorevole Fassino che, quali che siano le posizioni che assumerete in quest'aula, non finiate per cadere vittime di quel presunto pacifismo che glorifica Saddam come una specie di eroe dei diseredati e indica in Bush il nemico dell'Europa (Applausi dei deputati del gruppo di Forza Italia - Commenti dei deputati del gruppo dei Democratici di Sinistra-l'Ulivo). Aspettiamo su questo una risposta inequivoca.
Un grande scrittore israeliano, Amos Oz, ebbe a dire di non essere un pacifista - parola senza senso -, piuttosto un peacenik, un combattente della pace; così ragioniamo anche noi.
Ciò significa che l'Europa e il mondo devono starsene zitti e buoni e permettere agli americani di fare ciò che vogliono? Niente affatto, ma vi è un punto assai importante da chiarire. La contestazione all'unilateralismo americano può essere di due tipi: il primo è quello ipocrita di chi si fa scudo dell'ONU per impedire qualunque azione contro Saddam; il secondo, invece, è quello positivo di chi, sinceramente, lavora affinché Washington e Londra non decidano da sole quale debba essere il modo migliore per risolvere il problema dell'Iraq.
L'ONU è stato finora il paravento dietro il quale si sono confuse queste due posizioni assai diverse tra loro. Allora, è urgente uscire da questa confusione e discutere seriamente della questione chiave, vale a dire quella della distruzione delle armi di distruzione di massa, come recita tra virgolette una delle risoluzioni dell'ONU.
Ma, da questo punto di vista, non ci sarebbe neanche bisogno di far ricorso al concetto di guerra preventiva perché si tratterebbe solo e soltanto, attraverso una nuova risoluzione, di dare finalmente seguito a tante risoluzioni già approvate. Comunque, a proposito del concetto di guerra preventiva, non credo che il concetto


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di intervento per ingerenza umanitaria - che, alcuni anni fa, andava di moda in tutto il mondo e anche nella sinistra - fosse davvero molto meno discutibile.
Nell'ONU bisogna crederci davvero, tutti. Infatti, gli americani - e lo vogliamo sottolineare in quest'aula - sbaglierebbero se non facessero di tutto per creare il più grande consenso possibile e anche l'ONU rischierebbe di apparire un ente assolutamente incapace di dirimere con forza le principali controversie internazionali, incapace di far rispettare le proprie decisioni, non all'altezza di gestire i nuovi scenari del pianeta aperti dopo la guerra fredda e ricordati poco fa dal Presidente Berlusconi.
Come ha suggerito in questi giorni Henry Kissinger, la comunità internazionale ha il dovere di pretendere dal regime di Saddam controlli a richiesta e accesso illimitato per ogni tipo di ispezione, fino all'ipotesi - cito le parole di Kissinger - di una forza militare internazionale, autorizzata ad intervenire per rimuovere prontamente ogni ostacolo alla trasparenza messo in atto dalla regime iracheno.
Solo il fallimento di questa ipotesi potrà eventualmente permettere all'ONU di prendere in considerazione qualsiasi possibilità di intervento militare.
Questa è la via giusta per impedire che gli americani facciano da soli e perché Saddam risponda senza raggiri alle risoluzioni delle Nazioni Unite. Questa è la via giusta anche per Bush, perché - come ricorda sempre Kissinger - è molto diverso se l'America agirà da sola come ultima risorsa o se agirà da sola per preferenza strategica. Su questa stessa via si muove il Governo italiano, per cercare fino all'ultimo di fare in modo che non ci sia bisogno di un intervento militare e, comunque, di tenere la più ampia e vasta possibile coalizione impegnata contro Saddam.
All'opposizione, signor Presidente, intendiamo lanciare - e concludo - un preciso messaggio politico. Il centrodestra, quando era all'opposizione, ha salvato il ruolo internazionale dell'Italia, dando i voti al Governo dell'Ulivo, che non li aveva, per le missioni in Albania in Kossovo. Noi non abbiamo bisogno di voti, perché la nostra è una coalizione unita; ma il paese ha bisogno, su argomenti come questi, del massimo di unità e di solidarietà sui valori di fondo della nazione. Non è certo necessario pensarla alla stessa maniera su tutto, ma non cedete, per carità, non cedete alla tentazione di far prevalere ragioni di politica interna su così importanti scelte di politica internazionale che fino ad un anno fa ci hanno visto agire convergendo. Non commettete l'errore di confondere il pur bravo Cirami con George W. Bush. Non cedete a chi, tirandovi per la piazza, vi vuole irrigidire in un nuovo antagonismo di civiltà, in un antiamericanismo d'altri tempi, in un pericoloso slittamento della collocazione geopolitica dell'Italia.
Tutti vogliamo la pace ma non c'è pace senza libertà. E non ci sarà libertà fino a che la nuova guerra lanciata contro tutti noi dal terrorismo internazionale non sarà vinta e non sarà vinta dalle forze della pace (Applausi dei deputati dei gruppi di Forza Italia, di Alleanza nazionale e dell'UDC (CCD-CDU) - Congratulazioni dei deputati del gruppo di Forza Italia).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Fassino. Ne ha facoltà.

PIERO FASSINO. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, naturalmente noi abbiamo ascoltato con grande attenzione, come era giusto e doveroso, il suo discorso in un passaggio cruciale per la comunità internazionale. Stiamo discutendo dell'eventualità di una guerra, di un atto estremo da cui possono discendere conseguenze difficili ed imprevedibili per la comunità internazionale e anche per il nostro paese. E io credo che la discussione qui debba essere una discussione che rifugge, quindi, da qualsiasi forma di demagogia e da qualsiasi forma di pregiudizio.
Dico subito all'onorevole Adornato che la nostra posizione non è determinata in alcuna misura da ragioni di politica interna.


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Abbiamo sufficiente senso delle istituzioni e della politica per distinguere la scena internazionale e le sue dinamiche dal teatro della politica italiana.
Quello che noi vogliamo dire con grande nettezza, anche dopo avere ascoltato il discorso del Presidente del Consiglio, è che non ci appare un approccio utile al paese ed alla pace dare per scontato ed inevitabile l'uso della forza, nel momento in cui la comunità internazionale è impegnata in ogni modo nel cercare di dare una soluzione politica alla vicenda irachena che escluda l'uso della forza. Invece, a noi appare che sia nel discorso del Presidente del Consiglio sia nel discorso dell'onorevole Adornato si dia per scontato che l'uso della forza sia inevitabile e che il problema sia semmai di motivare bene perché ci si debba ricorrere.
Io penso che, invece, il problema sia quello di cercare di vedere cosa si deve fare per non arrivarci, evitando anche di dare una rappresentazione - questa sì ad uso di politica interna - manichea, un po' ridicola e caricaturale, secondo cui chi ha perplessità o contrarietà all'uso della forza non è consapevole dei pericoli che comporta il terrorismo, è lassista e concessivo nei confronti di Saddam Hussein o, addirittura, è vittima di un pregiudizio antiamericano. Dico chiaramente che questo modo di ragionare non mi pare utile. Questo, sì, è piegare alla politica interna il dibattito su un tema così cruciale.
Noi non sottovalutiamo affatto la minaccia enorme e il rischio che comporta per il mondo il terrorismo, a partire da ciò che è avvenuto l'11 settembre, e che dopo l'11 settembre si è reso più manifesto di quanto non fosse prima: in particolare, l'esistenza nel mondo di una rete terroristica largamente diffusa, organizzata e strutturata, che dispone di finanziamenti cospicui.
Quindi, la lotta al terrorismo resta una priorità. Lo dico con grande chiarezza: per noi è una assoluta priorità. Semmai, il problema che tutti dovremmo porci è quale sia lo strumento più idoneo per combattere il terrorismo, considerato che il terrorismo conduce una guerra che non utilizza gli strumenti e le metodologie della guerra classica.
Il terrorismo conduce una guerra senza divise, mimetizzandosi sotto i torti del mondo; il terrorismo conduce una guerra senza territorio, mentre noi tutti siamo stati abituati a pensare che la guerra si faceva tra Stati per contendersi un territorio; il terrorismo conduce una guerra senza bandiere, sulla base di un fanatismo ideologico o religioso che spesso travalica qualsiasi capacità di contrapporre a quel fanatismo la razionalità dell'intelletto. Tutto questo, probabilmente, richiede che si facciano i conti con il terrorismo non con gli strumenti della guerra classica ma con strumenti di altro genere. Il Presidente del Consiglio nel suo discorso ha richiamato in questo anno l'intenso lavoro di intelligence internazionale che ha consentito di scoprire moltissime cellule terroristiche e reprimerle. Appunto: si sono scoperte e represse e si è impedita un'attività terroristica attraverso una metodologia di intelligence che non è quella della guerra classica ma è una metodologia che si è riferita al tipo di avversario che si aveva di fronte. Quindi, se oggi si vuole riconfermare, come noi riconfermiamo, l'esigenza di una battaglia prioritaria contro il terrorismo, il problema semmai è come rafforziamo tutti gli strumenti più efficaci per colpire le organizzazioni terroristiche, reprimerle ed essere in grado di debellarle per impedire che nuovi 11 settembre si producano.
Noi non sottovalutiamo affatto il pericolo che rappresenta Saddam Hussein e l'Iraq. Caro Adornato, non c'è questo rischio: nessuno pensa che Saddam Hussein sia una vittima del mondo. Saddam Hussein è un pericoloso e sanguinario dittatore e noi consideriamo che sia un obiettivo della comunità internazionale lottare contro la sua dittatura e consentire anche all'Iraq di essere un paese del quale ci siano democrazia e diritti. Semmai, ci sarebbe da chiedersi - ce lo dovremmo chiedere tutti e chiederlo a qualche governante del mondo - se questo obiettivo si persegua con la stessa determinazione


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sempre e interrogarsi su come mai questa questione di Saddam Hussein abbia un andamento di tipo carsico, che periodicamente torna come una grande minaccia per poi scomparire in un lungo sonno e in un lungo silenzio (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani, Misto-Verdi-l'Ulivo e Misto-Socialisti democratici italiani).
Non so come voterà la Russia nel Consiglio di sicurezza dell'ONU qualora ci sia una risoluzione stringente nei confronti di Saddam Hussein. Sottolineo l'incongruenza di aver sottoscritto un accordo per molti miliardi di dollari qualche settimana fa con Saddam Hussein e magari votare una risoluzione che determina l'uso della forza (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo). Infatti, se lo si considera un pericolo, allora si usano tutti gli strumenti perché quel pericolo venga finalmente estirpato e quel paese non viva più sotto il tallone di una dittatura.
Noi non abbiamo una posizione antiamericana. Ci sono in Italia, come nel mondo, coloro che utilizzano questa crisi per rispolverare un antiamericanismo che, per quello che ci riguarda, non ci appartiene.
Sappiamo bene qual è stato e qual è il ruolo degli Stati Uniti nel mondo per la garanzia della sicurezza e della stabilità di questo pianeta. Siamo consapevoli - lo ha citato il Presidente del Consiglio e questo ci è chiarissimo - di come gli Stati Uniti siano stati decisivi per garantire libertà a questo continente che per due volte ha rischiato la propria libertà per i propri conflitti. Sappiamo bene quanti siano i ragazzi americani che hanno pagato con la vita la libertà e la democrazia di questo continente e anche del nostro paese. Sappiamo bene che il rapporto transatlantico tra Europa e Stati Uniti è un passaggio cruciale per un mondo che sia più sicuro e più stabile. Non ci sfugge nulla di tutto questo ed è per questo che siamo molto preoccupati perché una guerra che determinasse una eventuale divaricazione di atteggiamento tra Europa o una parte di essa e Stati Uniti renderebbe il mondo meno sicuro.
Tuttavia, questa è una questione che poniamo non soltanto a noi stessi europei, ma anche al Governo degli Stati Uniti per il quale è altrettanto essenziale il rapporto transatlantico con l'Europa.
Non ci muove neanche una posizione soltanto di carattere morale o etico. Ho il massimo rispetto - credo dovremmo averlo tutti - per chi da una posizione di natura etica, morale o religiosa fa derivare l'inaccettabilità dell'uso della forza a qualsiasi condizione: è una posizione rispettabile che io rispetto. So, però, facendo politica non da qualche giorno, che la politica, oltre che dall'etica della convinzione, deve farsi carico anche dell'etica della responsabilità. La politica, infatti, può prevedere anche l'uso della forza, ma proprio perché quest'ultimo rappresenta un rimedio estremo, occorre ragionare su come, quando e perché, sulla base di quali principi di legalità, di quale contesto politico, in che modo.
Dal mio intervento si evince che sto sostenendo una posizione che invita a scongiurare in ogni modo la guerra, ad evitare di esserne coinvolti, ma non ho cambiato la mia posizione né quella del mio partito, del mio schieramento rispetto alla vicenda dell'Afghanistan e del Kosovo. Infatti, penso che in Kosovo si fosse di fronte ad una enorme tragedia umanitaria, ad una pulizia etnica che veniva dopo dieci anni di guerre balcaniche che avevano insanguinato un'intera parte dell'Europa, senza che la comunità internazionale riuscisse per dieci anni, con gli strumenti della sola politica, a fermare quel bagno di sangue. So anche che in Afghanistan si era determinata una presenza terroristica che rappresentava una minaccia per il mondo. In quelle due situazioni ho condiviso l'uso della forza, quindi non ho da spiegare in termini ideologici e politici perché oggi sono contrario. Sono e siamo contrari per delle ragioni politiche e vorremmo che le consideraste anche voi. Prima di tutto una eventuale guerra che cosa determina nel rapporto tra mondo occidentale, paesi


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arabi e società islamiche? Non si tratta di un piccolo problema se solo pensiamo a cosa matura nella società islamica, alla febbre che è sotto la pelle di quelle società e che è cresciuta in questi anni intorno a fenomeni, a manifestazioni di estremismo e di fanatismo religioso che, in primo luogo, si sono caratterizzati in termini antioccidentali.
In secondo luogo, cosa può determinare l'eventualità di una guerra in una sequenza terribile di attività terroristica nel mondo? E, in ultimo, cosa può determinare l'eventualità di una guerra nello scacchiere del Medio Oriente che, lo sappiamo tutti, è immediatamente connesso alle vicende dell'Iraq? Queste sono le questioni su cui ragionare.
Questa mattina è stata pubblicata sul Corriere della Sera l'intervista di una signora - la principessa di Giordania -, che non credo possa essere accusata di antiamericanismo per storia, cultura, formazione o di avere qualche atteggiamento concessivo e lassista verso Saddam Hussein. Questa persona conosce bene i sentimenti dei cittadini arabi perché essa stessa è araba. Leggete questa intervista, perché è lucida, tutta politica, dalla prima all'ultima parola, e pone esattamente le questioni che io vi sto ponendo e cioè come evitare che l'uso della forza contro Saddam Hussein determini esiti che sono esattamente l'opposto di quelli per i quali quella guerra ci viene proposta e motivata oggi (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, del Misto-Comunisti italiani, del Misto-Verdi-l'Ulivo e del Misto-Socialisti democratici italiani). In questa nostra posizione siamo confortati anche da altre ragioni. Chirac non è certamente uomo che può essere catalogato tra i pacifisti di questo nostro mondo, di questa nostra Europa, eppure, ancora ieri, ha dichiarato di non considerare la guerra inevitabile e di considerare prioritario mettere in campo ogni iniziativa per scongiurarla. Un uomo come Al Gore, che è stato candidato ad essere Presidente degli Stati Uniti e che non può essere certo accusato di antiamericanismo, ha svolto un discorso - che, ieri ed oggi, tutta la stampa ha ripreso - di grande severità nei confronti della leggerezza con cui l'amministrazione Bush sta gestendo questa crisi, ha richiamato l'America alle sue responsabilità di fronte al mondo e, proprio in omaggio a questa responsabilità, ha chiesto al suo paese di lavorare per scongiurare quella guerra.
Per quanto concerne l'atteggiamento dei paesi arabi, non vi è una classe dirigente nell'ambito degli stessi - anche le più moderate, non dico quelle che sono sempre state più estreme - che non sia preoccupata. Mi riferisco al Marocco, all'Arabia Saudita, alla Giordania, vale a dire a quei paesi arabi che, in campo arabo, sono tradizionalmente gli alleati più fedeli degli Stati Uniti e che sono estremamente preoccupati di cosa si possa produrre nel momento in cui si giunga ad un'eventuale guerra. Tutti questi paesi, la Francia, la Germania, la Cina e la Russia che hanno non meno perplessità, i paesi arabi l'anno scorso - e lo sottolineo - erano tutti parte della coalizione contro il terrorismo. Nel momento in cui si producesse una guerra che determinasse questi eventi catastrofici, che fine farebbe la coalizione contro il terrorismo? Nel momento in cui la coalizione contro il terrorismo andasse in briciole, la lotta contro il terrorismo sarebbe più forte o più debole? Queste sono le questioni che noi poniamo.
Come vede, onorevole Adornato, non parlo né del provvedimento Cirami né di Tremonti perché penso che l'orizzonte, quello di cui stiamo discutendo, sia molto più nobile e degno (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani e Misto-Verdi-l'Ulivo). Sto ponendo a lei, al Presidente del Consiglio nonché al dottor Bonaiuti, che da ieri è il mio interlocutore principale, sulla base di una dichiarazione del Presidente del Consiglio (Applausi dei deputati del gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo), queste considerazioni. Vorrei che chi dirige questo paese fosse attento a considerazioni che hanno una natura politica e


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che attengono a scelte di politiche internazionali e di politica estera particolarmente impegnative per il nostro paese. Queste sono, quindi, le questioni che noi vi poniamo e concludo, signor Presidente.
Il problema non è decidere se andare o non andare in guerra. Il problema è evitarla, lavorare in ogni modo per scongiurare un'eventualità che sarebbe, in ogni caso, di natura catastrofica e cogliere tutti gli spazi, se vi sono, per fare in modo che questa guerra non vi sia. Alcuni spazi si sono aperti, minimi naturalmente. Sappiamo ben guardare una vicenda internazionale così delicata! Quegli spazi sono minimi e rappresentano una dichiarazione di disponibilità da parte di Saddam Hussein di accettare le ispezioni immediate senza condizioni.
Poiché abbiamo un giudizio su Saddam Hussein molto preciso, sappiamo bene che quella dichiarazione di disponibilità va verificata perché, troppe volte, alle parole sono corrisposti invece comportamenti di segno opposto. Vediamo, pertanto, come si mette in campo qualsiasi iniziativa politica per verificare che quello spazio sia percorso, che quella dichiarazione sia una dichiarazione a cui Saddam Hussein è obbligato ad ottemperare, che si compiano effettivamente le ispezioni e si garantisca l'applicazione delle risoluzioni dell'ONU in Iraq.
Dobbiamo lavorare affinché l'ONU abbia autorevolezza e forza.
Signor Presidente del Consiglio, nella parte finale del suo discorso vi è stato un passaggio che meriterebbe una discussione a parte, ma glielo sottolineo perché è un aspetto che va discusso. Lei ha affermato che l'ONU, di propria iniziativa, deve farsi carico di evitare che gli Stati ritengano di doversi muovere sulla base della propria volontà autonoma (ho riassunto questo passaggio; ma dal testo si possono leggere esattamente le sue parole). Ritengo che questa sua frase andrebbe rovesciata: non è l'ONU che deve dimostrare agli Stati di avere forza, perché quest'ultima, così com'è stata chiamata al momento della sua fondazione, è una società di nazioni. Il potere che hanno le Nazioni Unite non deriva da altra fonte di legittimazione se non da quella delle nazioni che la compongono.
Noi viviamo da troppo tempo la seguente contraddizione: ogni qualvolta scoppia una crisi, una guerra o un conflitto, la prima cosa che tutti dichiarano, a partire dai primi ministri di ogni paese, è che l'ONU intervenga. Successivamente ci rendiamo conto che l'ONU non ha soldi, uomini, poteri e competenze e che non gli vengono forniti esattamente da quei Capi di Stato e da Capi di Governo (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani e Misto-Socialisti democratici italiani) che chiedono all'ONU di intervenire. Pertanto, il problema dell'ONU è la sua sovranità che è ancora troppo debole.
È forse questa - e concludo davvero - la più grande contraddizione, sul piano politico, della globalizzazione, di un mondo che è globale in tutto, nell'economia, nella finanza, nelle comunicazioni e nella circolazione degli uomini e delle merci, ma non è globale nella sovranità. È un mondo che continua ad essere retto, nonostante sia globale ogni tendenza ed ogni fenomeno, dalle sovranità nazionali e dalle relazioni tra sovranità nazionali.
Questo è il problema, Iraq o non Iraq, che abbiamo di fronte e che si risolve soltanto se si rafforzano le sovranità sovranazionali, non se le si deprimono.
Noi, in Europa, come stiamo affrontando i problemi di un continente che sempre più sono problemi comuni? Dandoci una moneta comune, volendo avere una politica estera comune, una politica di difesa comune, con una riforma delle istituzioni per dare più potere: costruiamo cioè un soggetto sovranazionale che sia capace di governare l'Europa ed i suoi problemi.
Il problema del mondo è questo: ed è naturalmente assai più complicato. È già difficile mettere d'accordo 15 paesi in Europa, figuriamoci 190 nel mondo! Il problema tuttavia è questo! Ciò significa che, sia pure con tutta la gradualità ed il tempo necessario, la scelta che deve essere


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fatta è quella non di deprimere il ruolo delle Nazioni Unite, bensì di rafforzarne i poteri, le competenze, le funzioni e le risorse, in misura tale che sia in grado di essere un nucleo d'autorità governante in grado di intervenire là dove si producono conflitti ed avere una capacità di risoluzione.
Mi avvio alla conclusione: il Presidente Casini ha già avuto la pazienza di concedermi ancora un minuto di tempo. Ciò che noi chiediamo in definitiva è agire con grande determinazione insieme con gli altri paesi dell'Unione europea, insieme ai nostri alleati, insieme con gli Stati Uniti d'America, con i paesi arabi e, in primo luogo, con l'ONU per scongiurare questa guerra.
Ciò che quindi le chiediamo non è ritenere che questo dibattito parlamentare le abbia dato il mandato per dire sì ad una guerra, bensì ritenere che da questo Parlamento le venga una sollecitazione forte affinché l'Italia faccia tutto ciò che è in suo potere perché alla guerra non si arrivi ed al mondo sia evitata una catastrofe drammatica (Applausi dei deputati dei gruppi dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani, Misto-Socialisti democratici italiani e Misto-Verdi-l'Ulivo - Vivi applausi - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Ramponi. Ne ha facoltà. Prego i colleghi di defluire con ordine.

LUIGI RAMPONI. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio dei ministri, onorevoli colleghi, ritengo che anche i più ottimisti non si attendessero la disponibilità, nei confronti delle ispezioni, così rapida e così aperta annunciata da Saddam Hussein, subito dopo l'intervento deciso e duro del presidente Bush all'Assemblea delle Nazioni Unite. Il fatto, pur nella indeterminatezza che spesso caratterizza le prese di posizione sul piano internazionale, è comunque di grande e positiva valenza iniziale.
Da che cosa sia stato determinato è difficile dire, un fatto è certo: una maggior determinazione nell'ambito delle Nazioni Unite nel senso di volere rispettati da parte dell'Iraq gli accordi e le risoluzioni dell'ONU, indotta dalla ferma presa di posizione di una larga parte degli Stati e delle organizzazioni internazionali, a seguito delle pressioni esercitate dagli Stati Uniti d'America, ha costituito elemento forte di convincimento.
Come al solito, il sì di Saddam Hussein alle ispezioni ha scatenato una ridda di commenti e considerazioni pro e contro, di esperti e di pseudoesperti. A mio parere lasciano tutte il tempo che trovano! Si farà assai presto ad appurare le vere ed autentiche possibilità di controllare e di verificare in modo attendibile se, in disprezzo di quanto definito con chiarezza nelle risoluzioni dell'ONU nei confronti dell'Iraq il suo Governo abbia continuato ad impegnarsi per produrre o abbia anche addirittura prodotto e stoccato materiale per la distruzione di massa, vettori di media o ampia gittata, microstrumenti per attentati terroristici con aggressivi chimici o batteriologici.
Non ci resta quindi che attendere, senza abbassare alcuna guarda né di carattere informativo né di carattere operativo e senza agitarsi con formulazioni di futuri cataclismi, spesso gratuite e fuorvianti.
Se tale fermo atteggiamento assunto dalle Nazioni Unite fosse stato assunto in tempi non molto lontani anche nei confronti del regime dei taliban, è ipotizzabile che si sarebbe potuto evitare il disastro dell'11 settembre e le sue nefaste conseguenze.
Esiste, infatti, un rapporto molto stretto che lega le due situazioni Afghanistan-Iraq. Oggi tutti parlano dell'opportunità, che abbiamo ritenuto di avallare, dell'intervento in Afghanistan: avremmo dovuto dormire meno, tutti, paesi del mondo e Nazioni Unite, ed accorgerci che era opportuno intervenire prima in Afghanistan, senza aspettare l'11 settembre! Tale rapporto conferisce significato fondamentale alle recenti iniziative assunte nell'ambito


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delle Nazioni Unite e pone sotto una giusta luce la ragione di un eventuale intervento militare in Iraq.
Nei confronti del Governo talebano - ricordo a tutti - a partire dal 1998, dopo gli attentati contro le ambasciate americane a Nairobi e a Dar es Saalam, il Consiglio di sicurezza ha adottato una lunga serie di risoluzioni che imponevano sanzioni: il congelamento dei fondi e di tutte le risorse finanziarie dei talebani, la chiusura immediata di tutti i campi di addestramento per terroristi, il divieto che il territorio afgano fosse utilizzato per la preparazione e l'organizzazione di atti di terrorismo internazionale, l'estradizione di Osama bin Laden verso uno degli Stati che già nel 1998 ne aveva fatto richiesta. Tutto questo prima, assai prima, dell'11 settembre.
Ma il Governo talebano ripetutamente negli anni non si diede per inteso e, di fronte a questa ripetuta risposta sprezzantemente negativa, il Consiglio di sicurezza non ritenne o non ebbe il coraggio e il senso di responsabilità di applicare il capo VII della Carta delle Nazione Unite, in base al quale (articolo 42) il Consiglio «può intraprendere con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale». E così Osama bin Laden poté continuare ad operare indisturbato, sino a portare a termine l'attentato dell'11 settembre. Allora ci svegliammo, allora fu giustificato l'intervento.
Credo risulti evidente la stretta correlazione tra le due situazioni e i due casi che, purtroppo, hanno avuto sviluppi molto simili e, per certi versi, preoccupanti. Ma oggi la situazione dell'Iraq, pur nella sua pericolosità, non è ancora giunta al drammatico punto di rottura. Ecco perché ho detto all'inizio di considerare altamente positiva sia la risposta di Saddam di accettazione delle ispezioni sia i già avviati incontri per l'invio degli ispettori.
Dobbiamo attendere con fiducia ed attenzione gli sviluppi e dare dimostrazione, da una parte, di fermezza e capacità di decisione e, dall'altra, di capacità di riflessione. Solo nel caso in cui - e ritengo nessuno possa augurarselo - emergessero da parte irachena comportamenti e atteggiamenti provati che costituissero reale minaccia alla sicurezza internazionale, e solo nel caso in cui il Consiglio di sicurezza fosse costretto a decidere l'intervento armato, allora ritengo che l'Italia dovrà partecipare, dando il suo contributo per la sicurezza. Spero ovviamente - e con me credo tutte le persone di buonsenso - che ciò non debba accadere: un conflitto armato non è mai nell'interesse di nessuno, può essere una triste necessità per evitare guai maggiori, ma non è mai un fatto positivo.
È giusto oggi pensare ad una strategia della prevenzione, cioè ad una strategia che preveda di intervenire prima che accada il disastro, così come fu giusto anni addietro pensare alla strategia della dissuasione, la quale per fortuna ebbe successo e non fu mai costretta all'intervento, che pure prevedeva. Allo stesso modo, la strategia della prevenzione deve tendere a dissuadere e solo un suo fallimento può costringere all'intervento armato.
Fino ad oggi - mi sia consentito dirlo ed è opinione comune - il comportamento del Governo italiano è stato chiaro e, in termini di abilità e capacità diplomatica, assolutamente pregevole.
L'Italia ha assunto con grande chiarezza - lo ripeto - una posizione coerente: da una parte, con il suo assoluto impegno contro il terrorismo internazionale, le violazioni delle risoluzioni ONU, le minacce alla pace e alla stabilità mondiale, esprimendo, nel contempo, la solidarietà nei confronti degli alleati, in particolare nei confronti degli Stati Uniti; dall'altra, conservando la sua autonomia di giudizio, la sua assoluta fiducia in una soluzione individuata in seno alle Nazioni Unite, il mantenimento di ottimi rapporti con i partner europei ed i paesi più direttamente interessati della delicatissima area mediterranea e del Medio Oriente.
Ma l'episodio Iraq merita anche una corretta analisi, non solo sul piano della politica estera o sul piano di qualche polemica da destra e da sinistra, ma


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anche sul piano della politica di difesa e di sicurezza perché di questo stiamo parlando!
L'11 settembre e la possibile minaccia Iraq - lo hanno ricordato tutti - ci ricordano che iniziative terroristiche e correlate misure di contrasto anche bellico sono ancora pesantemente immanenti nell'orizzonte internazionale. Al di là dell'impegno sul piano diplomatico, ogni Stato deve, con responsabilità, compiere ogni sforzo per garantire ai propri cittadini la difesa della loro sicurezza, sia nei confronti delle minacce interne sia nei confronti di quelle esterne. Ma non solo.
Lo ha dimostrato anche di recente lo sviluppo dei fatti avvenuti alle Nazioni Unite. L'azione diplomatica essenziale per evitare la sciagura della guerra può avere successo se, oltre che basarsi sul rispetto dei sacrosanti diritti riconosciuti dalla comunità internazionale, può anche essere sostenuta da una vera capacità di cogenza, assicurata dalla disponibilità alle spalle di uno strumento di intervento anche bellico, per imporre, se necessario, il buon diritto internazionale violato da chi ignora regole di etica internazionale, trattati, risoluzioni delle Nazioni Unite, con politiche aggressive e terroristiche, come ha fatto il Governo dei talebani in Afghanistan e come potrebbe dimostrare - ma nessuno se lo augura - di aver fatto Saddam Hussein in Iraq.
Tale realtà internazionale, quindi, impone una seria considerazione sulla validità e sulla concretezza dell'impegno che uno Stato dedica alla difesa e alla sicurezza della propria comunità, altrimenti vorrei sapere quale strumento abbiamo per essere ascoltati e rispettati nel mondo.
L'Italia spende, rispetto al prodotto interno lordo per lo strumento difesa e per i suoi soldati, in termini di equipaggiamento, armamento e salari, mediamente la metà di quello che spendono - lo ripeto - rispetto al PIL, Francia e Germania di Inghilterra, i nostri partner europei con i quali amiamo confrontarci. Si tratta di Stati sulla cui democraticità credo nessuno abbia nulla da dire.
E nonostante questa realtà, grazie alla dedizione e all'impegno degli uomini e oggi anche delle donne della difesa e della sicurezza, come ha ricordato il nostro Presidente del Consiglio, l'Italia ha sempre dimostrato la sua generosa disponibilità al rispetto dei trattati, alle richieste delle Nazioni Unite per la sicurezza e la stabilità internazionale.
In questo campo, negli ultimi dieci anni, la stragrande maggioranza dei partiti e, quindi, il Parlamento ed i Governi che si sono succeduti, hanno saputo assumersi le loro difficili responsabilità.
L'Italia ha partecipato e partecipa in maniera massiccia ed inversamente proporzionale alla scarsità delle risorse assegnate alle numerosissime operazioni di pace. Lo può fare perché le tensioni ed i conflitti nei quali le sue forze possono essere coinvolte sono di bassa intensità e non richiedono strutture operative e sistemi d'arma di elevato livello tecnologico.
Ma in caso di conflitto ad alto livello di intensità, come possono essere quelli che, sotto l'egida ONU, possono vederci impegnati per prevenire attacchi micidiali per la nostra società, le scarse ed inadeguate risorse dedicate alla difesa da vent'anni a questa parte non ci consentono - sia ben chiaro - una partecipazione all'altezza del peso internazionale dell'Italia e coerente con la volontà sin qui manifestata chiaramente dal Parlamento e dal Governo di partecipare, in maniera adeguata, alla difesa della pace, del rispetto dei diritti umani, alla lotta al terrorismo e rischia pesantemente (attenzione!) di attenuare la valenza della nostra presenza in ambito internazionale.
Poiché il momento è certamente difficile sul piano economico, nel contesto di una sfavorevole e critica congiuntura mondiale, è utopistico chiedere, oggi, vista la precaria situazione internazionale e pur essendovene l'impellente necessità, la correzione immediata dello sbilanciamento esistente, nell'impegno di risorse per la difesa, tra l'Italia e gli omologhi partner europei. Pur tuttavia, tale sbilanciamento deve progressivamente scomparire, pena la perdita di credibilità dell'Italia nel contesto


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internazionale e la vanificazione di una, sin qui, brillante ed efficace politica estera.
Due possono essere le strade. In sede di ripartizione delle risorse, il Governo potrebbe rivedere la percentuale assegnata alla funzione difesa, attualmente pari all'1 per cento del PIL - ripeto: meno della metà di quello che spendono gli altri paesi -, riducendo l'entità delle assegnazioni agli altri settori che non soffrono un così grave sbilanciamento nel confronto con gli Stati omologhi. Seguendo questa via, il bilancio per la difesa potrebbe progressivamente aumentare fino al tanto promesso 1,5 per cento. Peraltro, non ci spieghiamo perché la comparazione dei dati di bilancio con riferimento al campo degli interventi nel sociale veda l'Italia raggiungere il 31 per cento rispetto ad una spesa media europea del 30-32 per cento; allo stesso modo, non ci spieghiamo perché per la pubblica istruzione e per l'agricoltura le spese siano analoghe. Perché per la difesa e per la sicurezza si deve spendere il 50 per cento in meno?
È una questione di scelta politica. Se non si possono dare nuove risorse, si cominci piano piano ad attuare un riequilibrio, in modo che l'Italia abbia un comportamento coerente con quello dei partner con i quali amiamo confrontarci. In ambito internazionale, le chiacchiere servono a poco: contano i fatti, la capacità operativa, la capacità di intervenire nel momento in cui lo si deve fare e la forza con la quale lo si può fare; altrimenti, ci considereranno sempre di serie B!
Se non si può fare ciò, o non si vuole (ma me ne meraviglierei), si deve almeno riuscire ad ottenere che, tenuto conto dell'emergenza attuale, le spese per la difesa non siano comprese nel computo del patto di stabilità, come ha proposto, di recente, il Presidente francese Chirac e come, in realtà, propose anche il nostro ministro quasi un anno fa.
Comunque, quale che sia la possibile soluzione, il ripensamento è ineludibile. La sicurezza dei cittadini è un bene prezioso. Di essa ci dobbiamo preoccupare prima di tutto, anche prima di dire se aderire o meno e di giocare partite diplomatiche. La sicurezza dei cittadini è il contesto che deve essere in cima ai nostri pensieri, dell'opposizione e della maggioranza, perché essa è condicio sine qua non per consentire e garantire il progresso all'interno ed il rispetto all'estero (Applausi dei deputati dei gruppi di Alleanza nazionale, di Forza Italia, dell'UDC (CCD-CDU) e della Lega nord Padania).

PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Ramponi.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Rutelli. Ne ha facoltà.

FRANCESCO RUTELLI. Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti d'America hanno subito, un anno fa, un atto di guerra sul loro territorio. Lo hanno subito pur essendo la più grande potenza politica ed economica del mondo, soverchiante nei propri mezzi militari. Lo hanno subito pagando un tributo tragico di vite umane e vivendo la mutilazione di due giganteschi simboli della propria forza ed autorità.
Se non comprendiamo questo fino in fondo, noi non comprenderemo il sentimento oggi largamente prevalente, non solo presso il Governo americano, ma presso il popolo americano, cui ci lega da sempre amicizia fraterna oltre alla grande gratitudine per il tributo di sangue che ha dato al reinsediamento della libertà e della democrazia in l'Italia.
In un prossimo futuro c'è una decisione che spetta agli americani, così come ci sono decisioni che spettano all'Europa e alle altre nazioni del mondo. Non si può e non si deve pensare che una decisione presa negli Stati Uniti sia automaticamente una decisione della comunità internazionale o una decisione del nostro paese. Vi è una differenza e questa differenza non può essere risolta con un salto, né con un salto emotivo né con un salto logico.
Il Parlamento della Repubblica è chiamato ad essere anzitutto fedele alla Costituzione e noi abbiamo una Costituzione


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esigente che chiama la nazione a ripudiare la guerra. Il ricorso alla forza e ad un intervento militare non può cioè essere ammesso al di fuori di ineludibili cogenti motivazioni. E attenzione: non è vero, signor Presidente del Consiglio, che quella prescrizione sia invecchiata, come lei ha lasciato in parte intendere, semmai proprio la moltiplicazione delle armi di distruzione di massa la rende più penetrante ed attuale.
Un anno fa, chi siede tra questi banchi ha autorizzato il Governo a partecipare ad un intervento militare, a seguito del tremendo attacco subito dal nostro principale alleato, un attacco deciso ed effettuato ad opera di una potente organizzazione terroristica insediata e dominante nel territorio afghano. Chiunque può criticare quella decisione, ma noi ne rivendichiamo il valore politico proprio di forze di governo che scaturisce dalla sua necessità e fondatezza giuridica.
Oggi siamo in una situazione nettamente diversa. Lei, signor Presidente del Consiglio, ha creato un parallelo tra l'intervento per smantellare il terrorismo deciso un anno fa, la «guerra asimmetrica», ed un attacco contro l'Iraq. Il parallelo non sta in piedi e proprio così come lei ha detto, su questioni come queste non si può barare. La fondatezza giuridica di un atto così importante ovvero la sua rispondenza alle regole condivise dalla comunità internazionale non può essere elusa; noi italiani siamo parte decisiva dell'Europa, membri dell'organizzazione delle Nazioni Unite, oltre che dell'Alleanza atlantica: è alle regole dell'ordine internazionale di cui siamo parte che dobbiamo conformare i nostri atti.
L'amministrazione americana ha da poco designato una nuova strategia della sicurezza nazionale. L'opinione pubblica si è particolarmente concentrata su un aspetto: la dottrina basata sulla consapevolezza che forze militari anche limitate possono oggi infliggere danni catastrofici all'America e alle nazioni democratiche, che definisce l'opportunità di colpire preventivamente le fonti di tali minacce. È doveroso chiedersi, nel caso dell'orribile dittatura di Saddam Hussein, posto che non è stato provato il collegamento tra il regime di Baghdad e l'organizzazione di Al Qaeda, se sia davvero inefficace una politica di contenimento sorretta da un'efficace dissuasione militare e se esista un pericolo chiaro ed attuale che essa rivolge ai nostri paesi con armi di distruzione di massa.
Ho apprezzato nell'intervento dell'onorevole Ramponi dei sensibili distinguo rispetto all'intervento del Presidente del Consiglio. Le Nazioni Unite debbono essere poste nelle condizioni operative di rispondere a questa domanda. L'Italia può attribuire solo all'ONU questo compito intransigente di accertamento e, conseguentemente, della distruzione delle armi che fossero rinvenute. A questa decisione noi dobbiamo pervenire d'intesa con i nostri partner dell'Unione europea; se l'Europa fosse divisa su una questione di tale importanza, sarebbe quasi morta.
Se l'Italia non si impegnasse ad unire ma, piuttosto, a dividere gli europei, saremmo noi, come nazione, ad esserne colpiti irreparabilmente. Non c'è futuro, signor Presidente del Consiglio, per l'Italia nel mondo al di fuori di un comune destino europeo.
Il fatto più importante e positivo dopo l'11 settembre, signor Presidente, è stata probabilmente l'azione della larghissima coalizione internazionale riunita, assieme agli Stati Uniti, contro il terrorismo. A distanza di un anno noi la dobbiamo mantenere e rafforzare con strumenti operativi e di intelligence adeguati. Dobbiamo evitare, in tutti i modi, che l'Europa perda la propria identità comune in questa crisi, dobbiamo evitare di fuoriuscire da una visione unitaria e dotata di compiti condivisi in seno alla NATO (finora essa è stata fondata sulla dottrina dell'autodifesa collettiva), dobbiamo evitare che si rompa e si laceri il fronte dei paesi arabi moderati, dobbiamo scongiurare che il concetto di azioni militari preventive possa minare il rispetto futuro del diritto internazionale, dobbiamo evitare che esso dia pretesto a qualunque Stato per regolare unilateralmente un conflitto secondo il proprio


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interesse, al di fuori delle regole della comunità internazionale. Più in generale, il nostro Parlamento ha, oggi, l'occasione per ribadire che resta non mantenuta una fondamentale promessa del dopo 11 settembre: associare lotta al terrorismo ed impegno per combattere povertà, fame, degrado ambientale planetario, AIDS e le altre malattie che mietono milioni di vittime ogni anno, mancanza di istruzione, non accesso all'acqua potabile, barriere commerciali che danneggiano i paesi meno avanzati.
L'Italia per prima, signor Presidente del Consiglio, non ha fatto quanto si era impegnata a fare: ha accompagnato ad una malinconica conclusione il vertice della FAO svoltosi a Roma, non ha accresciuto gli stanziamenti per la cooperazione allo sviluppo e, in particolare, nonostante ella abbia, da oltre otto mesi, assunto l'interim degli esteri, non si è dato alcun inizio alla riforma della cooperazione esattamente come, al di là dei continui e stucchevole annunci, ella non ha, in alcun modo, concretizzato una riforma volta a rendere più moderna la struttura diplomatica ed organizzativa della Farnesina.
C'è un'altra cruciale questione che non si è risolta ma è venuta aggravandosi: quella del Medio Oriente. Confrontiamo, colleghi, gli impegni assunti da parte dell'ONU, degli USA, dei principali attori della scena mondiale, incluse dichiarazioni rese in quest'aula, con i catastrofici sviluppi del conflitto israelo-palestinese. Non si è fatto quel che si era indicato; si sono fatti solo drammatici passi indietro.
Secondo la nuova dottrina statunitense sarebbe la missione a determinare la coalizione; non più la coalizione a determinare la missione comune. Se applicato, questo sì, che sarebbe un cambiamento radicale, totalmente diverso da quel richiamo all'articolo 5 del Trattato NATO che questo Parlamento ha applicato appena un anno fa.
Ma la politica estera non è solo lotta al terrorismo e la teoria che dovrebbe portare - abbiamo letto - al trionfo della libertà spesso ha bisogno, anche quando si disegnino azioni unilaterali, del supporto di Stati che, spesso, sono tutt'altro che democratici, liberali, rispettosi dei diritti fondamentali dell'uomo. Vorrei ricordarlo a titolo personale, in quanto firmatario, come deputato, di molte e precise interrogazioni, sin dagli anni ottanta, contro la partecipazione attiva del nostro paese e dei nostri paesi alleati alla fornitura di impressionanti mezzi militari proprio al regime di Saddam Hussein, così come ad altre dittature che oggi vengono inquadrate nel cosiddetto asse del male.
Non vi è nulla, ha ricordato poche settimane fa Kofi Annan, che possa sostituire la legittimazione assicurata dalle Nazioni Unite. È un durissimo cammino fatto di sofferenze, fallimenti, ma anche successi ad aver portato il mondo su questa strada. Non è colpa dell'ONU se la rete di Al Qaeda e delle altre organizzazioni terroristiche non è stata ancora smantellata e neppure se in Afghanistan non vi è ancora uno stabile e pacifico assetto estraneo a forme di persistente controllo territoriale da parte di milizie, di signori della droga. Sapevamo che si trattava di un lungo e pericoloso impegno, siamo pronti a proseguirlo assumendone tutte le necessarie e corrette responsabilità. Merita, peraltro, una risposta l'interrogativo di Al Gore se non vi sia il rischio - cito - «di saltare da un obiettivo irrealizzato ad uno nuovo».
Né è soltanto colpa dell'ONU, signor Presidente, se esistono nel mondo alcune decine di nazioni dotate di armi di distruzione di massa, non poche delle quali costituiscono una minaccia potenziale per il pianeta.
Del resto, tutti, noi che attendiamo con ansia il momento in cui un regime democratico possa sostituire la dittatura di Saddam Hussein, che tante sofferenze ha arrecato a quel popolo, non dimentichiamo neppure le parole di Giovanni Paolo II, che a quegli esseri umani si rivolge quando grida che in termini concreti anche l'embargo continua a mietere vittime. Troppi innocenti pagano le conseguenze di una guerra nefasta i cui effetti continuano a ricadere sulle persone più deboli ed indifese. Sono le stesse persone


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lanciate da Saddam a morire nella folle guerra contro l'Iran, tutt'altro che avversata, allora, dall'occidente, e poi nell'invasione del Kuwait oppure assassinate nelle prigioni di Stato o sterminate dai gas nei territori curdi. Egli porta la responsabilità piena di queste nefandezze. Ma anche per queste ragioni storiche sappiamo che la costruzione di un assetto stabile, pluralistico, gradualmente democratico nell'Iraq non potrà in futuro essere assicurato dai soli Stati Uniti d'America. Si tratta di un compito complesso, assai lungo nel tempo, di cui dovrà farsi carico la comunità internazionale, come è avvenuto per esempio in Bosnia, in Kosovo, a Timor Est, in Afghanistan. Non vi è spazio, dunque, per soluzioni unilaterali, né in guerra né in pace né per l'assurda illusione per la quale, in una congiuntura di grave crisi, si potesse profittare di crescita economica e vantaggi in campo energetico con la seminagione di conflitti e nuove instabilità (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo e Misto-Verdi-l'Ulivo).
Nel mondo di oggi e di domani sappiamo che saremo tutti più legati gli uni agli altri. Ricordi, signor Presidente del Consiglio, che se lei allontanasse l'Italia dalla comune casa europea o se la indebolisse ulteriormente, farebbe un calcolo disastroso, di cui pagheremmo molto a lungo le conseguenze. Oggi, è più che mai il momento di dare forza e strumenti all'Europa per cooperare con efficacia con l'alleato americano.
Per questo rinnovo una riflessione sull'opportunità di promuovere l'avvio immediato della forza di intervento militare devolvendo direttamente all'Unione le risorse necessarie; in tal modo non si graverebbe sul patto di stabilità, si darebbe un forte messaggio politico, si inizierebbe il cammino indispensabile di un'Europa capace di assumere responsabilità nella costruzione di quella pace e di quella sicurezza dalla cui realizzazione oggi siamo ancora lontani. Non si trascuri che è stata la consapevolezza europea, assai più che un sentimento antiamericano, a concorrere all'esito delle recenti elezioni tedesche.
Non spezzi, signor Presidente del Consiglio, il filo solido che ha faticosamente tessuto, nell'ultimo dopoguerra, la crescita progressiva dell'Italia. Quando lei ha improvvisato passi al di fuori di quel cammino, come nelle dichiarazioni sul Protocollo di Kyoto o il tribunale penale internazionale, non si è trattato di vicende di successo. Ricordi sempre la centralità e la sovranità del Parlamento nelle grandi decisioni della politica estera. Non dimentichi che la sicurezza e la prosperità dell'Italia sono affidate alla difesa di un interesse nazionale che non può divellere alcuna delle proprie radici, che affondano nell'Europa, nell'azione multilaterale propria del sistema delle Nazioni Unite, nella cooperazione con le nazioni a noi vicine e nell'amicizia con l'alleato americano. Tutto questo forma la politica estera italiana.
Ai nostri amici americani vorrei rivolgere le parole che Dwight Eisenhower pronunciò nel 1957 in occasione della guerra israelo-egiziana: se le Nazioni Unite ammettessero una volta che le dispute internazionali possano essere risolte usando la forza, avremmo distrutto le fondamenta di quell'organizzazione, assieme alle nostre migliori speranze di stabilire un ordine mondiale. Sono le fondamenta su cui vogliamo costruire, in questi tempi difficili, il nostro comune futuro (Applausi dei deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, Misto-Comunisti italiani, Misto-Socialisti democratici italiani e Misto-Verdi-l'Ulivo - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Volontè. Ne ha facoltà.

LUCA VOLONTÈ. Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole Presidente del Consiglio e ministro degli esteri, ritengo che il nostro Parlamento debba innanzitutto ringraziarla. Grazie per il senso di responsabilità e per l'azione lungimirante che sta svolgendo, che sta riportando


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il nostro paese, attraverso la sua autorevolezza, sullo scacchiere internazionale. Tutti noi dovremmo ringraziarla.
Alcuni colleghi che mi hanno preceduto forse dimenticano che è stato proprio lei a proporre ai grandi della terra il piano di pace in Medio Oriente prospettato dall'Arabia Saudita. È stato proprio lei ad invitare per la prima volta ad un vertice internazionale, quello del G8 di Genova, i paesi africani. Quindi, tutti quegli argomenti che riguardano gli aspetti della condivisione, della corresponsabilità, della comune responsabilità nei confronti dei paesi arabi e degli altri paesi internazionali sono, in piena coscienza, parte della sua azione.
Sarebbe bello se nella nostra vita, nella vita del mondo, ci fossero solo pace, sviluppo e generosità, ma tutti noi sappiamo - lei per primo - che non è così. Non è così dall'inizio del mondo, non è così dentro questo mondo, non è così dentro ognuno di noi: c'è sempre una lotta tra il bene e il male.
Siamo di fronte ad una situazione internazionale in cui si incancrenisce sempre di più e gravemente il conflitto tra Israele e i palestinesi. Un anno fa, dopo l'11 settembre, tutti abbiamo definito l'attacco agli Stati Uniti come un attacco alla democrazia, come un attacco a tutto il mondo occidentale. Siamo di fronte ad un intervento successivo in Afghanistan, a recrudescenze all'interno di quel territorio e del terrorismo internazionale su scala globale. Siamo di fronte a questo scenario con alcuni problemi ancora aperti: quello dell'occupazione permanente della Siria in Libano, quello del futuro dell'Arabia Saudita, quello del popolo curdo e quello della democrazia reale nel regime iraniano, tralasciando altre più ampie riflessioni che si svolgeranno in altre circostanze sui problemi presenti in Africa (pensiamo al Sudan, alla Nigeria, al centro Africa, al sud e al sud-est asiatico, all'Indonesia, alla Birmania).
Ci stiamo accingendo a riflettere in merito al problema dell'Iraq. Da molti anni sono impedite le ispezioni dell'ONU; da anni si sospettano legami terroristici tra il regime di Baghdad, Al Qaeda ed il terrorismo islamico presente in Palestina; da anni ci sono prove della creazione di bombe e armamenti, di stermini di popolazioni, di diminuzione dei servizi sanitari, di aumento della mortalità infantile e di sterminio assoluto del popolo curdo. Tutto ciò, secondo la logica di tutti i dittatori: più armi e meno bocche da sfamare.
Possiamo, in sincerità, dire che, senza le minacce di Bush e degli Stati Uniti, l'Iraq in questi ultimi giorni avrebbe mai accettato il ritorno degli ispettori? Sarebbe illusorio pensare in quest'aula che ciò sarebbe avvenuto. La richiesta di una nuova risoluzione non può che prevedere non solo nuove ispezioni, ma anche conseguenze efficaci ed un'azione preventiva. Certo, sarebbe auspicabile che in questa direzione il nostro paese non fosse solo e che vi fosse una comune azione europea; sarebbe auspicabile che non vi fosse bisogno della guerra a fronte della non accettazione delle risoluzioni dell'ONU. Tuttavia, lo scenario storico, di oggi e del passato, ci insegna che all'inizio di ogni nuovo secolo e sul finire di un secolo appena finito nasce sempre un nuovo patto tra le nazioni.
Così fu il congresso di Vienna, così è stato per la Società delle Nazioni, così oggi vediamo tutti i limiti e tutte le opportunità ancora rimaste dell'ONU. È necessaria una riforma dell'ONU che le dia più efficacia e più efficienza e che chiarisca le conseguenze che si verificano quando i paesi che hanno firmato il trattato dell'ONU non rispondono adeguatamente a queste risoluzioni; una riforma dell'ONU che guardi con intelligenza alla pace del mondo ed anche al rischio delle guerre; una riforma dell'ONU che guardi anche alle violazioni dei diritti fondamentali come occasione per reprimere o convincere. Mi riferisco ai diritti fondamentali all'educazione, al lavoro, all'opinione ed alla stampa, alla religione, all'infanzia: si tratta dei diritti che fanno sì che un singolo Stato non rimanga una dittatura, ma diventi una democrazia.
Vi sono varie ipotesi di strumenti e di riforme del patto tra le nazioni. Vi sono


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strumenti di moral suasion: collegare il rifiuto all'accettazione delle risoluzioni con conseguenze in sede UNICEF, FAO, Unesco, Fondo monetario internazionale, WTO, OIL, Banca mondiale. Ci siamo dimenticati, forse, che questa azione è stata più volte chiesta dal Santo Padre quando, addirittura più di dieci anni fa, parlava di un nuovo patto tra le nazioni per la concertazione dello sviluppo internazionale? Vi sono pochi strumenti dissuasivi oggi da parte dell'ONU.
In questo nuovo scenario si coniugano due esigenze complementari, se pur diverse, e lei, ministro degli esteri, Presidente del Consiglio, sa che questa strada è molto stretta. Vi è un'urgenza immediata di una nuova risoluzione di pressione ed azione sul regime dell'Iraq. Vi è un'urgenza più ampia: dare efficacia e riformare l'ONU. La inviterei a non preoccuparsi del raccolto perché so e sappiamo che lei sta seminando nel modo giusto. Si deve dare maggiore efficacia alla diplomazia preventiva: anche oggi in Afghanistan si deve guardare alla stabilità del regime, ma si deve invitare la democrazia che sta nascendo a bloccare, ad esempio, la via economica della droga. Si deve guardare all'Iraq chiedendogli di destinare, domani, una parte dei propri proventi non alla costruzione di bombe ma allo sviluppo ed all'educazione delle famiglie, delle persone, del lavoro come prima condizione affinché la democrazia possa sorgere in quel paese. Ad entrambe queste emergenze sappiamo che lei guarda con lungimiranza e con genialità. Ha lo sguardo di un vero italiano, uno sguardo rivolto ad oriente, come ha dimostrato nel suo tentativo di mediazione fra israeliani e palestinesi, ed uno sguardo rivolto ad occidente, come fu quello degli scopritori degli Stati Uniti.
Vi sono ragioni italiane e ragioni europee. Le nostre ragioni ed il buonsenso devono riuscire a convincere l'Europa. L'Europa non può fallire. Certo, la politica estera europea è anche la maggior prova di esistenza dell'Unione europea e vale di più, addirittura, della moneta economica. L'insegnamento da trarre in queste settimane è proprio quello che vi è bisogno di più Europa: può diventare l'occasione importante per il semestre di presidenza italiana.
Se l'Europa dovesse stare ferma per i limiti intrinseci alla non costruzione finale e definitiva di uno strumento europeo di politica estera, cosa dovremmo fare? La cosa peggiore sarebbe l'inazione e l'Europa rimarrebbe nell'unica posizione neutrale.
Signor Presidente, signor ministro degli esteri, a sentire il vociare di queste settimane, durante le quali è stato detto a Berlino che Bush assomiglia a Hitler, e a Roma, durante un divertente girotondo, si è assimilato l'attacco dell'11 settembre all'azione contro l'Iraq, non ci rimarrebbe che dar ragione a Chesterton che negli anni della guerra diceva: il mondo moderno ha subito un tracollo mentale molto più consistente di quello morale. Se è vero che nessuno può negare la libertà di cambiamento umano, nemmeno quella di Saddam, è anche vero che non ci possiamo condannare all'insicurezza permanente o, ancor peggio, alla furbizia malvagia di questi ultimi dieci anni.
Perciò la nostra e la sua responsabilità sono chiare. Siamo con lei, pronti ad assumerci il peso e lo sforzo per risolvere problemi, che non abbiamo desiderato, ma siamo consapevoli di poterci impegnare insieme per risolverli. L'Italia e il Parlamento le siano di conforto e siano il luogo dove ritemprarsi in questo sforzo che sta conducendo e dove rinvigorire anche la sua azione diplomatica. Siamo tutti consapevoli che, come diceva un poeta inglese, non tocca a noi di scegliere in quali tempi vivere; tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato. Anche in questi giorni, in cui cominciano ad apparire nuvoloni neri e foschi, lei si è assunto - e noi con lei - la responsabilità di portare le ragioni americane (di una nazione che ha visto la morte al suo interno e non vicino a sé) nel cuore del dibattito europeo e del dibattito euroasiatico.
Non demorda; ora lei ha il compito di portare l'Europa ad una posizione comune in una via stretta, lunga e perigliosa. Noi saremo al suo fianco, non tanto e non solo


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per le ragioni di coalizione, ma per la pace che ci hanno lasciato i nostri padri, per noi stessi e per ciò che desideriamo e allo stesso tempo per la pace, lo sviluppo e la sicurezza del mondo che lasceremo ai nostri figli. Noi siamo con lei perché siamo italiani; siamo con lei e siamo con gli Stati Uniti perché siamo europei. Grazie (Applausi dei deputati dei gruppi dell'UDC (CCD-CDU), di Forza Italia e di Alleanza nazionale).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Rizzi. Ne ha facoltà.

CESARE RIZZI. Signor Presidente, Presidente del Consiglio, colleghi, le vicende che si susseguono in questi giorni e in queste settimane dimostrano ancora una volta come il mondo sia inquieto e instabile, in altre parole, difficilmente governabile. Sappiamo che ciò è una conseguenza della caduta del muro di Berlino e della fine del duopolio nell'uso della forza, sulla scena mondiale, tra Usa e Urss.
Conoscevamo, e conosciamo, il fenomeno; tuttavia il terrificante attentato alle torri gemelle di un anno fa ci ha fornito una nuova e più inquietante visione del fenomeno stesso. Alcuni politologi e scrittori hanno osservato come paradossalmente stia entrando in crisi il concetto di Occidente: un concetto che durante la guerra fredda si autoidentificava per contrapposizione all'universo sovietico. Ma oggi Occidente significa ancora Europa e Usa? Oppure gli Stati Uniti stanno accarezzando il sogno di rappresentare in maniera univoca ed autoreferenziale questo concetto geopolitico e culturale?
Da questa considerazione pensiamo di partire per fornire delle risposte adeguate, con riferimento alla posizione che deve assumere l'Italia nei confronti di un eventuale attacco preventivo o meno, o dir che si voglia, all'Iraq di Saddam Hussein.
Da questa considerazione parte dunque il ragionamento del gruppo della Lega nord Padania. Tale ragionamento, come intendiamo dimostrare, ha visto in questi ultimi anni il nostro movimento su posizioni di assoluta coerenza e indipendenza di giudizio. La Lega nord è convinta che il concetto di Occidente sia un valore culturale e di civiltà, che non può essere appaltato - consentiteci questo termine - esclusivamente agli Stati Uniti; anzi la Lega nord è convinta che questo concetto sia intimamente e profondamente legato all'essenza culturale europea. Ecco perché la Lega nord Padania, partito autenticamente europeo, lancia l'allarme sul pericolo che sta correndo l'Europa: un pericolo che si chiama denatalità, immigrazione quantitativamente incontrollata, debolezza culturale, debolezza politica e militare.
Questi sono pericoli che ovviamente devono essere interpretati in maniera adeguata, anche nell'ottica di un confronto di civiltà, se non addirittura di uno scontro - come teorizzano alcuni politologi -, che soprattutto nei confronti del mondo musulmano si sta facendo aspro e carico di significati storici, legati all'eredità del colonialismo e al rapporto nord-sud del mondo.
Mondo islamico che, in alcune sue componenti, sta vagheggiando la nascita di un nuovo impero, in grado di fondere il fanatismo religioso di Al Qaeda con le ambizioni espansionistiche di Saddam Hussein. In altre parole, è un tentativo di sintesi storica tra l'impero maomettano e lo statalismo ottomano, vale a dire i due momenti storici in cui l'Islam ha dominato la storia euroasiatica. Un nuovo impero che possiede un collante religioso forte e vincolante, una visione del mondo e della società aggressiva e dotata di forte vitalismo demograficamente in espansione e in possesso di grande quantità di materie prime.
Lasciare gli Stati Uniti soli in questo confronto non ci pare né giusto né utile per noi, per gli americani, per il mondo intero. A nostro avviso, l'Italia può svolgere - e sta svolgendo -, in modo incisivo come forse non mai, un ruolo di cerniera, di ponte tra l'Europa continentale franco-tedesca e il mondo anglosassone nelle due rive dell'oceano Atlantico: ruolo che l'Italia si è, naturalmente, ritagliato sfruttando alcune rigidità diplomatiche europee e


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sfidando lo scetticismo e il provincialismo di alcune forze politiche italiane dell'opposizione. Un ruolo che non significa appiattimento della posizione di Bush, ma contributo positivo e talvolta critico, come può essere quello nei confronti del documento - recentemente reso pubblico - sulla strategia di sicurezza d'azione degli USA.
Il modello che potrebbe proporre il Governo italiano chiede coerenza su alcune questioni, ad esempio, la lotta al radicalismo islamico terrorista. Si combatte meglio tale minaccia scatenando un conflitto di portata planetaria, che potrebbe compattare il mondo islamico attorno a figure come Saddam Hussein e ottenere effetti opposti all'obiettivo che si intende perseguire? Oppure, si può intervenire meglio, bloccando l'immigrazione clandestina e richiamando alla collaborazione alleati come la Turchia e l'Egitto?
Sono domande che, doverosamente, poniamo nell'ottica di un'alleanza che deve puntare non alla competizione tra USA ed Europa né alla predominanza americana, ma ad una sinergia tra le due sponde dell'oceano.
Va da sé che tale sinergia può meglio svilupparsi partendo da una comune visione della civiltà. Siamo convinti che una civiltà che annulla qualsiasi valore di comunità di appartenenza, di uso corretto delle risorse naturali e che si basa, in buona parte, su valori come quelli, talvolta vincolanti, della cultura statunitense, che parlano individualismo, di economicismo esasperato, di relativismo culturale e religioso, non può che usare la forza per la soluzione dei rapporti internazionali, non può che invocare la supremazia militare.
Noi perseguiamo ed auspichiamo una civiltà occidentale che sappia confrontarsi con il resto del mondo, senza rinunciare alla propria peculiarità tecnico-militare ed economica e proporre un messaggio positivo nei confronti di altri popoli del pianeta, partendo dalla riscoperta dei propri valori, quali il radicamento territoriale, l'identità, la specificità, la famiglia, i corpi intermedi, i valori spirituali di un mondo laicamente cristiano. In altre parole, solo riscoprendo ed essendo noi stessi potremo rapportarci in modo più sereno con il resto del mondo.
Questo contributo, che il gruppo parlamentare della Lega nord alla Camera intende fornire, ovviamente non ha nulla a che spartire con un pacifismo di maniera, ideologico, a senso unico ed eurofobico, che vede nella difesa dei tratti culturali europei un rigurgito di colonialismo imperialista, un pacifismo che va a braccetto con il «terzomondismo» tanto impegnato nel favorire l'immigrazione clandestina e la disgregazione sociale.
Consentiteci una provocazione: noi non siamo pacifisti, non siamo realisti amanti della pace, noi siamo europei, consapevoli che gli interessi dei popoli europei devono essere tutelati senza atteggiamenti di sudditanza nei confronti di nessuno.
Una siffatta visione è stata da noi esternata coerentemente nel corso di questo decennio di vita politica: nel 1991, comprendendo l'attacco all'Iraq, legittimato dalla risoluzione delle Nazioni Unite; nei primi anni novanta, affermando che l'inevitabile disgregazione jugoslava necessitava di un intervento esterno che avrebbe evitato la guerra serbocroata e gli orrori della Bosnia; nel 1999, esprimendo la nostra contrarietà all'intervento in Kossovo. Tale contrarietà era motivata non dall'appoggio al dittatore comunista Milosevic, come è stato falsamente e propagandisticamente affermato dai suoi sodali di ideologia comunista - come i Fassino, i D'Alema, i Diliberto e i Cossutta -, ma dalla sproporzione con i risultati che si volevano raggiungere e che si sono effettivamente raggiunti e dalla constatazione dell'assoluta mancanza di volontà di perseguire una soluzione diplomatica, seppur delineata come possibile dall'allora ministro degli esteri, un certo Dini.
Questo focolaio di crisi internazionale deve essere letto anche in chiave economica: in un momento in cui l'economia virtuale della new economy sta subendo i terribili colpi o, meglio, mentre i risparmiatori stanno subendo i terribili colpi della recessione borsistica, ecco che l'interesse per l'economia reale e materiale


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riprende importanza strategica. Cercare di controllare le fonti di approvvigionamento petrolifero non rappresenta certo una novità nella storia mondiale; tuttavia, oggi tale aspetto torna ad essere cruciale. Su questo tema si possono intrecciare due riflessioni. La prima è che la ricchezza del petrolio non deve essere depredata dal mondo occidentale ma non può essere nemmeno lasciata in mano ai dittatori come Saddam che, insieme ad altri despoti, poco fanno per consentire lo sviluppo socioeconomico dei propri cittadini. La seconda è che l'Europa, così dipendente, a differenza degli USA, dal punto di vista energetico, deve poter dire la sua e non può essere esclusa dalla partita.
Si è riaperta, dunque, la partita a scacchi tra Saddam e il mondo occidentale, giocata sull'ambiguità del rispetto delle risoluzioni ONU: si tratta di una tattica spregiudicata, giocata sulla pelle del popolo iracheno e sull'ovvia difficoltà di applicare il diritto internazionale in maniera cogente. Ambiguità giuridiche talvolta vengono utilizzate - ad onor del vero - anche dall'amministrazione Bush per ottenere mandati in bianco che trovano perplessità addirittura nel mondo politico e culturale statunitense. Tuttavia, il passaggio attraverso le Nazioni Unite, pur con tutte le sue ombre e con le sue limitazioni, appare come necessario, anzi, indispensabile per attutire i contrasti con il mondo arabo e con il terzo mondo, in generale; per compattare lo schieramento occidentale, nonostante le turbolenze elettorali tedesche e i dubbi geopolitici francesi; per limitare le spinte all'isolamento interventistico degli States.
In conclusione, la Lega nord Padania ritiene che l'Italia sia chiamata a svolgere un compito importante, vale a dire ricompattare il fronte euroamericano e, nello stesso tempo, tutelare gli interessi geostrategici europei sia dal punto di vista economico che dal punto di vista di un'efficace azione di contrasto all'immigrazione clandestina in Europa, veicolo di instabilità e di diffusione terroristica. È un ruolo importante che può essere giocato dal nostro paese per ottenere un prestigio internazionale di assoluto rilievo. Presidente Berlusconi, le dobbiamo dare atto che lei sta ben interpretando questo ruolo.
Il tema dell'intervento bellico o, forse - per essere più diretti -, della guerra, che sta attraversando e sconquassando l'intero panorama politico, culturale e religioso europeo, non può essere utilizzato strumentalmente dalle opposizioni per mascherare attacchi di politica interna o, peggio, per dissimulare laceranti divisioni all'interno dell'Ulivo. Si possono avere opinioni diverse: è noto che non siamo amanti a tutti i costi del conformismo bipartisan; tuttavia, vista la delicatezza del momento, si deve mantenere la più assoluta correttezza politica ed intellettuale per contenere e controllare severamente Saddam; per evitare che questioni diverse come la tragedia palestinese si fondano in un'unica miscela esplosiva; per lavorare ad una partnership paritaria tra USA ed Europa; per valorizzare il ruolo della vecchia e della nuova potenza, rappresentate da Russia e Cina, coinvolgendole nelle scelte.
Ecco cosa si può e si deve fare in questo passaggio interlocutorio, senza estremismi interventistici o, peggio ancora, bellicistici, senza pacifismi poco credibili e fuori dal tempo, ma con tanto realismo (Applausi dei deputati del gruppo della Lega nord Padania).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Mantovani. Ne ha facoltà.

RAMON MANTOVANI. Signor Presidente della Camera, come lei sa noi avremmo preferito che questa discussione di oggi si concludesse con un voto. Purtroppo, i presidenti dei gruppi della Casa delle libertà e dell'Ulivo si sono assunti la responsabilità di espropriare, perlomeno oggi, il Parlamento di una sua facoltà e di una sua prerogativa fondamentale, quella di votare indirizzi al Governo. Probabilmente, da un lato, uno schieramento volto a lasciare carta bianca al Presidente del Consiglio, il quale la usa molto efficacemente dal suo punto di vista come abbiamo visto nelle ultime settimane, dall'altro, uno schieramento che nasconde delle


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note ed evidenti divisioni, hanno compiuto una scelta che noi consideriamo un errore. In ogni caso, è nostra facoltà - e, signor Presidente della Camera, lo abbiamo già fatto - presentare una mozione che è già stata consegnata agli uffici e sulla quale chiediamo si voti al più presto, che rimane a disposizione di tutte le deputate e di tutti i deputati di questo Parlamento, a qualsiasi gruppo essi appartengano, che vogliano opporsi a questa guerra annunciata senza pronunciare nessun «se» e nessun «ma».
Signor Presidente del Consiglio, noi le riconosciamo una cosa: nel discorso che lei ha fatto non le è mancata la chiarezza. Siamo totalmente in disaccordo con le sue parole e anche con l'ispirazione che l'ha portata a pronunciarle. Vediamo nelle sue parole una totale e incondizionata adesione ai piani di guerra di Stati Uniti e Gran Bretagna. Lei semplicemente colloca il nostro paese come alleato di secondo piano, in quanto non ha partecipato a nessuna di quelle decisioni, in un rapporto di totale e incontaminata fedeltà. Si tratta di una scelta che noi consideriamo nefasta e grave per il paese, per questo Parlamento e per la Repubblica italiana che ha una Costituzione che all'articolo 11 dice - mi permetta di correggere la sua citazione - che l'Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali ed è fuori dubbio che oggi noi siamo in presenza di numerose controversie internazionali: queste vengono ieri, oggi e domani, a seconda delle necessità e a seconda della volontà e della potenza unipolare degli Stati Uniti, portate all'evidenza della discussione oramai sempre sulla base di proposte di interventi di guerra. Sia chiaro e lo dico, per esempio, anche all'onorevole Adornato: noi non pensiamo che Saddam Hussein sia un campione dei diseredati del mondo, così come consideriamo una sciocchezza paragonare Bush a Hitler. Tuttavia, mi permetta signor Presidente del Consiglio, consideriamo altrettanto una stupidaggine paragonare Saddam Hussein a Hitler.
Non si può certo paragonare una grande potenza militare in quel momento prevalente nel mondo, come fu la Germania di Hitler, ad un paese la cui forza militare in questi ultimi dieci anni è stata ridotta al 10 per cento di quella precedente l'invasione del Kuwait; è un paese che ha subito più di un milione di morti in questi dieci anni a causa di un embargo che ha interessato i medicinali e l'industria agroalimentare, prima ancora che qualsiasi strumento atto a costruire ordigni di qualsiasi tipo.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE FABIO MUSSI (ore 12,40)

RAMON MANTOVANI. Un paese che ha subito centinaia di bombardamenti, peraltro mai autorizzati da nessun Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e portati avanti unilateralmente dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti.
Noi non consideriamo Saddam Hussein un Hitler e non lo consideriamo un campione della pace. Del resto, l'onorevole Adornato che è stato a lungo funzionario del partito comunista italiano dovrebbe ricordare come quest'ultimo organizzava manifestazioni contro Saddam Hussein allorquando egli si dedicava alla repressione sanguinosa del partito comunista iracheno; devo dire, nella disattenzione della comunità - cosiddetta - internazionale e con numerosi plausi provenienti dagli Stati Uniti e da alcuni paesi ad essi alleati (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista). E a noi va, ancora oggi, la solidarietà ai comunisti iracheni che combattono Saddam Hussein nella clandestinità nel loro paese e che, però, con grande chiarezza, hanno detto di essere assolutamente contrari, sia all'embargo tanto più a questo annunciato intervento militare degli Stati Uniti.
Signor Presidente del Consiglio dei ministri, credo che perfino un bambino che abbia fatto la quinta elementare ha capito dallo studio dei testi di storia che le guerre si fanno con dei pretesti, ma che dietro ad essi si nascondono precise strategie politico-militari e precisi interessi.
Francamente mi sento sconfortato dall'assistere spesso a discussioni unicamente


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dedicate, tese a confutare o ad avallare i pretesti che vengono addotti per iniziative come quella annunciata dagli Stati Uniti d'America. È del tutto evidente - lo dicono importanti istituti di studi militari governativi francesi ed inglesi - che Saddam Hussein non ha la capacità, non è nelle condizioni di arrecare quel danno, quella minaccia che, come pretesto, viene utilizzata per giustificare una guerra che ha ben altri scopi dall'evitare che questa minaccia si realizzi.
Vorrei far notare che il Governo iracheno ha accettato di ospitare nel proprio paese una commissione investigativa delle Nazioni Unite senza porre alcuna condizione. Tutti hanno tirato un sospiro di sollievo a questo annuncio, ma tutti hanno di nuovo dovuto trattenere il respiro pochi minuti dopo quando l'amministrazione Bush ha dichiarato che se ne fregava di questa dichiarazione e ha dichiarato di porre un ultimatum al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, allorquando ha affermato che o entro un certo numero di giorni si procede ad una risoluzione o tanto noi facciamo come ci pare, cioè facciamo la guerra.
Vorrei far notare che in passato ben tre ispettori delle Nazioni Unite si sono dimessi dall'incarico denunciando, non già l'impossibilità di svolgerlo per le opposizioni e per gli inciampi opposti dall'amministrazione, dal governo iracheno, bensì per denunciare le pressioni ricevute da parte di funzionari degli Stati Uniti, delle Nazioni Unite e direttamente dal Governo degli Stati Uniti per vedere ciò che non c'era in Iraq e per sanzionare il governo iracheno ingiustificatamente.
Ben tre alti funzionari, commissari delle Nazioni Unite, hanno rimesso il loro mandato con questa motivazione. A chi ha occhi per vedere appare chiaro come tutto ciò che si sta affermando e che lei ha ripetuto in quest'aula sia unicamente un pretesto. Almeno a noi è abbastanza chiaro (del resto vi è l'interpretazione originale di chi propone questa guerra) il fatto che questa guerra annunciata si pone in un rapporto di continuità, anche se identifica un notevole salto di qualità, con le precedenti guerre che si sono svolte negli anni novanta: la guerra del golfo, l'intervento militare della Nato in Bosnia ed in Kosovo (vorrei ricordare che quest'ultimo ebbe inizio senza che il segretario generale delle Nazioni unite ne fosse informato), la guerra contro il cosiddetto terrorismo internazionale, vale a dire la guerra del Afghanistan dell'anno scorso.
Se a ciò aggiungiamo, signor Presidente del Consiglio, il fatto che il Governo degli Stati Uniti ha lo zampino nella conclusione tragica del processo di pace in Colombia, ha indubitabilmente lo zampino nel tentativo di colpo di Stato in Venezuela, ha una gravissima responsabilità per l'oramai concluso processo di pace israelo-palestinese, ha una responsabilità per la non celebrazione del referendum nel Sahara occidentale, nonché quella per la destabilizzazione dell'area (ne è prova il latente conflitto pakistano-indiano), ci rendiamo conto che esiste la precisa strategia di creare non stabilità e sicurezza, ma esattamente l'opposto: instabilità ed insicurezza, al fine di stabilire un nuovo ordine mondiale che non potrebbe affermarsi se non in una condizione di confusione, di insicurezza e di instabilità. Troppi sarebbero i vincoli e le ragioni storiche che si opporrebbero all'instaurazione di un vero ordine unipolare del mondo a guida statunitense, ma composto sostanzialmente dai paesi con il più alto prodotto interno lordo, vale a dire dal G 7, oggi diventato G 8.
Non è un caso che, in questo contesto, si sia rilanciata la funzione dell'Alleanza atlantica e della Nato. Al riguardo, vorrei ricordare che a Washington, mentre veniva bombardata Belgrado, si stabilì un documento, firmato anche dall'allora Governo italiano, con il quale venne arrogato il diritto di intervenire anche senza alcuna autorizzazione e mandato delle Nazioni Unite.
Non è un caso che il segretario alla difesa, poche ore fa, abbia annunciato di voler proporre per la Nato la nuova missione di costituire una forza di pronto intervento, capace di intervenire in qualsiasi parte del mondo in tempi rapidi. È,


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forse, per questo motivo che abbiamo dovuto assistere ad una stravagante convergenza tra l'onorevole Ramponi e l'onorevole Rutelli i quali, l'uno in quest'aula e l'altro, ieri su la Repubblica, al contrario di altri leader della sinistra europea che hanno chiesto di estrapolare le spese sociali dal patto di stabilità, chiedono di estrapolare quelle militari. E ciò, forse, per procedere alla costruzione di questa nuova funzione della Nato.
Signor Presidente del Consiglio, noi, in questo Parlamento, svilupperemo il massimo di opposizione che è dato alle nostre forze, ma siamo fiduciosi che la nostra voce non rimanga isolata in quest'aula, così come siamo fiduciosi che in Italia, per altre vie, si riproduca ciò che è già accaduto, con grande clamore, in Germania.
Il popolo tedesco ha votato per una coalizione, per un cancelliere, che propongono esattamente che la Germania comunque non partecipi alla guerra che si va annunciando. È questo peraltro il modo migliore, che dovrebbe essere apprezzato e non lo è stato né nell'intervento dell'onorevole Fassino né in quello dell'onorevole Rutelli, per poter effettivamente influire e condizionare il quadro che si va delineando.

PRESIDENTE. Onorevole Mantovani...

RAMON MANTOVANI. Signor Presidente del Consiglio dei ministri, come le ho già detto, noi ci opporremo con tutte le nostre forze. Una gran parte dell'opinione pubblica è dalla parte della pace; non demorderemo, continueremo questa battaglia in quest'aula e nelle piazze, anche perché non è detto che chi vincerà militarmente la guerra, qualora dovesse avere luogo, non subirà le conseguenze di una catastrofe che potrebbe portare l'umanità alle soglie di una guerra di civiltà e in un baratro dal quale sarebbe molto difficile tornare indietro (Applausi dei deputati del gruppo di Rifondazione comunista).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Armando Cossuta. Ne ha facoltà.

ARMANDO COSSUTTA. Signor Presidente, avevo letto che un nuovo ed ulteriore contingente militare italiano sta partendo per l'Afghanistan dove dovrà sostituire quello inglese che si trasferisce nel golfo per prepararsi all'attacco contro l'Iraq. In verità, io attendevo una smentita; lei non soltanto non ha dato questa smentita, ma anzi ha confermato la notizia.
Così l'Italia entrerà in guerra di soppiatto, senza dichiararlo. Si va alla guerra, prima ancora che la guerra inizi.
La verità è - questo è il fatto -, che lei e il suo Governo condividono la teoria aberrante di Bush sulla guerra preventiva secondo cui oggi, nel concreto, si deve colpire l'Iraq di Saddam Hussein subito, distruggerlo adesso, per prevenire le sue ipotetiche aggressività di domani.
Saddam Hussein è un tiranno: noi comunisti lo contestiamo da sempre più di altri. Non dimentichiamo che egli ha imposto al suo popolo una dittatura feroce e che, facendo strame di ogni norma democratica, ha perseguitato in primo luogo i comunisti del suo paese. Altri, a partire dagli Stati Uniti d'America, lo hanno a suo tempo aiutato, foraggiato ed armato. È un tiranno, certo; ma quanti altri tiranni vi sono nel mondo? Possiede armi terribili, forse; non è affatto sicuro, non v'è alcuna certezza. Ma quanti altri ne posseggono? Non rispetta le risoluzioni delle Nazioni Unite, è vero ed è male; ma quanti altri non le rispettano, iniziando da Israele che non ne ha rispettata neanche una grazie alla protezione militare ed economica degli Stati Uniti d'America?
Non si può ammettere, ed il mondo non può ammettere, che siano gli Stati Uniti a giudicare in modo inappellabile se quello che fa un paese sia giusto o sbagliato e quindi a decidere se e come un altro paese debba essere colpito, bombardato e distrutto.
Bush sta cercando ora disperatamente solidarietà per la tragica avventura sulla quale si è incamminato. Ha con sé la Gran Bretagna, come sempre, e forse avrà con sé altri Stati proni ai suoi voleri e conta forse sull'omertà, se non sulla solidarietà, di Stati pronti a farsi scudo dell'attacco


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americano all'Iraq per sferrare i loro attacchi altrove, in Cecenia e dintorni; cerca inoltre disperatamente di ottenere un qualsiasi avvallo dalle Nazioni Unite.
Non potrà avere, signor Presidente, quell'avallo netto e risoluto di cui lei parla. Forse è disposto anche ad accontentarsi di un testo equivoco, magari inconsistente e comunque adatto, secondo lui, a motivare la sua propria iniziativa aggressiva. E comunque Bush è pronto ad agire da solo.
Ma noi no, l'Italia non può né avallare né tacere! L'Italia ripudia la guerra - ci dice la Costituzione, ce lo impone - e ripudia la guerra, signor Presidente, non soltanto come strumento di offesa, ma come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e l'Italia, dunque, dunque, dunque, ripudia questa guerra, che è disastrosa, che arrecherebbe rovine e vittime, migliaia di vittime, in quel paese, che sarebbe distruttrice di ogni possibilità di soluzione della crisi in Medio Oriente, anzi, darebbe via libera a Sharon, non solo per annientare crudelmente Arafat, come già sta facendo, ma per cancellare definitivamente la Palestina.
Una guerra che incendierebbe il mondo arabo e che fornirebbe frecce micidiali e inestinguibili al terrorismo internazionale. Una guerra folle, folle sì, ma che purtroppo ha una sua logica terribile e terrificante. Del diritto internazionale, delle risoluzioni e delle ispezioni dell'ONU a Bush non importa nulla: questa guerra la vuole fortissimamente a prescindere, per confermare il suo imperio sul mondo, un dominio che non prevede la capacità di normalizzare i rapporti internazionali, ma che per vivere, alimentarsi e giustificarsi ha continuamente bisogno di avere nemici. E Saddam rappresenta ora l'occasione per dare risposta alle lobby delle armi, che premono per poter sperimentare sempre più nuovi e micidiali ordigni bellici, l'occasione per saldare il fronte interno e aggiudicarsi, forte dell'emergenza bellica, la possibilità di vincere alle prossime elezioni, anche quelle parziali - imminenti - e per reagire alla recessione economica, nella speranza illusoria che la produzione militare possa fare uscire gli Stati Uniti dalla loro crisi.
Ma diciamolo alto e chiaro in quest'aula: la guerra soprattutto la vuole perché nel golfo si gioca la partita mondiale delle fonti energetiche, di cui gli Stati Uniti vogliono essere predoni e padroni! Contro questa guerra, dunque, occorre esprimere chiaramente la nostra opposizione. Abbiamo sentito contro di essa voci da tutto il mondo, più autorevole di tutte e più severa quella di Giovanni Paolo II e voci molto chiare si sono levate anche in quest'aula e sono certo che si leveranno nel nostro paese, come si levano in Europa, dove proprio in questi giorni - è cosa grossa, molto importante - la Germania, che dell'Europa è il paese più grande, ha manifestato, con il libero voto del suo popolo, la più forte opposizione alla guerra. Dobbiamo dire «no» a questa guerra, ad una guerra che nessuno, nessuna autorità al mondo può giustificare, può autorizzare e, quindi, un «no» comunque, senza «se» e senza «ma», no ad una sporca guerra, sporca di sangue e sporca di petrolio.
L'onorevole Berlusconi questo non lo ha detto, non lo dice, perché, in fondo, egli è prigioniero del rapporto subalterno con gli Stati Uniti: amici degli Stati Uniti... e con l'Europa, amici degli Stati Uniti.
Ma la verità è che il Presidente del Consiglio, onorevole Berlusconi, nel legame con Bush cerca di trovare la forza che qui, oggi, il suo Governo non ha o non ha più.
Berlusconi, tuttavia, in questo modo, allontana l'Italia dall'Europa e dalla coscienza del nostro popolo e anche per questo - lo ripeto - anche per questo, una grande, civile, democratica battaglia deve svilupparsi da ogni ambito e da ogni ceto per garantire al paese una nuova politica, una politica di pace, di giustizia e di progresso.
Ancora una volta i Comunisti italiani faranno per questo il loro dovere (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Comunisti italiani, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo,


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della Margherita, DL-l'Ulivo, di Rifondazione comunista e Misto-Verdi-l'Ulivo)!

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Intini. Ne ha facoltà.

UGO INTINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, non siamo qui, onorevole Berlusconi, per dividerci tra chi è contro l'America o a favore dell'America; semmai ci divideremo tra chi è contro o a favore di una parte dell'amministrazione Bush. Nello stesso Governo americano ci sono, infatti, due filosofie diverse. Nell'ufficio del segretario alla difesa, Donald Rumsfeld, è esposta una targa che riporta una frase del presidente Teodoro Roosevelt: «Il combattimento aggressivo per le ragioni della destra è lo sport più nobile del mondo». Al contrario, nell'ufficio del segretario di Stato, Colin Powell, è esposta una citazione di Tucidide: «Tra le manifestazioni del potere quella che più di ogni altra impressiona gli uomini è la moderazione». A noi piace Powell, non Rumsfeld. Non ci piace il ritorno a Teodoro Roosvelt perché lo stesso teorizzava, all'inizio del novecento, una politica estera americana basata sull'uso di un grande bastone, la famosa politica del «big stick», per imporre al sud America una sovranità limitata, quella che oggi, forse, si vorrebbe imporre al mondo.
Anche il nostro Governo, come tutti i Governi europei, può influire sulle scelte degli Stati Uniti. La bilancia può ancora pendere dalla parte di Powell anziché da quella di Rumsfeld. Siamo contro un attacco unilaterale dell'America per poche, semplici ragioni: perché distruggerebbe l'autorità delle Nazioni Unite, perché distruggerebbe il fronte antiterrorismo costruito dopo l'11 settembre, perché rovinerebbe la nuova cooperazione dell'occidente con Russia e Cina, perché rischierebbe di fare esplodere il mondo arabo e di corrodere, per l'esasperazione dell'opinione pubblica, i tre pilastri dell'occidente, ossia Egitto, Pakistan ed Arabia Saudita, perché umilierebbe e dividerebbe l'Europa, perché spingerebbe ancora più lontano dalla pace la Palestina, perché porrebbe dei rischi terribili allo sviluppo economico e potrebbe far schizzare il petrolio da 25 a 100 dollari al barile.
Un atto unilaterale nascerebbe, infine, da una premura senza senso, perché nulla vieta di attendere il risultato dell'ispezione dell'ONU e di intervenire militarmente, su mandato dell'ONU stesso, soltanto in un secondo tempo, se e quando si dimostrasse che le ispezioni sono inutili.
Un attacco unilaterale sarebbe così irrazionale da alimentare nel mondo arabo il sospetto che a Washington qualcuno abbia degli obiettivi non confessati. Qualcuno, infatti, può pensare a Washington che l'Iraq ha riserve petrolifere seconde soltanto a quelle della Arabia Saudita. Qualcuno può pensare di ridisegnare la mappa del Medio Oriente, con uno smembramento dell'Iraq e della stessa Arabia Saudita e con la conseguente liquidazione del cartello petrolifero OPEC. Qualcuno può pensare ad un disegno neocoloniale per il Medio Oriente in cui Israele giochi il ruolo di braccio armato dell'occidente.
Non esiti il Governo a parlare anche di interesse nazionale. L'interesse nazionale dell'Europa continentale è diverso da quello degli Stati Uniti e, in parte, anche della Gran Bretagna perché i rapporti commerciali con i paesi arabi contano per noi molto di più, perché dipendiamo di più dal petrolio arabo, perché abbiamo un'immigrazione islamica molto più numerosa. Non esiti il Governo anche a ricordare il rispetto che si deve all'opinione del Papa che, con parole non equivoche, sta contrastando l'unilateralismo americano.
Churchill diceva che l'Atlantico è più stretto della Manica e anche con questo dato di fatto storico si spiegano le relazioni speciali tra Gran Bretagna e Stati Uniti.
Ciò nondimeno, l'ex ministro degli esteri conservatore, l'ex Capo di stato maggiore britannico ed una parte del Governo Blair si sono pronunciati duramente contro la politica di Bush. L'America è un paese sempre più ispanico; eppure il Governo spagnolo è più prudente di quello italiano. L'Italia non può fare la prima


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della classe con Bush, rischiando, così, di allontanarsi da Berlino e da Parigi, ovvero da quell'asse franco-tedesco intorno al quale continuerà ad essere costruita l'Europa.
Il mio partito non si è mai tirato indietro nel sostenere gli Stati Uniti in battaglie giuste; ma, adesso, gli Stati Uniti vanno trattenuti dal compiere un errore catastrofico anche per il loro stesso futuro, come ben sa metà del Congresso americano. In circostanze così drammatiche, il linguaggio della verità e dell'equilibrio - non quello della propaganda! - è un dovere per la destra e per la sinistra. A sinistra, si sbaglia quando si ascolta senza reagire, o addirittura applaudendo, il dottor Strada (il quale, pure, ha grandi meriti) mentre, in piazza San Giovanni, paragona Bush a Saddam Hussein; si sbaglia quando si insiste nel vecchio antiamericanismo senza ricordare quale trauma, l'11 settembre, ha sconvolto l'America, rendendo comprensibili eccessi ed errori.
Tuttavia, noi a sinistra, proprio perché abbiamo sempre appoggiato l'occidente, possiamo parlare di diritti umani senza ipocrisia. Abbiamo mandato truppe italiane a Kabul per difendere questi diritti, ma i nostri alleati afgani hanno soffocato mille prigionieri di guerra nei container e li hanno poi seppelliti in fosse comuni. Peggio dei serbi! È vero o non è vero? Cosa ne sa il comando italiano a Kabul? Vogliamo mandare altri soldati in Afghanistan prima che i responsabili della strage siano emarginati? Vogliamo appoggiare, con le nostre truppe, i costruttori di uno Stato libero oppure dei clan di assassini? Saddam Hussein cerca di costruire armi di distruzione di massa - le ha già impiegate contro i curdi - ed armi atomiche. Ma le radiazioni atomiche dell'uranio impoverito usato nella prima guerra del golfo per aumentare il peso e la penetrazione dei proiettili hanno ucciso per leucemia molti bambini iracheni. È vero o non è vero?
I diritti umani, signor Presidente, vanno difesi sempre, a trecentosessanta gradi e senza i limiti posti dalla Realpolitik, altrimenti si perde la credibilità! Con questo spirito, signor Presidente, chiediamo al Governo di far conoscere all'amministrazione Bush, chiara e netta, l'ostilità dell'Italia ad una guerra preventiva unilaterale e di far conoscere, invece, la disponibilità dell'Italia a seguire la strada della legalità, secondo le regole delle Nazioni Unite, sino alle estreme conseguenze di un intervento militare, se necessario, ma soltanto dopo avere esaurito tutte le strade possibili per una soluzione pacifica e, di conseguenza, soltanto con il convinto ed unanime consenso di tutti i nostri alleati ed interlocutori.
Vorrei terminare, signor Presidente, ricordando che la guerra al terrorismo è innanzitutto psicologica. L'occidente batterà Al Qaeda se conquisterà il cuore delle masse arabe. Ma, allora, dobbiamo sapere che la sostanziale tolleranza di fronte all'infame aggressione israeliana contro Arafat è il modo migliore per preparare la nostra sconfitta (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Socialisti democratici italiani, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Verdi-l'Ulivo)!
I fanatici islamici li abbiamo già persi. Non perdiamo anche i nostri tanti amici, reali o potenziali! Dal Cairo ad Amman, tra le classi dirigenti moderate, si diffonde, ormai, non il fanatismo, ma il sarcasmo; l'Economist riporta la battuta che va di moda (permettetemi di chiudere con un tono più leggero): «Gli americani» - scherzano gli arabi - «pensano che dovremmo diventare come loro, ma sono loro che stanno diventando come noi: hanno la Presidenza ereditaria dei Bush, la corruzione, il terrorismo, un territorio occupato dagli israeliani, il Campidoglio di Washington, ed un cattivo standard di diritti umani» (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Socialisti democratici italiani, dei Democratici di sinistra-l'Ulivo, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Verdi-l'Ulivo - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Pecoraro Scanio. Ne ha facoltà.

ALFONSO PECORARO SCANIO. Signor Presidente, signor Presidente del


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Consiglio, la sua informativa è stata, purtroppo, poco informativa: troppe omissioni nel suo intervento! Non una parola sull'Unione europea e sull'Europa; non una parola sul dramma che vive il Medio Oriente e sulla vicenda drammatica israelo-palestinese, la quale si svolge in un contesto che non può essere sottovalutato dalla diplomazia italiana.
Lei, ovviamente, è qui non solo come Presidente del Consiglio, ma anche come ministro degli affari esteri ad interim. Noi vediamo una difficoltà grave nell'interpretare una posizione che è quella che vuole il popolo italiano. Non è una questione di demagogia, un prestare attenzione alle paure, ma si tratta di quello che non le può non risultare evidente. L'Italia ha sempre svolto, in Europa, nel mondo, nel Mediterraneo, verso i paesi arabi, un'azione di pace, fortemente percepita come tale.
Noi Verdi avremmo voluto anche un voto oggi, speriamo che al più presto ci sia l'occasione. Faremo in modo che l'Ulivo presenti una risoluzione o una mozione che sia chiara e interpreti quello che dice la nostra Costituzione: il ripudio dell'Italia della guerra come strumento di offesa. Argomento che lei ha citato ma dal quale non può discendere una nostra acquiescenza, nemmeno parziale, a quella che viene già definita come dottrina Bush, che non è la posizione degli Stati Uniti d'America, ma di una parte di un grande paese quale è l'America, che ha tante personalità, tante culture. Il candidato alle Presidenziali, Al Gore, lo citava prima il collega Fassino, ha preso più voti del Presidente Bush - lei è tanto attento a dire chi rappresenta la maggioranza e chi la minoranza, dovrebbe essere attento a questo - , insieme al candidato dei Verdi, Nader, che ha preso altri milioni di voti; la stragrande maggioranza dei cittadini americani non è su posizioni di destra estrema come quelle che oggi l'amministrazione americana rappresenta attraverso Bush, con un dissenso interno anche del ministro degli esteri Colin Powell sulle modalità di rapportarsi al mondo.
Quindi, smettiamola con le chiacchiere sull'antiamericanismo; io sono sempre stato filoamericano, ma ritengo di essere dalla parte di quella stragrande maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti d'America che non pensano che si possa affermare nel mondo la democrazia con la guerra. Questo è un dibattito che ritroviamo sulle pagine del New York Time, sulle pagine dei giornali degli Stati Uniti, quindi non vedo la necessità di seguire una certa posizione. Il Presidente francese Chirac ha detto: noi siamo amici degli americani, non leccapiedi. Lo ha detto il Presidente francese. Noi dobbiamo essere su questa posizione. I veri amici sono quelli che parlano in modo chiaro. Il principio, che viola e cambia completamente la logica della politica estera degli scorsi secoli, in base al quale si inizia a fare la guerra perché si hanno delle prove (poi dove sono queste prove), presenta un rischio drammatico.
Noi abbiamo quest'altro grande problema: lei, Presidente, si troverà ad andare a discutere ancora una volta della vicenda del Tribunale penale internazionale. Nel question time di oggi pomeriggio si svolgerà una interrogazione che abbiamo presentato su questo argomento perché domani fortunatamente il Parlamento europeo voterà una risoluzione molto dura e unanime di tutti i gruppi parlamentari, che dice ai paesi che ancora non vogliono far andare a pieno regime il Tribunale penale internazionale che questa è una grande violazione rispetto all'esigenza di dotarsi di strumenti di maggiore cooperazione internazionale. Noi vorremmo avere un tribunale penale dove qualcuno porti le prove e qualcuno le esamini; sulla base di quelle decisioni si possono intraprendere anche azioni successive. Ma come ha detto non un giornale di estrema sinistra ma la BBC in Inghilterra, quelle che ieri il ministro Blair ha portato davanti a Westminster sono prove che non avrebbe potuto portare - lo dice la BBC - davanti a nessuna Corte di giustizia, perché siamo di fronte ancora a molti dati astratti sulla base dei quali non si può fare una guerra.
Allora, su questi argomenti, signor Presidente, lei deve avere una posizione chiara e netta. L'Italia deve rappresentare


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la nostra capacità di richiamare l'amministrazione Bush e il mondo alla necessità forte, su questo delicatissimo argomento, di evitare armi di distruzione di massa. A nessuno di noi piace che si corra il rischio che vengano lanciate bombe sulla Grecia, sulla Turchia, su altri paesi; chi potrebbe dire che non siamo per prevenire questi rischi? Ma la prevenzione significa mandare gli ispettori, significa fare le verifiche, significa avere prove concrete, evitando il rischio di una propaganda su questi argomenti.
Allora, noi le chiediamo di adottare una posizione fortemente europea, di fare in modo che ci sia un'azione di pace. Come Verdi le chiediamo di agire in sede di Unione europea perché ci sia, immediatamente, magari l'invio di una rappresentanza europea autorevole a Baghdad per valutare sul campo, per fare politica estera come Unione, per verificare la disponibilità da parte del governo iracheno che, anche ieri, si è dichiarato disponibile, se il Presidente Bush ha le prove che questi siti esistono, ad accogliere una commissione inglese che vada a verificare se questi siti vi siano davvero e se vi siano anche le bombe. Di fronte a questi argomenti a livello internazionale, signor Presidente, noi dovremmo inviare mister Solana o comunque una rappresentanza autorevole dell'Unione ad andare sul posto, a Baghdad, a verificare le disponibilità reali del Governo iracheno. Questa è l'azione di pace che noi le chiediamo e che dobbiamo svolgere come europei.
Non vorremmo dover aspettare il 14 novembre, quando il pontefice verrà qui, per ascoltare le parole di pace che sta pronunciando con grande forza, ovunque. Vorremmo che questo fosse il linguaggio del nostro Parlamento, possibilmente all'unanimità, perché questo è il linguaggio che si aspetta il mondo da un paese come l'Italia e dall'Europa. Questo è il linguaggio sulla base del quale il Governo rossoverde, alle elezioni tedesche dei giorni scorsi, ha nuovamente vinto le elezioni precisando - lo ha fatto il ministro degli esteri Joschka Fischer che lei, come ha dichiarato, stima - che non c'è nessun antiamericanismo nella posizione netta del Governo tedesco che intende ottenere la pace e le iniziative relative all'Iraq senza violare il principio delle regole internazionali.
Ecco, noi le chiediamo questa azione; noi abbiamo bisogno di questa azione e speriamo che al più presto ci sarà anche un voto. Noi ci attiveremo perché, su questi temi, venga presentata una risoluzione da parte dell'opposizione, e speriamo, anche da parte della maggioranza, dalla quale risulti la chiara volontà italiana di perseguire l'azione di pace e risulti anche chiaramente che siamo amici degli americani ma non leccapiedi, perché i veri nemici sono rigorosi nel far rispettare le regole internazionali e le esigenze della pace e della democrazia (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Verdi-l'Ulivo, Misto-Socialisti democratici italiani e dell'onorevole Maura Cossutta).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Ostillio. Ne ha facoltà.
Le ricordo, onorevole Ostillio che ha sette minuti di tempo a disposizione.

MASSIMO OSTILLIO. Presidente Berlusconi, il suo discorso di oggi, collegato alle posizioni da lei espresse in varie occasioni, interne ed internazionali, ultima delle quali l'incontro di Copenaghen, non ci convince pienamente. Non siamo i soli, se è vero che, sempre più, emerge, nel paese, un ventaglio ampio di opinioni diversificate e prendono corpo, tra esse, in modo anche autorevole, sensibilità diffuse che manifestano preoccupazione verso la pericolosa tendenza a ritenere ormai ineluttabile la guerra e l'uso della forza nei confronti dell'Iraq. Desidero ricordare, tra tutte, quella della Conferenza episcopale italiana. L'arma della dissuasione, esercitata nell'ambito dell'ONU con la più forte determinazione e con il sincero e solidale impegno di tutti i paesi capaci di esercitare un'influenza concreta, a parere del cardinale Ruini può rappresentare, anche in questa difficile situazione, un'alternativa in grado di garantire la sicurezza e la pace. Ecco perché riteniamo, come UDEUR e come parte della classe dirigente


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di questo paese, così come da moderati e da credenti, che la cultura del dialogo debba sempre prevalere su ogni altra ragione ed oggi, ancora di più, di fronte ad un quadro internazionale così terribilmente preoccupante. Quando tutto sembra già deciso, come in questo caso, solo la pazienza della politica può consentire il ritorno alla ragionevolezza ed al dialogo come fondamento delle nostre scelte.
Occorre dunque, Presidente Berlusconi, migliorare l'ascolto delle ragioni reciproche, partendo dall'Unione europea per arrivare ai rapporti tra Europa e Stati Uniti o tra nord e sud del mondo.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE PIER FERDINANDO CASINI (ore 13,17)

MASSIMO OSTILLIO. Il fatto che i paesi dell'Unione europea non siano, sinora, riusciti ad assumere una forte posizione comune desta, credo in tutti noi, viva preoccupazione. È una preoccupazione che aumenta quando si sceglie, erroneamente a nostro parere, un percorso che porta, magari a rafforzare rapporti bilaterali con qualche effimero risultato sul breve periodo, ma che è destinato, inevitabilmente, nelle condizioni date oggi, a creare scenari preoccupanti per tutti, ad allontanare gli Stati Uniti dall'Europa, a determinare, nel tempo, probabilmente l'isolamento americano ed un clima di incomprensioni, di sospetti, di profonde fratture fra gli stessi paesi del vecchio continente.
La familiarità con i leader mondiali, sicuramente un buon successo sul piano dell'immagine del nostro paese, non può farci dimenticare una storia comune lunga cinquant'anni che deve poter proseguire, quella che ha visto crescere l'Italia assieme all'Europa, che crede negli ideali di pace e di un'Unione europea sempre più forte e coesa, che lavora per cucire e non per divaricare. Certo, proprio per questo, nell'attuale situazione, dobbiamo essere molto attenti a non allargare le distanze che si percepiscono, oggi, tra l'Europa e gli Stati Uniti. Come ha detto Romano Prodi, l'alleanza ed i rapporti di amicizia di lungo termine con l'America non si discutono, ma l'Unione europea diventa, adagio, adagio, più adulta, e tra amici si possono avere posizioni divergenti anche su capitoli molto delicati. Il clima, i toni che si avvertono oggi sono forse in parte la risultante di un insieme di vicende su cui è utile continuare a riflettere senza pregiudizi e senza conclusioni affrettate, perché accanto al caso Iraq ce ne sono altri, come quello della Corte penale internazionale o quello dell'abrogazione del trattato ABM. Ecco perché riteniamo che il percorso che ci aspetta sia stretto e irto di difficoltà, e che occorra quindi ponderare bene i prossimi passi, tentando quanto più possibile di mantenerci uniti agli altri paesi europei su una posizione comune pienamente condivisa che preveda una soluzione multilaterale, utile a determinare la cooperazione piena dell'Iraq con l'ONU, senza condizioni e restrizioni per le ispezioni.
Qui, in Parlamento, sappiamo che saremo chiamati, forse a breve, ad assumere decisioni in merito a tutto questo, e sappiamo bene che tali responsabilità appartengono alla politica e appartengono a questa Assemblea, perché non vi è dubbio che se dovessimo ispirare la nostra azione agli umori della pubblica opinione, come è debolezza di qualcuno, la scelta sarebbe già compiuta, come ha rivelato un sondaggio recente dell'ISPO che parla di due terzi degli italiani ostili alla partecipazione dell'Italia ad azioni militari come quella immaginata per l'Iraq.
Non apparteniamo certo alla schiera di quanti ritengono che i sondaggi rappresentino la verità o indichino alla politica le scelte migliori da effettuare; cogliamo però tale segnale come quello di una difficoltà, esistente oggi nel nostro paese, ad accettare l'ipotesi della guerra preventiva, dell'uso della forza e, insieme a ciò, come il rifiuto a compartecipare ad una tale scelta, in quanto percepita come decisione assunta unilateralmente che ci viene in qualche modo imposta senza alcuna possibilità di essere discussa o emendata. In tal senso, alcuni orientamenti che oggi


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emergono nell'amministrazione americana sul piano della politica internazionale e della sicurezza, come dice Sergio Romano, potrebbero portare conseguenze di un peso ad oggi incalcolabile sugli assetti del mondo. La considerazione degli Stati europei come alleati singoli o partner slegati da ogni possibile solidarietà o comunità politica di interessi e di valori dovrebbe forse farci riflettere tutti. L'organizzazione delle Nazioni Unite, che pure è necessario si rafforzi in un futuro speriamo vicino, assume in questo quadro un ruolo a nostro parere fondamentale.
Ecco, in questo panorama dobbiamo allora valutare i prossimi passi che la nostra diplomazia dovrà compiere rispetto alla situazione di crisi internazionale che ci troviamo di fronte. Chiediamo al Governo, al Presidente Berlusconi, di assumere ogni decisione nell'ambito delle risoluzioni che saranno approvate dall'ONU; gli chiediamo di aumentare gli sforzi per definire una posizione comune dell'Unione europea, privilegiandola rispetto ad ogni altro rapporto bilaterale; gli chiediamo di compiere ogni tentativo per evitare qualsiasi azione militare preventiva o a largo raggio; gli chiediamo di trovare, con gli strumenti della politica, gli spazi per evitare la guerra; gli chiediamo di non impegnare il nostro paese a concorrere in un conflitto che può, e deve, essere evitato, rendendo più pregnante un insieme di elementi fatto di pressioni e scelte politiche, di sanzioni dure, di ispezione vere, di azioni di containment che servano a modificare le posizioni del regime iracheno in ordine ai controlli e ad un disarmo sempre più necessario, che dobbiamo di certo riuscire ad imporgli. Rispetto a tale disarmo non può però darsi per scontato l'uso della forza, la logica del first strike. Ecco perché, mentre chiediamo al Governo di proseguire il nostro impegno di polizia militare e di intelligence per debellare le organizzazioni terroristiche integraliste - oltre che l'impegno nelle missioni di peacekeeping e di peaceenforcing, per le quali siamo grati alle nostre forze armate, ed è utile in questa sede riconfermarlo - chiediamo, allo stesso tempo, all'esecutivo di impegnarsi con maggior slancio affinché, nelle sedi più opportune, venga decisa ed attuata nei confronti dei paesi meno sviluppati una politica di aiuto, piuttosto che ricorrere alla scorciatoia di azioni militari, come quella che si prospetta oggi per l'Iraq.
Solo così facendo, infatti, riusciremo a sconfiggere terrorismo e dittature che trovano consenso tra coloro che non hanno più alcuna speranza. Diamo, quindi, loro un futuro e, così facendo, assicureremo al mondo intero e ai nostri figli un futuro migliore.
Concludo colleghi, con le parole del Papa: Dio dischiuda e sostenga gli spiragli di buona volontà, conducendo l'umanità, già afflitta da tanti mali, verso una convivenza libera dalla guerra e dalla sopraffazione della violenza. Mi auguro che anche il Presidente Berlusconi ascolti le parole del Papa (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-UDEUR-Popolari per l'Europa, della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Socialisti democratici italiani).

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Ostillio.
Vorrei segnalare che il Presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli affari esteri ad interim, ha informato la Presidenza che in questi ultimi quattro o cinque minuti, a partire dalla seconda parte dell'intervento dell'onorevole Ostillio, ha dovuto abbandonare l'aula di Montecitorio, dovendo tenere il preventivato incontro con il Presidente della Repubblica federale austriaca. Peraltro, è bene dire le cose come stanno: i nostri interventi si stanno un po' prolungando, rispetto alle previsioni, e questi quattro o cinque minuti di ritardo sono quelli che non ci hanno ancora consentito di concludere il nostro dibattito. Dico ciò, naturalmente, per rispetto dell'onorevole Ostillio ed anche degli altri colleghi che interverranno.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Craxi, al quale segnalo che ha tre minuti di tempo a disposizione. Ne ha facoltà. Prego, onorevole Craxi.


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BOBO CRAXI. Signor Presidente, una crisi internazionale di questa portata merita un comportamento politico che cerchi di equilibrare un sano realismo con la nostra posizione nel contesto europeo, nel contesto dell'Alleanza atlantica e con il nostro rapporto con le nazioni amiche di tutto il mondo arabo. Questo non deve significare certamente la rinuncia alle assunzioni di responsabilità dinanzi alle minacce concrete o un sostegno aperto a chi congiura contro la pace e la stabilità. Tuttavia, la gestione della crisi irachena da parte dell'amministrazione americana, i suoi riflessi interni e le ragioni legittime che intendono sostenerla non sono e non possono essere le stesse che orientano la politica estera del nostro paese per tanti, ovvi e comprensibili motivi.
Il Presidente del Consiglio ha spostato l'asse del nostro paese collocandosi poco dopo l'Inghilterra dietro la posizione di Washington. È una scelta politica chiara e netta, ma essa si presta ad un rischio che deve essere altrettanto chiaro ed altrettanto netto. Se una campagna militare si trasformasse, anziché in un'azione di contrasto contro il terrorismo, in un'avventura, è evidente che ci troveremmo a dover fare i conti con una situazione molto pericolosa, ad affrontare l'ostilità del mondo arabo pagando un prezzo politico ed economico molto alto.
In Italia e nel mondo questo secondo tempo della lotta al terrorismo è osservato con legittima preoccupazione. Saddam dimostra di essere un pericolo ed un ostacolo ed egli deve rispettare i deliberati del Consiglio di sicurezza, egli deve accettare gli ispettori internazionali che devono ricevere un mandato chiaro da osservare in tempi certi.
Parimenti, però, tutti i paesi che non rispettano i deliberati del Consiglio di sicurezza devono essere richiamati al rispetto delle regole. In Medio Oriente non vi possono essere pesi e misure differenti. L'Iraq deve rispettare i deliberati dell'ONU, Israele deve rispettare le regole internazionali e il Governo italiano non può rimanere silenzioso dinanzi alla tragedia palestinese. L'assedio perpetuo al quartiere generale dell'autorità nazionale palestinese è una vergogna, una vergogna per chi lo esercita e una vergogna per chi lo consente con il suo silenzio assenso.
Onorevoli colleghi, sarebbe auspicabile una linea di condotta sulla politica internazionale che sapesse tenere unito il nostro paese.
Osservo, però, che ad inseguire la sinistra reale del nostro paese c'è da farsi venire il mal di mare: con Blair e con l'Europa quando si deve liquidare il dittatore di Belgrado, ma quando bisogna intimare l'altolà ad un dittatore despota cento volte più pericoloso di Milosevic si preferisce un problematico distinguo.
Dobbiamo sapere che la politica estera italiana ha sempre goduto di un naturale punto di equilibrio. Tale equilibrio deve essere conservato proprio perché quello che stiamo vivendo è un momento delicato. Vi è un nuovo protagonismo italiano della politica estera e proprio grazie a questo l'Italia deve essere tanto più autorevole e può essere ascoltata quanto più essa è autorevole.
Non dobbiamo, però, perdere il contatto ed il dialogo con i paesi vicini, con i paesi amici, con i paesi di frontiera: è nel nostro interesse politico, sociale, economico. L'alleanza deve essere tanto più salda e l'amicizia con gli americani deve essere tanto più onesta quando si affrontano tutte le implicazioni che una eventuale escalation del conflitto militare potrebbe provocare. Si tratta di un'operazione verità di fronte alla quale non potrà mancare l'assunzione di responsabilità. Se si dimostrerà che Saddam è una minaccia per l'intera umanità allora le Nazioni Unite possono legittimare l'uso della forza, ma se così non fosse sarebbe imperdonabile e financo amorale sostenere un intervento unilaterale.
Sono certo, onorevoli colleghi, che il Governo italiano saprà comportarsi con tutto il senso di giustizia politico di cui è capace nell'interesse della sicurezza, della convivenza tra i popoli e della pace (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Liberal-democratici, Repubblicani, Nuovo PSI e Misto-Socialisti democratici italiani).


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PRESIDENTE. Sono così esauriti gli interventi dei rappresentanti dei gruppi.
Do ora la parola per due minuti all'onorevole Sgarbi. Ricordo che nella riunione della Conferenza dei presidenti di gruppo del 19 settembre avevo avvertito che avrei eccezionalmente consentito tale tipo di interventi come quello che mi è stato preannunciato prima della seduta.
Prego, onorevole Sgarbi.

VITTORIO SGARBI. In tutte le scuole coraniche, in tutte le madrase, si insegna che una sola è la civiltà e che da una sola parte, nell'Islam, stanno i buoni, dall'altra vi sono i cattivi. Chi ha esperienza di quella cultura sa che ogni scuola coranica, ogni luogo di formazione per i giovani è una potenziale sede di formazione per fondamentalisti. Questi sono perfettamente convinti della legittimità di opporsi al demonio dell'Occidente e lo sono per cultura.
Occorre, da parte nostra, evitare la simmetria dell'intolleranza attraverso l'uso, ad esempio, del crocifisso come ostaggio, come un obbligo e non come una scelta di una civiltà libera fatta di uomini che decidono di essere cattolici o musulmani. Nel momento in cui ci contrapponiamo frontalmente al mondo islamico commettiamo lo stesso errore che vogliamo attribuire a Saddam Hussein.
Io, che ho violato due embarghi e sono stato in Iraq quando era impossibile arrivarci attraverso mezzi naturali per l'occidente, ho incontrato molti giordani (al rientro fui costretto ad atterrare in Giordania) che erano totalmente solidali con il popolo iracheno contro un embargo che portava danno ai cittadini e non ai potenti, non a Saddam Hussein ma al cittadino che veniva ad avere difficoltà per la sanità, per l'istruzione, per la vita. In questo senso quelli che hanno indicato, come il ministro di giustizia tedesco, in Bush uno spettro, un'ipotesi di collegamento con Hitler dovrebbero ricordare come l'Europa sentisse il rischio della minaccia di armamenti di Hitler come una cosa minore, come se non fosse vero.
Il problema vero è capire se Saddam Hussein ha l'intenzione di agire non contro il suo popolo ma con il suo popolo culturalmente formato all'odio per l'occidente. Quindi il tema è culturalmente complesso e difficile da affrontare in termini di intolleranza, attraverso una valutazione che sia soltanto legata ai termini militari. È un problema di cultura, è un problema di formazione. Colpire con i bombardamenti, con gli aerei americani (come è stato fatto in Afghanistan e come è stato fatto contro Milosevic), da un lato è dissuasivo, ma dall'altro - come è accaduto - può abbattere carovane di innocenti. L'errore sembra consentito, ma quando si uccidono cento afgani, che non sono talebani terroristi, si compie ...

PRESIDENTE. Onorevole Sgarbi...

VITTORIO SGARBI. Si compie un atto contro la civiltà.
Concludo Presidente, dicendo che è singolare che una personalità così intensamente occidentalizzata come la regina di Giordania abbia proprio oggi dichiarato che questa attenzione ai temi culturali è fondamentale, dicendo: gente come Bin Laden sarebbe felicissima di un attacco aereo in Iraq; il risentimento aiuterebbe i terroristi a fare proseliti, a convincerli che è giusto distruggere l'occidente (Applausi di deputati dei gruppi della Margherita, DL-l'Ulivo e Misto-Socialisti democratici italiani e del deputato Biondi - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È così esaurita l'informativa urgente del Governo sulla questione irachena.

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