La Camera,
premesso che:
il disegno di legge in esame, relativo alle deroghe regionali al divieto di prelievo venatorio, affida alle regioni ampi poteri in materia di specie cacciabili e di attuazione del regime di deroga ai sensi dell'articolo 9 della direttiva 79/409/CEE;
la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante modifiche al titolo V della Costituzione, all'articolo 3, che modifica l'articolo 117 della Costituzione, ha mantenuto allo Stato la legislazione esclusiva in materia di «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali»;
la Corte costituzionale e la Corte suprema di Cassazione hanno elaborato, in numerose pronunce, il concetto giuridico di ambiente, nel quale è ormai pacificamente riconosciuto che è ricompreso anche quello della tutela della fauna selvatica;
la tutela delle specie di avifauna migratrice costituisce un'esigenza tipicamente transnazionale che spetta all'Unione europea e agli Stati membri;
la Corte costituzionale afferma, nella sentenza n. 641 del 1987, che «l'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive e agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (articoli 9 e 32 della Costituzione) per cui esso assurge a valore primario e assoluto»;
le disposizioni della direttiva 79/409/CEE legittimano le Autorità nazionali ad adottare, ove lo ritengano, provvedimenti di deroga alle norme protettive delle specie, verificando che ricorrano le situazioni ipotizzate dall'articolo 9 e apprestando, nell'attuazione di detto articolo, in armonia con quanto indicato dalla stessa giurisprudenza comunitaria, specifiche misure che comportino un circostanziato riferimento agli elementi di cui ai nn. 1 e 2 della disposizione stessa, così come afferma, in ultimo, la sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 7 marzo 1996, causa C-118/94, (cfr. la sentenza n. 272 del 1996 della Corte costituzionale);
qualora le regioni, arbitrariamente, modificassero ed estendessero illimitatamente (circa le specie e i periodi) le «deroghe», allora risulterebbe impossibile per lo Stato garantire al proprio interno il rispetto delle normative comunitarie e internazionali, venendo di fatto meno agli obblighi assunti davanti all'Unione europea;
lo Stato italiano è responsabile davanti alla Commissione europea dell'eventuale violazione del diritto comunitario nel nostro Paese;
il dovere di controllo è stato confermato dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 1813 del 21 novembre 1997 proprio a proposito di «deroghe» regionali in materia venatoria;
il decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, di istituzione del Ministero delle politiche agricole e forestali, prevede e disciplina il coordinamento nazionale delle specie oggetto di caccia, affidato al Ministro;
per una efficace, efficiente e coerente partecipazione delle regioni nella disciplina delle deroghe alle specie cacciabili e per evitare, nel contempo, gravi danni al patrimonio faunistico, è necessario che tale controllo sia esercitato a livello nazionale ed in tal senso l'Istituto nazionale per la fauna selvatica, organo di consulenza tecnico-scientifica per la gestione del patrimonio faunistico (articolo 7 della legge 11 febbraio 1992, n. 157), è
l'organo dello Stato che ha le competenze per redigere la relazione annuale sull'applicazione delle deroghe,
a mettere in atto tutte le misure e le procedure a sua disposizione per controllare che l'attuazione delle deroghe avvenga nel rispetto degli obblighi nazionali, comunitari ed internazionali e a tutela del patrimonio faunistico e dell'ambiente.
9/2297/1. Realacci, Marcora, Bandoli, Rava.
La Camera,
premesso che:
con il disegno di legge in esame si stabilisce che le regioni possano autonomamente disciplinare l'esercizio delle deroghe alle specie cacciabili;
tali deroghe, così come previsto dal suddetto disegno di legge, possono essere disposte solamente se non sussistono altre soluzioni soddisfacenti e devono essere applicate solo per periodi determinati, sentito l'Istituto nazionale per la fauna selvatica o gli istituti riconosciuti a livello regionale, e non possono avere come oggetto specie la cui consistenza numerica sia in grave diminuzione;
il disegno di legge in esame prevede che: «Il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, previa delibera del Consiglio dei ministri, può annullare, dopo aver diffidato la regione interessata, i provvedimenti di deroga da questa posti in essere in violazione delle disposizioni della presente legge e della direttiva 79/409/CEE»;
lo stesso disegno di legge prevede, inoltre, che le regioni devono trasmettere al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro per gli affari regionali, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, al Ministro delle politiche agricole e forestali, al Ministro per le politiche comunitarie una relazione sull'attuazione delle deroghe,
ad affidare alla Conferenza Stato-regioni il compito di monitorare un quadro di coordinamento generale, all'interno del quale rendere coerenti ed efficaci gli eventuali provvedimenti di deroga e al contempo assicurando il rispetto del quadro normativo comunitario e delle leggi nazionali in materia di conservazione della natura e della fauna, a questo fine utilizzando le competenze dell'Istituto nazionale per la fauna selvatica per il controllo e il monitoraggio di tali provvedimenti.
9/2297/2. (Testo così modificato nel corso della seduta).Bandoli, Rava, Sedioli, Preda, Rossiello, Sandi, Franci, Marcora, Realacci.
La Camera,
premesso che:
il provvedimento in esame riguarda l'attuazione della direttiva europea 79/409 CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici,
affinché l'esercizio delle deroghe possa avvenire soltanto nel periodo rigorosamente contenuto e strettamente necessario al soddisfacimento delle esigenze che ne hanno causato l'adozione; le deroghe debbono comunque collocarsi solo all'interno del calendario venatorio stabilito dall'articolo 18 della presente legge, e dunque non possono costituire surrettizie forme di caccia illegale come quelle primaverili, anche al falco pecchiaiolo.
9/2297/3. Pecoraro Scanio, Cima.
La Camera,
in sede di discussione dell'atto Camera 2297, relativo all'attuazione dell'articolo 9 della direttiva 79/4O9/CEE, considerata la rilevanza della materia sia sotto il profilo ambientale, sia per quanto rigl1arda l'applicazione della normativa europea,
ad adoperarsi per il rispetto della direttiva 79/409 CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici, affinché l'esercizio delle deroghe da parte delle regioni non divenga strumento per l'abbattimento o la cattura di specie protette in tutta Europa come il fringuello, il pettirosso, la peppola, il cardellino, la pispola, il verdone ed altri passeriformi.
9/2297/4. Zanella, Pecoraro Scanio.
La Camera,
in sede di discussione dell'atto Camera 2297, riguardante la direttiva 79/409/CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici
ad adoperarsi affinché, in sede di interpretazione della norma, il Concetto di deroga sia inteso correttamente ed applicato correttamente dalle regioni, come intervento dettato solo da esigenze rigorosamente documentate e straordinarie, di pubblica utilità limitatamente alla tutela della salute pubblica, dell' agricoltura e della zootecnia e non riconducibili ad ambiti ricreativi.
9/2297/5. Cima, Cento, Zanella.
La Camera,
premesso che:
nel testo del disegno di legge in discussione, allorquando vengono elencate le misure e le specifiche che le regioni devono indicare nel provvedimento (amministrativo?) di deroga (specie, soggetti, mezzi, tempi e luoghi, numero dei capi, controlli, ecc.), in violazione dell'articolo 9, commi 1, 2 e 3, della direttiva 409179/CEE non sono previste:
a) l'individuazione dell'autorità (nazionale e di natura tecnico-scientifica) «abilitata a dichiarare che le condizioni stabilite sono realizzate e a decidere quali mezzi, impianti e metodi possano essere utilizzati, entro quali limiti, da quali persone»;
b) la determinazione del concetto di «piccola quantità» di cui al comma 1, lettera c) articolo 9 Direttiva CEE;
l'autorità in parola è di fondamentale importanza, poiché deve essere dotata di quelle conoscenze e competenze tecnico-scientifiche tali da determinare un corretto regime di deroga: perciò non può coincidere con la regione (o la provincia delegata) che non possiede simili competenze. Una siffatta previsione, peraltro, non garantisce minimamente un'omogeneità di criteri, variando a seconda delle Regioni;
da sempre (circolare Ministero agricoltura e foreste n. 3 del 29 gennaio 1993; decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 settembre 1997) tale autorità è stata individuata nell'INFS in quanto organo consultivo altamente specializzato ex articolo 7 legge 157/92; ora non è più così, né ciò può essere sostituito dalla semplice previsione nel disegno di legge in esame dell'obbligo per le regioni di «sentire» ÌINPS (mero parere non obbligatorio);
la chiara norma comunitaria, infatti, esplicitamente affida a detta autorità - e non allo Stato membro o ai suoi organi decentrati il compito di individuare essa stessa i mezzi, tempi, persone, eccetera, nell'evidente intento di assicurare un'omogenea e razionale applicazione del regime di deroga;
la mancata individuazione di un'unica autorità nazionale dotata di adeguate competenze tecnico-scientifiche,
inoltre, determina un eccessivo margine di discrezionalità in sede di attuazione locale delle deroghe, assolutamente contrastante con la lettera o lo spirito delle rigorose disposizioni dì cui all'articolo 9 direttiva CEE, la quantificazione della «piccola quantità» costituisce «unico elemento in grado di legittimare l'esercizio della deroga da parte della regione»; ÌINPS ha più volte precisato che, convenzionalmente, si definisce «piccola quantità» un «numero di soggetti non superiore all'1 per cento della mortalità globale caratteristica della specie» e che «tale calcolo è possibile solo qualora siano disponibili informazioni sufficientemente precise circa la distribuzione, la densità, la produttività, la mortalità media, la fenologia e le rotte di migrazione di ciascuna specie in ciascuna area geografica interessata» (TAR Veneto, sent. 207/96);
allo stato, tuttavia, tali informazioni non esistono per cui l'INPS è impossibilitato ad esprimersi e ad applicare in maniera corretta il meccanismo della deroga. Non affrontando tale delicato aspetto in sede legislativa, quindi, si rischia di mantenere la questione nell'incertezza, determinando le condizioni per l'inapplicazione di fatto di un corretto regime di deroga, in violazione della normativa comunitaria;
il provvedimento del Governo non indica con completezza ed in maniera inequivocabile i motivi in grado di legittimare il ricorso alle deroghe ex articolo 9 della direttiva CEE;
siffatta lacuna costituisce una grave violazione della norma comunitaria che obbliga gli stati a dare una puntuale attuazione delta stessa; d'altra parte, anche il mero rinvio alle disposizioni ex articolo 9 della direttiva CEE (indicanti i presupposti che consentono le deroghe) non seguito da chiare norme nazionali che provvedano a dare reale e concreta contezza dei medesimi, risulta illegittimo in relazione alla direttiva citata;
la finalità del provvedimento legislativo in esame, invero, sembra solo quella di estendere il normale esercizio venatoria anche alle specie che ricevono una protezione dall'UE. Nessuna cautela viene adottata ai sensi del comma 2 dell'articolo 9 della direttiva CEE, in particolare in ordine alle circostanze di tempo e di luogo in cui le deroghe possono essere fatte (le Regioni potrebbero applicarle tutto l'anno e anche nei territori sottratti alla caccia, come parchi e riserve, zone abitate, ecc.). Le ragioni particolari ed imperative che possono giustificare una deroga non sono state analizzate ed evidenziate in maniera appropriata, poiché ci si è limitati a parafrasare la norma comunitaria;
un tanto non può non destare forti perplessità atteso che «la deroga deve rispondere ai precisi requisiti di forma di cui al n. 2 dell'articolo 9 della direttiva CEE ..., requisiti volti a limitare tali deroghe allo stretto necessario e a permettere la vigilanza da parte della Commissione. Quest'articolo dunque [...] si prefigge solo un'applicazione concreta e puntuale per soddisfare precise esigenze e situazioni specifiche» (Corte Giustizia UE. sentenza 8 luglio 1987, causa 247/85 e causa 262/85 Commissione/Italia; sentenza 15 marzo 1990, causa C-339/87; sentenza 7 marzo 1996 causa C-1 18/94 pronuncia pregiudiziale - TAR Veneto);
tale necessità di precisione anche forniate è del tutto disattesa dal ddl che, invero, non pone di fatto alcun limite ma prefigura un amplissimo potere di deroga a livello locale, siffatta previsione viola la direttiva in quanto «la circostanza che.., la legge non introduca essa stessa i criteri e le condizioni di cui all'articolo 9, n.2, della direttiva,... fornisce un elemento di insicurezza giuridica relativamente agli obblighi che le regioni devono rispettare nelle loro regolamentazioni. Pertanto non vi è una garanzia che la cattura di talune specie di uccelli sia limitata al minimo indispensabile, che il periodo di cattura non coincida inutilmente con i periodi in cui la direttiva intende stabilire una protezione particolare e che i mezzi, impianti o metodi di cattura non siano massicci e non selettivi o atti a comportare localmente la scomparsa di una specie. Ne
risulta che gli elementi essenziali di cui all'articolo 9 della direttiva non sono trasposti in modo completo, chiaro ed inequivoco nella normativa italiana» (Corte Giustizia UE, sentenza 8 luglio 1987, causa 262/85, Commissione/Italia);
anche la gerarchia degli interessi da tutelare viene totalmente sconvolta dal provvedimento in oggetto: più che una norma a tutela degli uccelli selvatici viventi nel territorio dell'Italia e degli altri Stati dell'UE, questi appare come strumento teso alla liberalizzazione dell'attività venatoria anche a carico di specie ornitiche oggetto di tutela da parte della direttiva 79/409/CEE;
a tal proposito, si ricorda che la «direttiva prende in considerazione, in primo luogo, la necessità di un'efficace protezione degli uccelli, e, in secondo luogo, le esigenze delta salute e della sicurezza pubbliche, dell'economia, dell'ecologia, della scienza, delta cultura e della ricreazione» (Corte Giustizia UE, sentenza 19 gennaio 1994, causa C. 435/92);
il testo in esame prevede, inoltre, la possibilità di attivare le deroghe - fra cui quelle contemplate alla lettera c) dell'articolo 9 direttiva - «sentito l'INPS». Orbene, tale formulazione viola la direttiva CEE poiché la deroga ex lettera c) non è limitata alla sola cattura e detenzione di piccole quantità di uccelli, per cui le regioni potrebbero prevedere anche altre forme di «prelievo» (abbattimento, caccia, ecc.). Infatti, «ad una piana lettura della facoltà di deroga ex articolo 9 lettera c) della summenzionata direttiva 409/79/CEE» emerge chiaramente come tale puntuale disposizione «consente solo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità..., i cui regimi non sono sicuramente coerenti con la facoltà di abbattimento diversamente da quanto previsto per la lettera a) e, in forma più perplessa, per la lettera b) del medesimo testo normativo» (TAR Lazio, sentenza 1195/99);
la formulazione del testo, invece, risulta ambigua, posto che - non escludendola esplicitamente ma prevedendo il generico «prelievo» non meglio specificato - assume la possibilità anche di abbattere dei capi di uccelli nell'ambito della lettera c) dell'articolo 9 della direttiva, stabilendo una specie di continuità logica con le prescrizioni delle lettere a) e b) della direttiva, che risulta del tutto illegittima;
nell'attuale formulazione, infine, il disegno di legge non tiene conto dell'illegittima introduzione di procedure di deroga, nella normativa nazionale sulla caccia, senza alcun riferimento alla Convenzione di Berna sulla vita selvatica del 19 settembre 1979 e relativi allegati (recepita dalla Repubblica italiana con legge n. 503 del 1981). Detta Convenzione, infatti, si applica atta fauna vivente anche in Italia (sia mammiferi sia uccelli) e, analogamente alla direttiva CEE, prevede all'articolo 9 uno speciale regime di deroga del quale è necessario dare attuazione nel nostro ordinamento;
benché tale importantissima normativa internazionale sia stata sottoscritta ed approvata, a nome della Comunità europea, dal Consiglio d'Europa sin dal 3 dicembre 1981 (Decisione del Consiglio n.82172/CEE, concernente la conclusione della Convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell'ambiente naturale in Europa), l'Italia - quindi - continuerà ad essere inadempiente rispetto al diritto comunitario anche sotto tale profilo;
l'adeguamento alle norme dell'Unione europea appare un pretesto con cui si tenta di far passare delle proposte legislative per la liberalizzazione selvaggia della caccia anche su specie di piccoli uccelli migratori protetti dall'UE;
la generica formulazione dei testi usata nel provvedimento, inoltre, risulta tale da concedere una vera e propria «delega in bianco» alle regioni ed alle Province, che non si concilia minimamente con la fondamentale esigenza di garantire l'omogeneità di applicazione della normativa comunitaria su tutto il territorio nazionale;
accanto alla relazione annuale che le regioni devono trasmettere alla Presidenza del Consiglio dei ministri, infatti, non è stata prevista un efficace potere di controllo, indirizzo ed intervento correttivo o sanzionatorio dello Stato, benché sia lo Stato responsabile davanti la Commissione europea dell'eventuale violazione del diritto comunitario nel nostro Paese;
oltre a ciò, la tutela delle specie di avifauna migratrice costituisce un'esigenza tipicamente transnazionale che spetta all'Unione europea ed agli Stati membri; in Italia, invece, tutto viene ora demandato al libero arbitrio di regioni e province;
il potere di annullamento governativo prefigurato al capoverso 4 dell'articolo 1 del disegno di legge infatti, risulta del tutto inadeguato, macchinoso, lungo e di difficile attuazione concreta, tale da rendere solo formale e non praticabile detto intervento centrale, a tutela di un patrimonio nazionale ed internazionale che necessita - appunto - di misure di tutela estese territorialmente;
un meccanismo, quello previsto, che pare fatto a posta per garantire comunque la caccia selvaggia agli uccelli protetti nell'arco della stagione venatoria (considerato che, per esempio, la migrazione di peppole e fringuelli si concentra nei soli due mesi di ottobre e novembre) per poi - magari - essere formalmente dichiarato illegittimo, a seguito della conclusione della procedura burocratica tra Governo e Regione;
è di tutta evidenza come il disegno di legge con cui si vuole integrare la legge-quadro n. 157/92 sulla caccia lungi dal costituire un reale e credibile tentativo di adeguamento ed adempimento alle disposizioni della direttiva 79/409/CEE - si traduca in realtà in una cancellazione sulle norme poste a tutela degli uccelli migratori, ai fine di consentire alle regioni di ripristinare le più arcaiche pratiche venatorie e le più barbare tradizioni culinarie;
le norme contenute nel disegno di legge in esame, infatti, rischiano di rendere lecite attività come l'aucupio (cattura di uccelli a fini di commercio, collezionismo, ecc.); un'ulteriore liberalizzazione dell'uccellagione (cattura di uccelli vivi ai fini di richiamo nella caccia da capanno);
il provvedimento del Governo comporta, in sostanza, il completo smantellamento sia della legge 157/92, sia della direttiva 79/409/CEE, con un gravissimo passo indietro di almeno trent'anni nella tutela del patrimonio faunistico nazionale ed internazionale, riproponendo pratiche venatorie che con l'evoluzione culturale e civile del nostro Paese si sperava di aver sepolto per sempre;
l'impatto sull'avifauna migratoria, inoltre, sarà incalcolabile, così come grave sarà il relativo danno ambientale nei confronti della comunìtà internazionale, alla quale tale bene «appartiene»;
la conseguenza di tale scelta, pertanto, non potrà che essere quella di un nuovo e pesante contenzioso presso la Commissione europea, con la quale l'Italia ha una lunga tradizione di procedimenti d'infrazione poco invidiabile. Il nostro Paese, infatti, ha già accumulato ben quattro condanne della Corte di Giustizia europea: una volta nel 1987, due volte nel 1991 e, recentemente, nel maggio 2001, sempre per violazione della direttiva CEE sulla conservazione degli uccelli;
alla luce di ciò, è quindi certo che anche la legge sulle deroghe oggi in esame porterà l'Italia all'ennesima condanna da parte della Corte di Giustizia, anche causa della politica filovenatoria delle regioni e delle province che già con la legge 157/92, e poi a seguito delle nefaste scelte federaliste anche in campo ambientale, hanno strumentalizzato i propri poteri sulla materia caccia legittimando il massacro della fauna;
già nel 1950 molti Stati europei sottoscrissero la Convenzione sulla conservazione degli uccelli di Parigi, nella quale si prendeva atto della necessità di proteggere le popolazioni ornitiche quali patrimonio ambientale trasnazionale. Fra le principali
misure di conservazione indicate dalla convenzione vi era quella (articolo 2) della inibizione della caccia proprio nel periodo riproduttivo e, per le specie migratorie, «durante il loro percorso di ritorno verso il loro luogo di nidificazione ed in particolare in marzo, aprile, maggio, giugno e luglio». Successivamente, la direttiva 79/409/CEE ha fatto propri tali princìpi garantendo un regime di protezione per tutte le specie di uccelli almeno nel periodo della riproduzione e della relativa migrazione pre-nuziale;
le proposte di prolungare la stagione di caccia sino a febbraio o, addirittura, a marzo - attualmente in discussione in varie regioni italiane - porterebbero la conservazione degli uccelli (o, meglio, la loro distruzione) indietro di mezzo secolo. Così è già accaduto - purtroppo - per la Sardegna, ove è stata approvata e promulgata la legge regionale approvata il 5 febbraio 2002 recante: «Norme per la protezione della fauna e per l'esercizio della caccia in Sardegna - Prolungamento stagione venatoria al 28 febbraio»;
la direttiva sulla «conservazione degli uccelli selvatici» è un valido strumento normativo che costituisce un buon compromesso tra la primaria esigenza di conservazione del patrimonio avifaunistico e l'esercizio della caccia, attività consentita attualmente in tutti gli Stati dell'Unione. La sua applicazione non penalizza affatto il mondo venatorio che, tuttavia, sta esercitando fortissime pressioni a livello nazionale e comunitario affinché vengano approvate nuove norme (ovvero venga in qualche modo modificata la direttiva 79/409/CEE) di liberalizzazione in maniera selvaggia dei calendari venatori. Ciò è particolarmente evidente nei Paesi mediterranei dell'UE (Italia, Francia, ecc.) ove la lobby venatoria è più potente ed indisciplinata, e dove la caccia agli uccelli migratori in primavera è una pratica antica ma mai dimenticata - la caccia durante la migrazione pre-nuziale in febbraio e marzo;
il mondo scientifico si è da sempre espresso contro la caccia nei periodi di migrazione verso i luoghi di nidificazione;
già nel 1979, durante la seconda riunione tecnica sulla gestione degli uccelli acquatici migratori nella regione paleartica occidentale, tenutasi a Parigi dall'11 al 13 dicembre con più di 60 esperti di 20 Paesi, è stata approvata una raccomandazione che indicava al 15 dicembre nei paese temperati dell'emisfero settentrionale o, al massimo, al 31 gennaio, la data di chiusura della caccia;
tale ultima data è stata fatta propria in Italia sia dall'istituto nazionale per la fauna selvatica (INPS) sia dai legislatore, che nel 1992 ha approvato la legge nazionale sulla tutela della fauna ed il prelievo venatorio, riducendo sensibilmente il calendario venatorio rispetto alla precedente normativa che autorizzava la caccia fino a marzo;
in particolare, secondo INPS risulta «opportuno che il prelievo venatorio si concluda entro la metà dell'inverno; in questo modo la caccia, se giustamente dimensionata all'entità e alla dinamica delle popolazioni, non si ripercuote negativamente sul loro status e non rischia di ridurne il potenziale riproduttivo»;
numerose sono le ragioni per le quali è importantissimo mantenere al 31 gennaio la data ultima di chiusura della stagione venatoria in Europa:
1. il disturbo arrecato dalla caccia nei mesi di febbraio e marzo espone maggiormente gli uccelli (anche quelli di specie per le quali la caccia è già chiusa) all'inclemenza del tempo;
2. il disturbo venatorio ostacola l'accumulo delle riserve di grasso, in quanto gli uccelli sarebbero impegnati a sfuggire ai cacciatori piuttosto che ad alimentarsi. Ciò comporterebbe negli animali uno stato di debilitazione, influendo negativamente sul successo riproduttivo nella primavera successiva;
3. molte anatre hanno già formato le coppie nel tardo inverno, e se di una coppia viene ucciso dalla caccia un solo
partner, quello in vita resterà non appaiato e non potrà riprodursi, con grave danno per il bilancio complessivo nascite/morti della popolazione;
4. il disturbo arrecato da una prolungata attività venatoria invernale procura nelle popolazioni animali una situazione continua di stress a causa della pressione venatoria, ancorché limitata a poche specie;
5. la massima mortalità naturale negli uccelli si concentra proprio nell'arco temporale della stagione di caccia in Europa, ovvero nel periodo che va dalla fine della stagione rìproduttiva alla metà dell'inverno. Dopo questa data si può agevolmente affermare che gli animali, sopravvissuti alla rigida selezione subita, arriveranno in larga misura alla successiva stagione riproduttiva. Se alla già forte mortalità naturale ed al prelievo venatorio dell'ordinaria stagione venatoria si aggiunge anche l'uccisione di milioni di esemplari in Europa nel periodo della migrazione pre-nuziale, si determina una disastrosa riduzione delle popolazioni ornitiche tale da comprometterne sicuramente l'esistenza nell'arco di pochi anni;
le conseguenza di un'eventuale modifica della direttiva 79/409/CEE o, in Italia, della legge 157/92, nel senso auspicato dal mondo venatorio più oltranzista, avrebbe effetti gravissimi sulla biodiversità in tutto il continente, in quanto le popolazioni dì uccelli sono già a rischio per i noti problemi di inquinamento, scomparsa o riduzione degli habitat naturali, antropizzazione e distruzione del territorio, sconvolgimenti climatici, sistemi agro-silvo-pastoralì innaturali e fortemente impattanti, eccetera;
i maggiori danni si registrerebbero nei Paesi mediterranei, dove l'attività di caccia è fortemente praticata, anche perché proprio questi Paesi - per la propria conformazione geografica sono interessati da notevoli flussi migratori e dallo svernamento di molte specie di uccelli;
la modifica della normativa comunitaria o italiana sui periodi di caccia agli uccelli, inoltre, risulta palesemente contrastante con la necessità di tutela e conservazione della fauna e dell'ambiente che ormai tutta l'Europa considera prioritaria e fondamentale;
l'opinione pubblica europea - e, quindi, anche quella italiana - è fortemente contraria alla liberalizzazione selvaggia della caccia e alla depredazione del patrimonio costituito dagli uccelli selvatici, bene della collettività che appartiene alla comunità internazionale ed alte future generazioni;
in tutta Europa, infatti, i principi portati avanti dai movimenti ambientalisti e dalle organizzazioni per il riconoscimento dei diritti degli animali sono largamente condivisi dalla società civile;
la caccia nel vecchio continente non rappresenta più un'esigenza primaria di sopravvivenza, ma solo un'attività ludica che dal punto di vista etico, naturalistico e culturale non trova più il consenso sociale in larghissima parte della popolazione;
ogni tentativo di aumentare le possibilità di caccia in Europa, pertanto, si pone in netta antitesi con i sentimenti e le convinzioni protezioniste degli europei di oggi;
le direttive dell'Unione europea e le Convenzioni internazionali sulla difesa della fauna selvatica e dell'ambiente naturale , hanno dato indicazioni precise in proposito, disponendo che le specie cacciabili non siano abbattute durante i periodi della nidificazione, della riproduzione e della dipendenza, e che gli uccelli debbano essere protetti almeno durante la fase riproduttiva;
la legge n. 157 del 1992 proprio per dare attuazione concreta a queste norme internazionali e comunitarie, prescrive un periodo di caccia che va dalla terza domenica di settembre al 31 gennaio, con periodi diversificati per le diverse specie cacciaviti. La legge stabilisce anche che i
termini della stagione di caccia «possono essere modificati per determinate specie in relazione alle situazioni ambientali delle diverse realtà territoriali». La competenza spetta alle regioni che possono autorizzare le modifiche solamente nel pieno rispetto alle seguenti condizioni: contenimento entro i periodi dal 1o settembre al 31 gennaio, parere preventivo dell'istituto nazionale per la fauna selvatica, preventiva predisposizione di «adeguati piani faunistici venatori». Al di fuori di queste ipotesi qualsiasi modifica alla durata della stagione venatoria risulterebbe illegittima;
a garantire che il ricorso alle deroghe previste dalle disposizioni in esame sia
scientificamente motivato da ragioni connesse ai rischi per l'equilibrio degli ecosistemi o dai possibili danni che l'avifauna possa arrecare all'agricoltura;
a predisporre una moratoria dell'attività venatoria di almeno due anni, durante i quali affidare all'istituto nazionale per la fauna selvatica, supportato degli uffici tecnici del Ministero dell'ambiente e delle politiche agricole, uno studio accurato per censire il patrimonio faunistico del nostro Paese.
9/2297/6. Lion.
La Camera,
premesso che:
l'attività venatoria in Italia è regolata dalla legge n. 157/92 «Norme per la protezione della fauna omeoterma e prelievo venatorio», che rappresenta la legge quadro dì disciplina di tutta la materia della caccia e tutela della fauna selvatica;
la legge n. 157, che ha sostituito la legge n. 968 del 1977, nasce sulla scia del referendum del 1990 che proponeva l'abolizione della caccia su tutto il territorio italiano e, che per mancanza del quorum, era stato annullato. Il risultato è stato una legge che disciplina il prelievo venatorio di fauna selvatica stabilendone le modalità e attribuendo nello specifico le competenze degli enti locali, degli organi preposti alla tutela della fauna e la loro autonomia in materia;
il fondamento della legge n. 157 è innovativo rispetto alla precedente legge n. 968/77: la fauna selvatica appartiene al patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell'interesse della comunità nazionale e internazionale. Lo Stato può derogare a tale principio nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge, rilasciando al cacciatore una concessione (la cosiddetta «licenza di caccia») al fine di abbattere esclusivamente le specie elencate e nei periodi, oran, mezzi, stabiliti dalla legge stessa. Ne consegue l'inesistenza, in Italia, di un «diritto alla caccia»: l'esercizio dell'attività venatoria concreta solamente un interesse del cacciatore a non vedersi negato il rilascio della licenza dì caccia nel caso in cui possiede tutti i requisiti richiesti dalla legge;
la legge n. 157, oltre a definire quali sono le specie che si possono cacciare e quelle che, invece, sono assolutamente protette, ordina la materia fissando le modalità a cui si devono attenere le regioni nella stesura delle leggi regionali, dei calendari venatori, dei piani faunistici e della pianificazione del territorio. Si precisa, inoltre che, per controllare maggiormente l'applicazione della normativa nazionale e internazionale, la normativa regionale può regolamentare la materia solo in maniera più restrittiva rispetto alle disposizioni della legislazione nazionale;
nonostante l'applicazione della legge sulla caccia sia ormai piuttosto uniforme, restano regioni che periodicamente emanano calendari venatori o piani faunistico-venatori in parziale difformità con la stessa, causando grave danno alla fauna e mettendo in pericolo diverse specie protette sia con il prolungamento della stagione venatoria sia con l'apertura della caccia a tali specie;
le soventi violazioni della legge quadro hanno portato ad accesi dibattiti sull'opportunità
di modificarle o rafforzarla, in realtà sarebbe più corretto affermare che l'unica strada è quella di sollecitare le regioni e i governi affinché ne attuino il rispetto e l'applicazione in modo corretto nell'ottica della protezione e conservazione del patrimonio faunistico e naturale;
la direttiva comunitaria n. 409 del 2 aprile 1979, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, contiene norme di immediata applicazione sul territorio nazionale che proibiscono la caccia di alcune specie di avifauna ritenute di rilevante interesse naturalistico (esempio: passero, storno). La direttiva, infatti, è stata attuata in Italia con l'articolo 1 della legge n. 157 del 1992 (legge quadro sull'attività venatoria);
la direttiva comunitaria prevede, all'articolo 9, la possibilità per gli Stati membri di derogare, in determinate circostanze, al generate divieto di cattura e detenzione o di impieghi misurati di suddette specie;
elenca, al primo comma, in maniera tassativa e precisa, i casi e le condizioni in cui si può ricorrere alla deroga: solo i casi di estrema gravità quali la tutela della salute e della sicurezza pubblica, la sicurezza aerea, la prevenzione di gravi danni alle colture, al bestiame, ai boschi, alla pesca ed alle acque, la protezione della flora e della fauna. A questi casi tassativi si deve aggiungere l'altra condizione essenziale perché la deroga sia conforme alla direttiva, ovvero che «non vi siano altre soluzioni soddisfacenti» per ovviare ai problemi sopra elencati;
al comma 2, prescrive che le deroghe devono menzionare: le specie che formano oggetto delta deroga, quindi a temporaneo regime di caccia, i mezzi, gli impianti ed i metodi di cattura o uccisione, le condizioni dì rischio di predetti metodi, le circostanze di luogo e di tempo per le quali vige la deroga, l'autorità che gestisce il regime dì deroghe ed effettua i controlli;
la stessa direttiva, inoltre, non permette l'esercizio della deroga per usi venatori, intendendo questa attività come esercizio ricreativo. Se la deroga, infatti, fosse attivabile per questi motivi, si avrebbe Il paradosso che tutte le specie potrebbero essere oggetto di caccia, purché in piccole quantità;
questa tesi è stata sostenuta anche dal procuratore generale presso la Corte di giustizia europea, durante il procedimento concluso con la sentenza del 7 marzo 1996 emanata nel corso di un procedimento dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Veneto, per l'annullamento del calendario venatorio regionale del 1992 che prevedeva l'esercizio della caccia ad alcune specie protette dalla direttiva. In tale procedimento la Corte ha precisato a quali condizioni l'articolo 9 della direttiva 79/409 consenta agli stati membri di derogare al divieto generale di cacciare le specie protette, divieto derivante dagli articoli 5 e 7 della medesima direttiva, stabilendo che : «l'articolo 9 (...) deve essere interpretato nel senso che esso autorizza gli Stati membri a derogare al divieto generale di caccia delle specie protette, derivante dagli articoli 5 e 7 della stessa direttiva, soltanto mediante misure che comportino un riferimento, adeguatamente circostanziato, agli elementi di cui ai nn. 1 e 2 del medesimo articolo 9»;
nel contesto italiano, la Corte costituzionale, con sentenza n. 272 del 22 luglio 1996, ha stabilito che eventuali deroghe alla disciplina comunitaria sono di esclusiva spettanza dello Stato, nel rispetto delle numerose prescrizioni ineludibili che la normativa comunitaria presuppone, precisando inoltre che le regioni hanno potestà modificativa del testo comunitario solo nel senso di «limitare e non di ampliare il numero delle eccezioni al divieto di caccia»;
a seguito di tale sentenza è stato approvato dal Governo il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 settembre 1997 che detta le modalità di esercizio delle deroghe di cui all'ari 9, paragrafo 1, lettera c) della direttiva n. 409 del 1979. Il Consiglio dei ministri
ha stabilito, coerentemente con le pronunce della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia europea, che spetta allo Stato dettare la disciplina generale ed uniforme per tutto il territorio nazionale riguardante l'ammissibilità delle deroghe, al fine di «garantire l'omogeneità di applicazione della normativa comunitaria volta alla conservazione degli uccelli selvatici». Le deroghe stesse possono essere adottate dalle regioni, d'intesa con i ministri dell'ambiente e delle politiche agricole, alle condizioni e modalità specificate dall'articolo 2, che si applicano anche alla cattura per la cessione a fini di richiamo di cui all'articolo 4, comma 4, della legge 157 del 1992. L'Istituto nazionale per la fauna selvatica viene nominato quale autorità abilitata a dichiarare le condizioni stabilite dagli articoli 2 e 3 del decreto;
perché, quindi, un provvedimento regionale di deroga sia legittimo deve ottenere, oltre all'intesa ministeriale, il controllo positivo dell'INFS;
nonostante la questione della caccia in deroga sembrasse risolta nel senso di una maggiore chiarificazione del ruolo e competenza delle regioni, è stato ulteriormente necessario l'intervento della Corte Costituzionale, che, con due recentissime sentenze, ha nuovamente ribadito il ruolo delle regioni in materia di «caccia in deroga»;
come si è visto, dopo l'emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 21 marzo 1997, che prevedeva l'esclusione di numerose specie dall'elenco di quelle cacciabili, di cui all'articolo 18 legge n. 157 del 1992, numerose regioni hanno approvato leggi regionali che prevedono la cosiddetta «caccia in deroga». In sostanza, sulla base della lettera c) par. 1 dell'articolo 9 della direttiva 79/409/CEE, che disciplina i «prelievi misurati», le regioni hanno reintrodotto tra le specie cacciabili molte di quelle cancellate dal decreto del marzo 1997. Tali leggi sono state impugnate e, nella maggior parte dei casi, annullate dal commissario di Governo, sulla base del fatto che la legge nazionale non consente l'attivazione di deroghe alla direttiva da parte dileggi regionali;
il Governo, per far fronte a questi conflitti ha emanato un altro decreto (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 settembre 1997) che detta le modalità di esercizio delle deroghe di cui all'articolo 9, paragrafo 1, lett. c) della Direttiva n. 409/79, stabilendo che spetta allo Stato dettare la disciplina generale ed uniforme per tutto il territorio nazionale riguardante l'ammissibilità delle deroghe;
la Corte costituzionale, su ricorso di alcune regioni, con la sentenza n. 169 del 1999, ha annullato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 settembre 1997, motivandola sulla base di carenze tecniche. Infatti ha riconosciuto che per un provvedimento del genere il Ministero dell'ambiente avrebbe dovuto sentire non solo il parere delle commissioni parlamentari e del Consiglio di Stato, ma anche la Conferenza Stato Regioni;
nel contempo, però, la Corte ha emesso la sentenza n. 168 del 1999, nella quale ha rilevato che essendo la deroga uno strumento eccezionale, realizzabile solo in rare ipotesi, ovvero come dice la direttiva «quando non ci siano soluzioni alterative», non può essere riconosciuta come materia di competenza delle regioni se non in senso ulteriormente restrittivo rispetto alla direttiva;
in merito alle deroghe alle specie non cacciabili, la Corte afferma che le regioni non possono provvedere ad attivare autonomamente le deroghe, in quanto l'esercizio di un siffatto potere si rifletterebbe sulla tutela minima delle specie protette, il cui nucleo è identificato nello Stato. Essendo, dunque, l'interesse primario la tutela degli uccelli selvatici, ottenuto mediante il divieto di caccia nell'interesse non solo nazionale, ma anche internazionale, ne segue che il potere di esercizio ditali deroghe spetti allo Stato e non agli enti locali;
in ultimo, va ricordata la sentenza della Corte di giustizia europea dello scorso 17 maggio, con la quale l'Italia è
stata condannata per violazione della direttiva 79/409 CEE, nella parte in cui vieta la cattura e la detenzione di specie protette (nel particolare storno, passero e passera mattugia) ai fini di richiami vivi, tuttora previsto dagli articoli 4 e 5 della legge n. 157 del 1992;
per la parte riguardante le deroghe consentite ai sensi dell'articolo 9 della direttiva, la Commissione aveva sollevato come il decreto del 27 settembre 1997, annullato nel 1999 dalla Corte Costituzionale, costituirebbe oggi una misura sufficiente a garantire la trasposizione degli elementi essenziali dell'articolo 9 della direttiva unicamente con riguardo alle deroghe;
per quanto attiene alla possibilità di deroga previste dalla articolo 9 n. 1 lett. a) e b), la Corte ha sottolineato che il menzionato decreto, indicando che le deroghe di cui trattasi sono disciplinate dagli articolo 2, terzo comma, e 19 della legge n. 157 del 1992, si limiterebbe ad operare un semplice rinvio ad altra normativa. Orbene, afferma la Corte, né queste ultime disposizioni, né altra disposizione del diritto italiano definirebbero i requisiti e le modalità di concessione delle deroghe nelle fattispecie previste dall'articolo 9 della direttiva. Nel diritto italiano, non esisterebbe, quindi una disciplina completa e conforme al diritto comunitario che consenta, nelle dette fattispecie, un'applicazione concreta delle deroghe previste dalla direttiva;
il testo proposto, pur presentandosi come norma che traspone il testo comunitario dell'articolo 9 della direttiva uccelli, risulta però insufficiente a spiegare alcuni degli elementi di base della direttiva stessa. Infatti, se consideriamo in sé l'articolo 1 del disegno di legge ne rileviamo che Io Stato non fa che devolvere alle regioni le modalità di esercizio delle deroghe previste dalla direttiva per le specie protette (passero, passera mattugia, peppola, fringuello etc.). Ciò sta a dire che non si calma in tal modo ciò che la Corte Costituzionale ha più volte ribadito, ovvero che spetta allo stato decidere della gestione della fauna selvatica protetta, ma lascia che siano le regioni a decidere, comunque liberamente, sulla «piccola quantità» di cui si vuole autorizzare il prelievo.
Col totale trasferimento alle regioni del potere di definire le modalità del «prelievo in deroga», verrebbe meno il controllo che lo Stato deve garantire sulla tutela della fauna selvatica. Infatti, alla quantità già abnorme dl fauna selvatica abbattuta legittimamente durante i calendari venatori annuali, si verrebbero ad aggiungere quantità non definite di animali abbattuti attraverso il «prelievo in deroga», ed appartenenti oltretutto a specie protette.
Ciò si verifica già con il prelievo venatorio annuale, quando, pur in assenza di un censimento delle specie, ogni regione fissa camieri per le diverse specie, senza però avere un limite generale valevole per tutto il territorio italiano. Il WWF ha infatti rilevato, con uno studio del 2000, che si possono cacciare un tetto teorico di 2 miliardi di avifauna durante la stagione venatoria, cifra assolutamente al di sopra della reale consistenza di avifauna in Italia.
A maggior ragione, nessun censimento è stato fatto per le specie protette a livello internazionale, il cui prelievo «in deroga» deve esser fatto solo per motivi eccezionali, visto che alcune di queste specie, sono in Europa riconosciute a rischio e che il censimento si dovrebbe dunque fare a livello europeo e non solo nazionale.
Al di là di ricordare, poi, che non si tratta di aprire la caccia a specie protette, ma solo di concedere, in casi tassativi, la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati, la possibilità concessa alle regioni dovrebbe considerare un intervento sistematico dello Stato, unico rappresentativo nei confronti dell'UE. Va infatti detto che solo lo Stato italiano può essere perseguito per violazione o errata interpretazione della normativa europea, e ad oggi già esistono condanne dell'Italia per violazione della normativa comunitaria in questa materia da parte della Corte di Giustizia.
Riteniamo dunque che il disegno dl legge in questione non «colma» alcuna lacuna normativa e non recepisce neanche l'articolo 9 della direttiva che espressamente recita «gli Stati membri possono derogare (...)», facendo solo ad essi riferimento.
In tale contesto sì ricorda che, pur in presenza di un trasferimento di funzioni dallo Stato alle regioni ed enti locali, (o Stato non può delegare alle regioni materie come l'ambiente la cui protezione per sua natura ha rilevanza di carattere nazionale e, nel caso specifico, addirittura internazionale.
a farsi che venga mantenuta la responsabilità dell'autorità statale nella tutela e protezione delle specie protette, con un potere di coordinamento intestato ad un organo centrate rispetto alle regioni;
a valutare l'ipotesi di istituire un organo di controllo che di volta in volta concordi con le regioni calendari venatori e specie cacciabili a seconda dei casi specifici, tenendo in considerazione tutta la situazione italiana, comunque nell'ottica di protezione e gestione razionale della fauna selvatica protetta nell'interesse della comunità nazionale e internazionale, così come si dice nel primo e fondamentale articolo della legge quadro sulla caccia.
9/2297/7. Cento.
La Camera,
premesso che:
il provvedimento in esame riguarda l'integrazione alla legge 11 febbraio 1992 n. 157, in attuazione dell'articolo 9 della direttiva 79/409 CEE sulla conservazione degli uccelli selvatici e prevedendo tale direttiva l'adozione di deroghe per la tutela dell'agricoltura, della zootecnia, ed altre rilevanti motivazioni
ad intervenire presso le regioni affinché in sede di adozione del provvedimento le deroghe non siano finalizzate al recupero di peculiari consuetudini locali, e dunque ad una applicazione impropria.
9/2297/8.Rocchi.
La Camera,
considerato che:
il punto 3 dell'articolo 1 del disegno di legge n. 2297 prevede che sia sentito l'istituto Nazionale per la fauna selvatica prima dell'applicazione delle deroghe;
l'Istituto Nazionale per la fauna selvatica (INFS) svolge un ruolo importante di supporto tecnico-scentifico nella gestione del territorio in rapporto all'attività venatoria;
da tempo il mondo venatorio auspica e richiede un diretto coinvolgimento delle associazioni di categoria negli organismi di studio e ricerca di settore
a promuovere azioni concrete atte ad inserire all'interno dell'INFS rappresentanze significative delle associazioni venatorie.
9/2297/9.Ruggieri.