COMMISSIONI RIUNITE
VI (FINANZE) - X (ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E 6a (FINANZE E TESORO) - 10a (INDUSTRIA, COMMERCIO E TURISMO) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 5 febbraio 2004


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
DELLA VI COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
GIORGIO LA MALFA

La seduta comincia alle 15,10.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche mediante impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione dei rappresentanti dell'Associazione Bancaria Italiana (ABI).

PRESIDENTE. Avverto i colleghi che è stata acquisita la previa intesa del Presidente della Camera e del Presidente del Senato in merito all'integrazione del programma di indagine, sulla quale hanno convenuto gli uffici di presidenza, integrati dai rappresentanti di gruppo, delle Commissioni, nella riunione congiunta del 29 gennaio scorso, al fine di procedere alle audizioni del ministro della giustizia, o di un sottosegretario da questi designato, del ministro per le politiche comunitarie, dei rappresentanti della Guardia di finanza e del commissario straordinario della Parmalat, dottor Enrico Bondi. I calendari di queste audizioni sono in preparazione, sempre mantenendo ferma, ovviamente, la conclusione delle audizioni per il giorno 20 febbraio.
L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui rapporti tra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio, l'audizione dei rappresentanti della Associazione Bancaria Italiana (ABI).
Saluto i nostri ospiti e li ringrazio per la loro disponibilità; ringrazio altresì tutti i colleghi parlamentari intervenuti qui oggi. Do quindi la parola al presidente dell'Associazione bancaria italiana, dottor Maurizio Sella.

MAURIZIO SELLA, Presidente dell'ABI. Signori presidenti, onorevoli senatori, onorevoli deputati, desidero ringraziarvi per aver voluto invitare ed ascoltare l'Associazione bancaria italiana sui rapporti fra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio.
I recenti, gravi episodi di crisi industriale vanno analizzati in profondità, ma senza generalizzazioni che potrebbero intaccare la fiducia dei risparmiatori e, di conseguenza, la stessa crescita economica, rischiando di danneggiare ulteriormente gli stessi risparmiatori e gli investitori.
Questa testimonianza vuole contribuire all'analisi e suggerire alcune linee di azione, evidenziando anche talune iniziative delle banche italiane. Nei fatti si è in presenza di crisi industriali in cui le banche, come i risparmiatori e tutti gli altri creditori, sono state colpite.
Ogni anno entrano in contatto con le banche circa 30 milioni di cittadini; 8 famiglie su 10 hanno un conto corrente presso gli oltre 30 mila sportelli presenti su tutto il territorio nazionale. Il settore creditizio serve non solo le grandi imprese, ma anche, capillarmente, il variegato tessuto di piccole e medie imprese che caratterizza il nostro paese. Un rapporto con la società italiana così intenso non deve


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affievolirsi. Le banche vogliono lavorare insieme alle altre componenti della società perché simili crisi si riducano o si producano molto più difficilmente. Negli ultimi dieci anni il sistema bancario italiano ha subito trasformazioni straordinarie. Nei primi anni novanta il totale dell'attivo dei cinque maggiori gruppi bancari era pari al 35 per cento del mercato; è oggi intorno al 52 per cento. Dopo le concentrazioni la struttura è analoga a quella dei maggiori paesi.
Negli ultimi anni il numero delle banche quotate in borsa è raddoppiato; il 60 per cento del totale del capitale bancario è oggi quotato. Le banche quotate ormai rappresentano l'80 per cento del mercato bancario, in termini di totale attivo su base consolidata. Attualmente sono oltre 2 milioni i piccoli investitori che detengono azioni delle banche; sono circa 50 le presenze di grandi investitori istituzionali esteri nelle banche italiane quotate, per un valore complessivo di oltre 16 miliardi di euro, il 12 per cento della loro capitalizzazione in borsa. Da un sistema sostanzialmente pubblico si è passati ad un sistema integralmente privato di imprese in forte competizione tra loro. Notevole è stato il rafforzamento economico, ottenuto attraverso un rigoroso governo dei costi unitari; la crescita dell'efficienza e della produttività; l'aumento degli investimenti di natura tecnologica; il riorientamento delle fonti di ricavo.
Il rapporto tra sofferenze nette e patrimonio di vigilanza è diminuito da quasi il 40 per cento nel 1996 all'11 per cento circa nel 2003. Il sistema bancario italiano, anche grazie al notevole miglioramento della qualità del credito, si presenta oggi ben solido e con una accresciuta capacità di assorbire shock esterni. Un sistema bancario sano e robusto è condizione importante per garantire al paese tassi di crescita del prodotto elevati e duraturi.
I vantaggi per le imprese sono stati soprattutto collegati alla abbondanza di credito a tassi molto bassi. Anche per le famiglie vi sono stati vantaggi: si è passati da 15 mila a 30 mila sportelli, che hanno avvicinato le banche ai clienti; 40 mila promotori offrono loro servizi professionali. Strumenti di pagamento più moderni - quali le carte ed i servizi elettronici - ormai sono in mano a 25 milioni di clienti. L'industria del risparmio gestito serve 3 milioni di famiglie ed è fra le prime in Europa. Una quota rilevante delle transazioni su titoli viene svolta direttamente dai clienti con il trading on line. Una recente indagine campionaria ha segnalato che nel primo semestre 2003 sono state 15,6 milioni le operazioni di trading on line a fronte di 460 mila clienti. Oltre 3 milioni di clienti utilizza sistemi on line per disporre operazioni bancarie e finanziarie.
Dagli ultimi dati - relativi al 2001 - emerge che l'Italia è un paese leader per l'abbondanza del credito bancario. Posto uguale a 100 l'indebitamento complessivo delle imprese manifatturiere, il credito bancario pesa per 20 in Italia, per 11,5 in Spagna, per 9,8 negli Usa, per 9,4 in Francia, per 5,6 in Germania. In particolare, dall'analisi comparata emerge che in Italia il passivo delle imprese industriali è composto per il 50 per cento da debiti a breve termine, la cui scadenza non eccede 1'anno. Negli altri paesi le passività a breve termine sono invece molto più contenute.
Per quanto concerne i debiti a medio-lungo termine, le industrie italiane si situano sul valore medio del campione considerato, evidenziando una quota pari al 14,1 per cento del totale del passivo.
In ordine alla patrimonializzazione delle imprese, le industrie italiane hanno un livello di capitalizzazione ampiamente al di sotto della media delle principali economie internazionali. Su questo aspetto l'Italia mostra il divario maggiore rispetto agli altri paesi con una quota di capitale e riserve pari al 28,5 per cento del totale del passivo, dato che in Germania si attesta al 32,6, in Francia al 36,2, in Usa al 37,2, in Giappone al 38,6 e, per finire, in Spagna al 43,7.
Per quanto riguarda il peso sul passivo delle obbligazioni (corporate bond), lo scarso ricorso al loro utilizzo è una delle caratteristica delle maggiori imprese italiane: solo il 16 per cento dei debiti


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finanziari è costituito infatti dal ricorso a tali strumenti, contro una media europea del 22,3 per cento. Negli USA il finanziamento attraverso l'emissione di corporate bond costituisce addirittura quasi un terzo delle fonti di finanziamento - dunque, il doppio rispetto alla situazione nel nostro paese - complessivamente utilizzate dalle grandi imprese statunitensi. Negli USA le imprese si finanziano più con l'emissione di bond che attraverso il ricorso diretto al credito bancario. Muoversi in senso opposto vuol dire dunque andare contro una tendenza dominante nei principali sistemi economici.
In Italia è ancora scarso il ricorso delle imprese all'emissione di obbligazioni, nonostante si sia comunque registrata una forte crescita negli ultimi anni. Il controvalore delle emissioni nel quadriennio 1999-2002 è addirittura più che decuplicato rispetto al precedente periodo, attestandosi ad una media annua di quasi 19 miliardi di euro contro la media di 1,7 miliardi di euro nel periodo 1995-98.
Il divario rispetto ai diretti competitori europei risulta comunque considerevole. Nel 2002 la Francia ha registrato l'emissione di corporate bond per un controvalore complessivo di 28,8 miliardi di euro. La Germania, nello stesso periodo, con un controvalore di circa 52 miliardi detiene quasi la metà dell'intero mercato dei corporate bond dell'area dell'euro.
Il ricorso ai bond non si è affatto accompagnato ad una diminuzione degli impieghi bancari. Se si confronta l'andamento delle due diverse fonti di finanziamento delle imprese italiane (bond e prestiti bancari), negli ultimi anni si è registrata un'ulteriore forte crescita del ricorso delle imprese ai finanziamenti bancari: nel periodo 1997-2002 i prestiti bancari sono aumentati di 174 miliardi di euro, mentre le obbligazioni delle imprese si sono incrementate di 65 miliardi di euro, valore nettamente inferiore a quello dei finanziamenti bancari.
Questo dovrebbe almeno fare chiarezza su un punto. Non c'è stata alcuna sostituzione, a livello di sistema, tra credito ed emissione di corporate bond. Non c'è stata sostituzione di uno strumento con un altro. C'è stato invece un considerevole aumento di risorse finanziarie per le imprese e sarebbe drammatico per il paese se la demonizzazione dei corporate bond bloccasse questa evoluzione.
Lo sviluppo dei corporate bond si è inserito in un più ampio processo di consolidamento della struttura finanziaria delle imprese italiane, che risultava e risulta eccessivamente sbilanciata sul breve termine. Questo processo ha trovato nell'euro e nella convergenza dei tassi di interesse italiani verso i livelli europei un formidabile fattore di accelerazione e si è riscontrato in molti dei paesi oggi appartenenti all'eurozona.
Il contributo offerto dalle banche alle imprese è stato rilevante attraverso l'attività di finanziamento, anche nel periodo più recente, nonostante il rallentamento economico. I numeri, talvolta, sono più eloquenti di mille parole.
Il rapporto impieghi-raccolta sull'interno (depositi, obbligazioni ed operazioni pronti contro termine) ha superato alla fine di novembre 2003 il 100 per cento, un valore ben maggiore rispetto all'80,4 riferito alla media dell'area dell'euro. Per far fronte a tale forte crescita degli impieghi le banche italiane hanno, negli ultimi anni, progressivamente aumentato il ricorso alla raccolta bancaria sull'estero, che costituisce ormai circa un quarto delle fonti di provvista. Le banche italiane, in sostanza, danno credito in Italia più di quanto raccolgono dai risparmiatori italiani.
In Italia, più che in Europa, assai rilevante è il supporto finanziario offerto dalle banche alle piccole e medie imprese. Nel nostro paese la quota sul totale degli impieghi fino a 500.000 euro risulta alla fine del primo semestre de1 2003 pari a1 23,8 per cento, percentuale che raggiunge quasi il 50 per cento qualora si considerino i finanziamenti fino a 5 milioni di euro, impieghi verosimilmente diretti alle piccole e medie imprese.
Anche dal confronto internazionale emerge la particolare attenzione che le banche italiane dedicano al comparto delle


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imprese di più piccole dimensioni: i finanziamenti bancari alle piccole imprese in rapporto al totale delle loro passività - pari a quasi il 25 per cento in Italia - appare in linea con quello spagnolo (24,6 per cento) e notevolmente superiore a quello delle banche francesi (12,2 per cento).
Il segno del supporto dato alle imprese si legge anche nelle alte perdite assorbite dalle banche. Nel periodo 1992-2002 l'ammontare complessivo delle perdite su crediti è risultato superiore a 77 miliardi di euro. Gli utili netti, nello stesso periodo, sono stati circa 65 miliardi di euro. I due milioni di piccoli azionisti delle banche hanno dunque, anche essi, alla pari degli obbligazionisti, subito gli andamenti non favorevoli del sistema industriale del nostro paese.
In sintesi, posso dire che le dimensioni delle imprese bancarie, la loro struttura proprietaria e la grande disponibilità di finanziamenti bancari di cui si è appena accennato hanno fatto sì che l'accesso diretto delle imprese al mercato finanziario tramite l'emissione di azioni e/o obbligazioni sia sempre risultato, nel confronto internazionale, sottodimensionato. Si è parlato di sistema bancocentrico e si è arrivati a sostenere che fosse la volontà dell'intero sistema bancario a rallentare lo sviluppo del mercato mobiliare. Il legislatore, il Governo e le autorità di regolamentazione si sono adoperate negli ultimi trent'anni a sviluppare il mercato mobiliare italiano, nella convinzione che la possibilità di un accesso diretto delle imprese al mercato dei capitali consentisse loro la stessa opportunità di sviluppo delle imprese estere. Lo stesso evento dell'euro è stato visto con particolare favore dal momento che esso ha consentito di operare in un mercato finanziario unico dotato di capitali e liquidità impensabili a livello nazionale.
Il sistema bancario non si è certo ritratto. Negli anni novanta ha costruito Borsa Spa e MTS Spa, due mercati tra i più avanzati tecnologicamente ed un'industria del risparmio gestito fra le principali in Europa.
In questo quadro, si sono quotate meno imprese di quanto auspicato. Le emissioni di obbligazioni da parte delle imprese fino al 1998 sono rimaste un fenomeno riservato alle grandissime imprese industriali o alle grandi aziende fomitrici di servizi. Solo con l'avvento dell'euro e dei nuovi livelli dei tassi di interesse le imprese si sono spinte in questa direzione. È evidente quanto il mercato dei corporate bond sia irrinunciabile e come un'accusa indiscriminata a questo strumento possa arrecare danno irreparabile per le imprese, per il mercato finanziario e per il paese.
Nel 2002 le attività finanziarie delle famiglie sono state pari a circa 2.500 miliardi di euro: 680 miliardi, il 27 per cento, depositati in conto corrente e in depositi bancari e postali, il cosiddetto risparmio tradizionale; 840 miliardi, il 33 per cento, investito in titoli lasciati in semplice amministrazione presso le banche; 810 miliardi, il 32 per cento, impegnati in risparmio gestito. Il residuo 8 per cento delle attività finanziarie è costituito essenzialmente dal circolante e dallo stock di TFR.
Il confronto con i dati del 1995 illustra bene il radicale mutamento intervenuto negli ultimi anni nell'allocazione del risparmio delle famiglie: dal 1995 al 2002 il peso delle forme di risparmio tradizionali è sceso dal 29 per cento al 27 per cento.
Ancora più sensibile è la riduzione degli investimenti in titoli lasciati sui depositi amministrati sul totale delle attività finanziarie: da quasi il 47 per cento del 1995 al 33 del 2002. Emerge, dunque, una crescita, dal 19 per cento al 32, degli investimenti in titoli affidati ai professionisti della gestione.
Se si confronta la struttura del risparmio e degli investimenti in Italia con quella dei principali paesi europei emergono alcune importanti differenze. Quanto al risparmio tradizionale, in Germania pesa sulle attività finanziarie, in media, 7 punti percentuali in più dell'Italia e della Francia.
Il risparmio in titoli lasciato sui depositi amministrati, in Italia, ha un peso nettamente superiore al dato della Germania


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e della Francia (mediamente di 15 punti percentuali): il «fai da te» ha 15 punti percentuali in più. Nel risparmio affidato a gestori professionali l'Italia è in ritardo nei confronti della Francia e della Germania con una differenza pari rispettivamente a 10 e 6 punti percentuali.
L'Italia, che pure ha visto diminuire in cinque anni, da 5,2 milioni a 2,3 milioni, le famiglie detentrici di titoli di Stato, deve completare un fondamentale passaggio: un 'ulteriore trasformazione degli investimenti «fai da te» in investimenti affidati a professionisti della gestione.
Abitudini consolidate possono indurre i risparmiatori ad effettuare scelte non sempre oculate. Ad esempio, l'abitudine radicata da parte delle famiglie italiane di investire in titoli di debito, siano essi di Stato oppure emessi da enti creditizi, ha fatto perdere la percezione del rischio che l'emittente di un titolo obbligazionario possa non adempiere ai propri obblighi contrattuali.
Il rischio dell'investimento in azioni è invece ormai correttamente percepito e 1'investitore non sembra considerare imprevedibili le perdite sui corsi azionari. Ad un'errata percezione del rischio da parte degli investitori «fai da te» ha contribuito il basso tasso d'insolvenza, che ha caratterizzato le emissioni obbligazionarie italiane.
Secondo le informazioni fornite dall'agenzia di rating Moody's, in Europa, dal 1990 al 2002, sono stati registrati 103 casi di default di corporate bond, di cui 32 nel 2002. Di questi 103 casi, uno solo ha riguardato, nel 2002, una società italiana, per un controvalore di 1,1 miliardi di euro, perdita da paragonare all'ammontare complessivo dei default europei dal 1990 al 2002 (65,6 miliardi di euro).
Nel 2003 si è registrato un secondo importante caso di default di una società italiana, che aveva emesso titoli per circa 7 miliardi di euro.
La rapida evoluzione dei mercati non ha forse lasciato agli italiani il tempo di comprendere a pieno che ogni titolo ha un grado di rischio inevitabile e che ogni investitore deve autopercepire il proprio livello di rischio accettabile. Questi due elementi devono essere combinati attraverso la costruzione di un portafoglio diversificato. Un titolo ad alto rischio, che potrebbe trovare idonea collocazione se immesso in una piccola percentuale in un portafoglio ben gestito, può invece sbilanciare l'intera struttura di rischio del portafoglio se comprato in una quantità eccessiva.
La difficoltà di diversificare correttamente il portafoglio è massima nel «fai da te» che però, come si rileva dai dati, è tuttora superiore al portafoglio in gestione. È quindi interesse generale favorire sempre più - ai fini di tutelare l'investimento del risparmio - l'utilizzo dei prodotti gestiti o dei servizi di gestione professionale.
In ogni fase ciclica negativa, dove più alta è la probabilità di crisi delle imprese, diventa centrale la strategia di diversificazione del portafoglio, che consente di minimizzare l'impatto di eventuali perdite in conto capitale sul rendimento complessivo del portafoglio. Tale strategia, per portafogli dimensionalmente limitati, necessita dell'investimento del risparmio in prodotti di gestione collettivi (com'è, di fatto, all'estero).
Si vuol dire che l'inevitabilità di qualche fallimento può trovare risposta solo in una strategia di diversificazione. Quest'ultima, però, è difficilmente praticabile dal singolo investitore privato. Soltanto un investitore professionale può efficacemente agire su una consistente massa critica e disporre delle competenze professionali necessarie per operare su mercati così complessi.
Sul mercato retail i risparmiatori «fai da te» chiedono invece agli intermediari, principalmente banche, titoli specifici. Le banche li negoziano secondo le regole della trasparenza, che prescrivono soltanto il rilascio di informazioni sul singolo titolo. Tali informazioni non esauriscono quindi tutte quelle necessarie alla gestione di un portafoglio titoli. Questo stato di cose genera l'errata e ingiusta concezione che la banca abbia l'implicita responsabilità del risultato complessivo degli investimenti


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dei clienti «fai da te», che hanno invece richiesto solo la negoziazione di specifici titoli.
La tutela del risparmio che viene investito nelle imprese, attraverso la sottoscrizione di azioni e obbligazioni, è fondata su due principali pilastri: la trasparenza e l'integrità delle informazioni sulle imprese; la correttezza dei comportamenti degli intermediari mobiliari nei mercati.
Esaminiamo qui di seguito queste due modalità, partendo dalle regole sul comportamento degli intermediari e sul funzionamento dei mercati. Le regole sul comportamento degli intermediari sono contenute nel Testo unico della finanza e nei regolamenti emanati dalla Consob. Richiamiamo, preliminarmente, quelle che guidano l'intermediario nell'operatività sul mercato primario e sul mercato secondario.
Per mercato primario (o di emissione) si intende la fase che intercorre fra l'emissione del titolo da parte dell'impresa e la sua sottoscrizione da parte dell'investitore. Per mercato secondario si intende la fase in cui un titolo, già in possesso di un investitore, viene negoziato con un altro investitore. È necessario ricordare che sono previste due modalità di mercato primario: l'offerta diretta dell'impresa al pubblico (sollecitazione all'investimento); l'offerta diretta dell'impresa a investitori istituzionali.
In entrambi i casi l'impresa si serve di un consorzio di intermediari specializzati nell'organizzare operazioni di collocamento la cui funzione è quella di predisporre l'operazione, in modo che l'emissione venga sottoscritta o dal pubblico o, nel secondo caso, dagli investitori istituzionali.
È necessario ricordare che le banche, sulla base della loro rilevanza nel mercato mobiliare, talora svolgono il ruolo di organizzatori del consorzio per il collocamento dei titoli in emissione. In via ordinaria, le banche si limitano ad acquistare i titoli proposti dal consorzio di collocamento, fungendo così da investitori istituzionali.
Nel caso di offerta diretta al pubblico, la tutela si estrinseca nelle regole che prevedono l'utilizzo di un prospetto informativo, che assicuri ai potenziali sottoscrittori tutte le informazioni utili per la decisione di investimento, la standardizzazione delle condizioni di vendita ai sottoscrittori, il diritto al riparto, nonché in una serie di obblighi di correttezza nei comportamenti da tenere, sia prima, sia durante la sollecitazione.
Nel secondo caso, solitamente sull'Euromercato, l'offerta è riservata ad investitori istituzionali - cioè esperti - e le tutele sono ridotte: il prospetto non è più previsto. Tutta l'operazione è scandita da prassi consolidate, elaborate dagli intermediari e dagli investitori istituzionali che operano sui mercati. Una nota semplificata contiene le informazioni necessarie per la decisione degli investitori professionali.
In entrambe le modalità di offerta, quando il consorzio di collocamento ha concluso l'operazione con la cessione agli investitori privati o agli investitori istituzionali, si chiude la fase del mercato primario e si entra nella fase del mercato secondario, dove le regole rilevanti sono quelle che governano la compravendita di titoli già emessi. È dunque normale che gli investitori istituzionali, al pari di quelli privati, dopo aver acquisito titoli sul mercato primario li negozino poi sul mercato secondario.
Per quanto riguarda il mercato secondario, le regole consentono all'intermediario di scegliere se negoziare per conto terzi o in conto proprio. Viene seguita la prima modalità per i titoli trattati su mercati organizzati come la Borsa, dove è molto facile reperirli, oppure dove è difficile trovarne la contropartita, come accade per i titoli negoziati su mercati esteri.
La negoziazione in proprio è adottata per i titoli non quotati in borsa, ma frequentemente richiesti. È più efficiente allora per l'intermediario tenerne una scorta e scambiarli direttamente con i clienti. Anche questa modalità è regolata dalla Consob, che impone l'organizzazione di un sistema di scambi organizzati (SSO),


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in cui il pubblico viene informato dei titoli disponibili e dei relativi prezzi. Non è quindi da stupirsi se uno stesso titolo venga negoziato da un intermediario in proprio e da un altro per conto terzi.
Oltre queste regole di base se ne possono citare molte altre, estremamente dettagliate, contenute nel Testo unico della finanza e nella regolamentazione attuativa emanata dalla Consob. Mi limito a ricordare quelle che prescrivono, in occasione della prestazione di un servizio di negoziazione, che l'intermediario, debba, tra l'altro: organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo le situazioni di conflitto di interesse e, in situazioni di conflitto, agire per assicurare alla clientela trasparenza - cioè conoscenza delle situazioni di conflitto - ed equo trattamento; chiedere notizie sugli obiettivi di investimento del cliente e definirne il profilo sulla base delle informazioni ricevute; informare adeguatamente il cliente sui rischi dell'operazione che sta per compiere; sconsigliare operazioni non adeguate all'investitore.
Questo è l'apparato regolamentare cui le banche si attengono scrupolosamente, anche nelle loro strutture periferiche, visto che esse operano essenzialmente sulla base di procedure standardizzate.
Dal dibattito corrente sono emersi, rispetto alle attività di intermediazione sopra accennate, due ordini di problemi e di proposte. Un primo gruppo riguarda il conflitto di interesse che può intercorrere fra la funzione di intermediario negoziatore (lo sportello bancario o il promotore) e di organizzatore di un consorzio di collocamento (il reparto di investment banking), di finanziatore (l'ufficio fidi) e di ufficio che pubblica studi sulle società.
L'esistenza di questi conflitti è intrinseca nella natura di intermediari polifunzionali quali sono sempre state le banche italiane e come, ormai, sono tutti gli intermediari del mondo. La soluzione astratta sarebbe quella di abolire la poli funzionalità degli intermediari e costringerli ad esercitare in via esclusiva una sola funzione senza essere collegati neppure a livello di gruppo. Ma tale soluzione è ormai rifiutata anche a livello teorico.
La soluzione adottata in pratica, in tutti i paesi a livello legislativo e regolamentare, è quella delle barriere operative (le cosiddette muraglie cinesi) fra le varie unità organizzative dell'intermediario e della trasparente comunicazione all'investitore di questi rapporti. Le barriere operative possono talora arrivare ad essere rappresentate dalla organizzazione in forma societaria (come per le SGR) e le informazioni sul conflitto di interessi possono essere spinte fino a prevedere che 1'investitore sia chiamato a dare singole autorizzazioni esplicite nei casi di conflitto più rilevante.
In tutto il mondo questo argomento è al cuore dell'attenzione, ma per ora non si intravedono proposte diverse da quella recepita e praticata nel nostro ordinamento, che si fonda sulla piena disclosure del conflitto e su un parziale ricorso a barriere societarie. Siamo comunque impegnati anche in sede associativa ad individuare i migliori assetti proponibili in termini di tutela e di efficienza.
A questo tema sembrano riferirsi alcune proposte dirette ad incidere sul comportamento degli investitori istituzionali che acquistano titoli nelle operazioni di collocamento loro riservate.
La severità delle proposte varia da un minimo rappresentato dall'obbligo di tenere i titoli in magazzino per un certo periodo prima di rivenderli, come è nel sistema americano, ad un massimo rappresentato dall'obbligo per tali investitori di non cedere mai una parte dei titoli così acquistati o anche, come prospetta l'articolo 38 del disegno di legge sulla tutela del risparmio, dall'obbligo di «garantire» il titolo ceduto (la solvenza dell'emittente). Si tratta di proposte che avrebbero un forte impatto sul costo per le imprese di emettere titoli e che quindi vanno valutate approfonditamente sia dalle Autorità di regolamentazione sia dagli intermediari e dalle imprese. Anche in questo caso abbiamo comunque in corso riflessioni con


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le associazioni delle imprese per giungere a proposte capaci di segnare un reale progresso.
Una seconda categoria di proposte riguarda le informazioni che l'intermediario deve fornire al cliente rispetto all'investimento. Taluni ritengono che ai clienti vadano comunicate le valutazioni delle agenzie di rating, con la conseguente esclusione dal mercato secondario al dettaglio dei titoli senza rating. Altri suggeriscono un elevato taglio per i titoli a più alto rischio (per esempio 100 mila euro) per evitare l'acquisto da parte di chi non sia in grado di sopportarne i rischi.
Il rating, come è noto, esprime la valutazione, compiuta da soggetti terzi altamente specializzati, della probabilità statistica di default di un emittente, ovvero dal rischio di inadempimento che questi avrà in relazione ad una determinata emissione. Tutte le imprese, naturalmente, corrono in via teorica il rischio di default. Il rating misura per ciascun emittente questa probabilità. L 'investitore deve essere reso consapevole della impossibilità di investire senza rischi e della possibilità di utilizzare il rating per valutare il rischio dei singoli titoli. È però oltremodo difficile individuare la soggettiva disponibilità ad accettare il rischio da parte di ciascun investitore. Ancor più difficile è trovare il punto in cui questa disponibilità coincide con il rischio dell'investimento.
In sintesi, il problema rimane quello accennato nelle pagine precedenti: ci sono milioni di risparmiatori che non sono interessati ad acquistare un servizio di gestione e che preferiscono decidere autonomamente i loro investimenti. Il fenomeno, come ricordato, è in diminuzione ma non è annullabile. Di conseguenza per il sistema bancario l'obiettivo di rendere più coscienti ed informati i clienti è al centro dell'attenzione.
Già nella relazione annuale tenuta nel giugno del 2002 ho annunciato che il sistema bancario era impegnato in un percorso diretto a dare ai clienti maggiore coscienza dei rischi. Scrissi allora: «Ci proponiamo di individuare, a livello di settore, classi di strumenti finanziari aventi caratteristiche omogenee in termini di complessità e di rischiosità... Se ne gioveranno i risparmiatori, ai quali potranno immediatamente risultare più chiari e comprensibili i rischi dei titoli che stanno valutando».
Questo programma è, a mia conoscenza, il primo al mondo predisposto a livello di settore e fornito a titolo gratuito. Dopo una complessa fase organizzativa e un approfondito confronto con le Autorità la prima fase è stata avviata il 15 novembre scorso. A tutti i clienti le banche offrono un elenco di titoli obbligazionari, selezionati fra quelli circolanti in Italia, che presentano caratteristiche di basso rischio di credito e di mercato, struttura del titolo non complessa, denominazione in euro per evitare il rischio di cambio, emittente residente nei paesi OCSE, quotazione del titolo in un mercato ufficiale, per evitare emittenti non «filtrati» da un'Autorità di mercato, rating (e cioè valutazione delle probabilità di fallimento emesso dalle maggiori agenzie internazionali) migliore di A meno (dunque più rigoroso rispetto al livello Bbb meno del cosiddetto investment grade stabilito generalmente quale limite per i portafogli istituzionali). Nel caso di aumento del rischio del titolo, il cliente riceve una apposita informativa al fine di sollecitare la sua attenzione sulla mutata rischiosità dell'investimento.
Non è una soluzione ottimale perché ottimale non è 1'investimento in un singolo titolo ma il possesso di un portafoglio diversificato e gestito dinamicamente, ma riteniamo sia un'informazione utile ed essenziale per chi voglia fare da solo.
Su questo percorso - già intrapreso - intendiamo accrescere ulteriormente l'informazione sulle caratteristiche e sulla rischiosità dei vari titoli disponibile al momento dell'investimento e continuare un'opera di educazione della clientela, anche con la possibile collaborazione delle Associazioni dei consumatori presenti al tavolo ABI, sui fondamentali concetti del rischio dei prodotti finanziari, curandone un'ampia diffusione sul territorio.


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Il compito non è facile. In un mercato ben più addestrato all'investimento in titoli quale la Gran Bretagna, la FSA ha recentemente ricordato che da una sua ricerca risulta che solo una parte dei risparmiatori inglesi è in grado di comprendere correttamente le informazioni ordinariamente disponibili sui prodotti finanziari.
Quanto alla trasparenza e all'integrità delle informazioni sulle imprese, la libertà nella scelta della allocazione delle risorse alle imprese si traduce nell'assenza di un'autorità pubblica che indirizzi il risparmio su soggetti che essa stessa valuta meritevoli e quindi nella garanzia di libertà, da un lato, delle imprese di accedere al risparmio e, dall'altro, del risparmio di scegliere autonomamente in quali imprese investire. Si tratta del resto di regole diffuse ed applicate nei paesi industrializzati, proprie di ogni sistema che si ispira ai principi del libero mercato.
Il presupposto logico perché questo meccanismo funzioni è che il risparmio abbia a disposizione tutte le informazioni che sono necessarie per prendere una decisione di investimento. La disponibilità, la qualità e la completezza delle informazioni sulle imprese e il conseguente agire delle banche in modo adeguato alle capacità reddituali e al patrimonio delle imprese stesse sono i pilastri su cui poggia questo meccanismo. Si può ben dire che la tutela del risparmio che viene investito nei titoli delle imprese è rappresentata principalmente dall'informativa societaria.
Gran parte delle crisi delle imprese si manifestano in frodi, cioè in manipolazioni della informativa societaria dirette a nascondere la reale situazione dell'impresa e ad attrarre il risparmio con 1'inganno.
Tutti i mercati e i sistemi finanziari, per funzionare in modo efficiente e per corrispondere alla tutela dell'investitore, hanno necessità di disporre di informazioni complete e attendibili dagli emittenti e sugli strumenti finanziari: è sulle informazioni acquisite che gli intermediari e gli investitori fondano le proprie decisioni ed orientano i propri comportamenti.
Il complesso di queste informazioni costituisce la base delle valutazioni che non solo gli investitori, ma anche i creditori e gli altri stakeholder svolgono sulle prospettive della singola impresa.
Non è possibile imporre ad ogni «terzo» l'onere di ricostruire i dati di base dell'impresa, sui quali effettuare valutazioni prospettiche, perché la filiera produttiva dell'informazione interna all'impresa non può essere ricostruita e vigilata momento per momento da nessuno degli stakeholder. È per questo che le banche (e gli altri creditori) evitano di svolgere attività già poste in essere da altri e la cui replica, oltre ad essere necessariamente imperfetta, si rifletterebbe negativamente sulle politiche di prezzo praticate. Del resto, l'abrogazione, operata dall'articolo 8 del decreto legislativo n. 61 del 2002, del reato di mendacio bancario che presidiava la correttezza dell'informazione fornita alle banche da chi richiedesse il fido, fa comprendere come si sia voluto porre queste ultime allo stesso livello di qualunque altro soggetto che attinge notizie dall'impresa con la quale viene in rapporto.
La disciplina sull'informazione societaria non opera differenziazioni quanto a soggetti tutelati e quindi, comprende in eguale misura tutti coloro che entrano in contatto con 1'impresa. In altre parole, 1'informazione è per il nostro ordinamento un bene pubblico, un valore cioè da tutelare in via prioritaria, e con adeguati strumenti, nella regolamentazione delle attività economiche e a prescindere dalla qualifica soggettiva dei suoi destinatari.
Nell'impresa, le notizie necessarie a formare il bilancio e le relazioni periodiche pervengono alla direzione amministrativa che è la prima responsabile della veridicità e delle completezza delle notizie raccolte.
La produzione dei dati e la loro conservazione sono oggetto di precise norme codicistiche, volte a garantire la veridicità di tali notizie. Specifica organizzazione strutturale è stabilita per gli uffici dedicati a gestire le informazioni contabili. Il direttore


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amministrativo risponde al capo dell'esecutivo, analizza e valuta i dati ed elabora il bilancio della società e la relazione, sottoponendoli agli organi amministrativi deputati.
A tutela della gestione e organizzazione dei dati e a presidio della loro omogeneità e corretta utilizzazione stanno i criteri di redazione del bilancio, sviluppati dai principi contabili nazionali cui si affiancano quelli internazionali.
La filiera incaricata di controllare la produzione dei dati e delle notizie, si articola: nella funzione dell'internal auditing, preordinata a fornire le sue valutazioni e i suoi rilievi anzitutto al capo dell'esecutivo; in quella del collegio sindacale ovvero del controllo dei conti; in quella dell'audit committee, previsto dal codice di autodisciplina della Borsa italiana spa per le società quotate, composto da amministratori non esecutivi e indipendenti.
All'articolazione interna all'impresa si aggiunge l'attività delle società chiamate (per legge o per scelta della società) a certificare il bilancio. Le sanzioni in caso di imperfetto funzionamento della filiera di controllo abbisognano di individuazione di nuove fattispecie e di nuovi profili di responsabilità.
Nel Sarbanes Oxley Act - che rappresenta la risposta legislativa degli USA alle recenti crisi di grandi imprese quotate - è posto l'obbligo di asseverare con giuramento la veridicità del bilancio e degli altri documenti di corredo; a ciò si affianca 1'incremento delle pene edittali e dei soggetti cui applicarle nonché 1'imposizione di comportamenti specifici ai vertici aziendali in funzione della garanzia della corrispondenza al vero delle informazioni.
È innanzitutto opportuno che il nostro ordinamento preveda una specifica responsabilità personale, di natura penale, in capo ai dirigenti degli uffici amministrativi e contabili per la incompletezza e la non veridicità dei documenti da essi prodotti o utilizzati per predisporre il bilancio e per il caso di non corretta tenuta delle scritture.
Quanto agli amministratori, essi, insieme ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori, sono sanzionati penalmente, dagli articoli 2621 e 2622 del codice civile, in caso, rispettivamente, di false comunicazioni sociali e di false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori. La nuova disciplina del falso in bilancio è meno rigorosa rispetto al passato. Sarebbe opportuno inasprire le pene previste, giacche la minor rigorosità si riflette sulla probabilità di maturazione del tempo necessario alla prescrizione del reato (si confronti in proposito l'articolo 157 del codice penale).
La comunicazione della Commissione europea del maggio 2003 prefigura 1'imposizione di un'interdizione dall'incarico di amministratore nell'intera Unione europea per la presentazione di informazioni ingannevoli, finanziarie e non, e altre forme di cattiva gestione. Il legislatore italiano dovrebbe anticipare, almeno per le società operanti nel territorio nazionale, la tutela che sarà in futuro accordata dalla legislazione comunitaria.
La regolamentazione attuale appare poi carente quanto all'individuazione dei meccanismi che assicurino l'indipendenza sostanziale dei sindaci e dei soggetti incaricati della revisione, atteso che entrambi sono di nomina della maggioranza assembleare. La proposta è quella di generalizzare per tutte le società di capitali la disposizione che oggi, per le sole quotate, consente un sindaco alla minoranza, ovviamente qualora una minoranza sia riscontrabile.
La remunerazione del collegio va adeguata, prevedendo criteri che tengano conto dell'effettivo impegno e della dimensione aziendale.
Per le società di revisione occorre impedire che la consulenza sia prestata congiuntamente all'attività di revisione, ed in particolare a quella in materia contabile. Occorre anche qui porre mano a una serie di interventi: porre il divieto che le entità che compongono il gruppo di appartenenza della società di revisione possano offrire alla società sottoposta a revisione servizi incompatibili con questa (l'individuazione


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di tali servizi andrebbe rimessa a regolamenti Consob, sentite le organizzazioni professionali della categoria); imporre annualmente la comunicazione all'Autorità di controllo dell'assetto del gruppo, con una descrizione dettagliata e completa delle relazioni tra la società di revisione e le altre società del gruppo, da un lato, e la società revisionata e le sue consociate, dall'altro; fare divieto alla società sottoposta a revisione ed alle sue controllanti e controllate di conferire incarichi diversi dalla revisione, oltre che alla società cui ha conferito 1'incarico della revisione stessa, anche alle entità interne al gruppo cui questa appartiene, se tali incarichi hanno per oggetto servizi che siano stati valutati, con i regolamenti Consob, incompatibili con l'incarico di revisione; obbligare il gruppo industriale ad avvalersi di un unico revisore, in modo da garantire unità nella ricostruzione delle operazioni e omogeneità nei criteri valutativi addottati; rendere pubblici i compensi che, a diverso titolo, la società di revisione e quelle del gruppo cui appartiene hanno percepito dalla società committente.
Vanno potenziati i poteri di controllo dell'Autorità sui revisori, prevedendo che questi si sottopongano a certificazioni periodiche di qualità, sotto l'egida dell'Autorità stessa, sulla falsariga di quanto è previsto dal Sarbanes Oxley Act. Occorre diminuire il periodo massimo di durata dell'incarico, limitando o escludendo i rinnovi, nonché prevedere 1'incompatibilità anche successiva alla scadenza dell'incarico (cooling off period).
Anche il disegno di legge sulla tutela del risparmio formula interventi in tema di società di revisione (articolo 43), secondo una logica analoga a quella che ha suggerito le proposte sopra indicate. Va garantita la terzietà degli analisti finanziari rispetto alla società i cui titoli vengono analizzati. A ciò provvedono deliberazioni della Consob, concernente gli studi o le statistiche diffuse al pubblico e relative agli emittenti e gli strumenti finanziari da costoro emessi. Tali regole sarebbero più efficienti se si prescrivesse: l'assoggettamento alla normativa Consob di tutti gli studi aventi ad oggetto titoli trattati su mercati regolamentati italiani, indipendentemente dalla natura o dalla nazionalità del soggetto che li produce e/o li diffonde; l'assoggettamento a specifiche norme comportamentali, di trasparenza e di correttezza, dei soggetti che, materialmente, producono gli studi e, più in generale, comprendere tra i soggetti vigilati anche gli analisti (ovvero, i dipendenti incaricati di compilare gli studi). Ciò anche al fine di consentire agli analisti l'autonomia necessaria a descrivere l'effettiva situazione, attuale e prospettica, del soggetto analizzato; l'inclusione, nel novero dei soggetti tenuti al rispetto delle norme comportamentali, dei giornalisti e delle altre figure che diffondono al pubblico, anche se in misura parziale, le informazioni contenute negli studi.
Il decreto legislativo n. 231 del 2001 e successive modificazioni ha introdotto in Italia un nuovo tipo di responsabilità a carico degli «enti» che scatta quando un reato sia commesso da un soggetto «apicale» o dipendente dell'impresa, nell'interesse o a vantaggio di quest'ultima. Fra i reati sono compresi i reati societari. Si propone, sulla scorta di quanto già avviene in materia di antitrust, di prefigurare - nel caso la società venga condannata ad una pena pecuniaria in relazione ad un reato societario - la devoluzione del quantum della sanzione in un fondo destinato a ristorare quei soggetti «consumatori/creditori» che abbiano subito un danno ingiusto dall'illecito imputato alla società.
Si verrebbe così a formare un fondo alimentato dall'importo delle sanzioni, ben diverso quindi dal quel sistema di indennizzo previsto dal disegno di legge sulla tutela del risparmio (articolo 42). Tale sistema finirebbe per spalmare sull'intero sistema i danni causati dal dolo o dalla colpa di un singolo intermediario, dando vita a un 'ipotesi di responsabilità oggettiva assolutamente sconosciuta all'ordinamento e creando la premessa per comportamenti di moral hazard da parte degli intermediari. Le vicende che hanno reso


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necessaria questa audizione prefigurano un contenzioso societario, oltre che fallimentare, diffuso e non di poco conto. È facile allora immaginare la difficoltà della giustizia di far fronte con tempestività ed efficacia alle esigenze delle parti. Sicuramente diverso e migliore sarebbe il quadro se fossero costituite sezioni specializzate, alle quali demandare controversie di carattere societario. Sarebbe assicurata la specializzazione necessaria per decidere problematiche tecnicamente complesse. Inoltre, si contribuirebbe a promuovere l'efficienza della giustizia, Concentrando in alcune sedi le controversie societarie.
Le considerazioni fin qui illustrate non intendono far dimenticare il ruolo centrale che svolge il consiglio di amministrazione e la necessità di elidere o comunque governare eventuali conflitti di interesse nell'ambito di questo organo.
In particolare, il problema nasce dalla presenza nei consigli delle banche di esponenti di vertice delle società affidate. A questo riguardo, il presidio dell'articolo 136 del testo unico bancario e la procedura specifica cui è necessario sottostare affinché risulti lecita l'assunzione di obbligazioni da parte dell'amministratore direttamente o indirettamente con la banca che amministra, dirige e controlla o con società del gruppo, appaiono sufficienti. Tale disposizione risulta equivalente con il disposto del richiamato Sarbanes Oxley Act. Lo stesso disegno di legge governativo, precisandone la portata, ne conferma sostanzialmente l'adeguatezza (articolo 40).
In molte delle situazioni patologiche che si sono create di recente per le imprese italiane, si è assistito all'utilizzo, da parte di queste ultime, di «paradisi fiscali». Sotto l'aspetto tributario, l'Italia ha provveduto a dotarsi di strumenti giuridici idonei a difendere il sistema impositivo da forme di elusione e di evasione. Per realizzare un efficiente contrasto all'utilizzo di «paradisi legali», le società italiane debbono rendere noto 1'insorgere di rapporti con soggetti residenti in tali paesi, ovvero l'apertura di filiali o di collegate nei medesimi paesi, esplicitandone le motivazioni.
In secondo luogo, esse debbono certificare l'attività svolta nell'ambito del «paradiso legale». Deve prevedersi un obbligo dei certificatori di chiedere direttamente alle controllate estere le informazioni necessarie sulle operazioni significative poste in essere, ad esempio quelle superiori a una determinata soglia. Anche il disegno di legge sulla tutela del risparmio formula interventi in tema di trasparenza di società estere, secondo una logica analoga a quella che ha suggerito le proposte sopra indicate. Il disegno di legge sulla tutela del risparmio introduce una serie di previsioni volte a inasprire le sanzioni per taluni illeciti societari, prevedendo altresì, a carico sia delle imprese sia degli intermediari, la nuova figura del reato di nocumento del risparmio.
Tale disposizione necessita di ulteriori approfondimenti, che consentano una migliore definizione della sua portata. Il susseguirsi di fattispecie nelle quali le imprese hanno visto emergere in tutta la loro gravità la propria crisi e, quindi, la impossibilità in fatto di pervenire a interventi anticipatori, se non della crisi, almeno dell'insolvenza, fornisce una conferma dell'inadeguatezza delle procedure concorsuali in essere a garantire il recupero tempestivo ed efficiente dei valori aziendali. A questo giudizio non si è sottratta neppure la legge sulla amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, che ha dovuto essere in tutta fretta modificata per consentire scelte più snelle ed efficienti, altrimenti non percorribili, attesa la funzione prevalentemente liquidatoria che anch'essa ha finito per assumere.
Non si vuole entrare nel merito delle scelte compiute dal decreto-legge, che, sia pure nell'ambito di una procedura di impronta e direzione pubblicistica, anticipa soluzioni di stampo privatistico analoghe a quelle fatte proprie dal Chapter Eleven statunitense.
Tuttavia è sicuramente criticabile la disposizione dell'articolo 6 che prevede, in caso di risanamento e non di liquidazione dell'impresa, l'attivazione dell'azione revocatoria al fine di acquisire liquidità utile al


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successo del piano di risanamento, cui poi devono concorrere le banche mediante nuova finanza. È davvero singolare che si utilizzi la revocatoria ove non vi sia insolvenza definitiva, non solo violando la par condicio, ma per finanziare il piano di risanamento e che il tutto avvenga, nella sostanza, a pregiudizio delle stesse banche chiamate a erogare nuove disponibilità.
In sede di conversione è altresì auspicabile che vengano varate disposizioni, suggerite anche dalla Associazione, volte ad agevolare l'insinuazione al passivo degli obbligazionisti delle società ammesse a procedura, nell'interesse non solo di questi ultimi, costretti a defatiganti e complesse iniziative ma in quello, più generale, della procedura medesima, che vedrebbe pregiudicata molta parte della sua correntezza qualora dovesse scrutinare le singole insinuazioni provenienti dalle migliaia di creditori obbligazionisti.
A parte questo rilievo, la stessa formula d'urgenza del decreto-legge conferma la necessità di un intervento sostanziale di riforma delle procedure concorsuali, del resto auspicato da più parti, compreso il Governo. Occorre prefigurare procedure di risanamento efficienti, sia giudiziali che stragiudiziali, che incentivino l'imprenditore ad attivarsi per tempo, anche qui sulla scorta di quanto disposto dal Chapter Eleven statunitense. L'obiettivo ultimo deve essere quello della salvaguardia e della massimizzazione del valore del complesso aziendale, perseguibile attraverso la predisposizione di meccanismi che consentano di selezionare le imprese che vivono situazioni di difficoltà temporanea da quelle destinate ad essere espulse dal mercato.
In Italia, invece, la normativa penalizza soluzioni concordate della crisi. Infatti i soggetti finanziatori sono esposti a forti rischi legali, consistenti sia nella revocatoria della nuova finanza concessa all'impresa in crisi, sia nella possibilità di incorrere in incriminazioni per reati fallimentari e nelle azioni per danni promosse dalla curatela per abusiva concessione del credito. L'utilizzo spregiudicato della revocatoria compromette la tenuta delle linee di fido proprio nel momento di difficoltà finanziaria dell'impresa. Solo se questi pregiudizi saranno rimossi si potrà pensare di esser dotati di strumenti efficienti al risanamento delle imprese in difficoltà, qualunque sia la loro dimensione. È ormai quindi inderogabile che il Parlamento proceda ad una revisione globale della legge fallimentare. Diventa un dovere verso il mercato e le imprese che non può più essere né eluso né procrastinato.
Quanto alla vicenda Parmalat, le banche italiane ritengono indispensabile assicurare assistenza alla clientela retail titolare di obbligazioni del gruppo. Questo in considerazione della specificità della vicenda, caratterizzata dalla variegata allocazione geografica delle società emittenti, insediate non solo in Italia, ma anche in altri paesi dell'Unione Europea, per entità prevalente delle emissioni, e in parte in paesi extra europei. A ciò vanno aggiunte la diversità delle legislazioni che disciplinano i bond e le novità introdotte di recente alla procedura di amministrazione straordinaria, applicabile a varie componenti del gruppo Parmalat, che si riflettono sulle modalità con cui far valere le ragioni dei creditori in sede concorsuale.
L'assistenza che le banche italiane assicureranno alla clientela si articolerà su due livelli. Uno, di carattere informativo, al fine di fornire i più ampi elementi conoscitivi in ordine alle modalità da seguire per l'ammissione alle procedure concorsuali e alla partecipazione alle stesse, modalità che possono risultare diversificate e quindi complesse a seconda dei titoli detenuti. L'altro, di sostegno operativo, ai fini del concreto svolgimento delle attività necessarie per l'ammissione alle procedure e la partecipazione alle successive fasi delle stesse.
In questo contesto l'Associazione bancaria italiana, che fornirà alle proprie associate ogni supporto necessario per l'attività di assistenza alla clientela, auspica che 1'iter di conversione parlamentare del decreto-legge n. 347 del 2003 consenta di introdurre previsioni in grado di semplificare


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e razionalizzare la partecipazione degli obbligazionisti alla procedura di amministrazione straordinaria.
Le recenti crisi di impresa che hanno toccato il paese vanno affrontate sulla base di un'analisi obiettiva. Nascono da comportamenti gravi e fraudolenti, ma straordinari e non generalizzabili. Di fondo, sempre, la violazione di regole che impongono informazioni vere e attendibili. Questo è il punto. Il mercato finanziario non può vivere senza informazioni societarie affidabili. È come l'aria per i polmoni. Il paese deve poter contare per crescere, su dati veri, sempre. Le conseguenze, in caso contrario, possono essere molto dolorose anche da un punto di vista internazionale. La credibilità italiana va tutelata.
In un sistema capitalistico avanzato le crisi industriali possono verificarsi. Alcune imprese possono andare in default. È essenziale, vitale, che su tali imprese e su tutte le imprese le informazioni siano corrette, tempestive. Di qui la necessità di norme più stringenti su chi produce le informazioni, dai dirigenti agli amministratori delle imprese, e su chi le controlla, i comitati di audit, i sindaci, i revisori e gli analisti finanziari. La nuova disciplina del «falso in bilancio» è meno rigorosa che nel passato e può quindi costituire un deterrente non particolarmente efficace per scoraggiare comportamenti devianti. Sarebbe opportuno inasprire le pene previste per i reati di false comunicazioni sociali.
Utili indicazioni si desumono dalla comunicazione della Commissione europea del maggio 2003, che prevede l'interdizione dall'incarico di amministratore nell'intera Unione europea, quale sanzione nei confronti degli amministratori per la presentazione di informazioni ingannevoli, finanziarie e non, e altre forme di cattiva gestione. Il legislatore italiano dovrebbe ispirarsi a tale esempio, anticipando a livello nazionale la futura legislazione comunitaria. Si dovrà anche poter contare su sezioni specializzate dei tribunali in controversie societarie, mentre i «paradisi» vanno resi «legali», rendendo noti i rapporti con chi vi risiede o l'apertura di filiali e collegate.
Necessario è anche il rafforzamento della Consob, o della nuova autorità, in termini sia di poteri, sia, soprattutto, di mezzi e strutture a disposizione. Un'efficiente azione di vigilanza, fondata su chiarezza di principi e di comportamenti è garanzia, al contempo, dell'autonomia e della sicurezza dei mercati.
Un altro aspetto da non sottovalutare è la crescita e lo sviluppo del mercato finanziario. Il progressivo prosciugamento del flusso di ricche cedole che i titoli di Stato avevano assicurato nel corso degli anni ottanta e novanta ha spinto le famiglie verso strumenti finanziari prima poco conosciuti. Al tempo stesso il trasferimento diretto del risparmio dalle famiglie alle imprese, attraverso l'acquisto di azioni e obbligazioni, è un segno di crescita del nostro sistema finanziario. Un mutamento strutturale di tale dimensione e spessore avrebbe forse richiesto un'azione di maggiore sensibilizzazione. Sarebbe stata necessaria, anche per mano pubblica, una più incisiva azione diretta a dare consapevolezza ai cittadini del mutamento che si stava realizzando. Recuperare si può e si deve.
Le banche si stanno impegnando a diffondere il più possibile la percezione dello stato delle cose, dei rischi del mondo degli investimenti finanziari. Non si sta parlando di rispetto delle regole, ma di qualcosa di più, dell'assistenza e del supporto per far sì che tutti i risparmiatori investitori raggiungano ancor maggior consapevolezza possibile dei rischi finanziari.
La tutela «costituzionale» del risparmio ben fa intendere quale sia il suo rilievo per l'economia. Il risparmio deve arrivare alle imprese per consentire loro gli investimenti e quindi lo sviluppo. Può arrivarvi per via indiretta, tramite le banche, o per via diretta tramite il mercato.
Una «demonizzazione» dei corporate bond e, più in generale, della finanza non rende un servizio a nessuno. Certamente


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può mettere a rischio domani il successo del finanziamento delle imprese attraverso il riscorso diretto al mercato. Come si è detto, l'emissione dei bond è nel futuro, anche alla luce delle esperienze più avanzate, come quella statunitense. D'altra parte, se le imprese non potessero più emettere bond con successo di mercato, sarebbe difficile immaginare di colmare questa necessità di finanziamento con un ulteriore e massiccio ampliamento del credito bancario.
Se si guarda alle recenti crisi industriali, le iniziative che talune banche, caso per caso, stanno avviando, rappresentano concretamente il tentativo di immaginare percorsi nuovi ed adeguati all'eccezionalità della situazione. Per agevolare gli obbligazionisti del gruppo Parmalat, l'Associazione ha proposto l'adozione di norme specifiche, volte ad ammetterli automaticamente al passivo della procedura di amministrazione straordinaria. Ciò consentirebbe di sollevare gli obbligazionisti da defatiganti e costose attività procedurali per la tutela dei propri interessi.
L'assistenza che le banche italiane assicureranno agli obbligazionisti del gruppo Parmalat si articolerà su due livelli, uno di carattere informativo e l'altro di sostegno operativo, ai fini del concreto svolgimento non solo delle attività necessarie per 1'ammissione alle procedure, ma anche per le eventuali attività di partecipazione alle fasi successive. In questo contesto, l'Associazione bancaria italiana fornirà alle banche associate ogni supporto necessario per rendere più proficua 1'attività di assistenza alla clientela.
In un'ottica di sistema, l'ABI si sta impegnando a delineare proposte e soluzioni in tema di mercati e di corporate governance con i rappresentanti delle forze economiche in campo. Di qui l'apposito tavolo dove l'ABI è impegnata, insieme a Confindustria, Assonime e Borsa Italiana.
Vi ringrazio per l'attenzione e resto a disposizione per eventuali domande.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Sella per la sua ampia relazione. É già lungo l'elenco di deputati e senatori che intendono formulare domande. Perciò, vorrei organizzare lo svolgimento della rimanente parte di questa audizione. Fino ad ora, presidente Sella, sono stati seguiti due metodi, l'uno è stato utilizzato, ad esempio, in occasione dell'audizione del presidente della Consob, il quale ha risposto a gruppi di 5 domande per volta; l'altro è stato preferito dal Governatore della Banca d'Italia, il quale ha risposto individualmente a ciascun quesito. La seconda modalità, ovviamente, richiede molto più tempo. Con il suo consenso, procederei per gruppi di domande. In tal modo possiamo guadagnare un po' di tempo.

PIETRO ARMANI. Ho notato che, nella sua relazione, lei si è riferito all'abrogazione, operata dall'articolo 8 del decreto legislativo n. 61 del 2002, del reato di mendacio bancario, che era stato riproposto dall'articolo 137, comma 1, del decreto legislativo n. 385 del 1993, noto come testo unico bancario. Si è detto che la ragione risiede nella constatazione che, durante il lungo periodo di tempo di vigenza, questa norma, praticamente, non era stata mai applicata. Il presidente dell'ABI ritiene che la eventuale reintroduzione di questo reato potrebbe avere un riflesso maggiore, alla luce del fatto che le banche hanno avuto bilanci artefatti e falsificati da parte di alcune società italiane in default? Ritiene che questa norma potrebbe avere applicazione, qualora fosse assistita da una formulazione più precisa?
La seconda domanda riguarda l'azione collettiva. Sappiamo quante decine di migliaia di risparmiatori hanno effettuato denunce alle banche. Lei ritiene si possa pensare a introdurre, sotto forma di modifiche al disegno di legge governativo, alcune forme di azione collettiva?

SERGIO ROSSI. Desidero chiedere al presidente Sella un parere relativo ai prospetti informativi dei bond e ai doveri delle banche di informare i risparmiatori all'atto dell'acquisto dei titoli. Chiedo se ritenga condivisibile la mia opinione secondo cui la legge, oggi, avendo affidato


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alla banca questi compiti, ha configurato un sistema nel quale, in sostanza, si attribuisce al lupo il dovere di illustrare all'agnello i diritti dell'agnello. In precedenti audizioni svolte in sede di Commissione, relative ad altri argomenti, lei aveva presentato relazioni nelle quali evidenziava come le banche, ultimamente, detenessero nei loro portafogli minori incagli e minori sofferenze e conseguissero maggiori utili. Questi rapporti li aveva illustrati al fine di evidenziare come le banche stiano lavorando bene. Oggi, lei ha dichiarato, in questa sede, che non c'è stata una diminuzione dei finanziamenti bancari in concomitanza con l'aumento di bond sul mercato. Lei ha affermato questo, probabilmente, dal suo punto di vista, per fuorviare le analisi e le conclusioni in merito ai recenti fatti. Tuttavia, c'è un altro modo di analizzare i fatti recenti, cioè quello di considerare che le banche, negli ultimi anni, finanziano solamente i buoni clienti, i quali, di conseguenza, realizzano maggiori utili, mentre il mercato, attraverso i bond, finanzia i cattivi clienti. Sono proprio le stesse banche a spingere i cattivi clienti a finanziarsi ricorrendo al mercato ma sono le banche che usano le imprese vendere cattivi bond e a guadagnare anche sull'intermediazione dei bond.

ALFIERO GRANDI. Naturalmente, presidente Sella, capisco tutta la prudenza del caso. Deve sapere che nel corso delle audizioni svolte - e anche secondo opinioni espresse al di fuori delle audizioni - è stato avanzato un dubbio relativamente al fatto che le banche potessero non avere una consapevolezza sufficiente delle frodi. Affermo questo senza particolare accanimento nei confronti delle banche; tuttavia, avendo ascoltato queste accuse, credo sia giusto che lei le conosca. In sostanza, si ritiene che le banche, almeno alcune di quelle coinvolte, o parti di esse, sapessero qualcosa di più di quanto effettivamente hanno mostrato.
Il presidente Tesauro ci ha detto che l'Autorità da lui presieduta è stata beffata da Parmalat; la Banca d'Italia ci aveva anticipato che c'era una frode molto grave che aveva tratto in inganno le banche. Però, forse, chi rappresenta le banche farebbe bene, a mio avviso, a rispondere in termini più forti, più convincenti e anche più argomentati, prendendo il «toro per le corna». La tesi secondo cui il sistema bancario, in effetti, è stato ingannato dalla frode dell'imprenditore di Parma e dalla connivenza del sistema di controllo deve essere fortemente dimostrata, deve essere provata, in modo tale che non ci siano dubbi sul funzionamento. Altrimenti, il rischio che ci sia qualche dubbio di altro tipo, effettivamente, esiste.
In alcuni passaggi della sua relazione, lei ha affermato che c'è un rischio per il mercato del risparmio, che è fondamentale, non da solo ma insieme ad altri, per il finanziamento delle imprese. Tant'è vero, che ci ha fornito un dato che - lo confesso - non conoscevo e, cioè, che l'Italia è al 100 per cento dell'impiego della raccolta capitali, con il contributo dall'estero. Questo dato è di straordinario interesse, naturalmente. Significa che le imprese italiane, sia pure attraverso un sistema di intermediari, godono di un aiuto. Questo è un fatto sicuramente molto positivo, anche di natura europea.
Tuttavia, mi permetto di dirle, presidente Sella, che siamo un po' oltre il rischio, siamo di fronte ad una situazione drammatica del mercato del risparmio. I telegiornali, oggi, hanno diffuso la notizia che, presso la procura della Repubblica di Milano, è stato raggiunto il limite delle centomila denunce da parte di risparmiatori che hanno denunciato la frode sul caso Parmalat. Può darsi che, alla fine, rimarremo nei numeri che, più o meno, sono stati indicati. Non ho la sfera di cristallo e, del resto, non mi interessa molto se siano 100 mila o 200 mila. Ovviamente, meno sono, meglio è. Resta il fatto che la vicenda è gravissima.
Presidente Sella, lei ha parlato - giustamente - di ciò che occorre fare. Vi sono molte indicazioni che condivido e ritengo utili. Apprezzo anche il fatto che lei abbia avuto il coraggio di parlare della questione del falso in bilancio (che è una specie di morto in casa, di cui si fatica a


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parlare). Vi è un problema di risposta immediata sul mercato. Bisogna offrire tranquillità al mercato stesso.
Trovo insufficiente la risposta delle banche. Alcune di esse si sono attrezzate, altre, si stanno attrezzando, altre ancora, lo faranno. Il sistema bancario, essendo il sistema degli intermediari, deve capire che se qualcosa non ha funzionato nel rapporto tra intermediario e risparmiatore, si rischia di aprire una voragine di credibilità. Pertanto, è necessaria una risposta straordinaria, anche in una dialettica (che non è facile) con il sistema dei risparmiatori.
Questi ultimi non sono tutti uguali (lei ha ragione), non vi può essere una soluzione valida per tutti (non vi sarebbe nulla di peggio). Tuttavia, è necessario individuare i casi (di cui siamo tutti a conoscenza) che meritano risposta. Coloro che, viceversa, avevano scommesso sul mercato ed hanno perso, avevano le spalle abbastanza robuste da operare tale scommessa.
Presidente Sella, le dico in tutta sincerità che la risposta fornita nella sua relazione non mi soddisfa. Le chiederei una proiezione più forte. Non gliela domando in questa sede (non so se sia in grado di fornirla già). Credo che, rientrando dall'audizione odierna, sarebbe bene che, con le banche interessate, vi fosse un summit in grado di offrire al paese - in breve tempo - un segnale forte. La credibilità del sistema è, infatti, già in crisi.

NATALE D'AMICO. Ringrazio il presidente Sella, non solo per l'analisi, ma anche perché non si è sottratto alla fatica ed al rischio di proporre soluzioni. Condivido le sue proposte, in larghissima misura. A me sembra che tali proposte vadano essenzialmente nella direzione della tutela del bene pubblico informazione e dei rafforzamenti dei poteri della Consob.
Non vorrei forzare il suo pensiero, ma credo che, nelle medesime proposte, vi sia anche un giudizio di quali scelte sia urgente adottare. Le sue proposte - se ho ben compreso - affermano l'urgenza di intervenire sulla qualità e tempestività delle informazioni, quella di intervenire sui poteri della Consob e la minore urgenza del riordino dei poteri delle autorità, di cui tanto si discute.
Nella competizione internazionale, per appropriarsi di quote di mercato, nella vendita di beni e di servizi, o per appropriarsi delle risorse finanziarie, per un periodo piuttosto lungo, si è pensato che chi regolamentava di meno avesse alcuni vantaggi. Oggi, mi sembra si inizi a riflettere in una diversa direzione: non chi regolamenta meno, ma chi regolamenta meglio ottiene vantaggi.
In particolare, mi sembra corretto affermare che regole che offrono vantaggi nella qualità, quantità e tempestività delle informazioni rese ai mercati degli operatori finanziari (che certamente, hanno un costo per le imprese, così come per il controllore pubblico), siano di beneficio non solo per le imprese, che possono indebitarsi, se il mercato ha fiducia nelle informazioni, ma anche per il paese, che compete meglio nell'appropriazione mondiale delle risorse. Pertanto, qualsiasi sforzo compiuto in tale direzione può essere giustificato.
Dalla sua analisi, presidente Sella, mi pare di capire (se così fosse, sarei completamente d'accordo con lei) che, al contrario, misure di regolamentazione che introducono, per esempio, divieti a collocare prodotti finanziari in Italia ovvero obblighi di garanzia su prodotti finanziari collocati in Italia, finiscano per recare danno al paese, alle imprese ed agli stessi risparmiatori. Danneggerebbero le imprese, perché le stesse, in presenza di tali divieti, avrebbero minori opportunità e perché crescerebbe il costo del loro indebitamento sul mercato; danneggerebbero i risparmiatori, perché sebbene questi ultimi (come lei ha sottolineato) abbiano spesso commesso errori, investendo direttamente su titoli (non ha senso investire solo in un singolo titolo a rischio), divieti che impediscano ai risparmiatori medesimi di investire in titoli rischiosi (o garanzie obbligatorie che, nella sostanza,


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produrrebbero lo stesso effetto) determinerebbero la perdita di importanti opportunità di guadagno.
Presidente Sella, lei, in conclusione, afferma che nell'attuale fase di passaggio in cui i risparmiatori italiani che detenevano, sostanzialmente, depositi bancari e titoli pubblici hanno accresciuto fortemente la quota di ricchezza finanziaria detenuta direttamente, in forma di titoli (non acquistati per il tramite di gestori professionali), vi è stato un difetto d'informazione.
Secondo me, come lei giustamente afferma, anche il settore pubblico avrebbe potuto porsi il problema di fornire maggiori informazioni. Le chiedo, presidente Sella: anche le banche italiane, in tale fase, avrebbero potuto compiere uno sforzo educativo nei confronti dei propri clienti? Mi sembra che l'ABI si sia impegnata a compiere tale sforzo, per indurre i propri associati a svolgere tale lavoro formativo nei confronti dei risparmiatori. Credo, tuttavia, che aiuterebbe il dibattito riconoscere che vi sono stati alcuni ritardi nel perfezionare tale funzione.

RICCARDO PEDRIZZI, Presidente della 6a Commissione permanente del Senato. Innanzitutto, ringrazio il presidente Sella per la sua esaustiva esposizione.
Concordo con l'analisi iniziale, riguardante la genesi di tali fattispecie criminali, in particolare quando afferma che, in tali vicende - così drammatiche - hanno concorso una serie di fattori. Vi sono stati, anzitutto, fattori di carattere penale; poi, controlli inefficaci ed, infine, una scarsa vigilanza.
Fin dall'inizio di tali vicende (per intuizione o per sensibilità, molto probabilmente), ho tentato di evitare la « caccia alle streghe » e l'alzata di polveroni. Con l'avanzare di questa indagine conoscitiva, condotta dalle quattro Commissioni riunite e con le varie audizioni che si stanno svolgendo mi confermo, sempre più, nella predetta consapevolezza. Se volessimo cercare tutti i responsabili di tali vicende, molto probabilmente, non riusciremmo ad individuarne i veri (sono pochi: non è il sistema bancario e neanche quello finanziario).
Riguardo a dette vicende (che sono patologiche), a mio parere dovremmo usare un criterio che viene molto spesso adottato ed è suggerito dalla dottrina sociale della Chiesa: la capacità di discernimento. Ossia, come affermava Pio XI, osservare, giudicare ed agire.
Attraverso la presente indagine, stiamo osservando le dinamiche. Dobbiamo, quindi, giudicare e, successivamente, agire sul piano legislativo.
Se si vuole evitare un clima da « caccia alle streghe », di giustizialismo giacobino (che si sta diffondendo nel paese), senatore Bonavita, bisogna evitare anche una difesa indiscriminata di tutto il sistema. Ad una posizione di indiscriminata accusa non si può contrapporre una posizione di indiscriminata difesa: dal presidente dell'ABI mi sarei aspettato non una difesa d'ufficio di tutto il sistema, ma l'indicazione e l'analisi delle dinamiche che hanno portato al caso Cirio e poi al caso Parmalat, per avere una parola chiara su chi fossero i responsabili e chi i danneggiati, anche se le proposte fatte per giungere a una soluzione soddisfacente sono in larga parte condivisibili.
Prendo atto con grande piacere che l'ABI è sulle posizioni del governatore della Banca d'Italia per quanto riguarda i rimborsi, soprattutto nei confronti dei piccoli risparmiatori.

SERGIO ROSSI. Non ha detto niente di tutto ciò!

RICCARDO PEDRIZZI, Presidente della 6a Commissione permanente del Senato. Ha detto proprio questo: se andate a rileggere i resoconti, troverete che il presidente Sella ha manifestato questa volontà.
Se si vuole evitare di compromettere l'immagine del sistema Italia sui mercati internazionali occorre iniziare a distinguere tra capitalismo buono e capitalismo cattivo, tra banche che svolgono il proprio mestiere con trasparenza e correttezza e banche che scaricano i loro problemi sugli ignari risparmiatori. Vi sono infatti istituti


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che privilegiano l'utile di esercizio, che pure è importante ed indispensabile, essendo la banca una impresa come tutte le altre, ed istituti che vogliono crescere contestualmente all'economia locale in cui sono fortemente radicati.
Arrivano già voci di restringimento di credito per le piccole e medie imprese o, quantomeno, di adozioni di criteri più rigorosi nell'allocazione delle risorse. Tutto ciò aggraverebbe ancor più la situazione e non contribuirebbe a rivalutare e rilanciare l'immagine di chi fa buon credito. Corrispondono al vero questi boatos?
I prestiti sono aumentati di 174 miliardi di euro negli ultimi anni, mentre nello stesso periodo i bond sono aumentati di 65,4 miliardi di euro. Parmalat e Cirio hanno visto gli stessi trend di aumento sia nel credito bancario che nel credito raccolto presso i risparmiatori? A me pare che in questi due casi non sia stato così.
Si può addebitare agli investitori «fai da te» la mancata consapevolezza di cosa si tratta quando si parla di bond? Il sistema bancario non avrebbe dovuto compiere un'opera pedagogica? Il presidente Sella ha descritto come avrebbe dovuto operare in maniera trasparente e corretta il sistema bancario: evitare di concentrarsi su un solo titolo, e mi pare che ciò non sia avvenuto in questi casi; diversificare il rischio, e mi pare che anche ciò non sia avvenuto; fare opera di acculturazione dei risparmiatori.
Ultima domanda: quanti istituti di credito hanno sedi collocate nei cosiddetti paradisi fiscali? È giusto che il nostro sistema creditizio abbia proprie filiali in questi paesi, anche alla luce di tutto quello che è avvenuto?

PRESIDENTE. Do ora la parola al presidente Sella affinché risponda a questo primo giro di domande.

MAURIZIO SELLA, Presidente dell'ABI. Rispondendo all'onorevole Armani ricordo che il mendacio bancario esisteva e, prima di essere abolito definitivamente, è stato contestato soltanto un numero esiguo di volte. I recenti avvenimenti ci inducono a pensare che se fosse reintrodotto potrebbe rappresentare un potenziale deterrente. Noi banche che non l'abbiamo avallato ora, bruciate dagli ultimi fatti, potremmo anche ritenerlo opportuno. Comunque non attribuirei al mendacio bancario un effetto così importante come si ritiene.
Sull'azione collettiva, in uso in particolare nei paesi anglosassoni, faccio presente che noi saremmo tra coloro che potrebbero essere assoggettati ad essa, pertanto è difficile avere da me un pieno ed istantaneo avallo. Certamente al di sopra di certe dimensioni, per evitare un eventuale utilizzo improprio dello strumento, potrebbe rappresentare anche essa un deterrente.
Rispondendo all'onorevole Sergio Rossi, vorrei sottolineare come vi sia la diffusa percezione che il prospetto informativo non è sufficiente e non viene compreso appieno in quanto vi sono clausole scritte in caratteri troppo piccoli, per cui lo sprovveduto le firmerebbe senza adeguata attenzione. Molte banche si sono già attrezzate e molte lo stanno facendo ora per scrivere in caratteri più grandi tutte le clausole in modo da mettere colui che firma in condizione, anche fisicamente, di rendersi conto di ciò che sta firmando, altrimenti, di fronte ad una aspettativa di rimborso, affermare di non essersi accorti di queste clausole può diventare una scelta opportunistica. Noi ci troviamo in mezzo al problema, credo che questioni di serietà ci inducano a predisporre le cose in maniera tale che nessuno possa più affermare di non averle lette perché troppo piccole o poco chiare. La strada del prospetto è però la via seguita in tutto il mondo, Europa compresa. Come sapete le obbligazioni bancarie non avevano obbligo di prospetto, ma ora una norma europea prevede che anche queste debbano avere un prospetto. Dire che un metodo che va bene per gli altri non va bene per l'Italia mi pare inadatto, dire invece che possiamo migliorare il prospetto in modo da evidenziare i punti di debolezza mi sembra una strada più percorribile.


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Ho affrontato la questione delle sofferenze anche in altre audizioni. Da un punto di vista generale sostengo la salute del sistema bancario nel suo complesso, perché le sofferenze nette sono obbiettivamente scese dal 6 al 2 per cento negli ultimi nove anni. Occorre tenere conto che negli altri paesi per farle scendere è stata applicata una norma assente in Italia. In sostanza le banche italiane non potevano cedere le sofferenze cartolarizzandole e fiscalmente dovevamo tenerle nei libri di bilancio fino alla scadenza. Successivamente, anche il nostro ordinamento ha recepito questa norma, presente già da venti anni negli altri principali paesi industrializzati, e rapidamente è stata utilizzata facendo scendere le sofferenze. Certamente le sofferenze cresceranno nei primi mesi del 2004 perché la congiuntura non va nel migliore dei modi e perché si sono aggiunti questi casi clamorosi. È normale che nei periodi di congiuntura negativa le sofferenze risalgano. Tuttavia, mi pare di potere affermare che la risalita non è patologica in quanto ci troviamo a livelli perfettamente sopportabili.
Vorrei fosse chiara l'insussistenza di contraddizioni in tali aspetti; ribadisco che non vi è dato alcuno che possa dimostrare che le banche italiane non stiano erogando il credito sufficiente.
Vengo alla questione posta dal senatore Pedrizzi circa l'ipotesi della concessione di minore credito alle piccole imprese; al riguardo, non troverete alcuna conferma, sia che consideriate i dati nella loro complessità sia che, invece, li consideriate frazionati tra piccoli, medi, e grandi fidi o, ancora, tra fidi a breve e a medio-lungo termine. Cos'altro può fare il presidente dell'ABI oltre a rappresentarvi i dati? Perlomeno fino ad oggi, non sussiste una preoccupazione in tal senso; anzi, ho il piacere di dirvi che, negli ultimi due o tre anni - quindi, quando la moneta in corso era l'euro -, abbiamo registrato una crescita dei nostri impieghi del 2 o 3 per cento in più rispetto alla media europea. Infatti, abbiamo raggiunto il 101 per cento, a fronte di una media europea dell'80 per cento. Ciò è stato possibile in quanto stiamo continuando ad erogare più credito e, dato che i risparmi non crescono altrettanto, ci indebitiamo sull'estero, come vi ho testé descritto.
Onorevole Grandi, la sua è la domanda chiave, cui devo rispondere - con assoluto garbo, come merita la sede parlamentare, ma con altrettanta fermezza - che le banche italiane non sapevano. Siamo stati raggiunti dall'improvvisa notizia - giuntaci il 9 dicembre, quando Standard & Poor's ha abbassato il rating - di una crisi assolutamente inaspettata. Si era diffusa una certa voce, a marzo del 2003, di difficoltà di emissione di un prestito; difficoltà poi smentite da Standard & Poor's alla fine del mese. Quindi, veramente non abbiamo avuto alcuna possibilità di capire quanto stava avvenendo; vorrei anche aggiungere che ci siamo trovati dinanzi ad una evenienza mai verificatasi dianzi. Personalmente, infatti, di imprenditori che, alla fine di un'attività lavorativa sana, nel timore di un fallimento - e nella speranza, quindi, di salvarsi da tale pericolo - compiano qualche atto non corretto, credo ne esistano; è umano e comprensibile. Ma, francamente, un imprenditore che si adagiasse su una situazione di questo genere per 12 anni, non mi era mai stato dato di scorgerlo. Non immagino il suo animo, la mattina, quando si alzava, se è vero - come mi pare di apprendere dalla stampa - che la situazione si trascinava da così tanto tempo.
Debbo ribadire - l'ho ricordato poc'anzi - che una banca non può analizzare la veridicità di un bilancio o verificare se il documento sia falso: non lo permettono la legge, la prassi, i costi. Vorrei, inoltre, far notare come, con una piccola azienda, una medio-piccola azienda italiana, forse, ciò si potrebbe anche fare; ma come può una banca controllare un insieme di società che operano in tutto il mondo, tutte interconnesse, tutte fuori della disponibilità italiana? In tale ambito, sono appunto i revisori ed i certificatori ad essere nelle condizioni di controllare i documenti. Se le banche dovessero erogare credito alle multinazionali adottando come metodo la verifica sul


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posto - quanto ci avrebbe permesso di sapere -, ebbene, esse non concederebbero più tali crediti per l'impossibilità di sopportarne i costi. Dovrebbero, infatti, avere personale in tutto il mondo per compiere verifiche impresa per impresa.
Inoltre, va anche aggiunto come, straordinariamente, il falso fosse sull'attivo, non sul passivo; di solito, è sempre sul passivo in quanto vengono diminuiti i debiti. Invece, nel caso di specie, erano le attività ad essere sopravalutate. A tale riguardo, voglio segnalare una peculiarità dei paesi anglosassoni, non ancora recepita nel nostro paese; quando il finanziamento avviene via bond, e non via credito bancario, cambia il bilancio dell'impresa. Via credito bancario - è il sistema tipico in Italia -, la banca dà un'apertura di credito e meno la si usa, meno costa. Quindi, l'impresa - anche la grandissima - cerca di utilizzare quel credito al minimo possibile; se poi vi è anche la commissione di massimo scoperto, si è ancora più attenti. Infatti, l'impresa riduce i costi, sapendo che, se ha bisogno, lo spazio tra quanto utilizzato e quanto accordato è il suo polmone; invece, quando, nei paesi anglosassoni, ci si finanzia via corporate bond, il rimborso si effettua per intero ad una certa data, sicché, prima, non si può sapere se, a quella data, vi saranno le risorse necessarie. Non si sa se il mercato permetterà di rinnovarlo, il che rappresenta uno dei modi (invero, quello normale) di pagare il corporate bond; dunque, le imprese che operano su quei mercati hanno una finanza del tutto diversa dalla nostra. La nostra, solo debiti, ed il minimo possibile; là, più debiti e più attivo in quanto l'attivo serve per rimborsare - dopo 6, 12 o 18 mesi - i bond che vengono in scadenza. Così sono fatti quei bilanci; dunque, quest'azienda multinazionale italiana (piccola ma multinazionale) tendeva a gestire in tale maniera il suo bilancio anche per gli acquisti.
Ribadisco come non era scopribile la reale situazione; con noi, sono per così dire caduti nell'inganno i gotha delle grandi banche internazionali. Mi riferisco al meglio delle banche di investimento, a quanto ci viene sempre additato come modello asserendo che noi non saremmo capaci di fare gli investment bencher come avviene in America o in Inghilterra. Però, gli investment bencher, salvo uno, sono tutti caduti vittime dell'inganno; infatti, l'80 per cento dei corporate bond emesso dalla Parmalat e dalle sue consorelle sono stati emessi con l'apporto, l'aiuto ed il sostegno delle principali banche straniere. Le banche italiane hanno appoggiato l'operazione solo per il 20 per cento. La società era quotata a Milano; certamente, ma era quotata anche a Francoforte. Quindi, aveva potuto superare tutti i limiti e le regole vigenti a Francoforte. Era quotata sul mercato telematico di Londra dove operavano tutte le regole del mercato inglese; ha superato anche quelle. Possibile che solo noi saremmo stati incapaci di appurare la verità mentre tutti gli altri no?
Si trattava, poi, di un bilancio certificato, senza dubbio, dai migliori certificatori; inoltre, tutti i bilanci delle consociate erano certificati Il metodo prima descrittovi, in base al quale il certificatore opera da solo garantendo tutti i creditori, banche comprese, riduce i costi; è il metodo che si è dato il mondo capitalistico occidentale nell'impossibilità di ottenere che qualunque creditore vada lui ad effettuare la certificazione e la ricerca dei dati falsi. Poi, che le situazioni si possano migliorare, non vi è alcun dubbio.
Dunque, in sintesi, nel rispondere su tale questione ho impiegato un minimo di energia e ne chiedo scusa; ma l'ho fatto per difendere la nostra posizione e per spiegare come l'inconsapevolezza - il fatto di essercene accorti tutti troppo tardi, a dicembre - testimonia della verità dell'inganno. Le nostre proposte sono finalizzate a ciò, che l'origine dei dati aziendali venga validata in altro modo e non «escano» più dati aziendali sbagliati. Il problema infatti risiede proprio nell'origine dei dati; in Italia, l'attenzione è molto concentrata su chi controlla quei dati ma, a nostro avviso, è di maggiore momento concentrarsi su chi li produce. Quindi, il consiglio di amministrazione, il direttore amministrativo,


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i sindaci ed il comitato di audit; è da tali ambiti che devono venire dati corretti. Se sbagliati in origine, a qualunque controllore potranno sfuggire: la basso del nostro agire dovrebbe essere la giustezza del dato, atteso che esso possiede quell'importanza da essere considerato da noi bene pubblico.
Onorevole Grandi, circa il risparmio ed il fatto che esso costituisca un valore difeso dalla Costituzione - valore che le banche considerano importantissimo -, il nostro giudizio sui fatti successi è severo, preoccupato, attento; mai avremmo voluto che ciò fosse successo: non è un giudizio di sottovalutazione. Certamente, bisogna stare attenti che l'overshooting non porti - abbiamo usato anche qualche termine un po' forte; ne uso ancora un altro - ad «uccidere» il mercato dei corporate bond, atteso quanto essi rappresentano come base per il finanziamento delle imprese.
Quanto ai 100 mila risparmiatori - si dice siano ottantamila: vedremo, poi, quanti siano effettivamente -, a tale proposito deve valere la serietà della preoccupazione e della responsabilità che ci diamo. Fino ad oggi, abbiamo risposto caso per caso; avevamo già risposto così con una delibera del comitato esecutivo del 15 ottobre dell'anno scorso, quando il caso Parmalat ancora non era scoppiato. Caso comunque diverso da quello Cirio, per i motivi che spiegherò. Nel «caso per caso» si prevede che ogni banca, in relazione alla propria situazione, decida il proprio comportamento; ebbene, citerei, al riguardo, alcuni casi estremi avvertendo come, in mezzo, vi siano tante altre possibilità. Alcune banche hanno semplicemente comperato sul mercato quanto i clienti volevano; le succursali di altre, inoltre, avendo circa duemila clienti, hanno venduto i bond Parmalat o quelli Cirio ad uno solo dei duemila. Ebbene, nessuno mi convincerà mai che l'accusa di aver fatto politica di vendita sia, in tali casi, un'accusa veritiera; infatti, una politica di vendita in cui un normale capo di succursale vende, con duemila clienti, un solo prodotto è il maggiore disastro che abbia mai visto; minimo, dovrebbe venderne cento o duecento.
La maggioranza delle filiali italiane ha venduto ad un suo cliente su duemila. Duemila è la media (anche se poi qualcuna ne ha 4.000, altre mille) e questa è la situazione.
Certamente, ci dispiace molto di non essere riusciti a spiegare sufficientemente al cliente la situazione o di non essere riusciti a convincerlo dopo che, avendo apposto la sua firma come se avesse capito, in realtà non aveva capito affatto. Tuttavia, questa è la situazione del «caso per caso». Quella è una banca che ha svolto funzioni di puro broker: ha comprato sul mercato e ha venduto.
L'altra banca, invece, era creditrice, ha partecipato a consorzi di collocamento, ha avuto problemi di contrasto di interesse creati dai «muri cinesi» (che oggi dettano il nostro comportamento e le regole) che si cerca, per l'appunto, di regolare al meglio al fine di evitare errori.
Allora, il «caso per caso» vuole dire che, nell'ipotesi in cui un risparmiatore abbia comperato diecimila euro di un bond a rischio (per esempio, Cirio o Parmalat) e lo abbia fatto con i risparmi di tutta una vita, pur avendo firmato a comprensione delle regole (e non essendo quindi, da un punto di vista giuridico formale, più in condizioni di «attaccare» la banca), ebbene, secondo me, la maggior parte delle banche (o, perlomeno, molte di esse, anche se adesso, ufficialmente, sono in numero ancora limitato) andrà incontro ad una simile situazione. Comunque, non si può dire che sia stata valutata a fondo la situazione del risparmiatore.
Se, invece, pensate ad un risparmiatore che possiede 25 mila euro (che è stato magari consigliato ma che ha seguito una sua propensione) e che ha investito mille euro (sembra un piccolo risparmio rispetto a venticinquemila ma, in realtà, non lo è) allora si comprende il ragionamento fatto dal risparmiatore. Egli desiderava investire una piccola quota in un titolo a maggior rischio perché questo gli avrebbe dato quel po' di rendimento in più. Se le


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cose fossero andate bene, egli avrebbe percepito un maggiore rendimento. Le cose, però, non sono andate bene.
Questo è un caso di quelli in cui il «caso per caso» giocherebbe? Secondo il mio modesto avviso, in questo esempio, il «caso per caso» non giocherebbe affatto, così come non gioca in tutti quei casi in cui il risparmiatore ha comprato le obbligazioni attraverso operazioni di trading on line.
A tale proposito, ci sono molto poche proteste. Infatti, attraverso il trading on line è il risparmiatore che ha comprato le obbligazioni sul mercato, che le ha vendute e magari ricomprate, così come ha fatto inizialmente, soprattutto per le azioni (poi ha cominciato a farlo anche per le obbligazioni). Quindi, in estrema sintesi, se il profilo di adeguatezza non era giusto, se tutto ciò non è stato ben valutato, ritengo che molte banche opereranno per fare il «caso per caso».
Certamente, non sono in condizione di dare risposta a quelle istanze di interventi, per così dire, più ampi (né ritengo di doverlo essere da un punto di vista anche eticamente) perché il «caso per caso», a seconda della banca, a seconda dell'emittente, a seconda del risparmiatore sarà valutato, per l'appunto, nei modi già detti.
Permettetemi, ora, di aggiungere ancora qualche osservazione. Il «caso per caso» dell'emittente Cirio è diverso dal «caso per caso» dell'emittente Parmalat. Con Cirio si aveva una società che se era quotata (ma solo a Milano) lo era senza rating (mancava la quotazione in più borse e lo straordinario insieme di certificatori e di valutatori presenti, invece, per Parmalat). Quindi, Parmalat, sotto molti punti di vista, costituisce un esempio in cui il «caso per caso» non può giocare che in misura estremamente modesta. Diverso è il caso Cirio.
Spero di essere stato adeguatamente esaustivo nello spiegare le nostre ragioni.
Passo ora a rispondere a qualche altra domanda, come quella posta dal senatore D'Amico, riguardante l'informazione e la Consob nella tutela del bene pubblico. Certamente riteniamo che la Consob debba essere rafforzata. Dalle nostre risposte ciò risulta chiaramente.
Per quanto riguarda, invece, la struttura dei vigilanti, essendo io un «vigilato», sento particolari problemi, per così dire, di eleganza a parlarne. Tuttavia, oltre a ripetere che la Consob va rafforzata, mi permetta di aggiungere che, in particolare per quanto riguarda il CICR, l'esame dei poteri di quest'ultimo, secondo il prossimo disegno di legge, dovrà essere esaminato ulteriormente.
Inoltre, l'articolo 12, il quale prevede che la raccolta diretta delle banche finirà per andare non sotto la Banca d'Italia ma sotto l'Authority (parlo di raccolta diretta), mi dà la misura di un segno di cambiamento che è forse assai grande.
Per quanto riguarda la questione relativa alle regole migliori, certamente, queste devono costituire uno dei vantaggi per il paese. Volete volgere in opportunità questa triste vicenda? Apprezzate, allora, la discussione molto civile che sta avvenendo (anche questa sera), apprezzate il fatto che l'obiettivo di questa discussione sia quello di avere più informazione per legiferare meglio. La legge migliore ci permetterà di contare su norme migliori, che ci permetteranno di competere meglio con gli altri paesi. Infatti, la nostra immagine, come sistema paese (e quindi come sbocco di possibilità per il risparmio che dovrebbe venire), certamente danneggiata dai casi di cui parliamo, verrà migliorata dall'assunzione di regole buone, efficaci e che siano, ovviamente, fatte rispettare.
Per quanto riguarda invece gli obblighi di garanzia, che fossero previsti per le emissioni, permettetemi di esprimere qualche perplessità. Capisco che un'emissione abbia una garanzia (bancaria, per esempio). Essa permette di avere un prezzo basso e un costo molto migliore ma non immaginatevi - perlomeno, io non immagino - che tutti o molti corporate bond possano essere garantiti dalle banche, perché è chiaro che la banca, a quel punto, non ha convenienza, per una piccola operazione di garanzia, a prendersi lo stesso rischio che, invece, correrebbe erogando


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un credito (avendo, nell'erogazione di tale credito, un margine molto maggiore).
Infatti, i titoli garantiti esistono anche all'estero, ma sono eccezioni. Non esistono i corporate bond strutturalmente garantiti, proprio perché si è riusciti a far pervenire al risparmiatore il concetto e la sensazione di quanto grande sia il rischio che egli corre e quest'ultimo lo ha autopercepito, lo ha capito e lo accetta.
Di recente, domandavo al direttore dell'associazione bancaria inglese come fossero stati accolti in Inghilterra la metà dei default di quei 65 miliardi di euro (negli anni, metà sono stati inglesi). Il risparmiatore inglese (anche se l'SFA riferisce che molti non sono ancora perfettamente informati) ha accettato, in maniera molto migliore dei nostri risparmiatori, la perdita perché, evidentemente, la cultura media era tale per cui egli sapeva cosa aspettarsi, molto meglio che da noi, dove il nostro risparmiatore, avendo comprato in precedenza solo titoli di Stato o obbligazioni bancarie, si era dimenticato del rischio che potevano avere le corporate bond (posto che le banche non fallivano, né era caduto in disgrazia lo Stato!).
Quando però sono state comprate obbligazioni argentine e lo Stato argentino è poi fallito, ecco che la percezione del rischio (di uno Stato che certamente non vantava un rating alto come quello dell'Italia o di altri paesi) è stata chiara.
Alla domanda sollevata dal presidente Pedrizzi sulla restrizione del credito, direi che ho risposto. Per quanto riguarda i prestiti, invece, non ricordo a memoria i dati relativi a Cirio e Parmalat, ma posso fornirveli in un secondo momento.
A proposito delle considerazioni sul sistema bancario e del fatto che quest'ultimo potesse fare di più nella diffusione della cultura del rischio (e della percezione di questo), su questo punto, ritengo che certamente il sistema bancario poteva fare di più. Ciò è evidente dai fatti, perché se avessimo fatto di più, non sarebbe forse avvenuto ciò che è stato e staremmo, forse, come in Inghilterra (e la percezione sarebbe stata migliore). Una cosa, infatti, è spiegare a colui che viene presso lo sportello quanto accade, altra cosa è riuscire ad ottenere che ciò venga percepito al giusto livello quando non si è mai provata prima l'esperienza di perdere presso il proprio istituto di credito.
Per quanto riguarda la Parmalat, gli accertamenti sull'effettivo indebitamento di tale società sono in corso, per cui la mia indicazione di tipo generale - che confermo - è che le sofferenze non cambiano. Sui dati precisi, poi vedremo. I dati ufficiali indicano una cifra fra i 3,1 e i 3, 8 miliardi di euro di credito da parte delle banche italiane.
Le emissioni di bond dal 1997 sono state pari a 7 miliardi di euro, però i crediti delle banche non si sono ridotti nel tempo e quindi quei bond sono stati utilizzati non per rimborsare le banche ma per compiere altri investimenti.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola al secondo gruppo di colleghi che intendono intervenire, voglio invitare tutti ad essere più concisi anche in considerazione dei contenuti della relazione del presidente Sella che ha già fornito ampie risposte.

GIOVANNI DIDONÈ. Sono d'accordo con chi sostiene che non si debba fare del terrorismo; è necessario però che dal nostro lavoro emergano nuove possibilità, che si dia vita ad un nuovo rapporto con i risparmiatori.
Da questa serie di audizioni non emerge un quadro molto incoraggiante per il breve periodo. Mi auguro che i provvedimenti che assumeremo siano in linea con questo quadro e forniscano dei risultati adeguati. Sembra però che nessuno sia responsabile, nessuno è riuscito a comprendere la situazione e anche il presidente Sella ci ha confermato che si sono accorti di quanto stava accadendo a dicembre, quando i «buoi erano già scappati». Ciò non è confortante per chi ci ha rimesso: si tratti o meno di 80 mila risparmiatori, a mio avviso sono comunque molti.


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Sul tema del prospetto informativo, vorrei ricordare che tutti gli allegati necessari quando si realizza una pratica di questo genere vengono considerati come carte inutili per le quali si deve raccogliere una firma, ma alle quali non si dà la dovuta importanza. Per il futuro ben vengano, quindi, quei suggerimenti forniti da lei e da altri nostri interlocutori; dobbiamo però avere un diverso riguardo anche per la normativa esistente e far sì che i colleghi che lavorano nelle filiali delle banche diano il giusto peso a questa documentazione, perché non si tratta di una perdita di tempo ma serve per fornire le dovute garanzie ai sottoscrittori, soprattutto ai meno avveduti, quali ad esempio quelli che fino ad ora hanno investito esclusivamente nei titoli di Stato.
Per venire al caso Parmalat, considero molto strane le affermazioni del nuovo presidente di una banca di Parma che ha affermato che il suo istituto sta attraversando un ottimo periodo, che il loro risultato operativo è in crescita (anzi è il migliore degli ultimi anni) ma soprattutto che, nonostante quella banca avesse rapporti con la Parmalat, non aveva nel portafoglio nessuno di quei bond. Come banchieri in gamba avrebbero dovuto fornire le necessarie informazioni ai clienti, a meno che non operassero direttamente con operazioni sui titoli.
Infine, volevo portare a conoscenza sua e dei colleghi (anche per invitarli a sottoscriverla), che il gruppo della Lega Nord ha presentato una proposta di legge articolata che prevede un ristoro per i bond argentini.

VINCENZO VISCO. Presidente Sella, ho apprezzato alcuni contenuti della sua relazione, in particolare le proposte per il futuro. È abbastanza chiaro, però, che ci stiamo occupando di un caso riguardante il passato.
Lei ha ricordato come dovrebbe funzionare la vigilanza oggi. Ho qui con me l'articolo 6 del Testo unico sull'intermediazione finanziaria che al secondo comma prevede che la Consob, tenuto conto delle differenti esigenze di tutela degli investitori, «disciplina le procedure, anche di controllo interno, relative ai servizi prestati, e la tenuta delle evidenze... il comportamento da osservare nei rapporti con gli investitori, anche tenuto conto dell'esigenza di ridurre al minimo i conflitti di interessi... gli obblighi informativi nella prestazione dei servizi».
All'articolo 21, riguardante gli intermediari, si stabilisce che nella prestazione di servizi di investimento i soggetti abilitati debbono comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nell'interesse dei clienti; acquisire le informazioni necessarie dai clienti ed operare in modo che siano adeguatamente informati; organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e comunque agire in modo da assicurare ai clienti trasparenza ed equo trattamento; disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee, eccetera; svolgere una gestione indipendente sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati. Vi è poi l'articolo 29 del regolamento degli intermediari che tra le altre cose parla di adeguatezza delle operazioni.
Le norme, in teoria, esistevano (provvederemo ora ad integrarle): lei è sicuro che tutte le sue associate abbiano messo in opera procedure, controlli interni, criteri di gestione e professionalità per attuare le disposizioni poc'anzi elencate? È questo a mio avviso l'elemento centrale. Sono emersi due vuoti, uno addirittura globale, relativo anche alla corporate governance, l'altro specificamente italiano, riguardante il rapporto tra venditore al dettaglio ed acquirente al dettaglio.
La vostra associazione ha compiuto un'ottima scelta con l'approvazione (sia pure con qualche mugugno) del codice ABI. Però tali previsioni dovevano essere già in vigore e su questo le chiederei cortesemente un chiarimento, anche differenziando tra banca e banca: risulta infatti che alcuni istituti bancari abbiano fatto più progressi rispetto ad altri.
Lei poi ha affermato (e credo sia abbastanza giusto) che concedete il credito in base alla fiducia; quindi acquisite la documentazione,


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verificate l'esistenza del rating, delle certificazioni, ma poi esplodono questi casi e voi non potete farci nulla. Normalmente vi fate fornire delle garanzie reali, almeno dalle piccole ma forse anche dalle grandi imprese. Secondo lei, nel caso Parmalat, la liquidità scomparsa non può essere stata a fronte di una garanzia che in passato è stata poi escussa, realizzata?
Ma se i meccanismi sono questi, allora non siamo forse di fronte ad una crisi vera e propria del sistema per cui non bastano neanche misure come il Sarbanes-Oxley Act? Nel caso in oggetto è saltato il sistema di gestione interna, di vigilanza interna, di certificazione esterna, di rating, gli analisti finanziari sono in conflitto di interesse. Sono emerse situazioni micidiali: i manager negli Stati Uniti tiravano su i titoli (si pensi alle stock options), da noi magari facevano questi impicci per costituirsi capitali all'estero e stare tranquilli.
Ho l'impressione che ci sia bisogno di una riflessione maggiore. È chiaro che è illusorio pensare di risolvere un problema del genere a livello nazionale, ma ritengo che sia necessario un dibattito nel vostro mondo su tale aspetto. Non ci sono muraglie cinesi che tengano. L'impressione è che ci sono delle pressioni perché la gente è pagata a commissione, le banche hanno titoli da piazzare, eccetera. Questa commistione è gestibile, oppure dovremmo attrezzarci a livello mondiale per affrontare tale problema?
L'ultima domanda è la seguente: quali effetti ci sono stati sul mercato per quanto riguarda i corporate bond italiani quotati dopo questi avvenimenti? Noi fortunatamente non abbiamo avuto fortissime ripercussioni sui titoli pubblici, ma mi chiedo cosa è successo a quelli quotati in borsa.

MAURIZIO EUFEMI. La sua relazione, presidente, certamente offre spunti e proposte molto interessanti, che ho apprezzato. Lei si è soffermato, in particolare, sul problema della qualità dell'informazione. Ho trovato molto interessante questo aspetto, perché esiste questa necessità soprattutto in un mercato finanziario trasparente. Ciò è confermato anche dalla tabella allegata alla sua relazione, nella quale sono registrati per il 2002 i default europei nella misura di 28 con rating - questo è l'aspetto interessante - e appena quattro senza rating. Nella sola gran Bretagna, che dovrebbe essere il mercato più efficiente e trasparente, il volume di default è stato di 28 mila miliardi su un totale di 42 mila miliardi.
Condivido la sua preoccupazione rispetto al rischio di demonizzazione dei corporate bond per il significato che assumono nel sistema e nel processo di sviluppo del paese. Tuttavia, oggi abbiamo alcuni problemi: in particolare, rafforzare i controlli e tutelare i risparmiatori e i piccoli azionisti, che sono l'anello debole del sistema. Rispetto a questo, come valuta le sollecitazioni a garantire la presenza di piccoli azionisti non nella gestione e quindi nei consigli di amministrazione, ma nei collegi sindacali, per esempio, come strumento di controllo da parte dei piccoli azionisti?
In secondo luogo, abbiamo la necessità che tutti, in questa fase, facciano la loro parte per non rompere quel clima di fiducia che riteniamo indispensabile. Quindi, anche l'ABI è chiamata a fare la sua. Allora, vorrei porre alcune questioni: per esempio, la revisione dei meccanismi che determinavano la premialità per i dipendenti interni alle aziende bancarie, che possono avere condizionato in peggio il caso Parmalat; se state valutando un ripensamento del codice etico, fatta salva la libertà dei singoli istituti di credito; se avete preso iniziative interne per valutare, al di là delle indagini da parte della magistratura, eventuali comportamenti di singoli istituti.
Lo dico con una certa amarezza: abbiamo visto un'azienda bancaria che si è dimostrata disponibile a rivedere il problema dei rimborsi, escludendo però da questi i dipendenti e i pensionati della stessa banca, perché riteneva, per esempio, il bond Cirio ad elevata rischiosità.


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Infine, vorrei sapere concretamente come l'ABI agirà, e con quale moral suasion, verso gli istituti di credito in favore dei risparmiatori truffati.

MARIO LETTIERI. Ringrazio il presidente Sella, anche se con amarezza devo dire che non posso associarmi al coro più o meno positivo che è stato fatto rispetto alla sua relazione.
Certamente condivido i rimedi che sono stati proposti per il futuro, che senza presunzione coincidono in gran parte con le proposte avanzate già da molto tempo anche dall'opposizione. Alludo alle proposte di legge relative agli analisti finanziari, al falso in bilancio, eccetera. Tutto ciò sicuramente mi fa piacere, ma avrei gradito sapere qualcosa di più sull'intero sistema. Qui è saltato tutto il sistema interno ed esterno dei controlli, che ha fatto acqua da tutte le parti.
Il mio sconcerto personale deriva dal fatto che abbiamo ascoltato il Governatore della Banca d'Italia, il presidente della Consob, il presidente dell'Autorità antitrust e il presidente della società di rating interessata alla vicenda Parmalat ed ora stiamo ascoltando anche lei: sembra che non ci siano responsabili, salvo i risparmiatori. Può essere vero?
Devo dire con franchezza che questo dato è inaccettabile e ne dobbiamo tenere conto. Al limite, potrebbe anche essere vero, ma il sentire comune di questo paese è tale che ci porta a dire che ci sono delle responsabilità e quelle più dirette, a mio avviso, sono del sistema bancario, del quale lei non ha parlato affatto, indicandone sostanzialmente solo i meccanismi.
Scusi la frammentarietà del mio intervento, ma ricordo - non so se il presidente La Malfa lo può testimoniare - che nel 1994 la Guardia di finanza aveva già accertato fatture false della Parmalat. Mi chiedo se è possibile che l'accertamento operato dalla Guardia di finanza, che costituisce una parte dello Stato, non sia circolato. Eppure, le banche hanno i loro sensori prima di fare credito e lo sanno bene le famiglie, i piccoli artigiani e i commercianti che chiedono un prestito: le banche sono attente. Solo in questo caso non hanno avuto né orecchie per udire né occhi per vedere. Mi scusi il linguaggio forse troppo rozzo, ma sono aspetti che devo sottolineare.
In pratica, ognuno afferma di essersi limitato a verificare i numeri dei bilanci. Ieri, la presidente della società di rating ci ha detto che le informazioni le vengono fornite dalla stessa società. È come se una persona chiedesse all'oste se il vino che vende è buono. Ognuno ha creduto davvero che quel vino venduto sul mercato fosse buono! Ci hanno creduto la Banca d'Italia, la Consob e l'ABI.
Leggo nella sua relazione: nella relazione annuale del giungo 2002 ho annunciato che il sistema bancario era impegnato in un percorso diretto a dare ai clienti maggiore conoscenza dei rischi. A tal fine, bisogna conoscere la solidità e i veri bilanci delle società di cui si vanno a collocare i bond. Mi pare che questo non sia accaduto né nel caso della Parmalat, né in quello della Cirio e neanche nel caso della Banca 121, che sta esplodendo anche a livello giudiziario.
Mi sia consentita un'autocitazione. Il 17 novembre, senza essere un addetto ai lavori, parlando in Assemblea sul decreto n. 269, come risulta dagli atti ufficiali, riferendomi al caso Cirio dissi: «Speriamo che non accada anche per la Parmalat». Era il 17 novembre! Qualche notizia già circolava, evidentemente, perché la potessi citare io, che sono un profano e non uno del settore. Invece, le banche hanno emesso bond fino al giorno prima che esplodesse il caso. Stiamo scherzando davvero!
C'è qualche responsabilità derivante da una consapevolezza, o da una inconsapevolezza, ma secondo me è comunque grave, perché le più grandi banche italiane, di cui lei è rappresentante, detengono il 51 per cento del totale dell'attivo bancario (Capitalia, eccetera). Loro si sono arricchite, però, detenendo il 52 per cento dell'attivo, mentre oltre centomila risparmiatori si sono impoveriti, truffati con la consapevole complicità, o meno, di questi gruppi bancari. Lo devo dire con grande


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franchezza, ritenendo che questo sia anche il giudizio complessivo del popolo italiano.

NERIO NESI. Mi rendo conto che ricoprire l'incarico di presidenza dell'ABI costituisce uno dei compiti più difficili, non solo in questo momento ma sempre, dovendo tener conto di interessi diversissimi, quelli delle grandi istituzioni bancarie, delle piccole casse di risparmio e delle banche popolari. Ritengo un fatto positivo per il sistema bancario che sia lei a presiedere l'Associazione.
Dopo aver letto con straordinario interesse la sua relazione, mi permetto di svolgere tre rapide osservazioni. La prima è la più amara: mi riferisco a quel senso di impotenza del sistema bancario di fronte a frodi, falsi di bilancio, manipolazioni delle documentazioni contabili, ciò che si traduce in truffe, furti, reati. Tali deduzioni, come dicevano anche gli altri colleghi, sono il risultato non solo del suo intervento ma anche di tutte le audizioni svolte in questi giorni.
Il fenomeno pone il Parlamento di fronte alle sue responsabilità future, e all'esigenza di approvare una legge estremamente restrittiva in materia. Dinanzi a eventi di così straordinaria gravità, infatti, le contromisure che verranno adottate a livello parlamentare, partendo dall'esame del disegno di legge del Governo, non potranno che essere molto restrittive. Le chiedo: sarà positivo per il sistema?
La seconda questione, invece, riguarda un nodo di cui lei e tutti gli auditi precedentemente sentiti dagli organi competenti di Camera e Senato avete parlato, ma che pure è rimasto tuttora irrisolto (non so se abbia trovato soluzione nell'ambito del disegno di legge governativo che non ho ancora avuto modo di esaminare). Mi riferisco ai paradisi fiscali.
Ammettere la possibilità di utilizzare dei paesi quasi inesistenti sulla carta per compiere operazioni che nel nostro paese non potrebbero essere eseguite tocca l'etica della politica bancaria e della politica estera italiana. E questo turba certamente l'opinione pubblica. Mi domando se la libertà di fare ciò che si vuole al di fuori delle leggi italiane non sia frutto di una certa ubriacatura di «finanziarizzazione», presente nel nostro paese probabilmente più che in altri, in Europa. Il principio in base a cui sembra ammissibile liberarsi di lacci e lacciuoli per fare ciò che più ci aggrada perché in questo modo porteremo comunque avanti il sistema economico nazionale, commettendo, forse, dei reati, ma lo porteremo avanti, esprime certamente un'idea. È una linea generale che esiste, e non è nata soltanto due anni e mezzo fa ma molto prima.
Da questo deriva poi la mia ultima osservazione. Lei ha detto una cosa molto importante nella sua relazione, che ho letto con una certa meraviglia e preoccupazione. Lei dice: non demonizziamo i corporate bond, per carità, perché, se lo facessimo, il sistema bancario italiano non avrebbe la capacità di ampliare il credito alle aziende. L'affermazione è seria, perché lei è persona seria, e introduce un problema che mi è stato sempre molto a cuore: tale posizione dipende dal fatto che il sistema bancario italiano non è in grado di sostenere lo sviluppo economico del paese? Per questo il sistema è costretto ad ammettere che bond, emessi anche in quelle parti del mondo prima denunciate, sono necessari? Perché se così fosse, allora, dobbiamo chiederci di fare un'analisi della dimensione del sistema bancario italiano.
Ritengo che questo sia uno dei grandi problemi che lei nella sua qualità di presidente dell'Associazione bancaria dovrà affrontare. Le nostre maggiori banche sono in grado di sostenere la concorrenza mondiale? Sono in grado di avere una capacità di raccolta in tutto il mondo, esse stesse, tale da far fronte alla necessità del sistema bancario italiano?

PRESIDENTE. Ringrazio i colleghi per i loro interventi e do la parola al presidente Sella per le risposte.

MAURIZIO SELLA, Presidente dell'ABI. Innanzitutto, vorrei dire quanto segue: abbiamo nominato poco i 300 mila bancari,


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e di essi, in particolar modo, quelli di loro - circa 120.000 - addetti agli sportelli, che hanno venduto i bond.
Il funzionario o impiegato bancario non è felice, anzi, dal punto di vista della propria attitudine, è veramente dispiaciuto di quello che è occorso. Il dispiacere responsabile delle banche è unito a quello della clientela. Quel funzionario, infatti, vede tutti i giorni il cliente che ha perso i propri risparmi e che tornerà nuovamente presso lo sportello dell'istituto per nuove operazioni, salvo sia così adirato e deluso da cambiare banca (ma questo è un caso estremo). Quei bancari non li abbiamo mai nominati. Ma il tasso di formazione, la quantità di ore - milioni - dedicati alla formazione di costoro sono consistenti. Quando, infatti, diciamo di illustrare ai clienti i rischi, dobbiamo tener conto che sono persone, ovvero i dipendenti delle banche, i soggetti chiamati ad illustrare a i clienti i rischi dell'investimento. Anche il nostro personale ha dovuto uscire dal mondo dei comodi titoli di Stato o delle obbligazioni bancarie, e spostarsi in un mondo più complesso.
Evidentemente, abbiamo fatto tutto il possibile. Chiaramente, quando si riscontra un punto di debolezza, si deve pure ammettere che il risultato non è stato perfetto. Sarebbe stato auspicabile un risultato migliore sia per i clienti sia per coloro dei nostri che debbono informare sui rischi di investimento. In ogni caso, rendo noto il nostro attuale impegno in un numero di attività veramente incredibili, anche di sistema - è l'ABI stessa che tiene i corsi -, per colmare al più presto eventuali lacune culturali, cognitive, di conoscenza che ancora esistessero.
Vengo ora alla domanda postami dall'onorevole Visco. Le norme esistevano, certamente. Ma quando le banche hanno qualche riluttanza a venire incontro alle istanze espresse come accade anche questa sera - e quando dico istanza utilizzo un'espressione eufemistica, in realtà dovrei parlare di resistenza - è anche perché ritengono di aver rispettato questa disciplina. Le norme esistevano e sono state rispettate.
In realtà, la «massa» delle proposte presentata da noi atteneva non alle norme con cui si vende, ma, a monte, alle informazioni necessarie per vendere bene. Insisto nel dire che il problema dell'informazione è per noi estremamente importante. Anche il rapporto diretto con il dipendente bancario, prima citato, non si riesce a realizzare compiutamente senza l'informazione e quando affermo che le banche sono state colpite è perché le informazioni sono state fornite sulla base dei dati avuti.
Apro una parentesi su un aspetto da nessuno dei presenti citato, quello di Basilea. Basilea prevede per i paesi anglosassoni che l'erogazione del credito delle banche e la quantità di capitale che esse debbono ottenere sia proporzionata al rating esterno ricevuto (non parlo dei rating interni, tipica questione tedesca ed italiana, dato che abbiamo poche società con rating, ma dei rating esterni, quelli posseduti da Parmalat). Se consideriamo la storia ormai secolare dei rating dati negli Stati Uniti, si osserva che la probabilità di default per la AAA è veramente più bassa rispetto alla categoria AA. La proporzione tra il voto dato e quanto accade è giusta, anche se esiste sempre l'eccezione. Mostro questo documento da cui si riscontra che dalla colonna di sinistra, dalla più alta alla più bassa...

PRESIDENTE. Nella precedente seduta le società di rating hanno mostrato il documento ed anche le modalità con cui danno il voto.

MARIO LETTIERI. Bisognerebbe conoscere anche i rating ufficiosi! Nella precedente seduta abbiamo appreso che esistono anche rating ufficiosi.

PRESIDENTE. Non è proprio così. La responsabile di Standard & Poor's ha detto che le imprese possono anche chiedere alle società di rating di fornirle di un rating confidenziale, ma non è che questi si affianchino a rating pubblici diversi.

MAURIZIO SELLA, Presidente dell'ABI. Per quanto mi è dato conoscere, la società


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di rating effettua indagini abbastanza approfondite, spesso sollecitate dalle stesse società che lo richiedono, essendo esse stesse all'oscuro di quale giudizio otterranno e, una volta ricevutolo, richiedono cosa debbano modificare per migliorarlo. Talvolta il rating non è reso pubblico solo in quanto chiesto per un pre rating di esame. Nei paesi anglosassoni tutte le società hanno un rating; è normale che chi intenda erogare credito richieda alle società di rating che «voto» abbia colui che richiede il credito. Si tratta di un servizio a pagamento. La società di rating è pagata in quanto rende noto agli altri creditori quale giudizio abbia dato ed ha due fonti di incasso, da parte di coloro che la pagano per ottenere il rating e da parte di chi la paga per conoscere il rating di altre società, dato che quelli delle società più piccole spesso non sono pubblicati.
Ritornando alla domanda dell'onorevole Visco riguardante le banche universali, gli americani con il Glass-Steagall Act le avevano separate e recentemente hanno capito che il placing power della banca commerciale è un aspetto importante per l'investment bank, con il risultato che almeno nei gruppi polifunzionali, con i chinese wall di società diverse, in tutto il mondo il sistema è cambiato. Per questo nella relazione ho detto che si tratta di un problema mondiale di cui tutti discutono, ma nessuno è riuscito a far meglio di quanto compiuto sino ad oggi in Italia. Se, grazie al dibattito civile in corso, fossimo capaci di costruire qualcosa di diverso che ci facesse divenire «punta di diamante» per risolvere tale aspetto, ci copierebbero tutti. Dubito però che per il momento l'Associazione bancaria italiana sia in grado di presentare proposte effettive.
Passando alle domande poste dal senatore Eufemi, sono fallite ventotto società con rating e quattro che ne erano prive a dimostrazione che il rating non è la garanzia che non si fallisca, ma il giudizio della probabilità che, trovandosi in una determinata classe, l'impresa abbia di fallire. Non vi è da stupirsi che in paesi in cui il rating è maggiormente diffuso di quanto non lo sia in Italia, come ad esempio gli Stati Uniti, su trentadue imprese fallite tutte avrebbero il rating; bisognerebbe vedere quale rating avrebbero. Sono assolutamente certo che il rating delle ventotto società fallite fosse molto basso. Una società può avere anche un rating sotto l'investement grade BBod anche un C; le norme affermano che CCC significa uno stato di default, un rating di default.
Noi stessi abbiamo detto che la minoranza, qualora esista, deve nominare almeno un sindaco nei collegi sindacali, ma non sempre la minoranza esiste, come ad esempio nelle imprese familiari.
Ho preso nota di quanto detto in relazione al codice etico e ne discuteremo con Confindustria e Assonime per dire cosa possa essere migliorato del codice Preda oppure se sia necessario assoggettarsi ad altri codici.
Per quanto riguarda l'onorevole Lettieri, sono molto dispiaciuto di non essere riuscito ad accontentarla. In relazione alla esistenza dei responsabili la magistratura sta operando e molti di questi si trovano in carcere. Non sono un «giustizialista», ma la magistratura cerca i colpevoli e li giudica in qualsiasi settore essi si trovino. Però, non sono accettabili, e sono ingiuste, generalizzazioni sui comportamenti.
Non commento la questione riguardante la Guardia di finanza, mentre mi rallegro con lei, onorevole Lettieri, per il fatto che già dal 17 novembre fosse in grado di fare tali affermazioni. Le ricordo che in quella stessa data la metà degli analisti mondiali stava ancora consigliando di comprare (mi sembra si trattasse di sette analisti su quattordici).
Le esperienze del sistema bancario sui falsi in bilancio sono quanto di più frequente possa capitare. Abbiamo circa diecimila imprese che «saltano» ogni anno e nella grande maggioranza dei casi vi è un problema simile a quello conosciuto, a volte con una sottovalutazione dei debiti. I dati informativi non rispecchiano la realtà, i fatti produttivi come il «magazzino».
Sono dell'opinione che i «paradisi fiscali» andrebbero regolamentati e limitati. Ho chiesto che i revisori, dati i rapporti


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che la società ha con i «paradisi fiscali», chiedano direttamente e non tramite essa conferma dei dati. Ciò spiega anche per quale motivo molte grandi banche, anche italiane, abbiano succursali nei «paradisi fiscali» e «legali». Qualche professionista esperto di lavoro per le grandi imprese mi ha spiegato che talvolta può capitare che qualcuno produca un bene in Irlanda, paese che ha un rapporto con gli Stati Uniti migliore dell'Italia, ma che non riesca ad essere competitivo con gli americani perché non si riesce ad entrare negli Stati Uniti con un prezzo pari a quello da loro praticato.
Costui, al pari dei tedeschi, degli inglesi e dei francesi, scopre che, se impacchetta il suo prodotto a Porto Rico, poi negli Stati Uniti riesce ad andarci, dato che Porto Rico, magari, è un paradiso fiscale ma, d'altra parte, è un paese che può essere considerato la cinquantaduesima o cinquantatreesima stella.
Quando i concorrenti internazionali usano i cosiddetti paradisi fiscali, a mio avviso, è difficile impedire ai nostri industriali di utilizzarli lecitamente, in modo corretto e in modo trasparente per il fisco, usando gli spazi offerti dalla legislazione in modo lecito. Chiedo, però, che lo dichiarino nel proprio bilancio e che ci sia l'obbligo per i certificatori, come metodo di lavoro, di chiederlo loro tutti gli anni, direttamente. Nel caso che conosciamo non è stato chiesto.
Non sono sicuro, onorevole Nesi, che i corporate bond rappresentino qualcosa che le banche italiane non potrebbero sostituire, se il ricavato di essi diventasse deposito delle stesse banche. Però, una reintermediazione così forte si differenzia da tutto il resto del mondo, che sta andando in direzione esattamente opposta. Negli Stati Uniti, per esempio, tutti i grandi hanno più corporate bond che debito bancario. Addirittura, quest'ultimo raggiunge percentuali veramente basse. Credo che non sia auspicabile.
Se le norme fossero sbagliate, fossero troppo restrittive - rispondo alla prima domanda - sarebbe positivo per il sistema? Tutto ciò che migliora l'informazione, all'origine e ai controlli, senza dubbio è positivo. Ciò che, invece, ingessasse il mercato oltre quanto previsto dalle norme che provengono dall'Unione europea, a mio avviso, sarebbe potenzialmente troppo forte e quindi richiederebbe cautela. Però, non mi pare che nelle proposte che abbiamo formulato ci sia qualcosa che possa provocare quell'ingessamento tale da metterci in condizione di subalternità rispetto agli altri.
Tuttavia, un caso si è verificato e vi è attenzione da parte dell'Europa. Infatti, i membri del Parlamento continuano a interrogarmi per sapere, nella mia qualità anche di presidente europeo, che cosa ne pensi. È accaduto, ancora ieri, da parte di Trichet. Ebbene, la mia idea è che sarebbe nostro dovere emanare una norma più severa, ben ponderata e ben fatta, onerosa ma dovuta, che ci portasse ad anticipare una eventuale direttiva, visto che ci sono stati casi anche in Olanda, in Francia e in Inghilterra.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, per le ore 18 era prevista l'audizione della Assogestioni. Sono le 17.50 e, dopo avere ascoltato le domande di dieci colleghi, ce ne sono ancora nove che intendono intervenire. Si tratta di sei colleghi del gruppo dei Democratici di sinistra, due colleghi del gruppo di Alleanza nazionale ed un collega del gruppo della Lega nord. Innanzitutto, pregherei i colleghi del gruppo dei Democratici di sinistra di mettersi, per così dire, una mano sulla coscienza e di dimezzare i loro interventi. In secondo luogo, pregherei i colleghi di limitarsi alle domande perché mi sembra che il tempo sia poco.

ROBERTO SALERNO. Credo che dovremmo ricordare, ogni tanto, che le Commissioni hanno deliberato una indagine per capire che cosa non funzioni nel mondo finanziario, della intermediazione e della tutela del risparmio e per capire, ovviamente, che cosa il legislatore possa fare. Naturalmente, non si può non partire dai casi della Cirio, della Parmalat e così via per capire che cosa non abbia funzionato


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perché, se non capiamo questo, non possiamo astrattamente comprendere che cosa possa non funzionare in un mercato nel quale ci deve essere una diversa tutela del risparmio.
La sua, presidente Sella, è una relazione puntuale, corretta e dettagliata, che rispecchia, fondamentalmente, una professionalità apprezzabile e seria. Questo è un documento serio. Però, in questa sede, dobbiamo parlare, credo, anche di altro e, cioè, di che cosa realmente non abbia funzionato e quali siano, effettivamente, le responsabilità emerse in casi come quelli della Cirio e della Parmalat. Queste responsabilità possono essere diffuse e presenti anche in altri ambiti, in questo momento, in altre realtà di intermediazione in cui, per fortuna, non essendovi stati esiti così gravi, attualmente, tutto sembra andare per il meglio.
Il decreto legislativo n. 58 del 1998 afferma che nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori spetta ai soggetti abilitati l'onere della prova di avere agito con la specifica diligenza richiesta. In questo dramma della Parmalat e della Cirio abbiamo potuto rilevare, ormai, dopo un paio di settimane, che, se da una parte non hanno funzionato gli strumenti di vigilanza, dall'altra, alcune altre realtà di questo mercato finanziario hanno avuto comportamenti, per così dire, sospetti.
Lasci perdere la sua posizione, se posso esprimermi così, di presidente della ABI, posizione estremamente difficile in questo momento, come ricordava anche il collega Nesi. In questo caso, mi pare che emergano responsabilità individuali da parte di alcuni grandi gruppi bancari italiani (lasciamo perdere gli USA) rappresentati anche dal numero due della vostra associazione, l'amministratore delegato di Unicredit, Profumo. Nel corso di una trasmissione televisiva, egli ha sostenuto una difesa del sistema, con tesi inadeguate, avendo appena firmato una circolare interna a Unicredit nella quale, fondamentalmente, affermava che potevano anche non essere stati messi pienamente al corrente i risparmiatori del rischio dei titoli. Subito dopo aver firmato questa circolare interna, è andato alla trasmissione televisiva «Porta a porta» e ha detto che, invece, le cose andavano bene e tutti avevano fatto il loro dovere. Invece, mi pare che l'Unicredit e lui stesso, con la sua firma, abbiano dimostrato che non è stato così.
Non ritiene, presidente Sella, che alcune banche debbano rendere conto di un comportamento che non coinvolge tutto il sistema bancario il quale, sono d'accordo con lei, è un sistema sano, in una economia sana? Non ritiene che in qualche maniera debbano rispondere di questo comportamento nei confronti dei risparmiatori?
Inoltre, lei ritiene che debbano coesistere, nella medesima banca, l'aspetto di finanziatore dell'ente emittente di obbligazioni e la figura del collocatore delle obbligazioni? Questo conflitto di interessi deve essere in qualche maniera risolto? Negli Stati Uniti d'America, presidente Sella, che cosa accade alle banche o agli intermediari che abbiano collocato titoli andati in default in periodi molto sospetti, cioè nell'imminenza di questo fallimento, per definirlo in termini più chiari e più italiani?
È bene ricordare che Unicredit ha partecipato, come capofila, a 17 collocamenti per circa 4 miliardi di euro, equivalenti a circa 8 mila miliardi di lire, Banca Intesa a 19 collocamenti, per 5 miliardi di euro e IMI a 14 collocamenti, per 4 miliardi di euro. Capofila significa guida, significa strutturare e organizzare l'intermediazione e la collocazione di titoli. In totale, questi tre gruppi italiani hanno fatto da capofila in 17, 19 e 14 collocamenti, per 13 miliardi di euro, equivalenti a 26 mila miliardi di lire: una responsabilità enorme! Non può passare in questa maniera.

GIORGIO BENVENUTO. Vorrei porre alcune questioni - mi scuso per la brevità - relativamente al risparmio. L'ABI intende affrontare direttamente il problema della definizione di un codice di comportamento


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con i risparmiatori, da concordare con le diverse organizzazioni sindacali e le banche? Mi riferisco alle questioni, sollevate su molti organi di informazione, relative a quadri e dirigenti che, in alcune banche, sono stati costretti a collocare titoli ad alto rischio e titoli spazzatura.
Lo stesso Governatore della Banca d'Italia ha riconosciuto che vi è stata una certa euforia. Pongo, sul punto, una precisa domanda: vi è un'iniziativa forte, da parte vostra? Segnalo che è vero che vi è stato un « fai da te », ma è altrettanto vero che tale « fai da te » non era spontaneo, ma « spintaneo »... Raccomando la lettura di giornali non sospetti di essere di parte. Mi riferisco, in particolare, a ciò che è riportato, quotidianamente, dai grandi giornali d'informazione ed economici.
Seconda questione: il problema del riconoscimento, come rappresentanza a tutti gli effetti dei consumatori, può essere fatto proprio dall'ABI, con la sua autorevolezza, affinché sia definito.
È fondamentale anche la moral suasion, la spinta dell'ABI per realizzare la class action. Ciò darebbe la possibilità di affrontare tali problemi in modo meno disorganico e di evitare che i risparmiatori possano divenire preda di avvocati improvvisati, generando un sistema di cause all'infinito. Anche su tale aspetto vi è una stranezza. Le nostre associazioni dei consumatori (non riconosciute) operano con le associazioni dei consumatori statunitensi, per intentare azioni nei confronti delle banche statunitensi.
Altra questione importante, sul risparmio. Non vorrei che il mondo bancario, che ha operato grandi cambiamenti, commettesse lo stesso errore compiuto nel mondo sindacale. Quando vi fu la marcia dei 40 mila, noi, per un certo periodo di tempo, ci domandammo quanti fossero effettivamente.
Non si tratta, ora di quantificare i risparmiatori truffati. Vi è un problema grave. Non tanto per le dimensioni numeriche, ma per quelle politiche. Quando il più importante quotidiano finanziario italiano, Il Sole-24 ore, dedica le sue prime sei o sette pagine a quanto avvenuto, credo che il problema di trovare una soluzione adeguata (che preveda forme di rimborso o di compensazione) debba necessariamente essere risolto.
Capisco che sia difficile mettere d'accordo le banche e che vi sono situazioni differenziate, ma non si può procedere come l'armata Brancaleone. È impressionante sfogliare i giornali ed osservare un fiorire di instant book, di indicazioni fornite ai risparmiatori per far valere le loro ragioni. Un gruppo dirigente degno di tal nome deve tentare di affrontare tale problema.
Concludo (avrei ancora molto da dire). Non si è affrontata la questione Basilea 2: vorrei, se possibile, una risposta precisa. L'introduzione di tali nuove regole per i requisiti patrimoniali delle banche, che devono tenere conto anche della qualità del rischio, possono, secondo lei, presidente Sella, introdurre elementi di trasparenza nell'esercizio della funzione creditizia?

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, continuando così non riusciamo a rispettare i nostri interlocutori. Alle 18 e 15 dovrei chiudere il dibattito. Do la parola all'onorevole Polledri, al quale raccomando di essere breve, e chiederò ai colleghi che seguono di rinunziare ai loro interventi.

MASSIMO POLLEDRI. La Lega Nord Federazione Padana non è «sfascista». Non vuole buttare via il bambino con l'acqua sporca, ma ritiene che alcuni elementi di chiarezza vadano forniti. Non si possono criminalizzare tutte le banche, ma è necessario esser chiari. Il peggior nemico del sistema è il sistema stesso, se non si riforma.
Nella sua relazione, presidente Sella, lei ha affermato che non si poteva prevedere ciò che è avvenuto; che non era vostro compito ricostruire i dati dell'impresa. Ci si riferisce anche all'esperienza della Cirio? Non la vedo assolutamente nominata.
La Cragnotti & Partners, che mi risulta partecipata da una grande banca, ha il


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controllo del cento per cento della C & P Brasil e della C & P Overseas (con sede alle Isole Vergini). Qualcuno poteva sapere?
Altra domanda, su Bankitalia: la divisione tra controllore e controllati non è auspicabile? Concordiamo su una serie di ricette, ma è possibile che chi deve vigilare sulle banche sia controllato da chi deve controllare? Non è una diagnosi che si sente di poter condividere?
Ancora; è giusto difendere le nostre banche (devono poter rimanere italiane), ma, riguardo ai compiti di Bankitalia, la stabilità del sistema e la concorrenza sono termini che possono rimanere nelle mani dello stesso soggetto e possono rimanervi uniti alla vigilanza (mi sembra si possano emettere alcuni giudizi - come per Capitalia - di insufficiente vigilanza)?
Infine, a suo giudizio, presidente Sella, la carica di Governatore della Banca d'Italia deve essere sine die?

PRESIDENTE. Ora dovrebbero intervenire cinque colleghi, appartenenti al Gruppo dei Democratici di sinistra-l'Ulivo: il senatore Debenedetti, il senatore Turci, l'onorevole Nicola Rossi, il senatore Pasquini e l'onorevole Nannicini.
Debbo dire che il dibattito è di particolare interesse; non avrei, pertanto, nessuna difficoltà a farli intervenire, ma temo che, rimandando la successiva audizione dell'Assogestioni (a parte la scortesia di averne convocato i rappresentanti per rimandarli, poi, ad altra audizione), non riusciamo a concludere l'indagine entro il termine del 20 febbraio.
Pertanto, prego i colleghi di conciliare l'esigenza della brevità con l'indubbio interesse della materia. Do, ora, la parola al senatore Debenedetti.

FRANCO DEBENEDETTI. Ho apprezzato la relazione del presidente Sella e condivido l'obiettivo di evitare che le reazioni allo scandalo provochino un aumento del costo del capitale per le aziende o un suo razionamento, o la demonizzazione di strumenti quali i bond e dei modi e luoghi con cui le imprese sfuggono alla rapacità dello Stato ed ai costi di procedure della cui scarsa utilità siamo testimoni e vittime.
Ritengo che la corporate governance (non è notato spesso), cioè l'empowerment degli azionisti e degli obbligazionisti potrebbe costituire un metodo di controllo interno dell'azienda meno costoso e più mirato, che eviti le intrusioni del pubblico nei contratti tra privati.
Ho un dubbio ed una domanda da porre. Il dubbio è: lei, presidente Sella, ha citato il caso dell'investitore che investe mille euro su un patrimonio di 25 mila. Tale investitore risparmia sul costo di acquisire le informazioni e diversifica il proprio rischio, non avendo necessità di fare eccessiva attenzione a ciò che acquista. Non succede lo stesso anche per le banche, che non incorrono nel costo dell'acquisizione delle informazioni (diversificando il proprio rischio su un gran numero di emissioni e, oltretutto, guadagnandoci in provvigioni varie e interessi, così come con i bond di paesi ad altro rischio o speculando, nel caso di banche estere, sul fatto che, in Italia, vi sarà sempre qualche soggetto che andrà in difesa delle banche)?
Mi limito a ciò che lei, presidente Sella, afferma nella sua relazione. Lei sostiene che l'origine dei mali è nelle informazioni, non veritiere ed attendibili. A chi è rivolto tale monito?
La risposta è fornita sempre nella sua relazione: lei cita chi controlla, dirigenti, amministratori, comitati di audit, sindaci, revisori, analisti finanziari. Le banche non sono nominate. Se ne dedurrebbe che la verifica dell'affidabilità delle informazioni sia lasciata esclusivamente agli organi interni delle imprese cui sono destinati i crediti.
Successivamente, lei parla del trasferimento diretto dalle famiglie alle imprese. È tutto avvenuto via Internet? Siamo così informatizzati che tutto è avvenuto sui siti Internet delle imprese?
Le riassumo le domande poste in un'altra, di cui mi consentirà il carattere paradossale (che non vuol essere affatto poco rispettoso). Qual è il compito delle banche?


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Questo compito giustifica una vigilanza bancaria così gelosa nel difendere le proprie prerogative?

LANFRANCO TURCI. Il presidente Sella ha affermato che non vi è stata sostituzione tra crediti bancari e bond. In termini macroeconomici sicuramente è così, come indicano anche i dati della Banca d'Italia, ma nel caso preciso di Cirio i dati ampiamente pubblicati sui giornali dimostrano che in un lasso di tempo molto determinato vi è stato uno spostamento di indebitamento dalle banche ai bond. Se poi il presidente Sella ci viene a dire che non tocca all'ABI fare le analisi ne prendiamo atto, ma non si può affermare che non vi sia stata una sostituzione nel finanziamento di questa società.

NICOLA ROSSI. Ho apprezzato la relazione del presidente Sella, soprattutto laddove si riconosce con molta franchezza che esistono conflitti di interesse all'interno dei gruppi polifunzionali. Ho la netta sensazione che questi conflitti di interesse siano cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi tempi. Dal momento che si riconosce il problema, implicitamente ammettendo che questi fenomeni possono essere osservabili, mi domando allora se non sia riconducibile a questa tipologia di casi quanto considerato dai commissari straordinari Cirio, come riferiva prima anche il senatore Turci, ossia che nel 2001 vi sarebbe stato un trasferimento dei debiti dal sistema bancario ai bond. Leggendo i giornali si evince facilmente un'altra cosa: dalla primavera del 2003 i fondi comuni, alcuni dei quali controllati dalle banche, avrebbero ridotto considerevolmente, fin quasi ad annullarla, la loro posizione in titoli Parmalat, mentre nei mesi successivi le reti di distribuzione bancarie avrebbero continuato a collocare quegli stessi titoli.
In linea di principio queste due fattispecie sono riconducibili al conflitto di interesse di cui lei ha parlato? Se così fosse riterrebbe questi comportamenti sanzionabili? Infine, non crede che dovremmo aggiornare seriamente e profondamente il concetto stesso di vigilanza sul settore bancario?

GIANCARLO PASQUINI. Si è parlato delle responsabilità che hanno interessato tutti i livelli di controllo societario, interni ed esterni, mentre non si è parlato delle responsabilità delle banche. Alla luce di una serie di eventi - la liquidità eccessiva del gruppo, l'emissione apparentemente inutile dei bond, lo sviluppo della società in paradisi fiscali, la proverbiale scarsa trasparenza della Parmalat nel corso degli anni - non le sembra che vi siano anche delle grandi colpe all'interno del sistema bancario nella capacità di valutare il rischio del credito? Come intende intervenire l'ABI al riguardo? A tale proposito racconto un aneddoto personale: nel 1998, quando ero direttore generale della Granarolo, le banche italiane, a livello di alta direzione, davano il gruppo Parmalat come tecnicamente fallito!

ROLANDO NANNICINI. Il presidente Sella afferma che non bisogna demonizzare i corporate bond perché rispecchiano la tendenza internazionale delle «tre gambe»: azioni, bond, credito bancario. All'interno di questa tendenza ci ha ricordato lo sviluppo del mercato anglosassone. Ci ricordava anche che i nostri cittadini non hanno la cultura dei risparmiatori inglesi, ma non dovrebbero fare uno sforzo anche le banche nel cercare di diventare anglosassoni nel rapporto con i consumatori e con i risparmiatori che hanno acquistato le obbligazioni di Cirio e Parmalat?
I dati presentati dall'ABI indicano che gli impieghi bancari dal 1997 al 2002 sono aumentati di 174 miliardi di euro, mentre le obbligazioni sono cresciute per 65 miliardi. Questi parametri ci dovrebbero far ritenere che non vi siano stati scambi, ma noi avremmo voluto che l'ABI estrapolasse i dati del caso Cirio. Un atteggiamento di questo tipo probabilmente sarebbe stato anglosassone in quanto avrebbe dato la possibilità a tutti i cittadini italiani di divenire un po' più anglosassoni, come richiesto dalla sua esortazione.


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Condivido le affermazioni del presidente Sella quando dice che non tutte le banche si sono comportate ugualmente. Non ritiene l'ABI di dover trovare una linea di collaborazione con le associazioni dei consumatori e dei risparmiatori riguardo possibili rimborsi?

VINCENZO CANELLI. Rispondendo ad una domanda del collega Grandi con una certa veemenza ha affermato che anche il sistema bancario è stato truffato e che fino a dicembre anche a voi la situazione non era chiara. Prendo atto della sua risposta e le chiedo: qual è l'ammontare dei titoli Parmalat rimasti nei portafogli delle banche?

BRUNO TABACCI, Presidente della X Commissione permanente della Camera dei deputati. Nei giorni scorsi mi pare di aver letto su alcuni giornali che vi è stato un ufficio di presidenza dell'ABI. Nei comunicati stampa seguenti emergeva una sorta di sindrome di accerchiamento e la preoccupazione da parte del sistema bancario di sentirsi in qualche modo oggetto di polemiche e di strali. Non ha l'impressione che se è accaduto questo dipende anche dal fatto che il sistema bancario, invece di avere fatto sin dall'inizio tutto ciò che era necessario per sentirsi parte in causa di questa vicenda, che in fondo ha creato scompiglio nel paese, si è chiamato fuori come se il problema riguardasse altri? Il tentativo di scaricare responsabilità sul prossimo non ha forse agitato l'immaginario collettivo che aveva invece opinioni diverse?

PRESIDENTE. Prego, presidente Sella.

MAURIZIO SELLA, Presidente dell'ABI. Vorrei esprimere innanzitutto un concetto di ordine generale. L'articolo 47 della Costituzione difende il risparmio, lo stesso articolo afferma che la Repubblica favorisce l'accesso all'investimento nei grandi complessi produttivi del paese.
Se considerate l'evoluzione, il risparmio, nella forma di depositi postali e bancari ovvero di conti correnti, viene valutato e tutelato appunto in quanto tale; il fondo di tutela dei depositi delle banche ha proprio questo scopo. Quando, però, detto risparmio accede a particolari beni - ed è a tale riguardo che la nostra Carta parla, appunto, di investimento nei «grandi complessi produttivi del paese» e negli immobili -, ebbene, in quel momento, chi, anche per merito dell'andamento dell'economia, lo ha accumulato diventa, a mio modo di vedere, investitore. La tutela massima, il risparmio la ottiene proprio quando avviene quel passaggio, la decisione di investimento; per gli immobili, esistono al riguardo taluni istituti (come il catasto, l'ufficio ipoteche e quant'altro) proprio per garantire l'acquirente.
Per le azioni, ormai abbiamo tutti accettato che la situazione è analoga; le difficoltà che a mio avviso abbiamo registrato nel paese risiedono piuttosto nel considerare un investitore il risparmiatore che investa anche solamente in titoli dello Stato italiano. Ho sottolineato in tutta la mia esposizione che dobbiamo tutelare l'informazione; infatti, è proprio quest'ultima che, nella trasformazione in questione, rappresenta l'aspetto di base. Con la direttiva sui servizi di investimento - non a caso, il riferimento è ai servizi di investimento, non a quelli di risparmio -, l'Unione europea cerca di tutelare in tutte le maniere possibili il passaggio in questione; il bene pubblico principale, infatti, è l'informazione che permette, per l'appunto, al risparmiatore una scelta consapevole di investimento in immobili, azioni, corporate bond o in titoli di Stato.
Ho fatto tale richiamo alla Costituzione in quanto, talvolta, a mio avviso, in Italia si dimentica che questo è il passaggio decisivo; quando, per così dire, sono passato dall'altra parte, sono tutelato dalle norme che riguardano quell'investimento. Infatti, il fondo di tutela dei depositi delle banche non tutela le obbligazioni bancarie in quanto il risparmio viene prelevato dai conti correnti ed investito nelle obbligazioni bancarie. A mio avviso, quando è stato istituito, si è fatta la stessa considerazione.


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Le banche italiane detenevano 250 milioni di euro di titoli del gruppo Parmalat; ebbene, circa i compiti della Banca d'Italia, come ho già chiarito, per educazione estetica, non voglio fare commenti, trattandosi, per così dire, del mio vigilante. Voglio però osservare che la Banca d'Italia considera non «a chi» ma «come» le banche eroghino il credito. Se così non fosse, sarebbe lei a determinare i clienti delle banche. Banca d'Italia, quindi, valuta se le procedure siano prudenti, corrispondenti agli accordi di Basilea. Quando, poi, il credito vada «in aceto» ovverosia in sofferenza, Banca d'Italia valuta che le procedure per determinare quanto verrà perduto siano adeguate per far sì che la somma delle perdite non intacchi tutto l'utile e parte del patrimonio dell'istituto. Ovviamente, se le procedure sono inadatte, la Banca d'Italia colpisce le banche relative, fino al commissariamento; ma non interferisce circa la scelta del debitore. Diversamente, le banche, dopo un momento iniziale, finirebbero per rimettersi alla Banca d'Italia per la scelta dei clienti cui erogare credito. Tale aspetto si riscontra in tutta Europa; ogni vigilante, infatti - sia o meno Banca centrale (invero, non in tutti i paesi, quest'ultima esiste) -, segue un comportamento conforme. Volevo sottolinearlo in quanto va capito come funziona l'erogazione del credito.
Vengo al senatore Turci ed alla sostituzione nel caso Cirio; i dati statistici chiariscono che, effettivamente, le obbligazioni emesse da Cirio sono aumentate ed i crediti bancari verso Cirio si sono ridotti. È un dato effettivo, che non posso negare; però, quanto vorrei evidenziare è che, ovviamente, vi è osmosi completa sul versante del passivo. Quando un debito cresce, un altro debito si riduce o viene pagato; non vi è alcun dubbio. Quindi, non si deve ritenere sussistente un comportamento patologico solo per il fatto che le obbligazioni, per l'appunto, siano aumentate mentre i crediti bancari si sono ridotti; ritengo che di norma, salvo l'aspetto della liquidità connesso al rimborso dei bond - caso del bilancio Parmalat -, ciò avvenga regolarmente, in qualunque caso. D'altro canto, quando aumenta il debito verso le banche, si riduce quello verso i fornitori, verso l'INPS e quant'altro. Ciò, se vi è uno spostamento da creditore a creditore; se l'operazione è, invece, fatta per comprare averi, beni, materie prime, un magazzino ovvero per produrre, allora, evidentemente, il debito aumenta soltanto. In tal caso, infatti, cambia l'attivo ma non si modifica il passivo. Dunque, anche se confermo che ciò è avvenuto, non identificherei tale aspetto come una causa necessaria di patologia.
Sono d'accordo con il senatore Franco Debenedetti che la corporate governance e l'empowerment dovrebbero essere i settori in cui concentrarsi; a tale proposito, ricordo il «tavolo» con Confindustria, Assonime e Borsa italiana. Borsa Spa, in quanto, regolando i mercati, è particolarmente interessata a far sì che i mercati funzionino, che il numero di imprese quotate funzioni e che le corporate abbiano un vero mercato.
L'aspetto più straordinario di questa vicenda - ma non so se lo sappiate - è che uno dei titoli (sono solo due, praticamente) di bond che aveva veramente mercato, di cui si trovava sempre la contropartita, era proprio Parmalat. Era il titolo più liquido che esistesse; quindi, vogliamo unire Borsa nell'opera comune di riflessione, specie con riferimento alla corporate governance. L'associazione vi esprime modestamente, con riguardo, il suo parere ma, a mio avviso, l'attenzione non deve fermarsi a tali livelli, deve arrivare ad altri livelli. L'associazione ve ne ha indicati parecchi pur senza volerne considerare indispensabili alcuni; però, permettetemi ancora una volta di «spingere» sulla riforma fallimentare. Capisco che si tratta di una mia monomania; però, credetemi, sarebbe assai opportuno un chapter eleven che permetta all'imprenditore, per tempo, di andare dal giudice, bloccare tutti e rapidamente riassestare l'impresa, come avviene in America. Ciò è, infatti, quanto avviene in quel paese: mi pare che le aziende citate, entrate in crisi lì, dopo 18 mesi fossero di nuovo funzionanti. La rapidità dell'intervento per mantenere il


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valore e per mettere l'azienda in condizioni produttive a mio avviso va assolutamente assicurata.
Onorevole Tabacci, non ci siamo «tirati fuori»; abbiamo assunto la nostra responsabilità e preso coscienza, abbiamo discusso, abbiamo considerato. Certamente, come sottolineava l'onorevole Nesi, gli interessi non sono comuni, non sono uguali, in quanto i ruoli sono stati completamente diversi. Vi ricordo che ogni decisione, anche informata al principio del «caso per caso», dipende dal consiglio di amministrazione della banca che ha professionisti ed esperti. Ogni banca, infatti, deve decidere in casa sua; quindi, il fatto che i consigli decidano in modo diverso mi sembra assolutamente fisiologico, in relazione ai comportamenti che sono stati diversi. Quindi, non mi pare che abbiamo avuto la posizione di «tirarci fuori»; abbiamo mantenuto la posizione comune fino al punto in cui si poteva. Poi, caso per caso, banca per banca, emissione per emissione, emittente per emittente, risparmiatore per risparmiatore abbiamo ritenuto di fare, individualmente, a livello di singola azienda, il nostro dovere.

PRESIDENTE. La ringrazio, presidente, per le risposte fornite alle domande poste nell'ambito del dibattito.

MASSIMO POLLEDRI. Signor presidente, vorrei osservare che il presidente non ha risposto alla questione posta con il mio intervento, quando ho chiesto se qualcuno sapesse del caso Cirio.

PRESIDENTE. Onorevole Polledri, il presidente non ha obbligo di rispondere a tutte le domande. La Camera valuta le parole, ma anche i silenzi.

MAURIZIO SELLA, Presidente dell'ABI. Signor presidente, mi corre l'obbligo di intervenire per puntualizzare che, nella mia esposizione, ho già precisato come, a tale riguardo, a mio giudizio, nessuna banca sapesse.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, dobbiamo ringraziare il presidente dell'Associazione bancaria ed i suoi collaboratori per la testimonianza resa; testimonianza che, naturalmente, sarà considerata nell'ambito della complessiva valutazione che il Parlamento farà di questa materia. Materia molto delicata, oggi anche all'attenzione della magistratura. Sotto tale profilo, comprendo perfettamente anche una certa dose di riserbo da parte del presidente, ma devo anche ad un tempo riconoscere che egli ha cercato di rispondere alle questioni poste, pur se con il riserbo necessario, attesa la situazione.

MAURIZIO SELLA, Presidente dell'ABI. Signor presidente, debbo confermare ancora una volta che, a mio giudizio, nessuna banca sapeva.

PRESIDENTE. Appunto. Dichiaro conclusa l'audizione. Sospendo per pochi minuti la seduta.

La seduta, sospesa alle 18.30, è ripresa alle 18.40.

Audizione di rappresentanti dell'Associazione del risparmio gestito (Assogestioni).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui rapporti tra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione del risparmio gestito (Assogestioni).
Saluto i nostri ospiti, il professor Guido Cammarano, presidente dell'Assogestioni, accompagnato dai suoi collaboratori, il dottor Fabio Galli, segretario generale, il dottor Vincenzo Galimi, la dottoressa Roberta D'Apice, il dottor Matteo Ghisalberti e il dottor Massimo Menchini, ai quali rivolgo innanzitutto le scuse da parte delle Commissioni per il ritardo con cui è iniziata la loro audizione, che tuttavia consideriamo di enorme importanza.
Ricordo che si è convenuto di esaurire il ciclo di audizioni entro il 20 febbraio.


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Pertanto, ci troviamo nella condizione di dover comprimere, nell'ambito di un tempo molto ristretto, una serie di audizioni che rivestono grande importanza e nel corso delle quali, ovviamente, vengono regolarmente posti quesiti da parte dei colleghi su una materia di enorme interesse.
Lo sforzo delle Commissioni riunite è rivolto sia «indietro», per stabilire che cosa è successo (anche se non siamo una Commissione di inchiesta, vorremmo conoscere le circostanze che hanno potuto determinare episodi e vicende come quelle esemplificate dal caso Cirio e Parmalat, con ingenti perdite per i risparmiatori) sia «in avanti», per cercare di capire come si possa intervenire de iure condendo affinché episodi del genere non si verifichino più e il danno sia ridotto.
Poiché il Governo ha presentato un disegno di legge su questa materia, le osservazioni della vostra associazione sull'una e sull'altra vicenda, così come ogni altro elemento che riterrete di portare alla nostra attenzione, saranno per noi molto graditi.
Do ora la parola al presidente dell'Assogestioni, professor Guido Cammarano.

GUIDO CAMMARANO, Presidente di Assogestioni. Signori presidenti, onorevoli deputati e senatori, innanzitutto desidero ringraziarvi per l'opportunità che date all'Assogestioni di fornire il proprio contributo a quest'indagine, un contributo che promana da ed è espressione dei gestori di 850 miliardi di euro di risparmi per conto di circa 9 milioni di famiglie italiane.
Ogni sistema legislativo è perfettibile. Frequentemente gli interventi correttivi sono occasionati dal recepimento di normative comunitarie, altre volte seguono precise istanze provenienti dai destinatari delle norme. In altri casi ancora, può accadere che la funzione di stimolo provenga da particolari eventi, così come avvenuto nel nostro paese, i quali già tracciano linee correttrici da seguire.
L'importante è, ritengo, non farsi suggestionare da condizioni di emergenza e di allarme che connotano gli umori del paese, ma individuare provvedimenti mirati che si innestino in un sistema giuridico riconosciuto nel suo impianto generale di per sé valido, anche se bisognevole di opportuni miglioramenti.
I fondi comuni di investimento italiani hanno sperimentato, fin dall'inizio della loro attività, il carattere di avversione al mercato e di tutela della sola «supply side», che contraddistingue la disciplina del sistema finanziario italiano così come modellato dalle riforme Beneduce degli anni 1920-1930, relative al settore bancario e a quello assicurativo. Tali riforme furono costruite in considerazione della situazione economica e finanziaria di quel periodo storico, ma poi mantenute sostanzialmente inalterate fino ai nostri giorni.
La stessa nascita dei fondi comuni, quali strumenti per lo sviluppo e la diffusione di una domanda finanziaria efficiente e provveduta, fu a lungo ostacolata e successivamente ne fu contrastata la loro affermazione, prima con la limitazione della loro operatività e poi, per lungo tempo, con l'offerta privilegiata da parte degli intermediari finanziari dominanti di prodotti a loro direttamente riconducibili o comunque venduti in loro proprie confezioni.
L'industria del risparmio gestito ha dovuto quindi impegnarsi, anzitutto affinché non fosse rinnegata nei fatti l'esistenza di un nuovo intermediario di gestione e, poi, per sostenere la costruzione di un più moderno mercato finanziario italiano, in appoggio alle esigenze nuove che si venivano via via manifestando in relazione all'apertura crescente del nostro sistema ai mercati esteri e alla liberalizzazione degli scambi guidata dalla Comunità.
A metà degli anni '90 l'Assogestioni elaborò e propose, per conto dell'industria della gestione del risparmio, uno «Statuto per l'efficienza del mercato finanziario», che segnalò alle imprese emittenti e alla stessa Consob esigenze e modi di una maggiore e migliore informativa al mercato. Esso portò a un cambiamento e a un ammodernamento delle regole di trasparenza in concomitanza con l'avvenuto trasferimento


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del finanziamento delle imprese dal bilancio pubblico al mercato finanziario.
Tuttavia, questo mutamento rappresentò solo un piccolo squarcio di luce in una legislazione, quale quella del mercato finanziario italiano, tradizionalmente e storicamente diffidente, per non dire ostile, verso la creazione di un mercato come luogo di confronto e di formazione di accordi paritari reciprocamente vantaggiosi tra soggetti informati, invece orientata a disciplinare il soggetto operatore e a sottoporlo a un controllo attraverso il quale si ipotizza, ma solo si ipotizza, di realizzare anche la tutela del cliente/acquirente.
A ben guardare, a questa logica legislativa non si sottrae neppure il Testo unico dell'intermediazione finanziaria, che pure costituisce la pietra miliare nel nostro ordinamento per la costruzione di un moderno mercato finanziario. Infatti, esso fa della vigilanza, nella ripartizione delle competenze tra Banca d'Italia e Consob, l'asse portante della normativa che pone e lo fa tanto in positivo quanto in negativo, predisponendo una stringente vigilanza per taluni e non per altri.
Considerata la sostanziale invarianza del nostro sistema finanziario, i gestori del risparmio hanno chiesto alla loro associazione di svolgere un'azione continua di monitoraggio del mercato attraverso la costituzione di un Comitato per la corporate governance, al quale partecipano i gestori delle più importanti società associate. Il Comitato ha compiuto e compie, fin dalla sua costituzione, un'attività di osservazione dei fatti che si manifestano sul mercato per segnalare tempestivamente alle società emittenti e alla Consob tutto ciò che in materia di trasparenza e di comportamenti verso il mercato contraddice le regole di «best practice» o contiene elementi di possibile nocumento per l'investitore finanziario.
È di questo Comitato la decisione di scrivere, già nel marzo 2003, alla Parmalat, e per conoscenza alla Consob e alla Borsa italiana, per manifestare la contraddizione della situazione finanziaria venutasi a creare in quell'azienda e la insufficienza dell'informazione fornita al mercato sulla sua reale condizione. I fatti purtroppo ci hanno poi dato ragione di quella nostra preoccupazione.
In questo contesto, è nostra convinzione che il carattere di fondo, che ha fino ad ora connotato la disciplina del nostro sistema finanziario (e che ho anticipato in premessa), deve essere ripensato. Bisogna, a nostro avviso, mutare la prospettiva di approccio al problema, ponendo finalmente al centro della tutela non il lato dell'offerta ma quello della domanda e, quindi, in definitiva, il risparmio.
È in questa prospettiva di tutela dell'investitore e del risparmiatore che l'Assogestioni ha, non da oggi, inteso - e, oggi, intende - il dibattito sulla riforma delle autorità amministrative indipendenti; una prospettiva in cui le autorità amministrative, le loro funzioni e i loro poteri siano pensati e parametrati in ragione degli interessi pubblici da perseguire e, innanzitutto, di quelli costituzionalmente tutelati.
Si tratta, più in particolare e nel rispetto dei superiori principi costituzionali, di pensare alle più efficaci ed efficienti forme di tutela dell'investitore e del risparmiatore. Una posizione, quest'ultima, troppo spesso, per quanto possa sembrare paradossale, negletta. Ciò in una duplice ottica: da un lato, nel senso che controlli ridondanti, formalistici e inutili costituiscono un costo che necessariamente viene traslato dall'intermediario controllato al suo cliente-investitore e, dall'altro, nel senso che lacune nei controlli o mancanza di incisività degli stessi aprono il campo ad abusi a danno degli investitori e dei risparmiatori.
L'analisi dell'attuale assetto evidenzia un sistema di controlli inefficienti tanto per difetto, quanto per eccesso (per la più minuta analisi ci permettiamo di rinviare ai risultati di un seminario organizzato dall'Assogestioni nel 2002 e raccolti nel Quaderno n. 26).
L'auspicio dell'Assogestioni è, quindi, quello di pensare alla riforma delle autorità amministrative e a una razionalizzazione


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dei controlli con esclusiva attenzione alle loro conseguenze in termini di efficienza ed efficacia, il che significa anzitutto perfezionare con coerenza la ripartizione della competenza per finalità.
Per quanto più strettamente attiene alla tutela dei risparmiatori, è a nostro avviso necessario che gli interventi correttivi si dispieghino su di un triplice piano. Anzitutto, e mi riferisco specificamente all'esenzione di cui all'articolo 100, lettera f), del TUF, eliminando scelte normative non più attuali, le quali hanno determinato asimmetrie informative che vanno a danno degli investitori.
Di poi, sulla base dell'esperienza maturata in più di cinque anni dall'elaborazione del TUF, apportando opportuni correttivi sulle norme deputate a rendere effettiva e più incisiva la partecipazione alla vita sociale delle minoranze azionarie e, ancora, uniformando gli obblighi di condotta che gli operatori finanziari devono rispettare nell'esercizio della propria attività.
Da ultimo, sull'esempio dell'architettura legislativa introdotta con successo a livello comunitario (cosiddetta procedura Lamfalussy), integrando il procedimento di produzione normativa nel campo finanziario con il coinvolgimento - in funzione consultiva - dei destinatari delle norme, dei loro rappresentanti e delle associazioni di categoria. Sebbene infatti saltuariamente accada da noi che una simile consultazione venga promossa dalle diverse autorità di vigilanza cui è affidato il compito di elaborare la normativa secondaria, essa tuttavia avviene solo in via informale e senza un definito ed univoco modello procedimentale in punto di selezione e coinvolgimento dei soggetti, nonché di tempistica e di criteri di valutazione dei contributi offerti. Si tratterebbe, peraltro, di rendere esecutiva una misura specificamente prevista dalla direttiva comunitaria sul market abuse, le cui disposizioni ci si accinge ad implementare proprio per rendere più efficiente ed efficace l'azione delle autorità preposte alla vigilanza del mercato.
I tempi sono ormai maturi per un bilancio sul TUF volto ad individuare correttivi in grado di rilanciare - in questi tempi difficili e incerti - gli investimenti finanziari sia in Borsa sia presso gli intermediari.
L'Assogestioni ha una idea chiara e precisa anche di quali correttivi debbano essere apportati da una rinnovata disciplina del mercato finanziario che voglia tener diretto conto degli interessi e dei diritti dei risparmiatori ed investitori.
Occorre in primo luogo estendere la competenza della medesima autorità di vigilanza del mercato su tutti i prodotti finanziari offerti ai risparmiatori, senza eccezioni. A tal fine è diventato improcrastinabile un intervento volto ad eliminare l'esenzione dei prodotti finanziari emessi da banche e assicurazioni, contenuta nella lettera f) dell'articolo 100 del TUF, dal regime della sollecitazione del pubblico risparmio e della relativa vigilanza. E d'altronde la proposta di abrogare la ricordata lettera f) dell'articolo 100, già auspicata oltre che dall'Assogestioni anche dalla Consob, è oggi espressamente contenuta nel disegno di legge governativo sui «provvedimenti per la tutela del risparmio» (articolo 50). Un tale intervento risulta anche in linea con la direttiva comunitaria sul prospetto unico.
L'esenzione attualmente esistente ricorda infatti quel famoso aforisma per il quale l'ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù. Il TUF, mentre manteneva e anzi accresceva la duplicazione dei controlli sul nuovo intermediario della domanda di investimenti, cioè la società di gestione del risparmio, nel contempo sottraeva alla disciplina del prospetto l'offerta di prodotti bancari e assicurativi a contenuto gestorio riaffermando il vecchio modello del controllo sul soggetto e non sulla trasparenza e sulle regole di comportamento. Da una parte si sono sommati i controlli, dall'altra sono stati sottratti.
Ciò è stato, a conti fatti, una benedizione nascosta per l'industria della gestione collettiva del risparmio, come dimostrano i successi che ha conseguito e soprattutto gli insuccessi che ha evitato,


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anche se questo ha però comportato costi organizzativi e di attività che la penalizzano rispetto all'agguerrita e diffusa concorrenza, sia nazionale sia estera, e che in parte vengono anche a gravare sulla clientela.
Il tema può essere ricondotto nel più ampio dibattito in ordine alle asimmetrie normative presenti nel nostro ordinamento, dibattito al quale questa associazione ha partecipato attivamente con interventi e documenti pubblici. La questione nasce dal fatto che oggi nel panorama dei prodotti bancari e assicurativi, proprio in ragione del loro essere sottratti all'obbligo di pubblicazione del prospetto informativo, sono stati creati prodotti strutturati nei quali il rapporto tra banca - o assicurazione - e cliente si atteggia non tanto come assunzione dell'obbligo di restituzione di un importo pari o parametrato a quello ricevuto, bensì come incarico di natura gestoria, nel quale la restituzione assume un ruolo solo eventuale e comunque accessorio all'obbligazione di eseguire un mandato (più o meno generico) di gestione del denaro investito. È evidente che in tali casi l'interesse del sottoscrittore non è più tanto la stabilità dei soggetti obbligati a restituire somme di denaro, quanto quello ad una corretta e trasparente esecuzione del mandato.
Di qui la necessità per tali prodotti di affiancare al tradizionale controllo di stabilità proprio del settore bancario e assicurativo il controllo «di trasparenza» proprio dei prodotti oggetto di sollecitazione al pubblico risparmio.
Fuori dai casi eclatanti, quali l'esenzione da prospetto di cui all'articolo 100, lettera f), indico altri interventi correttivi da apportare alla disciplina delle società quotate, cui il TUF non è riuscito a porre rimedio. Mi riferisco alle aspettative che discendevano dalla possibilità ivi prevista di demandare alla determinazione congiunta di società e investitori, soprattutto istituzionali, la fissazione delle concrete modalità di esercizio delle azioni concepite per favorire l'attivismo degli azionisti di minoranza.
A distanza di più di cinque anni dall'entrata in vigore del TUF, il mercato ha tuttavia mostrato di non essere in grado di realizzare quanto previsto da tali disposizioni normative. Anche Assogestioni ha effettuato un tentativo, rimasto purtroppo infruttuoso, in questa direzione. Nel marzo scorso - dopo esserci coordinati con investitori stranieri, europei e d'oltreoceano - abbiamo indirizzato una lettera alle società facenti parte dell'indice MIB30 della borsa richiedendo poche, chiare modifiche agli statuti, tese a facilitare tecnicamente le possibilità per gli investitori istituzionali di partecipare alla vita societaria e mirate a incentivarne la trasparenza, come reso possibile dalla riforma del diritto societario. Le nostre istanze, tuttavia, non hanno ottenuto alcun riscontro concreto. È dunque necessario un intervento di natura cogente che ponga rimedio a questo stato dei fatti.
Esempio emblematico di quanto dico è l'azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci: all'atto di coraggio e di vera rottura, da parte del TUF, costituito dal concedere tale azione alla minoranza - fissata al minimo nel 5 per cento - degli azionisti, non è seguito, purtroppo, un atto di autoresponsabilità e maturità da parte delle società. Esse infatti ben avrebbero potuto abbassare tale limite, sfruttando un'opportunità che la legge concedeva loro, ma ciò non è accaduto; da cosa questo sia dipeso non saprei: quello che vale è tuttavia il dato di fatto, ed è un dato che non segnala le nostre società come all'avanguardia o aperte alle istanze minoritarie. Per rendere effettivamente esercitabile una tale azione, la soglia dovrebbe essere portata al 2 per cento.
Quello per l'esercizio dell'azione di responsabilità non è, peraltro, l'unico insuccesso di questo genere che deve essere risolto in via legislativa.
Il meccanismo del voto di lista, attualmente imposto per la sola elezione dei componenti il collegio sindacale, ma che dovrebbe essere esteso anche ai componenti il consiglio di amministrazione, comunque presenta quorum minimi troppo


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elevati, tali da ostacolare di fatto la presentazione delle liste. Ciò comporta, conseguentemente, che nelle imprese che si rivolgono al mercato dei capitali per ottenere finanziamenti, e che per questa ragione presentano compagini sociali molto variegate, troppo spesso manca un esponente indicato dagli azionisti non di controllo.
Si noti che il quorum è richiesto per il solo fatto della presentazione di una lista, non anche per eleggere un rappresentante! Questa è davvero una forte e ingiusta penalizzazione, perché tronca sul nascere ogni possibilità di proposta, ogni tentativo di dialettica. Secondo la nostra opinione, dunque, una tale soglia dovrebbe essere normativamente fissata all'uno per cento, rappresentando questa percentuale una partecipazione sufficientemente qualificata e più aderente alla realtà dei possessi azionari detenuti mediamente da azionisti non di controllo. È questo, infatti, il limite legislativamente fissato per le società pubbliche che sono state privatizzate.
Inoltre, il presidente del collegio sindacale o del consiglio di sorveglianza dovrebbe essere espressione delle minoranze. Ciò al fine di accentuare l'esigenza, già peraltro chiaramente avvertita dal TUF, di aumentare l'efficienza delle funzioni di controllo e di sorveglianza demandate a quell'organo.
Sempre con riferimento alla necessità di spostare il fulcro dell'attuale regolamentazione, fino ad oggi elaborata in funzione dei soggetti offerenti su di una posizione maggiormente rivolta a chi acquista il prodotto finanziario, deriva la necessità di porre mano alle regole di condotta che devono osservare gli operatori del mercato. Riteniamo non più possibile affidare il bene più importante del sistema, costituito dalla integrità del mercato e dalla fiducia dei risparmiatori, esclusivamente all'impegno dei soggetti coinvolti.
È necessario che essi si attengano ad una regolamentazione uniforme, semplificata in punto di ambiti di applicazione e fondata su univoci standard operativi di comportamento, che assicurino la massima consapevolezza dei risparmiatori circa le caratteristiche dell'investimento loro offerto.
A questo fine, è nostra opinione che le regole di comportamento degli operatori debbano divenire uno dei capisaldi posti a tutela dei risparmiatori. Tra le clausole generali che le compongono, mi riferisco specificamente ai doveri di trasparenza, di best execution e di gestione dei conflitti di interesse. Se infatti esistono dei doveri comuni generalmente riconosciuti per chi opera nei mercati finanziari, devono allora esistere anche regole comuni alla base di ogni tipo di operatività finanziaria, sia essa di connotazione bancaria, sia essa di connotazione assicurativa, sia essa di connotazione finanziaria. Pretendere il rispetto di medesimi criteri di diligenza, correttezza, trasparenza e la limitazione dei conflitti di interesse giova alla efficienza degli scambi e dei controlli sul mercato mobiliare perché crea una unica piattaforma concorrenziale, entro cui operare e, al contempo, sulla quale vigilare.
La definizione di comuni principi generali di comportamento riveste, inoltre, una fondamentale importanza sia dal punto di vista giuridico sia da quello economico: il cliente correttamente e completamente informato si sentirà tutelato, acquisterà fiducia e continuerà ad impegnare il proprio risparmio nell'investimento in prodotti finanziari aumentando la liquidità e l'efficienza del mercato mobiliare.
Con riferimento alla trasparenza, a nostro avviso è necessario rafforzare il livello e la frequenza dell'informativa finanziaria che emittenti ed operatori sono tenuti a fornire al mercato, al pari di quanto già attualmente imposto ai gestori del risparmio con risultati senz'altro soddisfacenti.
Oltre all'opportunità di estendere la trasparenza ex ante a tutti i prodotti finanziari offerti al pubblico, come già ampiamente ho rappresentato, ritengo parimenti necessaria l'estensione anche del regime di trasparenza ex post, la cosiddetta informativa continuativa e periodica, da rendere al cliente, a prescindere da una sua specifica richiesta, e a tutti gli agenti


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di uno stesso settore, siano essi di estrazione bancaria, finanziaria o assicurativa.
Creare una siffatta regolamentazione segnerebbe veramente un deciso superamento della situazione attuale, che vede troppi, e troppo differenti, statuti particolari per agenti e prodotti finanziari. Tale affastellamento di regimi - oltre a rendere caotico e mal governabile il sistema - costituisce una asimmetria e diviene anche causa di disorientamento e diffidenza da parte degli investitori, risolvendosi, in definitiva, in un ostacolo all'investimento e quindi allo sviluppo del mercato finanziario.
Così intervenendo, dunque, mentre gli operatori del mercato vengono guidati dalla legge a sfruttare meglio la trasparenza, gli investitori vengono aiutati nel loro percorso di crescita e maturazione finanziaria, con una informativa completa e di buona qualità, e vengono posti in guardia da investimenti inconsapevoli e, quindi, inadatti.
La trasparenza tuttavia non è, come già anticipato, l'unico dei doveri da armonizzare. Esiste anche il dovere di porre la diligenza necessaria ad assicurare la migliore esecuzione possibile nelle attività svolte per conto dei clienti (cosiddetta best execution) in tutti i campi: finanziario, bancario e assicurativo.
Per garantire l'efficacia della disposizione sarà necessario indicare le condizioni in base alle quali possa ritenersi che un operatore abbia compiuto ogni sforzo ragionevole per ottenere la migliore esecuzione per il suo cliente, ferma restando la necessità di attribuire allo stesso soggetto la responsabilità di predisporre meccanismi e procedure di controllo interno.
Se regole comuni accrescono la fiducia nell'imparzialità e nella qualità dei servizi degli operatori professionali, ed è necessario che un tale risultato sia raggiunto, è diventato necessario, altresì, prevedere anche stringenti disposizioni comuni che disciplinino i casi sempre più frequenti di conflitto tra l'interesse dell'operatore e quello del suo cliente.
La gamma sempre più ampia di attività svolte contemporaneamente da un unico operatore ha moltiplicato le fonti di conflitto di interessi, data la scelta del legislatore di consentire la polifunzionalità degli intermediari. Da qui la necessità che la regolamentazione disciplini tali situazioni rendendo trasparenti i conflitti mediante una più efficace informativa al cliente.
La strada è già stata tracciata. Un riferimento importante proviene ancora una volta dalle istituzioni comunitarie: le regole di comportamento previste nella proposta di revisione della direttiva sui servizi di investimento, implementate dal Comitato europeo delle autorità di supervisione dei mercati finanziari (CESR), offrono un parametro adattabile a tutti i campi di attività.
A completamento di quanto finora esposto, concludo trattando del collocamento degli strumenti finanziari «senza prospetto». Nell'ambito delle regole di comportamento a tutela degli investitori, le modalità di collocamento degli strumenti finanziari presso il pubblico dei risparmiatori sono certamente una delle priorità da affrontare.
Si è discusso al riguardo circa la possibilità di introdurre nel nostro ordinamento una regola analoga a quella della Rule 144 emanata dalla SEC in attuazione del Securities Act del 1933, che vieta agli intermediari, per almeno un anno, di trasferire nel portafoglio dei risparmiatori le obbligazioni collocate senza prospetto e acquisite in occasione di prestiti obbligazionari destinati agli investitori professionali.
In realtà, la vera risposta ai problemi che regole come questa mirano a risolvere risiede nel pieno sviluppo degli investitori istituzionali in genere e dei fondi pensione in particolare. Sono questi, infatti, i soggetti cui naturalmente dovrebbero essere destinati gli strumenti finanziari generati dalla disintermediazione bancaria. E tuttavia, secondo il nostro convincimento, per introdurre da noi un principio di garanzia dell'investitore che sia sostanziale e non meramente formale, occorre prevedere meccanismi che non si limitino a ritardare nel tempo il trasferimento del rischio di


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insolvenza dell'emittente in capo al risparmiatore, ma che tendano a minimizzare, senza vincoli temporali, le possibilità di una traslazione del rischio-emittente dall'intermediario al privato investitore. Ciò può raggiungersi attraverso due strade tra loro alternative.
Una prima soluzione è quella prospettata dal disegno di legge sulla tutela del risparmio che il Governo si accinge a presentare in Parlamento: si tratta di estendere l'applicazione della disposizione di cui all'articolo 2412, comma 2, del codice civile, agli strumenti e agli altri prodotti finanziari emessi all'estero e collocati, in Italia o all'estero, presso soli investitori professionali, qualora la successiva circolazione avvenga in Italia nell'esercizio delle attività disciplinate dalla parte II del TUF. Tale disposizione statuisce la responsabilità del collocatore nel caso di insolvenza sopravvenuta dell'emittente. Semmai si potrebbe, anzi, pensare di estendere ulteriormente l'ambito di applicazione della norma con riferimento al caso di emissione in Italia, e non solo all'estero, di titoli per la raccolta del capitale di debito se destinati ad essere sottoscritti da investitori istituzionali.
Una seconda soluzione, meno stringente ma comunque da prendere in considerazione, consiste nel prevedere una formale attestazione, da parte dell'intermediario che presta le attività disciplinate dalla parte II del TUF, della rispondenza o meno dell'investimento al profilo di rischio del cliente, indipendentemente dal fatto che l'iniziativa per l'acquisto dello strumento finanziario promani dallo stesso cliente o sia invece il frutto di una proposta dell'intermediario. In sostanza si tratterebbe di adattare la valutazione di adeguatezza già presente nel sistema (articolo 29 del regolamento Consob n. 11522/98), cristallizzandola in un atto autonomo, fonte di responsabilità contrattuale, qualora l'investimento effettuato dal risparmiatore si rilevasse non consono alla storia e alle capacità reddituali di quest'ultimo.
Vi ringrazio per la vostra attenzione e, nel congedarmi, voglio ancora una volta sottolineare l'importanza, anzi, direi la necessità, di introdurre nella nostra legislazione più ampi presidi a tutela diretta dei risparmiatori e un rafforzamento dei diritti delle minoranze azionarie come quelli che ho illustrato, per contribuire ad evitare quegli incresciosi recenti accadimenti che hanno minato la credibilità del nostro sistema finanziario e recato danni concreti a tanti risparmiatori che, in molti casi, hanno visto svanire, coi loro risparmi, le difese faticosamente accumulate per il loro futuro.
Le proposte che abbiamo sottoposto si presentano come soluzioni di per sé semplici e dirette. Ciò non significa che la loro concreta attuazione sia facile. La resistenza contro di essa proverrà anche da chi, invocando la indubbia complessità dei problemi oggi discussi, riterrà le questioni bisognose di ulteriori approfondimenti e di più articolate risposte. Ma io mi auguro che nel concludere i vostri lavori abbiate la forza di superare quella resistenza, avendo presente, nel vostro possibile fare, quel detto della sapienza popolare secondo il quale «il meglio è nemico del bene», e il bene è sempre un imperativo dell'oggi.

PRESIDENTE. La ringrazio, dottor Cammarano, per la sua relazione. Do ora la parola ai colleghi che desiderano intervenire.

RICCARDO PEDRIZZI, Presidente della 6a Commissione permanente del Senato. Vorrei rivolgere un ringraziamento e i miei complimenti al presidente Cammarano per essere stato l'unico, circa un anno fa, ad avere rilevato dei sintomi di difficoltà di quella grande multinazionale che una volta era la Parmalat. Desidero anche darle atto pubblicamente che è da tempo che lei, in pubblico e in colloqui privati, andava manifestando perplessità su certe dinamiche di raccolta del risparmio.
Lei ha allegato alla relazione da lei consegnata una lettera datata Milano, 6 marzo 2003. Quante richieste avevate ricevuto dagli investitori istituzionali che lamentavano la carenza di comunicazione


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da parte dei vertici della Parmalat e quante lamentele vi erano state?
Inoltre, a quali altri soggetti od organi di vigilanza erano state indirizzate queste lamentele ed avanzate tali richieste? Dopo la richiamata lettera, e di fronte a perplessità di tale portata, il presidente della Consob e l'amministratore delegato di Borsa italiana spa quali risposte hanno fornito?

GIORGIO BENVENUTO. Intendo anch'io ringraziare in maniera non formale il presidente Cammarano perché non è la prima volta che abbiamo modo di sentirlo e in tutte le occasioni egli ha dimostrato sempre grande attenzione alla necessità non solo di difendere il risparmio ma anche di valorizzarlo. Apprezzo molte delle proposte che sono state indicate, ai fini di una valorizzazione delle minoranze azionarie, in direzione di una politica di maggiore trasparenza. In proposito, stiamo attualmente svolgendo un'indagine tesa appunto a verificare l'effettiva efficacia delle misure previste dal testo unico della finanza. Con preoccupazione guardo una tendenza che pare affermarsi tra i soggetti auditi, i quali manifestano un atteggiamento contraddittorio. Da un lato, infatti, si dice che quanto avvenuto costituisce una calamità, lo si ritiene un fatto isolato, come un maremoto, una guerra, dall'altra, però, ci si rende conto che nulla potrà più essere come prima. Quindi, proprio alla luce di ciò, apprezzo particolarmente la sua risposta, presidente; trovo estremamente importante la formulazione di proposte a carattere operativo.
Vengo alle domande. Anch'io, come pure il presidente Pedrizzi, ricordo come Assogestioni - che non poteva prevedere quanto sarebbe accaduto - abbia svolto un'azione prudente. Così pure la Covip. Infatti, nella gestione dei fondi di previdenza integrativa - ciò che sta a cuore anche ad Assogestioni - è stata adottata una linea prudenziale; in tal senso, mi ha colpito che il fondo agroalimentare, al quale sono associati anche i lavoratori dipendenti di Cirio e Parmalat, e anche i rappresentanti delle imprese, non avesse acquistato neppure un'obbligazione, né dell'una, né dell'altra.

BRUNO TABACCI, Presidente della X Commissione permanente della Camera dei deputati. La Banca d'Italia sì!

GIORGIO BENVENUTO. Infatti, stavo appunto per aggiungere che il fondo di previdenza della Banca d'Italia ha invece investito in bond Parmalat. Vengo ora alle osservazioni da esporre. Lei, presidente, nella sua relazione, parla di una proposta rivolta alle società facenti parte dell'indice MIB30 della Borsa, suggerendo, tra l'altro, di anticipare alcune modifiche di carattere statutario.
Lei riferisce che le risposte non sono arrivate. Le chiedo, allora, se sia stata investita anche la Borsa spa dell'iniziativa Assogestioni.
Inoltre, come richiamava il presidente Pedrizzi, è stata distribuita una lettera che abbiamo avuto modo di leggere anche attraverso le informazioni diffuse dalla stampa e di cui ho pure sentito parlare nel corso di un'intervista televisiva: è stata inviata, per conoscenza, alla Consob e all'amministratore delegato della Borsa. Sono state assunte delle iniziative o il documento è passato inosservato? Mi interesserebbe molto avere degli elementi a riguardo.

MAURIZIO EUFEMI. Ritengo che con l'audizione del presidente Cammarano l'indagine si arricchisca di ulteriori elementi di valutazione. L'Assogestioni fa chiarezza di tanti giudizi sommari che pure abbiamo ascoltato. Intanto, chiedo al presidente La Malfa che, alla luce della relazione del presidente Cammarano, la lettera poc'anzi citata dal presidente Pedrizzi venga allegata al resoconto stenografico della seduta odierna. Essa appare infatti necessaria ai fini della ricostruzione storica degli avvenimenti e non può essere inserita in un elenco indistinto. Quella lettera, certamente fa aggio della prudenza di Assogestioni, ma dimostra pure come i soggetti che avrebbero dovuto svolgere i controlli non li


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abbiano eseguiti. Nel mese di maggio, avevamo sentito i rappresentanti di Consob affermare che il nostro era un sistema imitato in tutta Europa, e il presidente Pedrizzi lo ricorderà. Visto, poi, che il presidente Tabacci si era permesso una battuta a proposito dei bond Parmalat, potrei osservare che la Banca d'Italia, con il long term hedge fund, guadagnò uscendo prima che si aprisse la nota crisi. Si tratta di giochi in cui si perde o si vince.
Certamente, alcune delle questioni sollevate dal presidente Cammarano sono condivisibili.

PRESIDENTE. Non parliamo della questione dell'hedge fund che io rammento bene ma in modo un po' diverso da come fa lei. C'è qualche perdita...

MAURIZIO EUFEMI. Ma non per la Banca d'Italia...

PRESIDENTE. Non è materia di questa sede, passiamo oltre. Prosegua il suo intervento, senatore.

MAURIZIO EUFEMI. Alcune questioni sono condivisibili. Soprattutto quelle relative ad asimmetrie informative, razionalizzazione dei controlli e distinzione per funzioni. Quanto al problema di fondo che avete posto, ovvero valorizzare e tutelare le minoranze azionarie, è stato un aspetto che ho toccato personalmente nel corso della precedente audizione. È una convinzione profonda, quella della necessità di modificare il quorum, così come è assai rilevante il problema del rispetto dei controlli, tra gli altri aspetti considerati. Alla luce di tali considerazioni chiedo al presidente Cammarano: perché nell'opinione pubblica si sta affermando la sensazione che il controllo di Isvap, per esempio, e di Banca d'Italia non sia stato effettivo? E qual è la vostra posizione sull'applicazione o meno della Rule 144, emanata dalla SEC, relativamente al trattenimento, in capo agli intermediari finanziari, dei prodotti che vengono emessi e collocati sui mercati?

VINCENZO VISCO. Signor presidente, pongo due domande, la prima delle quali riguarda forse il maggiore scandalo di quelli a cui abbiamo assistito nell'ultimo anno, cioè il caso dei fondi San Paolo. Nessuno ne ha parlato ma se ho capito bene ciò che la stampa ha riportato, in quel caso, accadeva semplicemente che dopo la conclusione delle transazioni certi risultati venivano attribuiti ad un fondo anziché un altro. Questa è una delle vicende più gravi che possano accadere. Vorrei, in primo luogo, capire perché sia accaduto, che cosa non abbia funzionato e cosa si potrebbe fare.
Collegato a ciò, vorrei sapere quali informazioni si abbiano oggi sulla composizione del portafoglio dei fondi e sulla loro variazione. Ad esempio, è probabile che una parte dei «famosi» bond fosse presente in qualche fondo, proprio per compensare rendimenti e rischi. Da un lato vi è un problema di trasparenza nei confronti degli investitori su quanto vi è nei fondi, anche per evitare casi come quello del San Paolo, e dall'altro vi è un bisogno specifico in relazione a casi come quelli Cirio e Parmalat.

NATALE D'AMICO. Ringrazio anch'io il presidente dell'Assogestioni per il suo intervento molto netto ed esprimo, in primo luogo, una sincera ammirazione per questa lettera: l'Assogestioni pose il problema in un momento importante e se questa iniziativa fosse stata seguita con maggiore attenzione dal mercato e dai soggetti interessati ci avrebbe portato, probabilmente, ad anticipare la crisi. Vorrei chiedere al presidente Cammarano, attento studioso anche in generale della regolamentazione del sistema finanziario, come mai questa lettera sia indirizzata al dottor Callisto Tanzi, al presidente della Consob ed al presidente della Borsa italiana ma non alla Banca d'Italia. Penso di conoscere la risposta ma vorrei sentirla da lei.
Avevo capito che la questione relativa al «famoso» articolo 100, lettera f), del testo unico sia in qualche modo risolta od almeno l'Italia non possa non risolverla nel superamento dell'esenzione in virtù


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della direttiva in materia di prospetto unico. Mi sembra di aver capito che l'Italia, alla luce della direttiva comunitaria, non abbia alternative (anche se qualora fosse possibile un'alternativa penso sarebbe giusta la posizione da lei espressa). Vorrei conoscere la sua opinione.
Inoltre, il legislatore in materia di tutela delle minoranze ha introdotto con il testo unico finanziario alcune novità. Come lei ci invita a fare, dobbiamo prendere atto del fatto che queste novità, pur giuste, non sono sufficienti. Ad esempio i limiti relativi all'azione di responsabilità e gli stessi limiti riguardanti la presentazione di liste da parte delle minoranze debbono essere ulteriormente abbassati. Sono d'accordo con lei, ma un'altra considerazione è che i fondi comuni italiani tendono, in generale, a partecipare poco alle assemblee. Forse quei limiti non si raggiungono perché i fondi italiani partecipano poco all'assemblea rispetto a quanto fanno, nel resto del mondo, gli analoghi soggetti finanziari.
Infine, lei ha accennato al conflitto di interessi. Ne stiamo parlando e al termine dei lavori della Commissione dovremo continuare a confrontarci su come intervenire. Naturalmente il tema si pone anche per le società di gestione del risparmio. Ci troviamo dinanzi a questioni riguardanti i gruppi bancari e vorrei capire come l'associazione abbia fronteggiato o pensa di fronteggiare tale potenziale conflitto di interessi.

GIANCARLO PASQUINI. Esprimo apprezzamento per le proposte contenute nel documento. Una parte di esse riguardano la tutela delle minoranze con modifiche del diritto societario o attuazioni dello stesso riguardanti l'azione di responsabilità e la rappresentanza delle minoranze all'interno del collegio sindacale e del consiglio di amministrazione attraverso il voto di lista. Vorrei sapere se esistano analoghe proposte concernenti la composizione dell'audit committee, la scelta e l'incarico alle società di revisione e alle società di rating come garanzia di trasparenza per quanto riguarda le informazioni.
Inoltre, per quanto riguarda le obbligazioni collocate senza prospetto e destinate almeno inizialmente ad investitori istituzionali, l'obbligo di trattenuta in portafogli è ritenuto insufficiente e vengono avanzate due proposte. La prima suggerisce una garanzia che l'intermediario dovrebbe fornire qualora la società vada in default; ma essa non sarebbe troppo gravosa finendo per annullare la possibilità di attuare tale modalità? La seconda proposta è una maggiore attinenza dell'investimento obbligazionario rispetto al profilo di rischio del cliente. In questo caso, invece, essa non si presterebbe a delusioni che, in sostanza, la renderebbero inefficace?

PRESIDENTE. La lettera indirizzata dall'associazione agli inizi di marzo del 2003 alla Parmalat fa riflettere su quanto hanno detto il governatore della Banca d'Italia e il presidente dell'Associazione bancaria italiana, cioè che le banche siano state sorprese dal default della società in quanto sino a qualche giorno prima vi sono stati analisti finanziari che hanno suggerito di acquistare titoli della Parmalat. Mi chiedo, e mi rivolgo al collega D'Amico, se sia possibile ciò e quale giudizio dobbiamo avere su un sistema bancario che non si «sveglia». Continuo a chiedermi ed a chiedere se sia peggio che essi sapessero o che non sapessero.
Per quanto riguarda il fatto che la lettera non sia stata indirizzata al governatore, le ricordo, collega D'Amico, che se è vero che il governatore non è il dante causa del mercato finanziario esso è il dante causa del sistema bancario. Tradizionalmente le banche riportano tutto alla Banca d'Italia, perché storicamente essa doveva fare il risconto e le anticipazioni al sistema bancario. Quando la banca Sella deve concedere un prestito ad un cliente importante, informa la Banca d'Italia e chiede un consiglio. Nessun governatore si è mai fatto sfuggire ciò e qualora avvenisse ci chiederemmo se svolgerebbe bene le


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proprie funzioni. Non è pensabile che la Banca d'Italia non fosse a conoscenza del fatto che alcune grandi banche italiane avevano dato tre miliardi di euro a Parmalat nel 2003. La domanda posta dal collega D'Amico è formalmente comprensibile ma la sostanza è diversa.

NATALE D'AMICO. Non ho diritto alla replica.

PRESIDENTE. Siamo in un clima tale per il quale lei ha diritto alla replica e, se lo desidera, ho il «dovere» di concederla. Si tratta, comunque, di questioni che riprenderemo in sede di conclusioni.
Do ora la parola al presidente Cammarano per la replica alle domande poste dai colleghi.

GUIDO CAMMARANO, Presidente di Assogestioni. Innanzitutto, siamo noi, come associazione e come rappresentanti del risparmio gestito, a dovervi ringraziare perché oggi abbiamo potuto esprimere i nostri punti di vista, anche abbastanza netti, proprio perché abbiamo capito che sta mutando l'atteggiamento culturale da parte del legislatore nei confronti del sistema finanziario italiano.
Per quanto riguarda la domanda principale, quella relativa alla Parmalat, devo muovere da una premessa. Dovete distinguere, perché il lavoro dei gestori non è il lavoro delle banche. In altri termini, il gestore effettua una analisi in base alla sua sensazione, per così dire, di prospettiva e di affidabilità dell'impresa dal punto di vista strettamente finanziario. Le banche, invece, svolgono un'azione di esame e di rapporto con il cliente (al quale può darsi che siano state nascoste alcune informazioni: anzi, così dicono e, quindi, sicuramente è così) che tende a finanziare e sostenere l'impresa. Sono due mestieri completamente diversi, che non possiamo mettere sullo stesso piano: c'è una distinzione.
Certamente, le società di gestione dispongono di una «antenna» particolare, nel senso che, formalmente, non prendono parte alle assemblee delle società - come ricordava il senatore D'Amico - ma, di fatto, vi partecipano e, molto spesso, ciò non è pubblicizzato. Nel caso Parmalat, avevano partecipato ed espresso voto contrario, addirittura, nell'assemblea del 2002. Inoltre, noi disponevamo di un altro campanello d'allarme perché nella Parmalat nel periodo 1999-2002, c'era un sindaco di minoranza, eletto con il concorso delle società di gestione che, a quell'epoca, avevano più del 3 per cento e potevano partecipare, nominare e contribuire a una lista. Dal momento che quel sindaco chiedeva continuamente informazioni, praticamente fu messo alla porta e, di fatto, non rieletto perché in seguito, nel 2002, le società di gestione non disposero più di quel 3 per cento e non poterono più concorrere, quindi, all'elezione di un sindaco di minoranza.
Quello che noi chiediamo per quanto riguarda la corporate governance, cioè la partecipazione all'elezione di un sindaco e la partecipazione al consiglio di amministrazione, non costituisce un tentativo di acquisizione di potere nei confronti delle società, come potrebbe sembrare, ma uno strumento utile e necessario proprio perché il mercato possa verificare come procedono le cose. Questo strumento della corporate governance, della partecipazione ai consigli di amministrazione e ai collegi sindacali da parte di rappresentanti di minoranza, si è dimostrato importantissimo per le stesse società e un'esperienza positivissima per le grandi società privatizzate.
Noi abbiamo avuto e avevamo informazioni diverse. Non ci sono state fornite risposte, innanzitutto, perché noi abbiamo l'obbligo di segnalare ma non abbiamo il diritto di ricevere una risposta. Non sappiamo quale sia stato il procedimento che si è svolto all'interno della Consob o della Borsa italiana, a seguito della nostra segnalazione. Può darsi che, come io ritengo, qualcosa sia avvenuto all'interno di quelle strutture. I gestori aderenti alla nostra associazione, di fronte a questa situazione, hanno preso chiaramente una posizione di


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investimento che, come detto, era già cominciata. Tanto è vero che nel patrimonio - secondo dati citati dal governatore della Banca d'Italia e, quindi, da questo punto di vista, statisticamente ineccepibili - c'erano 60 milioni di euro, che significa lo 0,008 per cento del patrimonio investito. Perciò, effettivamente, avevano capito quale fosse la situazione ed erano usciti.
Questa risposta è rivolta, innanzitutto, al suo intervento, presidente Pedrizzi, perché le lamentele dei nostri gestori erano state ricevute dal comitato di corporate governance che abbiamo nell'ambito della nostra associazione ed avevano dato luogo a questa lettera. Le risposte, in qualche modo, le abbiamo ottenute successivamente, quando si è visto che gli organi ufficiali si sono mossi.

RICCARDO PEDRIZZI, Presidente della 6a Commissione permanente del Senato. Quindi, risposte voi non ne avete avute, dalla Consob e dalla Borsa italiana, nemmeno risposte di cortesia.

GUIDO CAMMARANO, Presidente di Assogestioni. No, neppure risposte di cortesia.

RICCARDO PEDRIZZI, Presidente della 6a Commissione permanente del Senato. Non avete ricevuto alcuna risposta, dopo una segnalazione di questo genere.

GUIDO CAMMARANO, Presidente di Assogestioni. Tuttavia, come ripeto, noi pensiamo di non essere destinatari di risposte. Molto spesso, nel passato, abbiamo segnalato molti casi; di fatto, poi, sono state le società a muoversi e, quindi, non abbiamo ricevuto risposte. Dico questo per spiegare come stanno le cose. Comunque, la situazione di fatto è quella che lei descrive.
Onorevole Benvenuto, le proposte riguardo alle società quotate in borsa sono molto importanti per noi. Le abbiamo formulate perché pensiamo che, in base al nuovo diritto societario, per le società quotate sia possibile modificare gli statuti per venire incontro alle esigenze degli azionisti di minoranza. A fronte di questa nostra proposta, inviata anche alla Borsa italiana, alla Consob e alla Banca d'Italia - perché noi informiamo delle nostre azioni anche gli organi preposti alla vigilanza - abbiamo ottenuto due sole risposte, da parte di due società che già avevano fatto tutto questo. Perciò, chiediamo che il legislatore intervenga in proposito, riducendo i limiti attualmente previsti dal testo unico.
Per quanto riguarda la domanda del senatore Eufemi, noi riteniamo - e lo abbiamo precisato nella nostra relazione - che, di fatto, sugli strumenti finanziari che hanno contenuto di gestione il controllo effettuato dalla Banca d'Italia o dall'Isvap non sia attinente alla rendicontazione di gestione, perché riguardano la stabilità dell'intermediario. Quindi, non sono portati a conoscenza dell'investitore per tutte le caratteristiche che hanno essenzialmente, cioè vengono venduti prodotti strutturati.
L'onorevole Visco ha citato il problema dei fondi del San Paolo; vorrei ricordargli che c'è stata anche la questione del Monte dei Paschi di Siena. Infatti, erano prodotti che contenevano una gestione e che, però, non erano stati «prospettati» perché il loro contenuto, formalmente, era stato considerato come un prodotto bancario. Noi chiediamo, invece, che per i prodotti che hanno contenuto finanziario ci siano la stessa identica informazione al privato e contenuto del controllo.
Per quanto riguarda la rule 144, ci sembra che differire soltanto di un anno la traslazione del rischio non sia sufficiente. I casi recenti hanno dimostrato che, forse, un anno è troppo poco. Di fatto, noi pensiamo che la vera tutela sia costituita dallo sviluppo degli investitori istituzionali, perché essi sono in grado di effettuare queste analisi. Riprendendo una osservazione del presidente La Malfa, ricordo che gli analisti delle società di gestione hanno dimostrato l'autonomia di queste ultime rispetto ai gruppi di appartenenza perché compiono valutazioni - lo ripeto - di


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carattere strettamente finanziario. Quindi, anche questa è una caratteristica particolare che riguarda il nostro settore.
Tornando alla domanda dell'onorevole Visco, è vero che c'era stata la questione dei fondi San Paolo. In quel caso, non hanno funzionato le strutture di controllo interno. Purtroppo, gli organi di vigilanza, la Banca d'Italia e la Consob, successivamente sono intervenuti per imporre regole strette di controllo interno e di organizzazione che, precedentemente, non c'erano. Devo dire che, per fortuna, i danni non sono stati (poiché ci si trova in un periodo di borsa in crescita) catastrofici, a differenza di altre occasioni.

VINCENZO VISCO. Nell'organizzazione interna della banca vi è un protocollo di autonomia? Non si può sempre attendere il controllo del regolatore.
Vi erano i gruppi polifunzionali, che dovevano evitare conflitti d'interesse ed effettuare il controllo. Nel caso specifico, il controllo è stato condotto e vi è stato un tentativo di punizione.

GUIDO CAMMARANO, Presidente di Assogestioni. Per quanto riguarda le società di gestione, noi abbiamo elaborato il protocollo di autonomia successivamente al periodo in esame. All'epoca, vi dovevano essere i presidi di autonomia di gestione.
Lo ripeto, il problema è stato il rapporto tra fondi e fondi. Si tratta di un problema di controllo interno della società. Gli organi di controllo sono, infatti, intervenuti successivamente ad imporre forme strette di controllo interno. In ogni caso, per quanto ci risulta, non vi è stato danno per i risparmiatori.
Per rispondere al senatore D'Amico, il motivo per il quale la lettera della Parmalat non è stata inviata è riscontrabile nel fatto che - come ha già detto il presidente La Malfa - non si tratta di un destinatario dei problemi del mercato.
L'articolo 100 del testo unico della finanza non si attua con il prospetto unico. La direttiva sul prospetto unico indica una direzione, ma non contempla tutti i prodotti finanziari. Non è così dettagliata. Noi chiediamo (per i risparmiatori, ovviamente) una parità di trattamento sull'informativa agli investitori. È molto importante. Bisogna dire, inoltre, che la direttiva sul prospetto unico non riguarda i prodotti assicurativi. Le assicurazioni non sono potenti solo in Italia, ma anche in sede comunitaria.
Per quanto riguarda il conflitto di interessi all'interno delle banche capogruppo, si tratta di un problema reale. Come Assogestioni, abbiamo tentato - attraverso protocolli di autonomia - di creare la distinzione tra le banche e le società di gestione. Di fatto, il caso Parmalat ha dimostrato la validità di tale distinzione. L'autonomia delle società di gestione è stata provata dalla loro uscita, a differenza delle banche.
La più grande garanzia delle società di gestione non si riscontra nella loro capacità di autonomia, ma nel dover fare, ogni giorno, la loro quota; nel doversi confrontare sul mercato con le quote delle altre società. Ciò crea una competizione che non permette (o, perlomeno, riduce al minimo) lo sviluppo di conflitti di interesse e, quindi, accresce la loro autonomia. Poiché, infatti, dei fondi comuni si conoscono tutti i dati, ogni mese (o, addirittura, ogni quindici giorni) i giornali effettuano confronti tra le diverse società di gestione.
Se si pone attenzione alle nostre statistiche, si verifica che i risparmiatori, sia pure lentamente, si spostano tra i diversi fondi. Ciò vuol dire che i confronti hanno una loro incidenza. Pertanto, per affrontare la concorrenza, le società devono avere una gestione corretta, efficiente e profittevole.
Per quanto riguarda la domanda del senatore Pasquini circa la tutela delle minoranze e l'eventuale esistenza di analoghe proposte per le società di rating, devo dire che su tale aspetto non abbiamo elaborato una nostra posizione. Riteniamo che le proposte avanzate vadano nella giusta direzione.
Circa le obbligazioni senza prospetto e la responsabilità per default, non crediamo


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che la seconda proposta (la prima, probabilmente, è troppo gravosa) sia inefficace. Creare una responsabilità contrattuale significa, infatti, che anche l'investitore si faccia carico della propria responsabilità. Il mercato cresce se crescono entrambi i suoi lati. Il nostro (e vostro) compito è costituire gli strumenti per la crescita del mercato stesso.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente di Assogestioni per l'interessante contributo che ci offre importante materia di riflessione. Autorizzo la pubblicazione in allegato della lettera da lui inviata alla Parmalat il 6 marzo 2003, e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 19,45.


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ALLEGATO


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