COMMISSIONI RIUNITE
VI (FINANZE) - X (ATTIVITÀ PRODUTTIVE, COMMERCIO E TURISMO) DELLA CAMERA DEI DEPUTATI E 6a (FINANZE E TESORO) - 10a (INDUSTRIA, COMMERCIO E TURISMO) DEL SENATO DELLA REPUBBLICA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 22 gennaio 2004


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
DELLA X COMMISSIONE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI
BRUNO TABACCI

La seduta comincia alle 15,10.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata, oltre che mediante impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.
(Così rimane stabilito).

Audizione dei rappresentanti della Confapi.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui rapporti tra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio, l'audizione dei rappresentanti della Confapi.
Sono presenti il presidente della Confapi, dottor Danilo Broggi, il direttore generale, dottor Sandro Naccarelli, e altri collaboratori. Avverto che per l'audizione del presidente della Confapi è prevista la durata di circa di un'ora e mezza scarsa e che il presidente della Confapi ha facoltà di svolgere il suo intervento introduttivo per circa mezz'ora. Lo prego di rispettare questo tempo. Successivamente, i parlamentari potranno porre domande, che non dovranno eccedere i tre minuti ciascuna. La presidenza si riserva di tenere conto della ripartizione dei tempi tra i gruppi stabilita dagli uffici di presidenza.
Do ora la parola al dottor Broggi, che ringrazio per la sua presenza e per l'autorevole delegazione della sua associazione. Egli conosce perfettamente quali sono i termini dell'indagine che le Commissioni VI e X della Camera e 6a e 10a del Senato stanno compiendo. Sono presenti i presidenti Pedrizzi e Pontone, mentre il presidente La Malfa è in viaggio per gli Stati Uniti e si scusa per la sua assenza. Le do pertanto la parola.

DANILO BROGGI, Presidente della Confapi. Rivolgo un ringraziamento ai presidenti delle Commissioni, che ci hanno permesso oggi di testimoniare il nostro punto di vista rispetto alla questione legata ai rapporti tra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio.
La prima considerazione è che il fatto più recente, il crac della Parmalat, ha coinvolto e sta coinvolgendo, parimenti ai risparmiatori - di cui giustamente si parla molto -, anche le piccole e medie imprese, che sono direttamente o indirettamente coinvolte dalle attività del gruppo Parmalat.
Situazioni di questo tipo, che via via stanno sempre più connotando la cronaca delle industrie di questi ultimi anni (mi riferisco alle crisi di Fiat, Cirio, Giacomelli, Tecnosistemi, Postal Market, e così via) stanno provocando un problema sia in termini di tenuta, in particolare per quanto riguarda la perdita dei crediti, sia per quanto riguarda la contrazione del mercato di riferimento delle piccole e medie imprese.
Questa situazione ci preoccupa particolarmente, ancor più da quando siamo


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venuti a conoscenza di una elaborazione fatta dal quotidiano Il Tempo, su dati Mediobanca, in cui si afferma che su 223 società industriali quotate in Borsa, ben il 47 per cento ha debiti superiori al fatturato, con percentuali oscillanti tra il 120 e il 750 per cento.
Ai danni diretti si aggiungono, per le piccole e medie aziende, anche altri danni, che possiamo definire indiretti: una ricaduta negativa dell'immagine del paese; un aumento dei costi bancari in termini di tassi e commissioni, derivanti dal tentativo di recuperare le perdite subite; il rischio di restrizioni creditizie. A questi danni si sommano quelli prospettici: una maggiore difficoltà di accesso e l'aumento dei costi rispetto alle risorse dei mercati finanziari e dei capitali; una maggiore sfiducia del mercato nei confronti di strumenti finanziari quali i bond, che potrebbero consentire lo sviluppo della finanza per le imprese di minori dimensioni; una maggiore sfiducia degli investitori esteri nei confronti dei prodotti finanziari italiani e del sistema industriale italiano in generale.
Riprendendo più in dettaglio questi punti, voglio concentrare la mia attenzione sulla difficoltà di accesso al finanziamento e sul problema del rapporto tra le piccole e medie aziende e il sistema creditizio. Devo sottolineare la distorsione rappresentata dal fatto che per sopperire a pagamenti lunghi da parte della grande impresa, le piccole e medie aziende devono scontare quei crediti presso istituzioni finanziarie i cui azionisti sono gli stessi della grande industria per la quale sono stati generati i crediti. Nel caso Parmalat, quindi, il paradosso è che la Parmatour, che ha 450 milioni di debiti e un milione di euro in cassa, sta chiedendo alle imprese che hanno scontato le fatture Parmalat il rientro o, comunque, sta mettendo in difficoltà le stesse piccole e medie aziende, creando un circolo perverso il cui risultato non credo debba essere ulteriormente commentato.
Il problema è ancora più vasto ed è rappresentato dalla mancanza di efficaci politiche industriali e fiscali che favoriscano il rafforzamento patrimoniale delle piccole e medie aziende; è necessaria una riforma del mercato ristretto, quale quella recentemente varata, sicuramente positiva, che tenti di allargare ad una platea più vasta di medie imprese l'accesso alla Borsa, possibilità non ancora prevista; ma, soprattutto, manca un livello intermedio di finanza di impresa basato su strumenti, soprattutto di partecipazione, specializzati nelle emissioni di titoli di credito di piccole e medie industrie da collocare sul mercato.
Va fatta anche una riflessione su Basilea 2. Infatti, in questo momento le piccole e medie imprese sane, che hanno crediti, in questo caso verso la Parmalat o verso altre aziende in crisi, proprio a causa di Basilea 2 - se dovesse essere applicato, o comunque nel caso in cui la banca già da oggi applichi un rating - si trovano immediatamente con un rating abbassato e quindi scatta l'elemento di prociclicità per cui Basilea 2 non risolve il problema di come affrontare i cosiddetti default temporanei derivanti dalle crisi della grande industria e, più in generale, da crisi temporanee.
Per quanto riguarda la questione del mondo del credito, il problema è che un processo che possiamo definire di finanzializzazione del sistema industriale, soprattutto quello di grandi dimensioni, ha portato il sistema bancario a erogare credito senza basarsi su piani di sviluppo concretamente ancorati all'economia reale e alla necessità di sviluppare il core business delle singole aziende, ma di fatto seguendo una logica che ha portato ad un'erogazione di credito assolutamente sproporzionata se raffrontata con quella della piccola e media azienda. Qui gli effetti distorsivi, voluti o non voluti, si stanno rendendo sempre più palesi e, soprattutto, sono palesi gli effetti negativi determinati sul mercato e sulle piccole e medie aziende dell'indotto di riferimento.
Su questo tema la nostra valutazione complessiva è che il sistema bancario deve ritornare a svolgere la sua funzione strategica di leva positiva dello sviluppo di quell'economia reale e di quella parte imprenditoriale che fino ad oggi ha avuto


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difficoltà a trovare credito, o che ha avuto credito solo se garantito con beni patrimoniali o personali dell'imprenditore, in una logica complessiva che deve poter vedere la piccola e media azienda come soggetto sul quale investire per creare le condizioni di sviluppo.
Un altro elemento riguarda gli strumenti da adottare in casi come questo per la tutela delle piccole e medie aziende. La legge Prodi (cosddetta Prodi-bis, decreto legislativo n. 270 del 1999) prevede alternativamente che si proceda o alla cessione dei complessi aziendali dell'impresa insolvente (in attesa di trovare un acquirente vengono mantenuti in attività per un periodo massimo di un anno), o alla ristrutturazione economica e finanziaria dell'impresa insolvente, da completare entro un periodo massimo di due anni. Nel caso in cui non si riesca a raggiungere questi obiettivi, l'impresa viene dichiarata fallita. Pur se non ci sfugge l'importanza di intervenire a salvaguardia della grande azienda per tutto ciò che essa rappresenta in termini di occupazione, di ricchezza sul piano industriale, ci chiediamo se a questo bene superiore si debba sacrificare tutto l'indotto delle piccole e medie aziende che, invece, da questo strumento non è tutelato. Infatti, i crediti vengono congelati per due anni e, quindi, la piccola e media azienda si trova a non poter svolgere azioni di recupero delle somme congelate e, inevitabilmente, oltre a quanto detto rispetto al rapporto con il sistema bancario, subisce un contraccolpo difficilmente digeribile proprio per la durata del periodo e l'entità del credito, a cui si assomma l'ulteriore effetto negativo in termini di quota di mercato, che normalmente in questi casi interviene. Pertanto, se l'ipotesi è quella di salvare l'azienda principale e quindi di rimetterla in gioco per poi sbloccare questi crediti, non si riuscirà a determinare effetti positivi perché in quel periodo gran parte delle piccole e medie aziende saranno morte oppure, quelle più fortunate, resisteranno a fatica con gravi ripercussioni sia sul piano occupazionale, sia per quanto riguarda la possibilità di un ulteriore sviluppo.
In questo senso, vogliamo sottolineare che in caso di ristrutturazione, l'articolo 4-bis, approvato ieri dalla X Commissione della Camera in fase di conversione in legge del decreto-legge n. 347 del 2003, introduce la possibilità che il commissario straordinario preveda un concordato per la soddisfazione dei creditori anche con forme diverse da pagamenti in denaro. Detto concordato è approvato con il voto favorevole della maggioranza del valore assoluto dei crediti ammessi. Con tale procedura gli interessi delle piccole e medie imprese rischiano di rimanere prevaricati da quelli dei grandi creditori (come le banche). Sarebbe quindi necessario introducendo, nella legge di conversione, un'adeguata tutela dei crediti minori, eventualmente prevedendo una divisione per classi omogenee dei creditori e di maggioranze predefinite. Devono nel contempo prevedersi criteri per la costituzione del comitato dei creditori, garantendo il contemperamento delle esigenze delle singole categorie.
Il nostro giudizio su questo strumento è negativo, o meglio, riteniamo che esso possa essere reso positivo con alcune modifiche. In particolare, noi richiediamo ulteriormente che nel comitato di sorveglianza, che il Ministero deve nominare ai sensi dell'articolo 45 del decreto legislativo n. 270 del 1999, venga contemplata la rappresentanza delle piccole e medie imprese.

PRESIDENTE. Presidente Broggi, l'Assemblea è convocata lunedì su questo argomento. L'indagine conoscitiva fa riferimento ad un campo più vasto e non è specificatamente legata ad una procedura in essere e che riguarda la cosiddetta Prodi-ter.

DANILO BROGGI, Presidente della Confapi. La riflessione che volevo porvi è che, dal momento che sarà previsto un rappresentante dei consumatori, riteniamo che, proprio alla luce di quanto stiamo


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dicendo rispetto all'impatto sulle piccole e medie imprese, anche esse debbano essere rappresentate. Noi riteniamo che vi siano una serie di provvedimenti che debbono essere adottati a sostegno delle imprese legate alle crisi delle grandi imprese. Essi consistono innanzitutto in aiuti a breve termine per il mantenimento dell'attività dell'impresa (ad esempio, la copertura delle spese salariali o dell'approvvigionamento corrente), e nel sostegno alla riconversione produttiva (in questo senso potrebbe trovare attuazione lo strumento del contratto di programma).
In particolare, cito ad esempio il contratto di filiera (di competenza del Ministero delle politiche agricole e forestali) o il contratto cosiddetto di riconversione gestito da Sviluppo Italia. Quest'ultimo potrebbe essere utilizzato qualora, come da più parti auspicato, venisse dichiarato per il caso Parmalat lo stato di crisi della filiera; ciò permetterebbe di attivare gli interventi originariamente previsti dalla legge n. 181 del 1989, come modificata dalla legge finanziaria 2003, per la riconversione in settori diversi dal siderurgico.
Un altro aspetto importante per alleviare i problemi creati alle piccole e medie aziende dalle insolvenze della grande industria, e dalla Parmalat in particolare, è rappresentato dall'attivazione di appositi strumenti di garanzia per i crediti contratti dalle piccole e medie imprese creditrici, per acquisire la liquidità necessaria a superare la fase di difficoltà finanziaria. La garanzia pubblica può essere immediatamente attivata, tramite i confidi e le banche, con un apposito finanziamento riservato alle imprese dell'indotto Parmalat al fondo di garanzia per le piccole e medie imprese ex legge n. 662 del 1996, che dispone già operante e dotato delle autorizzazioni comunitarie.
Si potrebbe inoltre ricorrere ad interventi sull'occupazione attraverso l'utilizzazione da parte delle piccole e medie imprese di strumenti temporanei, quali la cassa integrazione e i contratti di solidarietà.
Un altro tema riguarda il problema dei correttivi da valutare per evitare o comunque rendere marginale il ripetersi di eventi come questo. Siamo dell'idea che vada superata la difficoltà di conciliare la tutela del risparmio con la dimensione internazionale dell'attività economico-finanziaria che si sviluppa in ambiti caratterizzati dall'assenza di regole. La trasparenza dell'informazione ai risparmiatori, attraverso il prospetto informativo, non si è dimostrata sufficiente. Deve essere garantita la «trasmissibilità dell'informazione» ai risparmiatori circa la composizione del paniere in cui i gestori finanziari investono i fondi raccolti e le caratteristiche degli strumenti finanziari, affinché essi possano valutare continuativamente le proprie scelte di investimento in base alla propensione al rischio individuale.
Più in particolare, la questione delle autorità di controllo ci trova d'accordo sulla revisione dei ruoli, delle competenze e sul potenziamento degli strumenti di tali autorità e sulle loro interrelazioni con organismi di controllo internazionali similari, garantendo al contempo l'autonomia delle suddette autorità dal potere politico.
Un altro argomento riguarda le regole: siamo d'accordo su una più rigida legislazione che regoli i conflitti di interessi fra impresa e controllori. Il caso più rilevante (e che più spesso riscontriamo) è il conflitto di interessi sostanziali che esiste tra le società di revisione e le società di consulenza finanziaria e fiscale che fanno capo allo stesso soggetto economico. Riteniamo anche che si debba vietare alle società quotate di costituire e intrattenere rapporti economici finanziari con società e finanziarie aventi sede in paradisi fiscali.
Un aspetto che riguarda il sistema bancario è la ripresa della legislazione, delle direttive europee sul market abuse, dove vengono definite e ristrette le disposizioni che permettono ai soggetti imprenditoriali di sedere all'interno dei consigli di amministrazione del sistema bancario, introducendo il divieto o l'incompatibilità fra quegli imprenditori che siedano nei consigli rispetto all'erogazione di crediti da parte di quella stessa banca ad aziende


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per le quali quegli imprenditori siano punto di riferimento in termini di azionisti o di controllori della gestione.
Evidenzio poi il tema del recupero, soprattutto per ciò che riguarda il sistema bancario, della funzione propria di erogazione del credito che richiede assunzioni di responsabilità nella valutazione del merito di credito, mantenendo distinta la funzione di service finanziario e di intermediazione per la collocazione di prodotti finanziari.
Un'altra riflessione va poi fatta sui comportamenti, sulla cosiddetta etica. Siamo consapevoli che il problema delle regole e dei controlli, seppur importante, ha un'attinenza relativa se non vengono prodotti comportamenti che seguano un elevato profilo etico nell'operato delle imprese, degli amministratori, dei controllori e del sistema finanziario, in assenza del quale qualsiasi misura di controllo, anche di inasprimento, potrebbe risultare inefficace.
In conclusione, vi è una constatazione di quanto oggi il nostro sistema industriale, non solo in termini di tasso di occupazione ma anche di ricchezza prodotta, dipenda, sempre più in larga parte, dalle piccole e medie aziende e di come sia indispensabile una strategia di politica economica nonché industriale che permetta a questa impresa di potersi ulteriormente sviluppare.
Da un lato si dovrebbero attuare quegli strumenti di controllo e di salvaguardia che permettano alla grande azienda di svilupparsi seguendo linee coerenti, profili di mercato ed uno sviluppo fortemente ancorato alle proprie capacità: importante anche per il traino dell'economia indotta che, direttamente o indirettamente, vi si riporta. Pensiamo poi a strumenti di salvaguardia, in questi o in altri casi, affinché da una situazione fortemente compromessa per la grande industria non ne consegua una ulteriore e ancor più compromessa per l'indotto sottostante. Sotto questo profilo, riteniamo che sia importante non solo ragionare, come in questo caso, ex post cercando di capire come porre rimedio a situazioni di questo tipo, ma anche riflettere su come evitare che casi come questo si ripetano e quindi intervenire, anche come Confapi, in una riflessione propositiva per ricercare le modalità per non dover sempre intervenire successivamente in situazioni di difficoltà.
Riteniamo che la questione Parmalat sia esemplificativa di una difficoltà complessiva del sistema economico industriale italiano, soprattutto di grandi dimensioni, e che sia necessario intervenire in parte sugli aspetti che ho citato ma anche sugli elementi fondanti e sugli attori di questo processo, affinché lo sviluppo della grande industria (o il permanere di questa sui mercati) si possa coniugare con una inderogabile necessità di creare condizioni di sviluppo per le piccole e medie imprese, in modo tale che queste possano ricostruire e ricostituirsi in un tessuto di grande industria - soprattutto manifatturiera - fondamentale per garantire al Paese di restare una fra le prime grandi potenze economiche mondiali.

PRESIDENTE. Passiamo ora alle domande dei colleghi.

GIORGIO BENVENUTO. Desidero porre alcune domande, la prima delle quali è la seguente: il recepimento nella legge finanziaria della norma sui confidi, più ristretta rispetto all'elaborazione compiuta in Commissione al Senato, come è valutato? Tale norma è sufficiente o ha necessità di essere ampliata?
La seconda domanda riguarda il problema delle cambiali finanziarie. Esiste una proposta unanime come metodo di approvvigionamento con le cambiali finanziarie. Come è da voi valutata?
Inoltre, vorrei conoscere la vostra opinione sul il meccanismo fiscale dell'IRES, che sostituisce l'IRPEG ed ha, praticamente, abolito la DIT. Non favorisce le grandi imprese e la finanziarizzazione e, di fatto, la speculazione? È una preoccupazione fondata?
L'ultima domanda riguarda il risparmio. Penso che l'esigenza di prevedere norme nuove a tutela dei risparmiatori (una carta o uno statuto) sia fondamentale


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per i risparmiatori stessi. Qual è il vostro giudizio sul meccanismo attuato negli Stati Uniti, che prevede possibilità risarcitorie o di solidarietà, alimentate con sanzioni fortissime (in termini non solo penali, ma anche economici)?

ROLANDO NANNICINI. Riallacciandomi alla riflessione del collega, onorevole Benvenuto, vorrei affrontare, però, non solo l'aspetto relativo alla grande e piccola impresa, che il presidente Broggi ha trattato.
Credo che nell'ambito delle correzioni che dovremo indicare al termine dell'indagine, su alcuni aspetti, sia necessario non introdurre le grandi norme (i 150 articoli), ma intervenire su fatti concreti. Vorrei conoscere la sua opinione in proposito.
Quando da alcuni soggetti del mercato finanziario, quali i grandi utilizzatori, si passa al piccolo mercato, a quello pubblico, occorre necessariamente del tempo. Inoltre, nell'ultimo periodo, su 620 miliardi di finanziamento, vi è stata una diminuzione del ruolo del sistema bancario rispetto ai grandi utilizzatori ed un aumento verso i risparmiatori e gli utilizzatori non professionali. La categoria dei piccoli risparmiatori si trova anche fra i suoi associati, fra la piccola e media impresa? È una preoccupazione condivisa anche da lei?

STEFANO SAGLIA. Vorrei porre due questioni al presidente di Confapi, che ringrazio per la relazione svolta. La prima riguarda il tema Basilea 2, che egli ha toccato. Trattandosi di un'indagine che riguarda il rapporto tra banche e imprese, credo sia utile un cenno alla prospettiva che abbiamo di fronte. Rispetto a casi come Parmalat e Cirio, vi sono due evidenze diverse: da un lato il rating vi era, dall'altro no; a partire dal 2006, vi sarà un'estensione del principio del rating a tutte le piccole e medie imprese. Considerato che, da più parti, si rilevano preoccupazioni al riguardo, vorrei conoscere il vostro giudizio sull'estensione del rating a tutti i livelli: può essere effettivamente considerata come un'opportunità e, quindi, come uno strumento di garanzia o, invece, come un elemento di ulteriore difficoltà per le imprese?
Passo alla seconda domanda. Considerata la grande esposizione degli istituti di credito italiani, emersa da interventi importanti del sistema industriale (penso alla FIAT ed alle vicende successive) e dato che le piccole e medie imprese - esposte al problema della concorrenza sleale - dovranno necessariamente investire, lei ritiene che il sistema bancario italiano possa incontrare difficoltà a garantire un sostegno forte e reale alla competitività ed allo sviluppo delle medesime piccole e medie imprese?

ALFIERO GRANDI. Presidente Broggi, devo dire che nella sua esposizione non ho trovato il pathos necessario di fronte ai temi oggetto dell'indagine. Non vi è dubbio che esiste il tema dei controlli, delle normative. Vi è, tuttavia, anche un problema che riguarda il sistema impresa (non solo la grande impresa, ma anche le imprese minori). Non credo che se ne uscirà con il punto di vista di chi aspetta soldi da Parmalat o di chi fa fatica a ottenere crediti dalle banche. Non credo nemmeno sia sufficiente parlare di un'etica diversa nel modo di fare impresa.
Ritengo invece che il mondo imprenditoriale debba compiere una riflessione su se stesso, in grado di far comprendere che il problema nasce, anzitutto, da un comportamento dell'imprenditore e da controlli interni all'impresa che non sono stati effettuati come avrebbero dovuto esserlo, compresi quelli delle agenzie esterne.
La piccola impresa, forse, è meno colpita di altre. Può indicare e svolgere un ruolo nella direzione di rendere chiaro al paese che vi è, da parte del mondo delle imprese, una reazione adeguata al problema. Ad esempio, nessuno avanza l'ipotesi di mandare via gli imprenditori dagli organi dirigenziali delle associazioni (ma vi è molto di più da realizzare).
Esiste, poi, il tema dei controlli. Confapi è un'associazione che comprende


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anche aziende quotate, ma - in prevalenza - si tratta di un mondo di piccole e medie imprese, come del resto lei ha molto correttamente affermato.
Passiamo al diritto societario e alle nuove normative sul falso in bilancio che sono entrate in vigore. Non crede vi sia una contraddizione tra le esigenze di trasparenza e di credibilità e le normative che sono entrate in vigore - purtroppo, debbo dire, con una certa disattenzione e benevolenza anche da parte dei rappresentanti dell'impresa - nel momento in cui, invece, tutti (compresi coloro che tali normative hanno promosso) manifestano la necessità di inasprire le pene e i controlli? Non bisognerebbe fare un po' di autocritica anche su tale aspetto?

VINCENZO VISCO. Rilevo con molta preoccupazione la tendenza che si sta diffondendo, e che andrebbe subito bloccata, di una contrapposizione tra sistema bancario e sistema imprenditoriale (ed ora, anche tra grande e piccola impresa).
Nel momento attuale, assieme all'assoluta imprevidenza con cui, da parte governativa, è stata drammatizzata tale situazione, con la creazione di conflitti istituzionali, si stanno producendo risultati molto spiacevoli. Infatti, i dati ci dicono che i differenziali dei nostri tassi d'interesse stanno aumentando rispetto ai quelli tedeschi (che sono un punto di riferimento); alcuni banchieri sostengono che sta riprendendo forza una fuoriuscita di capitali e che le banche si stanno irrigidendo nei loro rapporti creditizi, soprattutto con la piccola e media impresa. Vorrei da lei, presidente Broggi, una conferma o una smentita al riguardo.
Inoltre, considerando la stabilità del sistema a lungo termine e, quindi, la solidità delle imprese, le chiedo se non ritenga che, per quanto costoso o fonte di ansia possa essere il sistema di Basilea 2, a medio termine esso possa, invece, fornire un contributo alla robustezza e solidità della piccola e media impresa italiana.

GIANCARLO PASQUINI. Ci troviamo di fronte ad una situazione di default che non si arresterà alla Parmalat, perché probabilmente ci saranno altri casi in un futuro prossimo, anche se credo riguarderanno prevalentemente la grande industria. Vorrei chiedere al presidente della Confapi se, oltre al ruolo e all'intervento del legislatore in materia di regolamentazione dei mercati, di definizione delle autorità, dei loro poteri, delle loro competenze, dei poteri di indagine e delle sanzioni, non ritenga che le associazioni imprenditoriali debbano contestualmente sviluppare iniziative in merito alla cultura di impresa, alla sua responsabilità sociale. Se è vero, infatti, che nell'opinione pubblica sta maturando una certa consapevolezza nel considerare l'impresa come un bene della collettività, non occorre anche sviluppare una cultura di impresa che, evidentemente, nella nostra realtà economica è inadeguata soprattutto di fronte alle grandi scadenze e ai grandi impegni che, in un modo o nell'altro, riguardano certamente anche la piccola e media impresa: la capitalizzazione; l'irrobustimento patrimoniale; l'allargamento della base societaria; la finanziarizzazione dell'impresa; i processi di internazionalizzazione?

RUGGERO RUGGERI. Concordo sull'importanza del ruolo delle piccole e medie imprese e sulla loro specifica sensibilità all'interno del sistema economico e sociale. Il dottor Broggi ha parlato delle ripercussioni che il crac della Parmalat potrebbe avere anche sulla filiera produttiva; mi domando se la sua associazione o qualcuno dei suoi membri non abbiano avuto qualche avvisaglia di questo crac, quasi annunciato, sia sul piano industriale sia, soprattutto, sul piano finanziario. Mi porgo questa domanda pensando in particolare al regolare ritardo che questa società accumulava nei pagamenti o, addirittura, ai mancati pagamenti nei confronti dei fornitori.

PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti e do la parola al presidente Broggi per le sue risposte.

DANILO BROGGI, Presidente della CONFAPI. Per quanto riguarda il consorzio


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fidi riteniamo positiva la nuova riforma della legge che regola questa materia, eccetto l'introduzione del fondo interconsortile e la sua alimentazione, perché sta già creando dei problemi nel nostro mondo sia per i limiti che la legge prevede per costituzione del fondo sia per il tributo che l'attuale sistema dei consorzi fidi deve far affluire all'interno del fondo stesso. Avremmo preferito che sotto questo profilo rimanesse intatta la previsione precedente che stabiliva l'intervento del fondo di garanzia centrale.
Le cambiali finanziarie non sono state recepite come strumento idoneo, anche perché la piccola-media azienda da un lato ha un dialogo difficile con il mondo creditizio sugli stessi strumenti di finanziamento a disposizione, ma soprattutto tende a finalizzare la ricerca del credito ad esigenze che si maturano via via. La cambiale finanziaria non risponde a quest'ultima esigenza; riteniamo che sia più interessante per il nostro mondo valutare operazioni nel campo della partecipazione e, quindi, sfruttare il cosiddetto equity in modo che il sistema creditizio sia ben disposto anche nei confronti di aziende minori, perché fino ad oggi questo strumento viene concesso solo alle grandi aziende.
Per quanto riguarda l'IRES siamo preoccupati che in qualche modo questa imposta crei dei meccanismi di ridistribuzione del livello di tassazione sul sistema delle imprese, andando a colpire, sotto il profilo della incisività, in maniera particolare le medie imprese. Va aggiunta poi una riflessione sul consolidato. Il problema dell'IRES è capire e valutare quale sarà l'impatto in termini di ridistribuzione del carico fiscale. Il credito di imposta rappresenta un altro passaggio che noi riteniamo importante, perché nel nostro caso avviene una doppia imposizione che crea ulteriori problematiche anche in funzione di una maggiore semplificazione della patrimonializzazione dell'azienda.
Riguardo alla statuto dei risparmiatori, non sfugge ad alcuno che molti dei nostri imprenditori sono anche risparmiatori, che sono stati quindi colpiti anche sul lato del risparmio, perché hanno investito nelle azioni o nelle obbligazioni dei gruppi dissestati. Proprio a testimonianza del monitoraggio che stiamo effettuando sulla realtà locale interessata abbiamo portato con noi il presidente dell'API di Parma, Sergio Di Nunzio.
Sono d'accordo con quanto detto dall'onorevole Nannicini, già oggi i regolamenti Consob impongono che il consiglio di amministrazione di una società quotata dichiari formalmente che non ha rapporti di parentela con i partner della società di revisione. Bisogna fare attenzione a non spostare i riflettori su aspetti di carattere formale che vanno poi a creare soltanto ulteriore carta e di fatto vengono elusi o non incidono in maniera sostanziale sul buon operato di una società, in quanto non sono garanzia di un rapporto corretto e di una netta separazione tra i meccanismi di controllo e di gestione dell'azienda.
Sulla questione dell'accordo noto come Basilea 2, posta dall'onorevole Saglia, rispondo che noi siamo molto preoccupati per la introduzione della disciplina da esso prevista. In primo luogo, infatti, immaginare che le piccole o medie imprese siano valutate in termini di numeri e, quindi, di mero rating significa passare dalla situazione attuale, nella quale ciò, in assoluto, non avviene e in cui il credito, in linea di massima, è concesso loro soltanto dietro presentazione di garanzie reali, ad una situazione in cui molte piccole e medie imprese saranno escluse o, comunque, penalizzate nel costo e in cui si rinuncerà alla valutazione che, invece, deve essere effettuata riguardo al merito, alla capacità di sviluppo ed alla capacità di produrre ricchezza. In luogo di queste valutazioni, saranno i dati numerici, nudi e crudi, a fornire le risposte.
Sono ancora più preoccupato dopo avere assistito ad un convegno durante il quale, da parte di un banchiere, mi sono stati spiegati alcuni esempi di rating. Per illustrarne soltanto uno, dirò che una impresa della Lombardia aveva uno score più elevato di un'altra, identica, del Piemonte e che un'impresa del settore metalmeccanico aveva un rating migliore di


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una del settore edile. È chiaro che la discriminazione con la quale sono assegnati gli score, che sono gli elementi che precostituiscono il rating, rappresenta un altro elemento di preoccupazione per noi, al di là di quanto segnalavo in precedenza, cioè la questione della prociclicità, che rimane irrisolta. Il problema vero è che il sistema bancario deve essere in grado di valutare la capacità di sviluppo dell'impresa e deve accompagnarla, con strumenti idonei, in tale sviluppo, nella totale autonomia ma anche con la volontà di porsi - come dicevo - in una funzione di leva positiva della crescita del sistema delle piccole e medie imprese.
È chiaro anche come sia necessario - rispondo così alla seconda domanda - un impegno più sostenuto per lo sviluppo delle piccole e medie imprese che, oggi, si trovano collocate in un quadro di fortissima pressione competitiva da parte di soggetti che, soltanto fino a cinque o sei anni fa, non erano presenti sul mercato. Non mi riferisco soltanto alla Cina: ad esempio, oggi, in Vietnam si producono posate altamente competitive rispetto a quelle prodotte a Lumezzane e nei paesi dell'est sono realizzati prodotti, nel campo dell'informatica, assolutamente concorrenziali rispetto ai nostri. Ciò deve essere considerato, tenendo conto di quanto deriva da una concorrenza sleale, tale per cui le nostre imprese fanno fatica a mantenere i propri fatturati. Se, a questo, aggiungiamo una rivalutazione dell'euro di quasi il 40 per cento in due anni, che ha penalizzato le nostre esportazioni nei paesi extracomunitari, e alcuni altri elementi, vediamo ancora più chiaramente come sia necessario che il sistema bancario ragioni in questa logica.
All'onorevole Grandi, il quale afferma di non notare alcun pathos, rispondo che ha ragione, nel senso che, ormai, questo stato d'animo lo soffriamo tutti giorni ed è ciò che pone la nostre imprese in difficoltà continuamente. Non abbiamo risposte da dare ai nostri imprenditori e facciamo fatica a trovare anche un quadro di prospettiva nella attività imprenditoriale. Voglio dirvi che la delocalizzazione, tranne che in Veneto, in cui c'è una tradizione legata a motivi, per così dire, di fisicità, è vista da molti nostri imprenditori come l'ultima necessità per sopravvivere e non come una opportunità, dal momento che molti di essi sono arrivati al punto di avere una sola possibilità, quella di trasferire la produzione in tale o talaltro paese. In verità, quindi, il pathos sta nel poter offrire un nostro contributo, per quanto possibile, per svolgere una riflessione attenta sul ruolo delle piccole e medie imprese e sulla loro capacità di produrre ricchezza e di contribuire, dal punto di vista occupazionale, all'economia del paese.
È chiaro che la riflessione su noi stessi è altrettanto importante. Innanzitutto, fra le nostre iscritte non ci sono imprese quotate in borsa. Annoveriamo qualche media impresa ma la connotazione degli aderenti alla nostra confederazione è quella della piccola o media dimensione. Si tratta di imprenditori abituati, quando l'impresa va male, a mettere mano al portafoglio. Il rapporto con i dipendenti è caratterizzato in maniera diversa perché, altro è avere mille dipendenti, altro è averne venti. La riflessione su noi imprenditori, comunque, deve essere sempre svolta perché, comunque, è importante fare autocritica e mettersi sempre in discussione. Perciò, una riflessione del genere deve essere compiuta ma bisogna avere anche il coraggio di mettere in chiaro di quali imprenditori stiamo parlando.
Per quanto riguarda il diritto societario, non credo che una sua nuova formulazione venga meno all'esigenza, invocata anche da noi, di maggiore trasparenza. Credo che non si possa immaginare di risolvere il problema dei comportamenti, in primo luogo, e di regolare la vita delle imprese, in secondo luogo, semplicemente attraverso interventi normativi. Perciò, anche la maggiore flessibilità che il diritto societario permette, quanto alla gestione ed alla scelta del tipo di impresa, credo sia utile e muova nella direzione di offrire più strumenti all'imprenditore per potere avviare e sviluppare la propria attività.


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Rispondendo all'onorevole Visco in merito al rischio di creare una contrapposizione tra banche e imprese o tra piccole e medie imprese e grandi imprese, sottolineo come io sia assolutamente convinto del contrario. Dobbiamo lavorare affinché si recuperi un rapporto strategico fra imprese e sistema bancario, nel quale le prime si rivolgano al secondo con la dovuta trasparenza e nel quale il sistema bancario capisca quanto importante sia il ruolo che svolge per supportare lo sviluppo delle imprese. Il rapporto fra piccole e medie e grandi aziende deve essere completamente ripensato. Sono perfettamente convinto, come ho affermato in precedenza, che un paese che intenda aspirare a rimanere tra le prime potenze economiche mondiali debba possedere un tessuto di grande industria che sappia fare da traino, possa, per le sue dimensioni, investire in specifici settori e possa mantenere, quindi, ad un adeguato livello il know-how tecnologico. D'altro canto, sono convinto anche che questo rapporto debba essere rivisto. Non può esistere, infatti, una grande impresa che si rapporti, rispetto al proprio indotto, nel modo in cui, ancora oggi, in molti casi avviene. Le piccole e medie imprese sono in grado di fornire un valore aggiunto enorme alla grande industria, la quale è in grado di fare da traino non soltanto sui mercati, ma anche sul piano dello sviluppo. Questo rapporto deve essere completamente ripensato, in chiave strategica. Alcuni casi, fortunati, di siffatta tipologia di rapporti si trovano anche in Italia; soprattutto, però, ne esistono, e di importanti, negli altri paesi.
Quanto alla questione dell'irrigidimento del sistema bancario, si tratta ormai di un dato di fatto, scaturito in parte da alcuni processi di fusione, in parte dalla condotta delle banche cui è consequenziale il contingentamento del credito quanto più queste continuano ad accantonare crediti e ad investire risorse per trasformare detti crediti in azioni o, comunque, per intervenire nel finanziamento dei grandi gruppi. Quindi, tale irrigidimento del credito poi si ripercuote, sostanzialmente, sul sistema delle piccole e medie aziende.
Debbo riferirvi quanto è accaduto ad una nostra impresa, che è titolare di crediti Parmalat; ebbene, una banca ha chiesto, praticamente, di rientrare dal fido: in ipotesi, un comportamento distorsivo; ma anche la realtà di quanto accade.
Vengo ora al senatore Pasquini, che mi sollecitava una riflessione sulla necessità di affrontare temi quali quelli della cultura di impresa e della responsabilità sociale di impresa; ebbene, riteniamo sia importante compiere tale riflessione che, però, evidentemente deve costituire non l'occasione per un'operazione di marketing o di promozione commerciale ma, piuttosto, un approfondimento vero del ruolo sociale dell'impresa. Sotto tale profilo, ritengo che la piccola e media azienda possa rappresentare un interessante modello di studio; molte nostre aziende, di fatto, già si muovono nella logica della responsabilità sociale senza saperlo, in ragione del forte collegamento con il territorio - derivante proprio dalla natura della piccola e media azienda - e perché è comunque presente un elemento di cultura di impresa, legato soprattutto all'aspetto generazionale (aspetto che, evidentemente, deve essere ulteriormente potenziato).
All'onorevole Ruggeri, che mi chiedeva se avessimo avuto qualche avvisaglia tramite le nostre imprese, devo dire che il tema è complesso. Chiaramente, vi sono segnali - che le nostre imprese colgono - di difficoltà che possono, in alcuni casi, indurre l'imprenditore a prendere alcune decisioni; ma la questione è più complessa di quanto non appaia. Per esempio, delle aziende coinvolte nel caso Parmalat, sono molto più numerose quelle che hanno con essa solo rapporti indiretti; fornitori primi di Parmalat che sono clienti delle nostre piccole e medie aziende. Quindi, è chiaro che tali rapporti sono difficilmente descrivibili in termini di difficoltà o di allarme.
Devo ulteriormente precisare che il nostro problema consiste, banalmente, nel conquistare quote di mercato e nell'essere pagati; purtroppo, abitudinariamente, i


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tempi dei pagamenti non sono proprio da normativa europea. Ciò è, per così dire, un «vezzo» italiano che andrebbe modificato secondo quella logica di ripresa e correzione dei rapporti tra piccola e grande azienda.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Broggi e dichiaro conclusa l'audizione. Sospendo brevemente la seduta.

La seduta, sospesa alle 16,15, è ripresa alle 16,45.

Audizione dei rappresentanti della Confindustria.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui rapporti tra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio, l'audizione dei rappresentanti della Confindustria.
Sono presenti il presidente, dottor D'Amato, il direttore generale, dottor Sandro Naccarelli, ed alcuni collaboratori.
Avverto che per l'audizione dei rappresentanti di Confindustria è prevista una durata di circa 2 ore e 30 minuti, e che il presidente, dottor D'Amato, ha facoltà di svolgere il suo intervento introduttivo per circa 45 minuti (limite cui credo si atterrà). Successivamente, i parlamentari potranno porre domande che non dovrebbero eccedere i 3 minuti l'una; la presidenza si riserva, ove necessario, di tenere conto della ripartizione dei tempi tra i gruppi sulla quale hanno convenuto gli uffici di presidenza delle Commissioni nella riunione congiunta del 14 gennaio 2004, ripartizione che è stata già comunicata alle Commissioni riunite nella seduta del 15 gennaio 2004.
A nome di tutti i colleghi presenti e dei presidenti delle Commissioni riunite, ringrazio il presidente D'Amato per aver accolto il nostro invito e gli do la parola.

ANTONIO D'AMATO, Presidente della Confindustria. La ringrazio, signor presidente e ringrazio, altresì, tutti i componenti le Commissioni riunite per questa opportunità, a mio avviso molto importante per Confindustria e per il sistema delle imprese. L'indagine conoscitiva - con gli approfondimenti che le Commissioni riunite stanno portando avanti - è di straordinaria importanza per contribuire a mettere in moto quel processo di rafforzamento di regole, autoregolamentazioni e sanzioni indispensabili perché vi sia più chiarezza e più trasparenza nel mercato finanziario; indispensabili, altresì, per recuperare quella fiducia dei risparmiatori che rappresenta un asset di fondamentale importanza in un paese che ha bisogno di avere un flusso di risparmio significativo per alimentare in maniera rigorosa - trasparente ma continuativa - la crescita economica e gli investimenti industriali.
A mio avviso, sulla vicenda Parmalat, è innanzitutto importante precisare come si debba, a nostro modo di vedere, distinguere in maniera molto chiara la crisi, lo scandalo Parmalat dalla reputazione, dalla credibilità del nostro paese. Noi contestiamo duramente l'asserzione - fatta sulla stampa nazionale e, soprattutto, internazionale - che il caso Parmalat possa determinare un cosiddetto rischio paese; non pensiamo sia giusta né giustificabile una tale posizione. Pensiamo, piuttosto, che la vicenda Parmalat sia uno dei tanti capitoli delle gravi crisi che, sul piano della finanza internazionale, si sono andate susseguendo nel corso degli ultimi anni, con un ritmo crescente, con caratteristiche molto spesso comuni e assolutamente comparabili. Quindi, non riteniamo né giusto né possibile citare il caso Parmalat a titolo di esemplificazione per rappresentare il livello di qualità, onestà ed integrità del sistema imprenditoriale italiano; sistema nel quale, al contrario, milioni di imprese ed imprenditori lavorano onestamente e seriamente ogni giorno, dando un contributo importante allo sviluppo del paese.
Proprio per tale ragione - perché siamo assolutamente convinti della necessità di mercati finanziari trasparenti e della necessità di tutelare in maniera rigorosa


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il risparmio (bene supremo di ogni paese civile) -, riteniamo importante, in questo momento, che il mondo delle imprese (che rappresento in questa sede) assuma una posizione forte, proattiva, chiara. Ciò per sollecitare quanto più possibile il rafforzamento di sanzioni, di autoregolamentazioni e, quindi, la chiusura di quelle smagliature che hanno reso possibile il verificarsi di incidenti di enorme gravità.
A mio avviso, l'indagine conoscitiva in corso offre l'opportunità di ulteriori momenti di riflessione indispensabili perché il rischio, nel futuro, di vicende come queste possa essere quanto meno, in alcuni casi, attenuato nonché, se possibile, anticipato.
Vorrei chiarire le ragioni per le quali riteniamo importante che il mercato finanziario sia trasparente e che il risparmio sia tutelato; il paese ha bisogno di un adeguato livello di fiducia - che naturalmente si ripristina solo con grande rigore e trasparenza - dei risparmiatori in queste forme di finanziamento del mondo imprenditoriale. Nel nostro paese, il mercato delle obbligazioni è molto modesto rispetto al resto dei paesi europei e, soprattutto, al resto del mondo sviluppato.
Dal 1998 al 2002 lo stock di obbligazioni a medio-lungo termine emesse da imprese non finanziarie è salito dal 3 al 7 per cento del PIL in Italia e dal 5 all'8 per cento del PIL nell'area euro, mentre negli Stati Uniti dal 25 per cento del 1998 è salito al 29 per cento del 2002. Se facciamo riferimento a quello che accade in Europa, il tasso di recupero delle obbligazioni in default va dal 20 al 23 per cento; invece, negli Stati Uniti questa percentuale sale al 40 per cento, perché ci sono criteri più severi nell'emissione delle obbligazioni e strumenti molto più rigorosi per chi non è stato tale nell'emettere obbligazioni. In questo caso, c'è anche molto di class action - uno strumento molto diffuso negli Stati Uniti -, cosa che, per altri versi, presenta tutta una serie di effetti molto controproducenti. Comunque, fa impressione che il tasso di recupero delle obbligazioni in default in Europa è del 20 per cento e negli Stati Uniti del 40 per cento.
In Europa nel 2001 il tasso medio di default delle obbligazioni dei titoli classificati come speculativi è stato del 12,3 per cento, nel 2002 arriva al 20,7 per cento e a novembre del 2003 il dato disponibile è del 7,7 per cento. Tuttavia, mi sembra importante sottolineare anche il volume dei default totali, non solo dei default di titoli speculativi: in Europa nel 2001 è stato di 11 miliardi e 300 milioni di euro, nel 2002 di 43 miliardi e 300 milioni di euro. La gran parte dei default si sono verificati in Gran Bretagna, la metà dal punto di vista del numero delle operazioni e i due terzi dal punto di vista del valore delle operazioni. In Italia nel 2002 si è verificato il default della Cirio, che vale 175 milioni di euro, mentre il caso Parmalat è molto più recente.
Tutto ciò mette chiaramente in evidenza come il fenomeno non sia esclusivamente italiano, ma si è verificato in altre parti del mondo ed è anche concentrato in mercati che, obiettivamente, sono molto più avanzati dal punto vista della sofisticazione degli strumenti finanziari. Quindi, non fa specie che in Gran Bretagna ci sia una percentuale così elevata, ma meraviglia che nella stampa internazionale tutto questo sia stato immediatamente utilizzato per dire che l'Italia non è un paese affidabile e, quindi, tout court rappresenta, per molti versi, un paese a rischio. Questa è una falsa informazione, che corre il rischio di danneggiare seriamente la credibilità del nostro paese e tutta quella serie di imprese che hanno la necessità, la possibilità e il diritto di partecipare in maniera più attiva, con tutto il rigore del caso, a questo mercato finanziario e, soprattutto, non ci consente di capire fino in fondo quali siano i livelli di intervento necessari per evitare che situazioni come queste si possano verificare. Credo che, da questo punto di vista, si debbano distinguere diversi livelli di intervento, che sono indispensabili per cercare di prevenire situazioni che possano essere assimilabili a


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quelle che, da Enron a Parmalat, si sono verificati sempre di più nel corso degli ultimi anni.
Innanzitutto, c'è da registrare che, a livello di regolamentazione e di autoregolamentazione, nel nostro paese il livello di qualità del corporate governance è molto alto. Questo non lo diciamo noi ma anche il periodico The Economist, molto critico con il nostro paese, che classifica il livello di qualità del corporate governance italiano fra i più alti del mondo. Quello che, però, resta molto basso è il livello di compliance con le regole del corporate governance. Nel codice Preda ci sono punti di grande qualità dal punto di vista della trasparenza e dell'autodisciplina, ma, purtroppo - come il caso Parmalat ha chiaramente messo in luce -, anche poca applicazione di questi principi e, soprattutto, momenti molto deboli nella verifica e nell'informazione sui livelli di corretta applicazione dei principi di autoregolamentazione.
Siamo convinti che, invece, da questo punto di vista sia necessario rafforzare in maniera molto forte e significativa il livello di compliance che le imprese devono avere nei riguardi dei codici di autoregolamentazione. Non crediamo che oggi ci sia un difetto dal punto di vista della regolamentazione, ma esiste una fortissima carenza nella qualità e nella consistenza della sua applicazione. Questo mi sembra molto importante, soprattutto perché alcuni principi - che sono il punto forte del codice Preda, e in particolare faccio riferimento ai comitati di auditing, all'indipendenza dei board members, a chi risponde il revisore dei conti, a chi ne fissa il compenso, a chi attribuisce il mandato - che nel nostro ordinamento sono prevalentemente a livello di autoregolamentazione, negli Stati Uniti sono, invece, diventati più cogenti e più stringenti dopo il caso Enron, grazie alla Sabanes-Oxley, che li ha determinati in maniera più stretta.
La SEC non consente di quotare o di tenere in listino, né del Nasdaq né del New York stock exchange, aziende che non abbiano criteri molto stringenti dal punto di vista dei requisiti dell'indipendenza dei board members piuttosto che non dei principi di funzionamento dell'internal auditing. Non sono diversi da quelli che abbiamo nel codice Preda, ma la differenza è che, mentre in questo caso possono essere disattesi senza che nulla accada, lì, invece, è stata molto rafforzata l'applicazione e la verifica perché quei comportamenti venissero messi in essere.
Credo che questi siano alcuni degli aspetti fondamentali su cui occorre rafforzare in maniera molto forte e seria i livelli di applicabilità e di verifica sull'applicazione. Infatti, l'indipendenza dei board members, la necessità che l'auditing committee sia garantito proprio da membri del consiglio di amministrazione autenticamente indipendenti sono alcuni degli aspetti che non possono essere solamente formalmente adempiuti, ma, invece, devono essere quanto più possibile sostanzialmente rispettati; inoltre, come l'attribuzione del mandato alle società di revisione, deve essere fatto non più dal consiglio di amministrazione ma autonomamente dal comitato auditing. L'internal auditing della società dovrebbe rispondere direttamente non al management della stessa ma all'internal auditing committee. I compensi della società di revisione dovrebbero essere fissati all'interno dall'auditing committee, sempre composto da consiglieri indipendenti e non già da membri del consiglio di amministrazione o dirigenti dell'azienda.
Questi principi di buona trasparenza e di buon governo, che molte aziende italiane stanno già applicando, devono rappresentare un livello minimo e fondamentale di compliance, al quale nessuno deve più sfuggire, soprattutto se vogliamo recuperare quella trasparenza e quel rigore che sono assolutamente indispensabili. Leggendo le notizie sui giornali e quello che si vedeva anche prima dai prospetti della società, abbiamo visto che molte di queste regole fondamentali venivano solo formalmente rispettate ma, sostanzialmente, disattese. Nel caso Parmalat, abbiamo visto che, addirittura, i responsabili finanziari, il CEO, era al tempo stesso il responsabile dell'internal auditing committee.


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Quindi, di fatto, c'era una soltanto formale adesione ai principi fondamentali del codice Preda, ma una sostanziale disapplicazione di alcuni di loro. Quindi, bisogna prevedere tutto ciò in capo al comitato audit ed attribuirgli anche il controllo delle attività svolte dalla società finanziaria del gruppo, in realtà offshore, e su operazioni con parti correlate. Vi è poi l'aspetto molto importante e di grande rilevanza dei paradisi fiscali, su cui credo ci debba essere una posizione molto più stringente, soprattutto per quanto riguarda quelle realtà che non consentono, al di là di una legittima competizione fiscale, una maggiore integrazione dal punto vista della trasparenza, dell'informazione e della collaborazione tra le autorità. Occorre anche poter attribuire ai sindaci il potere di chiedere direttamente a terzi informazioni su operazioni poste in essere dagli amministratori, senza il tramite della società. Naturalmente, abbiamo la necessità di descrivere il bilancio di articolazione, il funzionamento dell'attività di internal auditing, che, appunto, deve rispondere all'auditing committee. Quindi, tutta la parte della regolamentazione che riguarda il codice Preda - che dal punto vista formale è fra i più avanzati sistemi di regolamentazione di corporate governance nel mondo, ma anche fra i più largamente disattesi - va fortemente rafforzata nella sua compliance.
Un altro aspetto che riteniamo debba essere fortemente rafforzato è il dispositivo sanzionatorio, che deve intervenire nei casi in cui si verifichino illeciti come questi. Credo che abbia fortemente danneggiato l'immagine del nostro paese il fatto che, soprattutto nelle prime settimane del caso Parmalat, sulla stampa italiana e, poi, anche su quella internazionale si sia fatta una semplificazione di questo tipo.
Essendo stato depenalizzato il reato di falso in bilancio in un paese come il nostro, è normale che si presentino casi come quello Parmalat. Certamente la campagna di stampa, innanzitutto ad opera dei giornali anglosassoni, Financial Times in testa, ha fortemente danneggiato l'immagine del nostro paese, in correlazione con la grande polemica che ha caratterizzato il dibattito politico italiano. In realtà, sappiamo tutti che il reato di falso in bilancio non è stato depenalizzato e che il problema della Parmalat non è assimilabile al reato suddetto: ben altre cose sono state fatte.
In base, peraltro, alle ipotesi di reato di cui oggi si parla - e che pur costituiranno oggetto di accertamento - si dovrebbe concludere che sia stato violato quasi tutto il violabile.
Sicuramente si pone un problema molto importante che, dal nostro punto di vista, riguarda non già l'attuale definizione del reato di falso in bilancio, ma la sanzione attualmente prevista per il reato stesso: si tratta, infatti, di una misura, a nostro modo di vedere, modesta, da rafforzare sia ai fini della gravità della pena sia in termini di prescrizione del reato. La ritengo una questione importante, su cui il nostro paese deve saper compiere, in tempi anche molto rapidi, un'evoluzione molto significativa. Un conto è la fattispecie applicativa del reato di falso in bilancio - su cui non manifestiamo discordanza rispetto al testo oggi vigente nel diritto societario -, altro è il dispositivo sanzionatorio che deve essere emblematicamente rafforzato. Reputo questo un punto significativo capace di fare la differenza, in termini anche di rigore con cui ci poniamo rispetto a queste vicende.
Dunque, noi dell'industria italiana siamo convinti che i mercati debbano essere trasparenti e tutelati; siamo, inoltre, assolutamente contrari alla semplificazione che definisce il nostro un paese a rischio. Lo diciamo con la testa alta, con la coscienza di avere imprese oneste che lavorano seriamente in Italia. Per questo, chi viola la legge deve essere punito severamente; che le regole vigenti e buone debbano essere ancora più trasparenti e - nella loro applicazione - rafforzate, è solamente nell'interesse delle imprese oneste. Siamo convinti che sia essenziale trarre insegnamento da questa fase di difficoltà per dimostrare, in tempi brevi, una reazione molto chiara, rigorosa e


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seria, capace di tramutare la fase attuale in una nuova propria opportunità con cui presentare nel mondo un paese capace di rispondere attraverso provvedimenti mirati, puntuali e significativi.
Ciò è necessario proprio al fine di mettere in rilievo che quanto è accaduto in Italia, con il caso Parmalat, rappresenta l'eccezione e non la regola. Dico questo perché dal modo in cui affronteremo la vicenda dipenderà la possibilità di ripristinare o meno l'immagine e la credibilità del paese a livello internazionale. Abbiamo bisogno - ripeto - di azioni serie, rigorose e rapide.
Sul piano del rafforzamento applicativo della regolamentazione di corporate governance e su quello delle sanzioni previste verso gli autori di illeciti - soprattutto falso in bilancio -, non abbiamo tempo da perdere. Se perdessimo tempo diminuirebbe ancor più la fiducia dei risparmiatori e verrebbe oltremodo rafforzata la cattiva immagine che ci caratterizza a livello internazionale in ragione di quella molteplicità di polemiche cui facevo precedentemente riferimento. Su questo fronte dobbiamo reagire subito, in modo molto chiaro. Il mondo delle imprese lo chiede con forza al Parlamento.
Vi è poi un'altra serie di questioni molto importanti, di grandissimo rilievo istituzionale, che possono e debbono essere affrontate, a nostro modo di vedere, con grande rigore in un dibattito aperto e trasparente, come d'altra parte sta avvenendo dinanzi alle Commissioni qui riunite. Si tratta di aspetti - da non confondere con questioni di contrasto personale e di potere -, afferenti a istituzioni fondamentali per il buon funzionamento dei mercati e soprattutto per la trasparenza e l'integrità del nostro paese. Faccio riferimento, cioè, al dibattito sulle Authority di sorveglianza e vigilanza, particolarmente acceso in questi giorni. Del resto, la stessa vicenda Parmalat ha chiaramente messo in evidenza l'esigenza assoluta di rafforzare in tempi rapidi i poteri di ispezione e sanzione della Consob. Occorre mettere la Commissione in reale condizione di operare, come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti con la SEC. Non ci sono grandi modelli da inventare, è sufficiente semplicemente imitare quanto in altri paesi è stato già fatto, bene e da tanto tempo. Irrobustire competenze, risorse, strumenti di intervento e controllo della Consob risulta, infatti, fondamentale per garantire la trasparenza del mercato.
Ciò deve avvenire parallelamente al completamento di quel forte processo di rafforzamento applicativo della corporate governance di cui parlavo precedentemente. Facendo ciò, l'Italia si presenterà ai mercati finanziari del mondo con la propria «casa» rimessa in ordine, dopo aver annodato alcune maglie che si sono nel frattempo allentate. Vorrei ricordare, a titolo esemplificativo, che alcune delle recenti e importanti innovazioni previste nel citato codice Preda e di cui si è parlato anche nel dibattito sulla corporate governance, sviluppatosi in Italia dopo il caso Enron, non sono state, di fatto, accompagnate da adeguati interventi di regolamentazione.
Ad esempio, l'incompatibilità tra le società di revisione e le consulenze - che abbiamo previsto nel nostro ordinamento a partire dal 1975 - non è mai stata estesa al network delle società di revisione. Da circa sei anni - si tratta dunque di un problema bipartisan che riguarda la coda della legislatura precedente e tutta quella attuale - non sono state implementate le ipotesi di incompatibilità, particolarmente con riferimento al divieto per le società del network di prestare consulenza alle aziende che godono di revisione presso le stesse società.
Questa è una gravissima carenza dal punto di vista disciplinare, capace di mettere in evidenza come nel sistema ci siano molte maglie su cui intervenire. Questo aspetto dell'intervento sul piano normativo e del rafforzamento dei poteri di controllo e sanzione della Consob risolve gran parte dei problemi del nostro paese per quanto riguarda debolezze applicative, sanzionatorie, ispettive e di controllo.
Se pensassimo, tuttavia, di risolvere e di esaurire così il rischio di crisi finanziarie, intervenendo soltanto su questi livelli


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senza operare anche su un'altra serie di criticità che si sono andate evidenziando in molti dei casi di crisi finanziaria che - da Enron a Parmalat - abbiamo tutti quanti visto e studiato, commetteremmo un grave errore. Probabilmente lo stesso errore è stato commesso negli Stati Uniti che, dopo il caso Enron, si sono limitati alla Sarbanes-Oxely Act, con un rafforzamento emblematico - molto pesante, con sanzioni che arrivano anche fino a 25 anni, a carico degli amministratori (soprattutto per i membri del comitato auditing) - del quadro sanzionatorio, senza intervenire, però, su tutta un'altra serie di conflitti di interesse che si presentano nel mondo della finanza internazionale.
I conflitti di interesse presenti non sono soltanto quelli fra la società di revisione e quelle che, nell'ambito delle famiglie delle società di revisione, fanno consulenza. Ce ne sono molti altri. Per esempio, nel sistema bancario - e si tratta di una questione non solo italiana ma estesa a livello internazionale - si svolgono nel contempo più mestieri, molto spesso in conflitto di interesse (collocazione delle aziende in borsa, valutazione delle aziende, piazzamento delle stesse, asset management, analisti finanziari che fanno al tempo stesso parte delle istituzioni di riferimento). A ciò si è opposta, fino ad oggi, la logica della creazione dei chinese walls, onde consentire quella adeguata riservatezza che potesse, in un certo senso, impedire la nascita di conflitti di interesse: tuttavia, questi sono talmente forti che il chinese wall ha dato prova di non saper funzionare.
Si pone un problema fondamentale di credibilità delle certificazioni di bilancio e anche nei riguardi degli stessi rating che, per larga parte, si basano sulle certificazioni di bilancio medesime. Il problema della credibilità è rafforzato dal fatto che le società di revisione sono notevolmente ridotte in termini numerici (e credo si ridurranno ancora di più) come lo sono anche quelle di rating, che saranno interessate, da questo punto di vista, da una quantità di attività ancora maggiore, nella prospettiva delle implicazioni di Basilea.
Alla luce di ciò, quali sono oggi i criteri in base ai quali si fanno le revisioni delle certificazioni di bilancio? Quali sono i criteri in base a cui oggi si effettua il rating?
Esiste inoltre un terzo problema che reputo significativo: quale livello di collaborazione hanno oggi, a livello nazionale ed internazionale, le autorità di vigilanza e sorveglianza? Così come si combatte la criminalità comune o il terrorismo attraverso la collaborazione fra le polizie del mondo, la criminalità economica dovrebbe essere combattuta con un livello maggiore di collaborazione e di scambio di informazioni fra le autorità di vigilanza a livello internazionale. Esiste oggi il rischio di crisi finanziarie molto importanti che si verificano in maniera transnazionale muovendosi oltre i confini di ciascun paese in aziende sempre più globali. Abbiamo visto, dal caso Enron alla Parmalat, che spesso vi sono paesi in cui vi sono asset positivi e tanti altri in cui si creano asset negativi, debiti ed il mancato consolidamento per mancanza di informazioni e visibilità del perimetro di esposizione di queste aziende crea le premesse affinché prima o poi deflagri una crisi non più recuperabile. Si tratta di un terzo livello di intervento che reputo molto importante.
Nel nostro paese dobbiamo sicuramente realizzare cose molto importanti sul piano del rafforzamento dell'autoregolamentazione, della compliance, delle sanzioni e dei poteri di ispezione e vigilanza della Consob e sarà particolarmente utile farlo in tempi brevi, con grande rigore e fermezza, ripristinando da subito maggiore fiducia nei risparmiatori e creando le condizioni affinché il nostro mercato finanziario sia più trasparente ed il risparmio più «tutelato». D'altra parte, però, vi sono questioni che non attengono esclusivamente ad un paese ma che debbono essere affrontate a livello internazionale per le quali auspichiamo un intervento forte a livello di Comunità europea e più in generale transnazionale. Esse riguardano i criteri con cui si compiono rating


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e certificazione per avere maggiore chiarezza e rigore e recuperare così credibilità ed affidabilità, l'esigenza di avere maggiore collaborazione fra le autorità di vigilanza e controllo a livello internazionale e la necessità che conflitti di interesse soltanto sfiorati da quanto avvenuto dalla Sarbanes-Oxley Act ad oggi siano finalmente messi in evidenza in modo che non vi sia nella filiera delle attività finanziarie questa varietà di attività, spesso una delle cause principali della moltiplicazione di crisi finanziarie a livello internazionale.
Questi sono alcuni dei punti più qualificanti e rilevanti del testo che mettiamo a disposizione della Commissione. Reputo importante sottolineare la necessità che il dibattito sia chiaro e trasparente ma che, al tempo stesso, si raggiungano rapidamente soluzioni. Il paese, come sistema economico e finanziario, deve fornire una risposta rigorosa e rapida sulla vicenda. Sottolineo in particolar modo il rigore e la rapidità, perché la campagna di immagine negativa di cui stiamo particolarmente soffrendo deve essere controbilanciata da una reazione chiara, forte ed emblematica.
Un altro dei punti importanti dell'agenda dei lavori della Commissione, il possibile conflitto tra banche ed imprese e la logica dell'incrocio tra le une e le altre, è certamente un tema di grande importanza e delicatezza che può avere varie chiavi di lettura e di approfondimento. Vi sono paesi che, anche dal punto di vista della dottrina oltre che da quello della concretezza, hanno fatto dell'incrocio tra banche ed imprese un modello di sviluppo (divenuto negli ultimi anni anche un esempio di debolezza), come in Germania il cosiddetto modello renano. Le realtà di incrocio tra banche ed imprese si manifestano nei paesi in modo diverso. Sono note le modalità con cui si è evoluto il credito nel nostro paese ed è noto come ancora oggi rappresenti un dibattito aperto e non ancora risolto la questione della proprietà delle banche e delle fondazioni, oltre che altri temi importanti che possono trovare approfondimenti e soluzioni varie. Sicuramente esistono aspetti delicati nell'incrocio tra banche ed imprese, ma reputo che molta parte di questa delicatezza e della confusione derivante possa essere risolta applicando anche alle aziende di credito gli stessi principi e le stesse regole di corporate governance che oggi presiedono le aziende industriali. Al di là delle proposte ora all'esame (ho presente quella presentata dal presidente Tabacci), tale applicazione di principi rappresenterebbe un primo fondamentale passo in avanti che favorirebbe notevolmente la risoluzione di molti di questi possibili conflitti e la chiarificazione di molte aree percepite come oscure. Ciò non avviene in quanto nel nostro paese il credito è un sistema sottoposto a regolamentazione e quindi parte di questi principi non sono applicati anche da imprese quotate in borsa o presenti nel MIB 30 perché la regolamentazione è diversa.
Rimango a disposizione per le domande dei membri della Commissione.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente D'Amato per la precisione con cui ha presentato le sue opinioni ed anche per la sintesi che è sicuramente, sulla base delle esperienze precedenti, un dato apprezzabile.
Do ora la parola ai colleghi che desiderano intervenire.

ANTONIO LEONE. Grazie, presidente, e grazie al presidente D'Amato per la sua ampia e precisa esposizione. In primo luogo le chiedo qualche precisazione maggiore sulla parte conclusiva della relazione riguardante l'intreccio tra il sistema bancario e le imprese, che mi sembra slegata con l'immagine e l'impronta da lei data durante la sua presidenza, avendo sempre posto al centro del sistema Italia, con una rivendicazione del ruolo, l'impresa italiana, legata anche alla necessità e capacità di importare una classe dirigente idonea affinché il sistema imprese fosse sempre in linea con il sistema produttivo.
Ho apprezzato ciò che lei ha detto a proposito di quella sorta di sillogismo «falso in bilancio crack Parmalat» (precisazione utile forse anche per qualche collega della sinistra che ritiene di dover


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fare propaganda, come è avvenuto anche nella precedente audizione con il presidente della Confapi) in relazione alla tempistica, dato che non si può parlare delle conseguenze di questa norma in relazione a quanto avvenuto alla Parmalat, ma non ho ben compreso perché lei parli di efficacia sanzionatoria nel momento in cui ritiene - peraltro giustamente - che non si sia trattato di una depenalizzazione e che la normativa su questo settore sia idonea.
Non so cosa volesse intendere: è notorio che l'inasprimento delle pene (non mi riferisco soltanto al falso in bilancio ma a reati qualsiasi) non ha mai portato ad una diminuzione dei reati. È una valutazione che ormai è nota persino i bambini della scuola elementare. Non capisco quindi perché oggi si debba dire che una eventuale depenalizzazione o un tetto di pena non idoneo possano portare a commettere certi tipi di reati. Rilevo quindi una contraddizione nel momento in cui prima, giustamente, esclude un sillogismo tra quanto accaduto alla Parmalat e la nuova norma in materia di falso in bilancio e poi invece richiama l'efficacia sanzionatoria, deduco legata ad un inasprimento di pena.

PRESIDENTE. Al fine di organizzare i nostri lavori il presidente D'Amato risponderà a cinque interventi alla volta; i prossimi ad intervenire saranno i colleghi Armani, Benvenuto e Visco ed il senatore Debenedetti. Dopo la prima serie di repliche del nostro ospite interverranno il senatore Grillotti e gli onorevoli Grandi e Polledri. Invito gli altri colleghi che intendano intervenire a richiederlo per tempo.

PIETRO ARMANI. Ringrazio il presidente di Confindustria per la sinteticità del suo intervento che ci permetterà di svolgere un adeguato dibattito. La ringrazio anche per aver affrontato nella sua esposizione un tema delicato: il rapporto fra banche ed imprese.
Purtroppo in questi giorni apprendiamo continuamente dai giornali delle difficoltà di imprese quotate in borsa che mostrano avere alti indebitamenti e talvolta anche situazioni di bilancio confuse. Preoccupano in particolare alcune affermazioni. Ieri un grande imprenditore del settore informatico ha implicitamente dichiarato di aver emesso obbligazioni senza rating, e anzi, ha ricordato che sì, non avrebbe bisogno di emetterle, ma se da questo momento in poi dovesse farlo, sarebbe «costretto» a riutilizzare il rating.
Questo dimostra lo stato dei rapporti fra banche e imprese, con le banche che collocano sul mercato (o sono strumento per collocare) obbligazioni di imprenditori che talvolta emettono queste obbligazioni all'estero, quindi senza obbligo di rating, di prospetto informativo. Di fronte a questa situazione il rapporto fra banche e imprese assume un rilievo molto importante. Le chiedo se non sarebbe il caso di affidare alla nuova Consob o alla Banca d'Italia certi poteri. Non sono d'accordo su alcuni aspetti del progetto Tremonti, lo dico chiaramente, in particolare mi riferisco alla spoliazione di funzioni relative alla stabilità del mercato bancario creditizio; così si spoglia la Banca d'Italia di alcuni elementi.
Si tratta comunque di un disegno di legge presentato dal Governo che deve essere approvato dal Parlamento sovrano; sarà quest'ultimo a verificare la bontà di certe soluzioni. Mi chiedo se non sia il caso di dare ad una autorità come la Consob, ma sarebbe meglio la Banca d'Italia, la funzione di verificare la congruità dell'ingresso nei consigli di amministrazione (o addirittura l'acquisizione di quote del capitale di banche) da parte di un imprenditore che sia fortemente (o in misura significativa) esposto nei confronti della banca di cui compra una quota o nel cui patto di sindacato o consiglio di amministrazione addirittura entra, talvolta sottraendo capitali al core business, più bisognoso forse di apporti di capitale piuttosto che di aggiungere altre quote al capitale delle banche. Presidente D'Amato, mi rendo conto che si tratta di un problema delicato e che nel sistema italiano «bancocentrico» in cui non esistono investitori istituzionali (come i grandi fondi


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pensione del mondo anglosassone) è difficile poter recidere certe connessioni.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
DELLA X COMMISSIONE DELLA CAMERA
RUGGERO RUGGERI

PIETRO ARMANI. Ho abbastanza esperienza per non comportarmi da giacobino su questo importante aspetto, al contrario di altri.
Lei poi non crede che sia importante, di fronte al collocamento da parte delle industrie di emissioni obbligazionarie collocate presso investitori istituzionali, imporre il principio della rule 144 vigente negli Stati Uniti, il principio cioè in base al quale questi investitori istituzionali sono obbligati a mantenere queste obbligazioni per due anni prima di collocarle sul mercato retail? Penso così alla possibilità di evitare i tantissimi ricorsi (10, 20 o 100 mila) che intasano i tribunali se non sono organizzati attraverso le rappresentanze dei consumatori, come avviene negli Stati Uniti. Questa carenza consente a professionisti spregiudicati di cavalcare tali ricorsi e magari di non ottenere risultati dato che l'elevato numero degli stessi comporta un'attesa di anni per giungere a delle conclusioni.

GIORGIO BENVENUTO. Esprimo anzitutto preoccupazione per quanto sta avvenendo e potrebbe conseguire sulla tenuta del sistema paese, sia sul fronte internazionale sia su quello interno, per le conseguenze di questa vicenda sulla propensione al risparmio.
Affronto il primo tema senza ombra di polemica ma con uno sguardo al futuro: capisco che con la legislazione fiscale predisposta si sia tentato di regolare la concorrenza fiscale che poteva derivare per il nostro paese dalle legislazioni fiscali più permissive di altri paesi. Ritengo che una riflessione al riguardo vada svolta. Non c'è un rapporto di causa ed effetto sul caso Parmalat, ma la situazione di carattere generale imporrebbe di rivedere delle misure di politica economica e fiscale eccessivamente permissive che hanno determinato e possono determinare conseguenze ambientali. Mi riferisco al rientro dei capitali dall'estero, alla questione del falso in bilancio ed in particolare ad una politica fiscale basata sui condoni. So che la Confindustria ha assunto una posizione contraria ma la sua voce è stata troppo flebile.
Ho ascoltato ieri il presidente della Commissione giustizia della Camera, onorevole Pecorella, che parlava di riflettere e rivedere questo argomento.
Segnalo che nella politica dei condoni, che è stata confermata anche per il 2002, si sono aperte alcune maglie: si arriva al caso limite in cui un'azienda che emette fatture false, ottiene il condono, ma lo stesso condono sulle fatture false non impedisce di poter recuperare il credito d'imposta che all'azienda stessa deriva dalle fatture false. Lo abbiamo segnalato.
Tali questioni - a mio modo di vedere - sono fortemente nocive. Ritengo che un segnale forte, come fu, all'inizio, quando - ad esempio - la Confindustria con i sindacati pose il problema della lotta al lavoro sommerso, avrebbe una sua importanza.
Domando anche, sul punto, se l'aver cambiato il meccanismo di tassazione, abolendo la DIT e favorendo la nuova imposta dell'IRES, non introduca un elemento che punisce chi vuole investire e rischiare di più in lavoro, in attività produttiva. Pongo tale interrogativo, non in modo propagandistico o di ritorsione, ma come esigenza per quanto riguarda un problema-paese.
Chiederei una riflessione più netta sul problema dell'intreccio tra banche ed imprese e sulle vicende che abbiamo vissuto; in particolare, sottolineo che vi sarebbe la necessità di una presa di posizione molto forte per quanto riguarda la quotazione - incredibile - delle squadre di calcio in Borsa, con banche che sono arrivate a possedere il controllo di quattro squadre di calcio di serie A: si parla di 7 mila miliardi di vecchie lire di debito e di misure che andrebbero cancellate, poiché


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non le hanno le imprese, ma le squadre di calcio, per ciò che riguarda la loro gestione.
Ultima questione: il risparmio. Nutro una forte preoccupazione. Con le notizie che trapelano, vi è il rischio che il risparmio si orienti in altre direzioni. Penso, pertanto, sia fondamentale individuare uno statuto del risparmiatore, con regole precise. Mi sembra troppo semplicistica l'affermazione del principio per cui è necessario far sapere che più alto è il rendimento più alto è il rischio. Si sono, infatti, avuti comportamenti incredibili da parte delle banche, per cui nel rapporto di lavoro sono assegnate mission ai dipendenti in base alle quali più questi ultimi collocano titoli spazzatura, più sono forti nei loro confronti meccanismi d'incentivazione o di carriera.
Ritengo, inoltre, che sia necessario trovare, al di là delle modifiche che devono essere messe in atto, altre soluzioni. Ho visto la Banca d'Italia (ed anche altre banche) più attenta su tali questioni. Si pone un problema non solo sanzionatorio, ma dell'individuazione di soluzioni che presentino meccanismi di salvaguardia per il risparmio che è stato truffato.
Negli Stati Uniti un meccanismo risarcitorio è reso possibile da sanzioni altissime che vengono utilizzate anche per tenere conto di chi è stato danneggiato. Siccome il presidente D'Amato ha parlato poco di tutela del risparmio, vorrei qualche indicazione, suggerimento o proposta da parte di Confindustria, al riguardo.

VINCENZO VISCO. Ho molto apprezzato, presidente D'Amato, la sua relazione. In particolare, ritengo importante che il mondo delle imprese assuma in proprio gli esiti di ciò che è accaduto oltre alla necessità di intervenire anche su questioni che attengono alla vita ed all'organizzazione interna delle imprese.
Penso che dobbiamo fare ciò come paese. Si tratta di uscire dalla strumentalizzazione e dalle polemiche, spesso pretestuose, e fornire una risposta che possa servire ai mercati per far recuperare un po' l'immagine del nostro paese.
Vorrei far notare (e vorrei anche una sua valutazione, presidente D'Amato) che, negli ultimi giorni, si è avuta una divaricazione nei tassi di interessi sui nostri titoli pubblici rispetto a quelli tedeschi. Abbiamo, inoltre, notizia di capitali che iniziano a tornare all'esterno e di imprese in difficoltà perché le banche sono, in questa fase, spaventate e prestano un'attenzione più «burocratica» nell'esercizio del credito. Tutto ciò è un male, ed è bene tentare di affrontare i problemi per quello che essi sono.
Le do atto di ciò, come anche che sul falso in bilancio lei ha notato il punto fondamentale: la depenalizzazione vi è stata ed ha preso la forma di pene troppo leggere, per cui i tempi di prescrizione sono molto limitati. Ciò è servito ad estinguere alcuni processi. In riferimento agli scandali ciò significa che, con ogni probabilità (per non dire con certezza), nel caso - ad esempio - della Bipop, nessuno sarà punito per falso in bilancio e che nel caso Parmalat, pur essendo in presenza di reati più gravi, nessuno ugualmente sarà punito per falso in bilancio, poiché, prima che il normale iter processuale si concluda, la prescrizione avrà fatto il suo corso.
Presidente D'Amato, credo sia corretto anche il ragionamento che lei ha compiuto nel collegare il caso Parmalat a tutte le vicende internazionali (si tratta, infatti di un default internazionale), con caratteristiche specifiche di inauditi imbrogli che stanno venendo alla luce.
È anche vero, come lei osservava, che vi è un problema di conflitti d'interesse molto forti nell'attività delle banche universali.
Personalmente ho sempre considerato il sistema del class legal act. Mi chiedo, però, se non servono le muraglie cinesi, se non servono i codici di autoregolamentazione (i codici di autonomia forse possono servire almeno un po' per quanto riguarda i rapporti tra i fondi e le banche che li possiedono), che si può fare? Avete idee in merito? Francamente, non mi sembra


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possibile e ragionevole proporre di abbandonare la Banca universale. Non sarebbe d'accordo nessuno.
Altro aspetto importante su cui vorrei conoscere la sua opinione è l'eventualità di restituire all'autorità di vigilanza, cioè alla Consob, il potere sul listing e delisting delle società in Borsa.
Vorrei, infine, un'opinione sul sistema delle «scatole cinesi». Dobbiamo quotare, per esempio, separatamente le società capogruppo che hanno «scatole cinesi»? Dobbiamo operare un delisting di società non operative, che sono nei gruppi e sono ancora quotate in borsa? Si tratta di aspetti molto importanti, dal punto di vista che lei ha scelto per la sua introduzione.

FRANCO DEBENEDETTI. Parmalat è stata una frode che ha dell'incredibile, una frode di cui molto non è stato ancora compreso. Ci si occupa molto di come rendere più difficili queste frodi agendo su regolatori, regole e sanzioni. D'altro lato ci si occupa poi di ciò che accade a valle, mi riferisco ai risparmiatori eventualmente ingannati, per i quali esistono il codice civile ed il codice penale. Sono però preoccupato di ciò che vi è monte della frode, tema che dovrebbe interessare alla Confindustria, perché i soldi dati alla Parmalat, alla Cirio e ad altre società sono risparmio male investito. Quanti investimenti buoni sono stati spiazzati?
Ora tutti lamentano di essere stati ingannati, ma inganno per inganno io credo che si debba distinguere, anche per le conseguenze, i risparmiatori che si recano allo sportello dalle banche che hanno portato i loro soldi a quelle aziende. È sostanzialmente il problema di come si calcola e si attribuisce il merito di credito e siccome io penso che la produzione della ricchezza venga prima della sua distribuzione io credo che questo sia un tema prioritario e mi sembra difficile credere che anche qui non vi siano dei fatti sistemici e che vadano, quindi, affrontati in un ottica sistemica. Al riguardo vorrei conoscere la sua opinione ed i suoi suggerimenti.

PRESIDENTE. Prego il presidente D'Amato di rispondere a questo primo gruppo di domande.

ANTONIO D'AMATO, Presidente della Confindustria. Innanzitutto, vorrei fare una piccola premessa: sono fermamente convinto che non vi sia peggior nemico del capitalismo di un cattivo capitalismo. Per tale ragione dobbiamo impegnarci a rafforzare quanto più è possibile la trasparenza del mercato, il corretto funzionamento delle regole ed il sistema sanzionatorio. Gli imprenditori onesti, la stragrande maggioranza di questo paese hanno il massimo interesse ad avere sotto questo punto di vista grande chiarezza e trasparenza.
Il mondo delle imprese è fortemente impegnato in questo campo affinché su questi principi e su questi interventi di riforma vi sia grande chiarezza e rapidità. Credo vi siano fondamentalmente tre livelli su cui occorrerebbe muoversi. Il primo interessa l'autoregolamentazione e la compliance, da realizzare subito con il rafforzamento delle sanzioni. Il secondo interessa il rafforzamento da subito dei poteri di ispezione e di vigilanza della Consob. Vi sono poi tutta una serie di questioni che richiedono tempi ed approfondimenti più lunghi in quanto molto più articolate e complesse: il riordino di tutte le altre autorità, il problema fondamentale di come a livello internazionale si stringono rapporti di collaborazione più forti; i conflitti di interesse. Occorre pertanto un'azione chiara, immediata e forte ed una azione successiva più strutturata, che ha bisogno di un lavoro parlamentare più elaborato, su temi complessi che sono di fondamentale di importanza istituzionale.
Come Confindustria non riteniamo che l'attuale disciplina sul falso in bilancio, per aver definito la fattispecie di applicazione del reato per le società non quotate in borsa in maniera diversa da quella precedente, sia qualificabile come una «depenalizzazione» del falso in bilancio. Riteniamo che si tratti di una specifica definizione di una fattispecie di applicazione. La questione fondamentale è che


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non è stato appropriato ridurre la sanzione per le società non quotate in borsa, perché per rispondere in modo esemplare a questa vicenda dobbiamo rafforzare in maniera forte il dispositivo sanzionatorio e dobbiamo impedire che la ridotta prescrizione possa tradursi in sostanziale impunità. Non credo che dobbiamo sovrareagire come hanno fatto gli americani con il Sarbanes-Oxley, pur essendo necessaria una reazione forte e rigorosa. Da una ricerca svolta abbiamo visto come nei vari ordinamenti europei non siano previste pene particolarmente severe; da questo punto di vista abbiamo la necessità di dare un segnale chiaro e rigoroso senza azioni drammatiche, cercando di ridimensionare il tema della prescrizione. Tutto questo non è in contraddizione con la definizione della fattispecie e con l'aver eliminato il rischio di poter interpretare l'errore materiale come falso in bilancio per quanto riguarda le società non quotate, come avveniva invece in precedenza. Quando invece vi è arricchimento proprio, per dolo o colpa all'interno di società quotate in borsa, il rigore deve esserci fino in fondo e va pertanto rafforzato.
Anche io ritengo, come l'onorevole Visco, che la Consob dovrebbe lavorare sul listing e sul delisting; sono convinto che la Consob debba ispirarsi ai poteri e alle competenze, compresi poteri ispettivi e sanzionatori, della SEC statunitense. Teniamo conto che alcune delle più importanti società quotate in Italia sono al tempo stesso quotate anche negli Stati Uniti e, necessariamente, debbono rispettare le regole statunitensi più rigorose; credo sarebbe un buon passo in avanti implementare la miglior pratica esistente a livello internazionale. Si dovrebbe quindi puntare soprattutto sull'indipendenza dei board members e dell'auditing commitee, con tutte le responsabilità (così come le ho segnalate nel testo consegnato alla presidenza). Oggi nel nostro meccanismo non si capisce bene chi dovrebbe vigilare sulla correttezza in Borsa, E questo deriva anche dalla sovrapposizione di molte delle competenze che oggi, fra vigilanza, sorveglianza e mercato, presentano molte zone d'ombra che non consentono chiaramente la identificazione delle responsabilità.
Per quanto riguarda le «scatole cinesi» forse ricorderete ciò che io penso al riguardo, che va nella stessa direzione di quello che il mercato ha dimostrato di gradire nel corso degli ultimi anni: meno «cinesi» sono e meno lunghe sono le catene di controllo tanto più sono virtuose, perché aumentano i livelli di trasparenza ed i livelli di efficacia. Il mercato ha dimostrato di premiare sempre di più la quotazione di società operative piuttosto che la quotazione di società finanziarie. Dobbiamo ritornare a rivalutare sempre di più la dimensione industriale dell'economia reale e sempre di più dobbiamo essere attenti agli eccessi di finanziarizzazione, che danno origine in maniera sempre più frequente a crisi come quelle che abbiamo visto negli ultimi anni e dove vengono a cadere in maniera più forte quei livelli di etica che sono indispensabili in un mercato virtuoso che cerca di rafforzare il «buon capitalismo».
L'etica risulta, sicuramente, uno dei valori fondamentali che, in tutta questa vicenda, come nelle vicende delle altre crisi internazionali, risulta particolarmente deficitario. Quanto più si parla di finanza realizzata con movimenti di numeri su computer e con realtà che hanno poco a che fare con le persone, con il capitale umano, con la formazione, con i prodotti, con l'innovazione, insomma, con l'economia reale, tanto più vediamo come si creino situazioni viziose. Sicuramente, ritengo che anche i temi delle «catene lunghe», delle «scatole cinesi» e dei consolidamenti siano molto importanti e che queste siano alcune tra gli ambiti nei quali si debba lavorare intensamente.
Quanto al problema della banca universale, ritengo che affrontarlo sia veramente difficile ma che sia anche necessario e ineludibile. È tanto difficile che, negli Stati Uniti, di fatto, il caso Enron è stato liquidato con l'approvazione della legge nota come Sarbanes-Oxley. Vi è stata una reazione molto forte - hanno fatto bene a reagire subito - si è cercato di rafforzare le sanzioni, anche in maniera straordinariamente


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rilevante, ed è stato creato un sistema un po' scenografico, che prevede il rito del giuramento e così via, finalizzato a recuperare la fiducia da parte dei mercati finanziari. Tuttavia, vi è una serie dei conflitti di interessi sui quali non si è più intervenuti nonostante quei conflitti esistano e continuino a produrre danni. Infatti, da allora in poi, altri danni sono stati provocati. Credo che la logica del «muro cinese» abbia dimostrato di non funzionare. Infatti, se una società, oggi, può essere, al tempo stesso, quotata in borsa, collocata e valutata dalla stessa banca che poi, magari, si occupa anche dell'asset management, credo che, obiettivamente, il problema fondamentale di una molteplicità di conflitti di interesse esista davvero.
Come affrontare questo tema delicato? È un problema non soltanto italiano ma, soprattutto, internazionale. A mio avviso, uno degli aspetti più critici è costituito proprio dalla circostanza che le cosiddette banche universali svolgono attività di asset management. Abbiamo visto anche come, rispetto alle ultime vicende, i gestori indipendenti di asset management già da tempo avessero impiegato attenzione e cautele diverse rispetto a soggetti come le banche universali. Credo che questo sia uno dei temi molto delicati sui quali, a livello internazionale, deve essere svolta una seria riflessione.
Allo stesso modo, una riflessione è necessaria sulle società di revisione e, soprattutto, sui criteri con cui le revisioni sono effettuate. Lo stesso vale per il rating. L'accordo noto come Basilea 2, per così dire, allarga notevolmente il mercato del rating in un contesto caratterizzato da un oligopsonio estremamente ridotto ma anche da una difficoltà, dal punto di vista degli stessi criteri, di emettere rating che conservino un livello di credibilità sufficiente. Questi temi riguardano non soltanto l'Italia ma il mondo della finanza internazionale, cioè il capitalismo, a livello globale. Essi devono essere affrontati con consapevolezza e con responsabilità dalla Comunità europea insieme agli Stati Uniti e agli altri paesi più sviluppati, perché è qui che si gioca la possibilità di evitare che, in futuro, si verifichino nuove crisi come queste. Sono conflitti molto delicati.
Quanto al rapporto tra banche e imprese, oggetto di moltissime domande tra quelle che mi sono state rivolte, credo costituisca un problema sul quale, naturalmente, non voglio essere affatto elusivo. Abbiamo una serie di articolazioni che richiedono grande attenzione, se si vuole cercare di dipanare in parte questo possibile conflitto o, come dire, rendere un po' più fluida questa tipicità italiana. Infatti, abbiamo alle spalle una storia del credito con la quale tutti sappiamo di dover fare i conti e permane una forte debolezza strutturale del nostro sistema bancario, rispetto alle dimensioni richieste dei mercati internazionali. Inoltre, è ancora aperta, nel nostro paese, una problematica relativa alle fondazioni ed alla proprietà delle banche. Insomma, sono ancora aperte questioni molto serie che tutti noi conosciamo, perché hanno fatto parte del dibattito di questi mesi.
Tuttavia, alcuni punti mi sembrano molto importanti. Innanzitutto, si possono introdurre - e questo si può fare anche rapidamente - strumenti di corporate governance, simili a quelli relativi alle imprese industriali, anche nel mondo del credito e si può contribuire, da subito, a migliorare i livelli di trasparenza e di credibilità. Questo costituisce un grande e immediato contributo di trasparenza.
Il problema dell'intreccio tra la proprietà delle imprese e la proprietà delle banche credo sia molto delicato. Soprattutto in vista della necessità di un rafforzamento del mondo del credito e della crescita dimensionale delle nostre banche, non penso che sia necessariamente una buona scelta quella di uscire fuori dal proprio core business, cioè il rafforzamento del credito, e di investire anche in attività diverse dal core business. Un conto è tradurre i debiti in esposizioni, nel caso in cui ci siano imprese in crisi, un altro conto è svolgere attività, per così dire, di investimento in equity, indipendentemente da casi di difficoltà.
Tuttavia, credo ci sia un problema più importante, quello del modo in cui si


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possa manifestare il possibile conflitto di interessi tra imprese, o imprenditori, indebitati e banche di credito loro creditrici. Questo tema è stato oggetto di domande, della stessa proposta del presidente Tabacci e della riflessione, precedentemente svolta, sul limite massimo di esposizione debitoria che un imprenditore possa sopportare rimanendo, al tempo stesso, membro del consiglio di amministrazione o del sindacato di controllo di una banca. Credo che il riferimento all'esposizione debitoria, la quale rappresenta un elemento che può cambiare rapidamente, anche in tempi molto brevi, non sia di per sé sufficiente a risolvere e a dirimere la questione. Sono convinto che il problema esista e che sia di grandissima delicatezza. Tuttavia, non sono convinto che questa sia la soluzione che ci consenta di evitare la sua complessità. A mio avviso, la riflessione deve essere svolta in maniera più approfondita e più articolata e non ritengo possibile una soluzione rapida e immediata perché, lo ripeto, esiste tutta la problematica relativa alla struttura del nostro credito, che richiede un approfondimento notevolissimo.
Quanto a un commento sul tema delle squadre di calcio, ritengo sia meglio effettuare un rafforzamento ulteriore delle proprie attività piuttosto che investire in squadre di calcio. Questo mi sembra assolutamente ovvio e condivisibile.

RICCARDO PEDRIZZI. Invece, accade il contrario.

ANTONIO D'AMATO, Presidente della Confindustria. Sono le squadre di calcio ad acquistare le banche?

RICCARDO PEDRIZZI. No, accade che tramite l'acquisto di squadre di calcio si pensa di poter fare affari.

ANTONIO D'AMATO, Presidente della Confindustria. Da questo punto di vista sono perfettamente d'accordo: non credo sia affatto una buona pratica quella di investire in questi ambiti. Non penso affatto che sia qualcosa da fare. È emblematico che tale pratica sia oggetto di un certo tipo di attenzione.
Ritengo necessario, inoltre, svolgere una riflessione molto importante su altri aspetti. Innanzitutto, come debbono essere tutelati i risparmiatori e quali risparmiatori devono essere davvero protetti, in vicende come queste? Anche in questo caso, credo che dobbiamo essere molto chiari perché non vorrei che, con la fortissima ondata di riprovazione, contestazione e polemica che si è manifestata nel corso delle ultime settimane, si facesse di ogni erba un fascio. Credo che si debba essere molto chiari nella distinzione tra banche e banche, al pari di come si deve distinguere tra imprese oneste e imprese disoneste. Mettere tutti insieme non credo che aiuti. Ritengo ci sia una differenza fondamentale fra le responsabilità che i risparmiatori devono assumere nella scelta consapevole di dove collocare i loro quattrini, rischiando anche un investimento speculativo, e la responsabilità che hanno coloro i quali collocano o vendono un prodotto al risparmiatore, nel momento in cui quest'ultimo presenti caratteristiche diverse da quelle con le quali è venduto al risparmiatore o ci sia un difetto di informazione o di qualità dell'informazione.
Questa è una differenza fondamentale. Infatti, credo che, da un lato, noi dobbiamo assolutamente rifuggire da ciò che si suggerisce da più parti, cioè che il risparmiatore deve essere garantito in ogni caso; questo sarebbe assolutamente inaccettabile perché, in tal modo, si snaturerebbe del tutto il principio del rischio dell'investimento speculativo. Dall'altro lato, però dobbiamo essere estremamente attenti a perseguire e a punire coloro i quali collochino prodotti, per così dire, avariati sul mercato. Quindi, la correttezza, la qualità e la completezza dell'informazione devono imporsi, pena la responsabilità di chi non le rispetta. Certo, il risparmiatore deve essere, poi, libero di scegliere, in piena responsabilità, come investire i suoi soldi.
Va, dunque, affrontato il tema dei possibili conflitti di interesse; il modo in cui, in ipotesi, si collocano, si valutano e si gestiscono patrimoni può rappresentare un'area di fortissima criticità. Si tratta


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quindi di uno degli elementi più delicati ai quali sarebbe veramente sbagliato dare, sempre ed in ogni caso, una risposta garantista del risparmio: ciò distruggerebbe l'investimento speculativo; d'altra parte, vi è una naturale, decorosa, vera esigenza di tutelare una buona qualità dell'informazione. L'informazione, infatti, deve essere completa; chi la fornisce incompleta e non di qualità ne deve naturalmente essere responsabile.
Quanto, ancora, al tema del cosiddetto rischio ambientale, dobbiamo essere veramente molto attenti; purtroppo, molto della cattiva immagine che alcuni giornali internazionali hanno attribuito al paese, riferendosi al rischio Italia ed al rischio ambientale, nasce anche dalle polemiche interne che abbiamo generato su tale tema. A mio avviso, il rischio vero di tutta questa vicenda è che vi sia un'ondata giustizialista e che si prendano due o tre capri espiatori; si chiuderebbe la questione, senza, però, risolvere i problemi veri che, invece, devono assolutamente essere affrontati fino in fondo. Dobbiamo stare molto attenti; da tale punto di vista - e i lavori di queste Commissioni riunite sono molto importanti in tal senso -, dobbiamo individuare i veri nodi, i veri centri di possibili conflitti di interesse e le vere criticità, in modo da intervenire seriamente e responsabilmente per eliminarli. Dunque, anziché parlare di un rischio ambientale e di un problema, per così dire, di immagine percepita - che pure, ormai, essendo stata prodotta sulla stampa, di fatto, costituisce un aspetto con il quale dobbiamo fare i conti -, individuiamo i punti fondamentali sui quali intervenire.
Un aspetto importante, in tal senso, è, ad esempio, costituito dai paradisi fiscali e delle società offshore. Altro è la concorrenza fiscale tra paesi che seguono politiche fiscali diverse - quindi, un esercizio, per così dire, legittimo e trasparente: in una attività internazionale, cercare anche di utilizzare, laddove possibile (ed ovviamente legale), i vantaggi consentiti a chi opera in tali mercati - altro è, invece, collocarsi in luoghi nei quali vi siano non solo vantaggi fiscali ma, soprattutto, grandi oscurità dal punto di vista dell'informazione, della trasparenza, dell'accesso. Questo rappresenta uno di quegli elementi di fortissima criticità che alimenta anche forme importanti di criminalità economica; uno dei buchi neri della attività di regolamentazione a livello internazionale. Attività che deve essere rafforzata proprio per prevenire ed evitare situazioni come queste.

PRESIDENTE. Passiamo al secondo gruppo di interventi dei colleghi.

LAMBERTO GRILLOTTI. Nella sua esposizione, presidente D'Amato, ha fatto molte volte riferimento ad un codice; la governance si sarebbe potuta operare in modo corretto in quanto disponevamo addirittura di uno dei codici più avanzati. Ma, mentre lei esponeva tale circostanza, io pensavo alla legge Merli; infatti, quando fu approvata, ricevette addirittura un riconoscimento come la migliore legge di tutela ambientale in Europa. Poi, però, abbiamo accumulato il massimo delle condanne europee per la mancata applicazione della stessa legge. Non posso che essere d'accordo su tutto quanto si è detto sul fatto che si deve operare da oggi in avanti per garantire i mercati ed i risparmiatori; è importante far presto e ripristinare la fiducia. Però, la domande che le voglio rivolgere è se, esistendo questo codice e le relative norme, in base alle strutture esistenti ed alle regole vigenti, sarebbe stato possibile accorgersi un po' prima di quanto stava accadendo. Penso, infatti, che interlocutori esterni si stiano domandando se si poteva evitare che la situazione precipitasse.
Circa i poteri che si vogliono conferire alla Consob, sono d'accordo sull'autorizzazione all'iscrizione delle società nella borsa per farle quotare; non sarebbe il caso, tuttavia, di fissare un'ulteriore disposizione con la quale si preveda che Consob debba esigere obbligatoriamente dalle società due o tre anni di previ bilanci sani, corretti e positivi per autorizzare, quindi, l'iscrizione? Non deve bastare,


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infatti, costituire una società per quotarsi in borsa; altrimenti, si ripeteranno tali avvenimenti. Invece, con una norma più stringente - che richieda due o tre anni di attività sana -, si potrebbe verificata l'esistenza effettiva della società e la sua condizione. Mi interesserebbe conoscere la sua posizione.
L'ultima preoccupazione che manifesto è la seguente. Le banche hanno collocato le azioni ed i bond in varie forme, a parte quelli occultati all'interno dei fondi direttamente gestiti. Di questi ultimi, ignoro se saremo mai in grado di scoprire quale danno abbiano prodotto di riflesso: il fondo avrà reso il 2 per cento mentre si sarebbe potuto ottenere il dieci, ma difficilmente sono individuabili le quantità di credito piazzate nei fondi. Circa i prestiti diretti, invece, agli operatori nella piccola e media impresa - e, forse, anche nella grande - va chiarito che taluno avrà forse depositato azioni Parmalat o bond a garanzia della sua attività imprenditoriale. Quindi, non vorrei che, nella piccola e media impresa, corressimo addirittura il rischio di trovare aziende le quali venissero chiamate a rientrare dalle garanzie; il problema si allargherebbe a chi, con la Parmalat, non aveva niente a che fare, se non per via dei titoli acquistati a mezzo di banche. Lei è in grado di riferirmi se sussista tale rischio o se è diffusa tale possibilità?
Ho sentito dianzi il presidente della piccola e media industria che riferiva di una banca che ha già chiesto di rientrare ad una delle aziende che aveva depositato, a garanzia, azioni Parmalat. Ciò costituirebbe un problema non di piccolo momento, di cui bisognerà tenere conto nella normativa e nella eventuale regolamentazione che dovremo varare per impedire che il disastro si allarghi ancor di più.

ALFIERO GRANDI. Presidente, anzitutto le devo dare atto che, dall'esposizione da lei fatta, mi è sembrato siano emerse la gravità della situazione e l'esigenza di mettere in campo iniziative adeguate; ciò non significa che sia d'accordo su tutto, però, apprezzo l'impegno. In particolare, debbo dire che mi ha colpito come lei abbia affrontato, in chiave di problema dominante, il tema del conflitto di interessi; mi permetto di aggiungere che si tratta anche di contrasto di punti di vista, contrasto riconducibile anche all'indipendenza ed all'autonomia dei soggetti: coloro che gestiscono, che controllano, e via dicendo. Mi pare che eliminare i conflitti e aggiungere posizioni di reciproco controllo sia, in effetti, un modo per cercare di uscire da una situazione che - ne convengo - è effettivamente molto rischiosa.
Detto ciò, mi permetto, però, di insistere su alcuni punti; non vi è dubbio che la vicenda Parmalat, prima ancora che un problema di controlli, pone un problema di comportamenti delle imprese e, quindi, naturalmente, degli organi di controllo, interni ed esterni, dell'impresa. Parto dal presupposto che lei, di tale questione, contrariamente ad altri che, invece, hanno svicolato, ha parlato diffusamente, e ciò va a suo onore. Tuttavia, mi chiedo se Confindustria, in particolare, abbia già raggiunto il tono sufficiente per affrontare un problema siffatto; al riguardo, qualche dubbio lo nutro perché, nei confronti, ad esempio, di quanti tengono comportamenti illeciti, penso ci vorrebbero perfino scelte di natura associativa. Credo sarebbe una cosa importante... (Interruzione del senatore Grillotti) ... non sto dicendo che si debba introdurre una norma; dico, piuttosto, che vi è una scelta di qualità politica dell'associazione. Sarebbe importante sapere che la rappresentanza dell'imprenditoria italiana fa una scelta di campo molto netta di fronte alla situazione - che, forse, prima, non richiedeva una tale posizione - e che lo fa dal punto di vista associativo, anche, evidentemente, circa le questioni più grosse.
Del codice di autoregolamentazione di cui lei ha riferito, ho una nozione - lo confesso - molto vaga, il che rappresenta un mio limite, ovviamente. Però, do per scontato che sia un codice sostanzialmente valido, pur non potendo giurarle che, così come è, passerà in una legge dello Stato. Confindustria chiede al Parlamento di tradurre


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in legge quanto oggi è contenuto in un codice di autoregolamentazione; per fare un paragone che renda chiari i termini della questione, così come è del tutto evidente che di fronte a scioperi selvaggi non si può certamente tornare all'autoregolamentazione, analogamente, nel caso vi siano comportamenti illeciti, occorre varare norme cogenti. L'autoregolamentazione, come del resto ella ha detto molto bene, è un codice per il cui rispetto molti si impegnano ma che poi pochi seguono. Ciò, evidentemente, richiede regole più stringenti. Si tratta di aspetti che possono contribuire a far assumere al mondo dell'impresa ed alla sua rappresentanza un piglio che è importante perché, come lei giustamente ha riferito, i risparmiatori debbono potersi fidare e debbono poter affidare i loro risparmi alle imprese.
La seconda questione riguarda il problema del falso in bilancio. Intanto, non è del tutto esatto, come lei dice, che non è una depenalizzazione perché se le pene diminuiscono si tratta di una depenalizzazione, di un abbassamento o di uno sconto delle stesse.
Oggi sappiamo tante cose sulla vicenda Parmalat perché è intervenuta la magistratura, la quale sta facendo chiarezza in una situazione che, tra le altre cose, ha permesso di avere Bondi e di evitare il tracollo produttivo, con tutte le relative conseguenze. Nell'attuale normativa del falso in bilancio la magistratura non potrebbe intervenire, se non per le società quotate, altrimenti, occorre una querela: quindi, è la privatizzazione del falso in bilancio che mi preoccupa. Le norme sul falso in bilancio sono sbagliate in radice e in questo caso c'è una responsabilità anche di Confindustria, perché avete guardato con eccesso di benevolenza alle parti di «agilità» della normativa e non alle altre, che, in effetti, hanno creato una condizione preoccupante.
Inoltre, sono state poste altre questioni anche da colleghi che hanno una diversa collocazione politica, ma questo non mi impedisce di essere d'accordo con loro, in particolare cito l'onorevole Armani. Lei ha, prudentemente e in modo apprezzabile, evitato di analizzare come si potrebbe creare una scissione del conflitto di interessi nel caso dei rapporti tra impresa e banca. L'onorevole Armani, però, ha fatto un'ipotesi di straordinario interesse perché, in sostanza, ha attribuito un potere di vigilanza alla Banca d'Italia, per poter ammettere, di caso in caso, situazioni che si sono già verificate, ad esempio, la vicenda EDF nell'ambito di Montedison (si può anche comprare un pacchetto azionario ma non si ha diritto a partecipare alla vita societaria, oppure si ha diritto soltanto per una quota minimale ma non si partecipa all'accordo di gestione della società e via dicendo).
Questo mi pare un atteggiamento positivo perché, probabilmente, non avremo mai tutte le norme scritte. Ad un certo punto, ci vogliono dei poteri di giudizio su ciò che sta accadendo, anche per prevenire cose che, in un'epoca di capitali che si spostano con un bottone, non siamo in grado di anticipare completamente. A me sembra un'ipotesi interessante perché è un mix di autorità e di norme, che affida ad un'autorità anche la gestione di quello che le norme non prevedono.
Infine, vi è la questione dei paradisi legali e fiscali. In questo caso, c'è un tema che riguarda l'impresa perché lei l'ha collocato in modo molto interessante, ma, in qualche modo, esterno alla stessa. Una delle ragioni per cui è difficile intervenire su questa materia sta nel fatto che l'impresa adopera il paradiso legale e fiscale. Se siamo nell'ambito di una concorrenza prevista, in ambito europeo e non solo, ovviamente, ciò è possibile e legale. Tuttavia, quando si interviene in condizioni in cui l'uso del paradiso legale o fiscale è fatto da un'impresa, su tutto ciò non deve esserci una norma che vieta di poterlo fare? In sostanza, basta semplicemente la garanzia che la casa madre deve, comunque, dare nei confronti delle obbligazioni o ci vuole qualcosa di più? Dobbiamo ammettere - come già suggerito da Uckmar, che non è un pericoloso estremista - che potrebbe essere questo un modo per eliminare, a livello nazionale ed europeo, rapporti che inducono un'impresa ad atti


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che, poi, potrebbero trascinarla dove non vorrebbe arrivare: non dico che ci sia una volontà di male, ma si potrebbe finire in situazioni, effettivamente, non accettabili.

MASSIMO POLLEDRI. Ho apprezzato la relazione del presidente D'Amato, in primo luogo, per il senso istituzionale del richiamo alla fiducia. Per quanto riguarda la campagna giornalistica, forse in questo paese l'auditing viene svolto più dai giornali che dagli strumenti propri che dovrebbero farlo; si tratta di uno sfinimento che, a mio giudizio, dovrebbe finire perché non bisogna fare di tutta l'erba un fascio. Non va bene dire che il sistema industriale è fatto di lazzaroni e di delinquenti, non va bene dire che le banche, in assoluto, non funzionano perché ne esistono alcune che stanno andando bene.
Ricordo con piacere una sua intervista, dove parlava dei connubi tra finanza, industria e politica dei cosiddetti «salotti buoni»; un qualcosa che ha funzionato in nell'Italia di qualche decennio fa, dove lo Stato aveva l'80 per cento dell'economia, vi erano poche famiglie industriali e, di fatto, le banche erano nazionali. Non è che sia cambiato molto perché non ci sono grandi industriali - qualcuno è stato creato dalla politica o dalle banche stesse - e le banche, di fatto, sono ancora pubbliche. Tuttavia, lei aveva lanciato con forza questo segnale e questo allarme. Questa era la tecnica del «salotto», dove si scambiavano i posti e dove, chi era nelle banche era anche nell'industria, chi era nelle banche era, magari, anche in Bankitalia, cioè il controllore e il controllato. Si tratta di un sistema che ha bisogno di essere riformato; lei aveva posto tale problema ed io l'ho apprezzato. Ho, altresì, apprezzato il discorso sul falso in bilancio e, in questo caso, bisognerebbe pensare di ripristinare il reato di omissione d'atti d'ufficio. Ricordo che il reato di abuso ed omissioni d'atti d'ufficio è stato, casualmente, depenalizzato in tempo, forse, per salvare e non far condannare l'ex Presidente del Consiglio. Probabilmente, qualcuno ha omesso qualche atto d'ufficio perché qualcuno del consiglio di amministrazione di Bipop è andato in Banca d'Italia per dire di stare attenti perché le cose non andavano bene: magari qualcuno ha la memoria corta ma tutto ciò è presente negli atti parlamentari.
Giustamente lei è stato molto pacato ed equilibrato e non ha voluto adombrare responsabilità. Tuttavia, lei vede, magari non una responsabilità piena o in termini di legge o di omissioni, la colpevolezza di qualcuno? Questo sistema può andare avanti? Il dato di fatto è che il risparmio non sia stato tutelato perché il valore da tutelare è proprio questo. Sarà mai possibile che, alla fine, in questo paese non si riesca ad individuare la responsabilità legale, morale, istituzionale e che qualcuno ne paghi le conseguenze?
Per quanto riguarda le banche, la politica economica si fa con il credito bancario. Oggi, purtroppo, il ministro Tremonti la fa fino ad un certo punto, ma la leva del credito bancario è insostituibile. A mio giudizio, oggi questa leva è stata utilizzata più per alcuni giochi di potere - Mediobanca, alcune scalate in passato - e, quindi, resta da dare un giudizio sulle banche, sul presente e sul futuro.
È evidente che le nostre banche costituiscano un anello debole. Di fatto, Fazio ha fatto qualcosa di buono, tenendo protetto il sistema bancario. Se in futuro, però, si aprisse la concorrenza internazionale in questo settore, finiremmo per vedere le nostre banche acquisite da soggetti esteri, nel giro di poco tempo, con un gravissimo danno per il nostro paese giacché ciò significherebbe anche indiretto controllo sul sistema industriale con chiare implicazioni sulla competitività italiana.
Come uscire, dunque, da questa situazione? Avete un'idea, una ricetta, per rinforzare il sistema bancario e mantenere il nostro paese in grado di competere? Da ultimo, e chiedo scusa per la prolissità, vengo al problema del rapporto tra industriali e banche. In questi giorni si sono sollevate molte lamentele; lei, presidente D'Amato, non vede «figli» e «figliastri» in questa relazione tra sistemi bancario e industriale? Oggi, il piccolo imprenditore


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viene richiamato dalla banca per l'esposizione sulle garanzie, ed io mi chiedo perché non lo si sia fatto prima, anche con i grandi gruppi.

ROLANDO NANNICINI. Rimango piuttosto soddisfatto della sua introduzione, presidente D'Amato, però vorrei porle una domanda. Lei ha precisato che la credibilità del paese e del sistema Italia, sul piano internazionale, è anche, alcune volte, influenzata da polemiche che trovano spazio nell'ambiente politico. Ritengo che questo sia un titolo di riflessione dignitoso, ma vorrei anche chiamarla a giudicare i fatti, relativamente al modo in cui il nostro sistema si presenta sul piano internazionale ed europeo. Quanto al problema delle rogatorie internazionali, era stato mosso un grande sforzo dal parte del nostro paese per conseguire degli obiettivi di trasparenza sul piano internazionale; in ogni caso, nei vari rapporti, si sono chieste cose diverse, e si è bloccato un tale lavoro.
L'aspetto più generale della prescrizione per il falso in bilancio può essere letto, a livello europeo, come un altro elemento di debolezza del sistema Italia; non mi riferisco tanto alla polemica fra le forze politiche quanto, piuttosto, ai fatti avvenuti e ad essi riferiti.
Quanto ai tribunali di riferimento internazionali, è stato questo un altro argomento su cui si sono aperte polemiche, così com'è avvenuto per il tema della giustizia europea (pensiamo a «forcolandia»). Forse, la politica che viene in rappresentanza del paese non dà la credibilità che il paese stesso, negli ultimi dieci anni, si era conquistato a livello internazionale. Vedevo più credibili la nostra università, l'impresa, il nostro paese, nei rapporti internazionali, anche europei, negli anni precedenti. Non voglio contribuire ad acuire ed alimentare la polemica, ma avverto, come anche è desumibile dalle disquisizioni a livello politico e dai rapporti che personalmente intrattengo con altri parlamentari, che esisteva un'Italia prima ed una dopo, la seconda diversa dalla prima. È possibile che i colleghi mi dicano questo perché sono esponente dell'Ulivo e vorranno farmi piacere, ma ritengo che non siano affermazioni prive di fondamento.
Presidente D'Amato, condivido gli interventi dei colleghi come la praticità e la sintesi della sua esposizione, collocata ad un piano di ottimo livello. Occorre certamente separare due aspetti: da una parte individuare quali iniziative intraprendere adesso, e quale processo aprire a lungo termine, per risolvere il problema che ci si pone dinanzi e non destinato a sciogliersi nell'immediato.
Lei suggeriva, ottimamente, di considerare anche alcuni elementi interni. Da parte nostra, senza dubbio, apprezziamo quanto lei ha sostenuto dal punto di vista del controllo e della autoregolamentazione, unitamente al principio di un rafforzamento normativo del settore. Venendo, pertanto, al problema dei controlli interni, ritengo necessario porle una domanda a proposito del collegio dei sindaci. Si tratta di un anello che non ha finora funzionato; riteniamo ancora che la nomina dei suoi componenti sia prerogativa della maggioranza, dell'azienda, di coloro che investono in misura maggiore il proprio capitale o, diversamente, vi deve essere un equilibrio nella designazione dei membri del collegio? Vorrei sapere cosa ne pensa un'organizzazione così importante nel settore dell'impresa.
Non corriamo, inoltre, il rischio di tenere - nel nostro dibattito, tra il problema della stabilità del sistema bancario (Banca d'Italia), e assicurazione della trasparenza (Consob) - in una posizione minoritaria l'Autorità antitrust?
Non sarebbe molto preferibile se l'impresa, per finanziarsi, potesse partecipare ad una gara sul piano europeo e internazionale, con effettiva concorrenza trasparenza e nel settore, anziché incontrare cartelli tra banche?
Su questo aspetto, della concorrenza del sistema bancario italiano, che non deve essere solo stabile (e si ricordi che il denaro è come un prodotto, di cui paghiamo gli interessi), sarebbe molto interessante capire la vostra posizione.


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NERIO NESI. Vorrei fare innanzitutto un'osservazione preliminare. Abbiamo troppo facilmente abrogato la legge bancaria del 1936, legge datata, evidentemente, ma, a mio parere, un'ottima disciplina. Stiamo pagando anche adesso quella fretta eccessiva di liberalizzare tutto, abolendo la distinzione tra credito a breve e credito a medio e lungo termine, confondendo la proprietà dell'industria con quella delle banche e delle compagnie di assicurazione, e suddividendo il sistema bancario in grandi, medie e piccole banche (cosa di cui sento la piccola industria, adesso, lamentarsi). Stiamo andando - e questa era una delle ragioni delle discussioni in corso tra grandi esponenti del mondo politico e bancario - verso una necessaria ristrutturazione del sistema del credito. Perché le nostre grandi banche sono troppo piccole rispetto alla grande concentrazione del sistema finanziario mondiale. C'è, naturalmente - ed è comprensibile -, una lotta tra chi gestirà questa ristrutturazione che vedrà alcune banche necessariamente accorparsi con altre per non scomparire. Questa è la ragione di fondo della grande lite in corso (e chiedo scusa per essermi dilungato).
Vengo quindi alle domande da porle, presidente. È stato già sottolineato da alcuni colleghi, e quindi vi farò soltanto un breve cenno, come da un rapporto OCSE risulti che il 38, 40 per cento delle imprese quotate nella borsa valori di Milano controlli direttamente società aventi la loro sede legale nei paradisi fiscali. Ho sentito la sua giustificazione che ha anche lati esatti, corretti. D'altra parte sono quello che ha fondato la holding Olivetti in Lussemburgo, quindi, non potrei fare osservazioni in proposito. Però, secondo me - il caso Parmalat lo mette in evidenza -, il sistema è degenerato negli ultimi anni. Posso supporre e spero che il paradiso fiscale del Lussemburgo e questo del Delaware degli Stati Uniti sia diverso da quello delle isole Cayman. Il problema, però, esiste. E ho visto con una certa meraviglia (ma già lo citava un altro collega) la durissima dichiarazione di un grande fiscalista italiano che propone di abolire i paradisi fiscali e impedire alle aziende italiane, quotate, di avere delle consociate in quelle aree.
La seconda domanda che intendo porre riguarda i sindaci. Chi ha presieduto, come me, una grande banca conosce l'industria italiana abbastanza bene, anche se non quanto lei, e posso dirle che i proprietari delle industrie, soprattutto di quelle piccole e medie, vogliono avere sindaci loro amici (tant'è vero che in una logica capitalistica perfetta sono loro a nominare il consiglio di amministrazione che gestisce le proprie imprese ed un gruppo di persone amiche e fidate che controllano). Ciò andava bene quando erano i proprietari a mettere le risorse, ma ora non è più così e le aziende sono gestite in piccola parte con i mezzi del proprietario e per la maggior parte con quelli delle banche e dei risparmiatori. È quindi necessario trovare un altro sistema per il collegio sindacale, dato che la prima degenerazione nel caso Parmalat ha riguardato senza dubbio il collegio sindacale. Ho avuto modo, pochi giorni fa, di verificare che circa dieci professori universitari, generalmente di Milano, sono contemporaneamente sindaci di 30, 40, ed uno di loro persino 50, società per azioni. È mai possibile? Penso sia necessario emanare un provvedimento che limiti ciò. Tra l'altro, quanto tempo questi autorevoli professori universitari dedicheranno ai propri studenti?
Nella sua relazione, durante la seduta di martedì, il presidente della Consob ha fatto una dichiarazione parlando della cosiddetta governance, cioè di come si governano le aziende, che mi ha colpito e che le leggo testualmente: «L'incentivo alla appropriazione dei cosiddetti benefici privati da parte dell'azionista di controllo e dei suoi più alti dirigenti è da ritenere ineliminabile». Si tratta di una frase «pesante», che mi ha molto colpito essendo stato io, e mi onoro di essere ancora, un dirigente industriale di professione. Non ho mai avuto tali benefici quando mi occupavo dell'azienda (a quei tempi si trattava della Olivetti), benefici che non si


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capisce da dove derivino e che il dottor Cardia definisce ineliminabili. Vorrei sapere cosa ne pensa lei.

NICOLA ROSSI. Il presidente D'Amato ha correttamente posto il problema cruciale della salvaguardia della credibilità del sistema industriale italiano. Mi chiedo se da quanto stia avvenendo non sia necessario evincere qualcosa in merito alla sua fragilità strutturale. I casi in esame hanno specificità proprie ma al tempo stesso è possibile trovare un elemento comune; molti di questi fanno riferimento a situazioni, presenti o passate, di crescita estremamente rapida, a volte tumultuosa, delle aziende. Rimane il dubbio che nel nostro paese le imprese in generale non siano in grado di crescere e che, quando ciò avvenga, esse non sappiano farlo, manifestando una seria difficoltà a rapportarsi con il fenomeno, anche culturale e non solo economico, rappresentato dalla crescita aziendale, dal passaggio ad una diversa dimensione. L'impressione che abbiamo, esaminando i casi dinanzi a noi e quelli che potrebbero ipoteticamente rappresentare casi futuri, è quella di un sistema che ha completamente dimenticato come essere dinamico.
La seconda questione che pongo è la seguente. Diventa estremamente difficile non chiedersi come sia possibile che un problema serio, caratterizzato da fenomeni penalmente rilevanti, come il caso Parmalat, si protragga per più di dieci anni. Un dato su cui vorrei conoscere la sua opinione è che probabilmente molti imprenditori italiani sanno che se si è sufficientemente grandi non si fallisce. Un aiuto in questo senso proviene dal decreto che - mi sembra lunedì prossimo - sarà all'esame dell'Assemblea. Vorrei conoscere la sua opinione in merito a questo decreto che ci riporta ad un «mondo» che pensavamo dimenticato, quello del controllo politico sulle procedure concorsuali.
Da più di un collega è stato fatto cenno al fenomeno di un irrigidimento dei rapporti tra banche ed imprese nelle ultime settimane conseguentemente a quanto avvenuto. Vorrei sapere se lei abbia la sensazione che un fenomeno di questo tipo si stia realmente verificando e con quali dimensioni. Se ciò avvenisse ci troveremmo dinanzi ad una alternativa su cui, qualora lei rispondesse affermativamente alla prima questione, vorrei conoscere la sua opinione: una possibilità è che il mondo del credito «tiri i freni» oggi riconoscendo di avere agito in passato con una certa leggerezza nei confronti delle imprese e l'altra è che il «tirare i freni» sia in realtà il modo con cui si ridistribuiscono gli oneri della crisi su una platea più vasta

BENITO PAOLONE. Vi sono stati elementi che mi hanno incuriosito, come il fatto che il dottor D'Amato abbia chiarito che il falso in bilancio non sia stato determinante in merito alle vicende al nostro esame e contemporaneamente l'insistenza da parte di alcuni colleghi nel ricercare motivazioni che trovino in questo elemento una chiave di lettura per comprendere veramente cosa sia avvenuto. Da ciò è discesa la necessità di porre la seguente domanda: dottor D'Amato lei rappresenta la Confindustria e quindi le industrie italiane le quali hanno interesse a vivere in un sistema corretto e lineare, dove la questione della produzione, del rischio e della creatività deve essere posta in termini di concorrenza in un ambito politico. Qual è la ragione per cui in un paese come il nostro, al di là delle infinite sciocchezze che sono state dette in ordine ad alcuni problemi, si arriva ad effettuare una «rapina» di questa portata senza avvisaglie da parte di nessuno o, se avvisaglie vi sono state, facendo in modo che non emergessero? Sono anni che ciò avviene e nessuna azienda, nessun controllore ha mai capito nulla, nessuna banca ha mai avvertito nulla di queste società per azioni che rubavano e rapinavano la gente.
Cosa pensa la Confindustria di questo problema e come è potuto verificarsi ciò? Come sì può non far emergere questa verità? A mio avviso è questo il punto più importante, se si vuole affrontare il problema delle scatole cinesi, delle modalità di certificazione e della necessità che i


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sindaci non abbiano comportamenti di favore, di comodo: i soldi in gioco non sono solo di un privato, ma anche degli azionisti, sono i risparmi della gente. Come è potuto avvenire tutto questo? Si può davvero pensare che sia accaduto solo perché, malgrado buone leggi, nessuno di coloro che aveva dei doveri se ne è interessato?

RICCARDO PEDRIZZI, Presidente della 6a Commissione del Senato. Prima di rivolgere delle domande al presidente D'Amato vorrei svolgere alcune brevi considerazioni. Abbiamo ascoltato una relazione introduttiva di grande responsabilità, dai toni equilibrati e pacati, che indubbiamente rappresenterà un importante contributo all'indagine che stiamo svolgendo e servirà altresì per abbassare i toni della polemica di questi giorni.
Presidente d'Amato, in questa vicenda hanno maledettamente congiurato diversi fattori di carattere anzitutto criminale: truffa, falso in bilancio, insider trading, aggiotaggio e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di tutto il ventaglio dei possibili reati societari. Inoltre, ha avuto un ruolo anche l'inefficacia dei circa 7 o 8 livelli di controllo, esterni ed interni.
In merito ai reati ritengo che poco si possa fare: l'immaginazione e la fantasia della criminalità non hanno limiti. Tutt'al più potremmo andare al loro inseguimento. Possiamo invece intervenire sicuramente in maniera preventiva sui controlli, sui vari e diversi livelli di controllo e sulla loro efficacia. Giustamente come lei ricordava si tratta di controlli interni, esterni ed anche internazionali. Tutto ciò si è verificato, lo ricordava molto bene il collega presidente Nesi, in uno scenario finanziario e bancario italiano in cui esiste una vera e propria anomalia: la presenza di pochi grandi gruppi. Non è detto che questo sia un aspetto negativo, anzi, proprio al fine della competizione internazionale l'Italia per poter essere competitiva dovrà dotarsi di due o tre grandi gruppi, non di più. Ma in questo caso tali gruppi, e soprattutto un mercato finanziario che fa capo ad una borsa gestita dagli stessi grandi gruppi, non possono non rappresentare una grande limitazione della concorrenza e quindi un accumulo dei rischi per quanto riguarda certe aziende.
Rileva poi anche l'anomalia delle poche aziende che, ancora oggi, giungono in borsa. C'è ritrosia da parte del capitalismo italiano ad entrare nella borsa perché ancora oggi vi sono controlli e regole troppo pesanti (questo smentisce tutte le accuse sulla riforma del diritto societario e sulla «eliminazione» del falso in bilancio). Recentemente, una ricerca dell'ISAE dell'ottobre scorso evidenzia che proprio questi adempimenti, queste regole previste dal nuovo diritto societario impediscono l'accesso alla borsa di tante imprese italiane. Dobbiamo fare i conti con questo scenario, con questa commistione tra mercato finanziario e mercato dell'intermediazione bancaria, gestiti da un solo soggetto, e di fatto orientati dagli stessi gruppi bancari e la borsa. Prima o poi dovremo riflettere su una riforma della Borsa Spa.
Lei, presidente d'Amato, si è poi soffermato sui controlli di carattere internazionale. Anche in questo campo esistono un'anomalia ed un paradosso: le autorità nazionali possono vigilare nell'ambito del territorio a fronte della possibilità di operazioni finanziarie illimitate a livello transnazionale, al di là dei confini, fino ad giungere nei paradisi fiscali. Giustamente è stato fatto notare che una cosa è operare nel Galles o in Irlanda (e da qualche mese in Polonia dove è stata introdotta una tassazione del 19 per cento) esclusivamente per ottenere benefici fiscali, altra cosa è operare in paesi dove si ricercano esclusivamente l'opacità, il buio e non le agevolazioni fiscali. Occorrerà pertanto intervenire anche su questo aspetto, sul piano delle relazioni internazionali e/o degli accordi bilaterali.
Presidente D'Amato, in questa ondata di demagogia (assistiamo anche a questo) i rapporti tra banche e imprese vengono condannati tout court, ma non è detto che il rapporto tra banche e imprese sia sempre negativo. Lo diventa quando la banca non fa più impresa o non fa più la banca ma insegue logiche di potere di carattere


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prevalentemente autoreferenziale. Vi sono istituti di credito che hanno operato negli ultimi tempi in questa logica. Lo stesso dicasi quando vi sono imprenditori che entrano nel capitale sociale delle banche - soprattutto nei loro assetti gestionali - per acquisire, uso un eufemismo, «nuovi spazi di operatività»: chi ha orecchie per intendere intenda... Si pensi agli immobiliaristi degli ultimi tempi che entrano nei capitali sociali delle banche con quote altissime e determinanti. Su questo fronte sarebbe auspicabile un ruolo più penetrante della Banca d'Italia; ad esempio oggi esiste l'obbligo della segnalazione del possesso di quote del capitale sociale di banche dal 3 al 5 per cento (oltre il 5 per cento è necessaria l'autorizzazione). Iniziamo coll'abbassare queste soglie. In aziende a capitale sociale fortemente diffuso, delle vere e proprie public companies, il 3 per cento rappresenta una quota determinante per la gestione di una banca. Abbassiamo allora questi limiti e iniziamo col raccogliere informazioni approfondite sugli investitori.
Condivido le soluzioni proposte dal presidente D'Amato, anche alla luce del disegno di legge presentato ieri dal ministro Tremonti che nell'impianto generale, per quanto mi riguarda, è condivisibile, ma che indubbiamente per certi aspetti richiede tempi lunghi. Nel nostro paese, per rendere operativa una nuova istituzione (sono presenti molte deleghe in questo disegno di legge) occorre un tempo notevole.
Lei, presidente D'Amato, giustamente, diceva che occorre, in questo momento, restituire credibilità al sistema Italia a livello internazionale e ridare fiducia ai risparmiatori (ed io aggiungo al termine risparmiatori quello di investitori, importantissimo, in questo caso), che vanno tutelati e garantiti, per me che ho una concezione del risparmio come accumulo e frutto del lavoro e del sudore dell'uomo.
Dobbiamo, necessariamente entrare in gioco con interventi immediati. Perciò, ad esempio, Alleanza nazionale proporrà in Consiglio dei ministri di estrapolare alcune parti del disegno di legge di Tremonti per farne un decreto-legge che riguardi immediatamente il rafforzamento dei poteri della Consob nelle aree informative e cognitive...

ALFIERO GRANDI. Una volta terminata l'indagine.

RICCARDO PEDRIZZI, Presidente della 6a Commissione permanente del Senato. Occorre fornire segnali immediati ai mercati, non c'è tempo. Viviamo in un momento - se non lo si è ancora capito - di emergenza economico-finanziaria nel nostro paese. Tale emergenza deve essere non solo bloccata, ma governata.
Dovremo, dunque, rafforzare immediatamente Consob (o la nuova Autorità) nelle aree informative e conoscitive, in quelle ispettive ed indagatorie ed in quelle sanzionatorie. Vi è stata una proposta, proprio l'altro ieri, durante l'audizione del presidente Cardia, da parte dell'onorevole Mancuso, di istituire un corpo speciale della Guardia di finanza presso la Consob. È una soluzione da prendere in considerazione. Successivamente, occorrerà intervenire sulle società di revisione. Soluzioni rigorose - condivido la sua impostazione precedente - e rapide, che immediatamente siano operative.
Condivide tale impostazione, di essere immediatamente operativi per dare fiducia e tranquillità ai mercati domestici ed internazionali, con un decreto-legge e, poi, utilizzare il disegno di legge del ministro Tremonti come base di discussione?
Al di là dei controlli, al di là di episodi contingenti, non pensa che negli ultimi tempi vi sia stata una vera e propria eclisse dell'etica, nella finanza e nell'imprenditoria?
Non pensa, inoltre, che in molti imprenditori sia venuta meno la consapevolezza del ruolo sociale dell'impresa, che serve a fare utili e a dare soddisfazione all'imprenditore, ma è, soprattutto al servizio della comunità e della produzione nazionale? Tali due obiettivi, perseguiti congiuntamente, fanno sì che si possano raggiungere contemporaneamente.


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PRESIDENTE. Mi limito a porre una domanda. Mi è piaciuta, presidente D'Amato, la sua posizione, molto netta, sui paradisi fiscali. Non crede che sia il momento di prendere posizione verso un altro tipo di «paradiso», quello del mercato del lavoro.
Vi sono situazioni in cui il costo del lavoro non è solo inferiore al nostro, ma, addirittura, imparagonabile. Sarebbe necessaria una piccola trasparenza anche verso aziende che non hanno alcuna remora ad utilizzare il lavoro dei bambini, il lavoro in «schiavitù». Ritengo che sia giunto il momento di parlare anche di tali «paradisi» per alcune imprese. Ovviamente non le imprese italiane, sulle quali do un giudizio molto sereno, ma anche di grande serietà. Ho, infatti, trovato nell'imprenditoria italiana - in generale - una responsabilità maggiore rispetto ad altri soggetti presenti in Italia.

ANTONIO D'AMATO, Presidente della Confindustria. Cercherò di rispondere puntualmente.
Per quanto riguarda la domanda del senatore Grillotti, se con le strutture e con le regole vigenti si sarebbe potuto individuare prima ciò che è accaduto, credo di poter rispondere affermativamente. Vi è, infatti, una serie di straordinarie violazioni, compiute ripetutamente negli anni.
C'è da chiedersi, per esempio - lo dico perché, probabilmente, è una delle domande che più spesso si pongono i piccoli e medi imprenditori -, come mai non vi siano stati, in tanti anni, in aziende di tali dimensioni, momenti ispettivi (da parte, ad esempio, della Guardia di finanza) o momenti di verifica. Credo si tratti di un aspetto su cui occorrerebbe riflettere.
L'entità e la dimensione dei reati per tanti anni compiuti lasciano, su tali questioni, elementi di riflessione.
Mi spiace che non sia presente, in questo momento, l'onorevole Visco. Quando egli era ministro delle finanze stabilì il principio secondo cui per combattere l'evasione fiscale (fronte sul quale sono decisamente impegnato) fosse necessario inviare la Guardia di finanza a tutte le imprese che superavano i 70 miliardi di fatturato (fattore che ha rappresentato una soglia psicologica nella crescita delle imprese: se esse erano attorno ai 65 miliardi di fatturato, dato l'«atteggiamento» di sostanziale carenza di certezze nel rapporto tra amministrazione e contribuente, si sono guardate bene, a cercare di ottenere quei 5 miliardi in più che avrebbero loro consentito di crescere, ma di andare anche sotto il rischio di ispezioni).
C'è da chiedersi come tali reati siano stati possibili per tanti anni, anche di fronte, ad esempio, a ciò che l'onorevole Visco fece come ministro delle finanze, per reprimere l'evasione fiscale. Vi sarebbero, dunque, dovute già essere verifiche del tipo menzionato. Nelle mie aziende, che sono di dimensioni superiori alla soglia allora indicata dal ministro Visco, vi sono state molte verifiche. Ne faccio una considerazione di carattere sistemico e non polemico.
Sicuramente, è saltata una serie di fondamentali momenti di verifica, pur esistenti. I consiglieri d'amministrazione ed i sindaci, che hanno responsabilità importanti e fortemente sanzionate; i revisori dei conti; i certificatori di bilancio; la Borsa italiana; la Consob; le società di rating; credo si tratti di una decina di livelli che sono saltati.
Dunque, credo che, per molti versi, tutto ciò si sarebbe potuto capire in anticipo. Soprattutto, si sarebbe potuto comprendere prima, se si avesse avuto una chiara cognizione di una forte contraddizione emersa: bond con alto rendimento, e, quindi, a costo molto alto, da un lato; enorme liquidità (che esisteva solo sulla carta), dall'altro lato. Tale contraddizione, probabilmente, per chi aveva la possibilità di comprenderne le dimensioni e metterle a confronto, avrebbe dovuto essere un importante campanello d'allarme.
La poca chiarezza nella ripartizione delle competenze e dei ruoli, anche delle Autorità di sorveglianza, di vigilanza e di mercato, ha determinato quelle sovrapposizioni di responsabilità, quelle zone un po' grigie, di overlap di responsabilità e di competenza, che fanno sì che in questioni


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come quella attuale non si capisce bene chi debba intervenire e quando debba farlo.
Pertanto, il riordino delle competenze e dei poteri delle Authority è una questione di fondamentale importanza. Si tratta di una questione, però, che deve essere sottratta al clima di arroventata polemica che si è andato sviluppando, in modo molto forte, nel corso degli ultimi mesi nel nostro paese, quasi fosse una questione di potere o di contrasto personale fra alcuni importanti rappresentanti della vita istituzionale del nostro paese.
Non credo sia - o debba essere - una questione di carattere personale o di potere. È una fondamentale questione istituzionale, che deve essere affrontata e risolta, con rigore, con attenzione e con grande senso di responsabilità, in un importante dibattito bipartisan, all'interno del Parlamento, una volta terminati i significativi lavori delle presenti Commissioni.
Si tratta, ripeto, di una questione di enorme importanza. Solo introducendo sistemi di maggiore demarcazione e chiarezza, anche nei ruoli delle Authority e nei loro poteri, si possono evitare situazioni nelle quali molti sarebbero potuti intervenire e non si comprende perché non siano intervenuti.
Il problema del credito nelle piccole e medie imprese francamente esiste e sta diventando sempre più forte. Già avevamo avuto modo in precedenti audizioni di sottolineare che questa situazione problematica si stava ampliando. A seguito di una reazione molto forte da parte del mondo del credito e della Banca d'Italia ne nacque anche una polemica; sta di fatto che oggi il morso del credito è sempre più tirato per le piccole imprese. Tanti si fanno al riguardo una domanda: come è possibile che da un lato vi siano concessioni di credito così ampie in situazioni così critiche e dall'altro vi siano richieste di garanzie così pressanti e forti alle imprese di piccole dimensioni?
Le piccole e medie imprese stanno soffrendo molto l'onda d'urto di questa situazione, al di là del caso limite delle imprese che hanno dato in garanzia alle banche titoli del gruppo Parmalat, perché viviamo oggi in mercati difficili dove vi è più difficoltà nell'accedere al credito per le piccole imprese.
All'onorevole Grandi vorrei dire che se parliamo di trasparenza dei mercati il codice Preda è un testo fondamentale, che rappresenta uno dei punti di forza della disciplina giuridica societaria del nostro paese. Ne consiglio caldamente la lettura perché grazie ad esso siamo riusciti ad avere comunque il terzo posto in classifica dall'Economist che, di solito, con l'Italia è discretamente severo, in qualche caso anche ingiustamente. La questione fondamentale è quanto di tutto questo può rimanere esclusivamente autoregolamentazione, affidandosi alla buona volontà delle società volenterose e quanto invece deve essere rafforzato in termini di applicazione ed in termini di compliance, perché sul pieno rispetto e sulla piena applicazione dei codici di autoregolamentazione nella legislazione anglosassone sono previste tutta una serie di sanzioni molto forti nei riguardi di quegli amministratori e di quei manager che rispettano solo formalmente gli indirizzi comunicati al mercato. Non credo che nel nostro paese si debba rafforzare il peso della regolamentazione e della normativa, che francamente mi sembra già eccessivo; piuttosto credo che dobbiamo rafforzarne la capacità applicativa e soprattutto impedire che alcune norme di autoregolamentazione vengano solo formalmente rispettate. Mi sembra interessante quanto previsto al riguardo dalla legge Sarbanes-Oxley che molte società italiane quotate in quel mercato stanno già rispettando di fatto. Pertanto occorrerebbe introdurre sanzioni per chi dichiara cose non vere, una sorta di pubblicità fuorviante per il mercato che andrebbe punita.
Sul codice etico che un sistema associativo come Confindustria o anche altre associazioni sociali e sindacali dovrebbero darsi sono perfettamente d'accordo, tant'è che Confindustria ha da anni un codice etico molto rigoroso, che proprio recentemente nel corso della mia presidenza abbiamo rafforzato, definendo in maniera


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molto chiara tutte le incompatibilità riguardanti tutte le possibili confusioni o i possibili conflitti di interesse nel rapporto fra politica e rappresentanza associativa. Vorrei sottolineare che, come alcuni giornali hanno riportato, Calisto Tanzi faceva parte del consiglio direttivo di Confindustria, votato e scelto dagli organi elettivi del nostro sistema, e che le sue dimissioni ci sono arrivate immediatamente dopo che la crisi Parmalat si è manifestata, più di un mese fa. Sarebbe molto utile che anche altre associazioni sociali rafforzassero la loro attenzione perché la sanzione etica è un modo per diffondere la consapevolezza e la coscienza del buon comportamento.
Nell'interesse del paese suggerirei di evitare di giocare sull'assonanza delle parole o sui doppi sensi, perché alcuni giorni fa mi sono trovato a rilasciare un'intervista alla CNN, che in buona sostanza mi faceva presente la mancanza di credibilità di un paese che, come gli avevano riferito nel corso di interviste precedenti alcuni politici, aveva «depenalizzato» il reato di falso in bilancio. In questo modo danneggiamo noi stessi, perché creiamo un polverone che non consente di individuare il nodo cruciale su cui intervenire. Più seriamente dovremmo riconoscere la necessità di rafforzare le sanzioni in questo settore, senza alimentare polemiche che vengono utilizzate a danno dell'immagine del nostro paese, creando così una crisi di credibilità molto difficile da recuperare, alimentando in tal modo l'interesse di gruppi di interesse e di paesi concorrenti del nostro. La qualità dell'informazione economica è un problema italiano, ma anche internazionale, e la disinformazione molto spesso finisce con il diventare un boomerang molto pericoloso.
Sui paradisi fiscali occorre fare una distinzione: un conto sono i luoghi dove esiste concorrenza fiscale insieme alla piena trasparenza e reciprocità nello scambio di informazioni tra le autorità statali ed un conto sono quei paesi in cui esistono soltanto delle cassette anonime nelle quali si può fare di tutto e di più. I primi sono dei paradisi fiscali, i secondi sono dei veri e propri buchi neri, da questo punto vista vanno distinti in maniera chiara gli uni dagli altri. Si dovrebbe prevedere una responsabilità da parte di chi collochi sul mercato obbligazioni o titoli emessi in paesi nei quali i regimi che regolano le emissioni sono nettamente inferiori rispetto al nostro. Ci si dovrebbe chiedere perché alcune imprese scelgono paesi come questi piuttosto che un paese rigoroso per questo genere di operazioni. È questa una delle ragioni per cui il livello di recupero dei default è molto più alto negli Stati Uniti rispetto all'Europa: in quel paese è intorno al 40 per cento mentre in Europa è al 20 per cento.
Sul tema del rapporto tra banche e imprese tornerò più avanti.
Per quanto riguarda il problema, posto dall'onorevole Polledri, dell'audit da parte dei giornali, rispondo: magari! Ciò che manca nel nostro paese, purtroppo, è una sufficiente sanzione della cosiddetta reputazione. C'è da chiedersi, ad esempio, in relazione ad una vicenda come quella dei bond senza rating della Cirio, come mai, nonostante il sottoscritto e, per molto tempo, almeno fino al mese di agosto, soltanto Il Sole-24 Ore si siano ripetutamente e insistentemente espressi in proposito, il tema non sia diventato oggetto di maggiore analisi, diffusione e dibattito anche nell'opinione pubblica italiana. Lo ripeto, perché si tratta di un aspetto sia molto importante: ciò che manca davvero nel nostro paese - questo sì, è un tratto distintivo dell'Italia - è la cosiddetta sanzione della reputazione. Taluni elementi, che fanno parte della credibilità, della onorabilità, della rispettabilità, della serietà e della affidabilità di una persona o di un'impresa anche al di là del semplice rispetto delle regole scritte, essendo costituiti dal modo in cui ci si comporta, da un codice deontologico ed etico, e che rappresentano anche asset fondamentali, devono poter contribuire alla valutazione della cosiddetta affidabilità dell'impresa o del proponente. Ciò deve essere accompagnato anche da una notevole attenzione e da attività di sensibilizzazione in merito a come comportarsi e come muoversi.


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Mi si domanda come si possa, a questo punto, tracciare una riga sulle responsabilità di chi, in questo polverone, in questa confusione in cui non si capisce nulla, veramente sarebbe dovuto e potuto intervenire e, in realtà, non è intervenuto. Credo che dobbiamo essere molto attenti nel distinguere fasi e tempi con i quali il paese deve reagire su tali questioni.
Credo che i grandi temi siano tre. Il primo attiene al modo in cui l'Italia, da subito, possa ristabilire, a livello nazionale e internazionale, quella credibilità e quella trasparenza necessarie per recuperare la fiducia dei risparmiatori. Negli Stati Uniti, a seguito del caso Enron, nell'arco di otto settimane di tempo è stata approvata la legge nota come Sarbanes-Oxley. È stato un intervento rapido, forte, deciso, in alcuni casi giudicato anche troppo frettoloso ed eccessivo. Però, la risposta è stata immediata. Credo che noi dobbiamo fare altrettanto. Credo che dobbiamo intervenire molto rapidamente sui temi cui mi sono riferito: il rafforzamento della Consob e dei suoi poteri ispettivi e sanzionatori e la sua capacità di muoversi e di intervenire, anche dal punto di vista dei mezzi; la responsabilità dei membri della Consob nell'esercizio delle loro funzioni; il rafforzamento dei dispositivi sanzionatorii nel caso in cui le norme siano violate (mi riferisco al falso in bilancio e quant'altro); infine, il rafforzamento del codice di autoregolamentazione. Non possiamo aspettare mesi per realizzare tutto questo. L'elenco delle priorità indicate nel cosiddetto decreto Tremonti, quindi, mi lascia un po' perplesso perché, per tali interventi, è prevista una delega e, quindi, iniziative nel lungo periodo. Al contrario, questo è ciò a cui si deve procedere molto rapidamente, nel corso delle prossime settimane. Noi vi invitiamo, invitiamo il Parlamento, in maniera molto seria e molto ferma, e anche il Governo ad intervenire su tali questioni perché crediamo sia prioritario rispondere subito su questo tema.
C'è, poi, una seconda questione, un secondo livello di intervento. È quello di carattere istituzionale, che riguarda la complessità degli assetti delle authority, il rapporto fra la Banca d'Italia, la Consob e l'Anti-trust, l'introduzione di una vera separazione tra l'Anti-trust e la vigilanza, la specializzazione delle authority nelle loro competenze e così via. Ciò richiede tempi lunghi, necessariamente, ed un confronto aperto, forte e trasparente. Credo che ciò debba essere realizzato nella logica di un dibattito di tipo istituzionale. Quindi, ugualmente in tempi rapidi ma in un momento immediatamente successivo alla conclusione di questa vicenda.
Infine, c'è un terzo aspetto sul quale lavorare. È ovvio che debbano essere accertate le responsabilità di chi ha sbagliato e che tali responsabilità debbano essere fortemente sanzionate. A questo, però, si deve procedere al di fuori del clima un po' giustizialista che, da qualche parte, si avverte e che mi sembra, di fatto, possa sollevare un polverone e creare una confusione che non ci aiuterebbe a individuare, fino in fondo, quali siano i nodi sui quali dobbiamo intervenire. La questione è talmente seria che dobbiamo evitare di fare di ogni erba un fascio: intervenire duramente, fino in fondo, tenendo chiaramente distinti, però, quali siano i diversi momenti e i diversi tempi nei quali dobbiamo muoverci.
Quanto alla credibilità internazionale dell'Italia, onorevole Nannicini, mi sembra di avere già detto qualcosa e non voglio ripetermi.
Per quanto attiene, invece, al quesito dell'onorevole Nesi, devo rispondere, onestamente, che anch'io sono un nostalgico della legge bancaria del 1936 e lo sono sempre stato. Anch'io sono assolutamente convinto - è una mia ferma convinzione personale - della necessità della separazione fra banche e imprese e della non commistione tra le diverse forme di attività bancaria. Quindi, la banca universale - come sostenuto poc'anzi, implicitamente, rispondendo all'onorevole Visco - ritengo sia preferibile ad un modello nel quale, negli ultimi anni, come abbiamo visto, sono andati fortemente moltiplicandosi e radicandosi i conflitti di interesse. Il problema è che le dimensioni della competizione richiedono banche sempre più


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grandi, che svolgano un numero sempre maggiore di compiti. È un modello verso il quale anche altri paesi si sono già mossi, da tempo e con decisione. Questa è una delle ragioni per le quali molti conflitti di interessi, negli Stati Uniti, sono rimasti irrisolti ancora oggi, perché ci sono alcune grandi lobby che hanno impedito che dopo la legge Sorbanes-Oxley si facesse qualcosa in più. Credo sia un problema molto serio, sul quale è necessario ragionare fino in fondo, perché questi conflitti di interesse devono essere risolti. Altrimenti, non avremo alcuna garanzia di evitare che, un domani, in qualunque altra parte del mondo, si verifichino vicende simili a quelle che abbiamo conosciuto negli ultimi due o tre anni. Quindi, questo è un tema di grandissima importanza.
Del resto, ritengo anche molto importante il problema della struttura del credito nel nostro paese, nel quale esistono banche la cui storia passata è frutto, obiettivamente, anche del rapporto che, per tanti anni, ha caratterizzato la storia italiana, cioè del rapporto molto stretto, molto intrecciato, tra politica, finanza, affari e quant'altro. Negli ultimi anni, le banche pubbliche sono diventate sempre più private ma con una difficoltà a trovare assetti proprietari che siano largamente condivisi. Soprattutto, le nostre banche hanno pagato un prezzo molto alto per questo lungo e profondo processo di modernizzazione, ancora largamente incompiuto, del nostro paese e soffrono anche delle molte diseconomie esistenti in Italia. Infatti, anche nella capacità di crescita e di autofinanziamento delle banche, un ruolo importante, nella concorrenza con altri paesi, è giocato dalla circostanza che anch'esse, al pari delle imprese, subiscono un prelievo fiscale più alto e la loro capacità di autofinanziamento è ridotta, come lo è la loro capacità di investimento. Se, poi, queste risorse ridotte sono investite anche - come qualcuno affermava - in attività non propriamente coerenti con il core business, ancor di più esse si indeboliscono. Perciò, io giudico importante e molto significativa anche la ridefinizione, cioè l'attribuzione all'Autorità Anti-trust, della responsabilità del mercato. Tuttavia, su tali interventi bisogna ragionare, e devono essere realizzati, tenendo conto anche della storia, delle dimensioni, delle debolezze e delle criticità del sistema del credito nel nostro paese.
Bisogna ricordare che, nel corso degli ultimi anni, sono state scritte alcune pagine importanti. Anche in questo caso, infatti, non si può generalizzare. Ci sono imprese ben gestite che stanno operando molto bene; altre, invece, riguardo alle quali ci sono alcuni punti di domanda. Sono temi che rendono necessario un confronto serio, istituzionale, che deve svolgersi, necessariamente, in tempi brevi ma che non può essere concluso frettolosamente e non può essere confuso con la prima fase di azione, cui ci riferivamo poc'anzi, alla quale dobbiamo procedere con grande rapidità.
Vi è un altro elemento, a mio avviso molto importante, che emerge da tutta questa vicenda e che, finalmente, può aiutarci a sfatare uno dei tanti luoghi comuni che hanno caratterizzato il dibattito economico nel nostro paese, per troppo tempo. Mi riferisco alla assunzione, alla equazione, alla semplificazione - secondo me, veramente sbagliata - che le imprese quotate siano imprese trasparenti e le imprese non quotate siano imprese oscure.
A mio avviso, si è trattato di una di quelle costruzioni ideologiche tipicamente nostre - quali quella, ad esempio, all'insegna del «piccolo è bello» e del «restate piccoli» - che hanno veramente procurato grave danno al nostro paese; ritengo che la distinzione vera si debba operare, invece, tra imprese oneste e disoneste, a prescindere dal fatto che siano o meno quotate. Quotate o non quotate, piccole o grandi che siano, la distinzione, per le imprese, si deve fare tra quelle ben gestite - che usano la trasparenza, il rigore, le buone pratiche di management (e, quindi, anche di corporate governance) - e quante, invece, cerchino di applicare solo formalmente tali buoni principi finendo per ricorrere agli slalom nell'applicazione sostanziale degli stessi.


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Evidentemente, il sinallagma in questione, ormai divenuto vieppiù falso e la cui inadeguatezza risulta sempre più evidente, apre una questione importante; ricordiamo tutti come si sia teorizzata, una decina di anni fa, la superiorità del modello nel quale si diluiva, fino a farla addirittura scomparire, la public company preferendosi, alla proprietà dell'imprenditore, l'azienda gestita esclusivamente dal management. Abbiamo sperimentato come, dieci anni dopo, ciò ha creato un effetto assolutamente devastante; dalla logica delle stock option si è passati a risultati, per così dire, «drogati» al fine di consentire alle stock option di essere esercitate. Ciò ha finito per costituire una delle cause fondamentali delle crisi e delle speculazioni finanziarie; un cattivo capitalismo procura gravi danni al capitalismo.
Dunque, come dianzi si è sottolineato con riferimento alla recente audizione, nelle Commissioni riunite di Camera e Senato, del presidente Cardia, si pone un serio problema circa l'incentivo all'approvazione dei benefici privati da parte del management e degli azionisti di controllo. Si tratta di uno dei veri grandi pericoli che noi abbiamo dinanzi e che dobbiamo rendere evitabile. Esiste, si verifica; è grave che vi sia. Ma dobbiamo intervenire per renderlo evitabile e, a tal fine, dobbiamo impegnarci; naturalmente, anche in tal caso, mirando alla buona corporate governance.
Ad esempio, una delle sagge regole di buona corporate governance è che le stock option non vengano decise dai consigli di amministrazione ma nelle assemblee; in tal modo, infatti, le società che le decidessero si darebbero un rigore ed una trasparenza che le sottrarrebbe anche alle esigenze di cui apprendiamo ancora oggi, sui giornali internazionali. Importantissime imprese, di altissimo livello, nelle quali, tuttavia, la droga del risultato del prossimo quoter fa breccia. Risultati che vengano gonfiati in maniera strumentale - basta aprire il Wall street Journal e si apprende di tali vicende -; ma nessuno parla di rischio paese, in quel caso. Sono aziende anglo-americane ma di rischio anglo-americano non ne parla nessuno; aziende che hanno gonfiato i loro bilanci per due miliardi e 500 milioni di dollari - mi riferisco, in particolare, al caso Bristol-Myers Squibb, di cui hanno riferito, nelle scorse settimane, le prime pagine del Wall street journal - proprio seguendo la logica del risultato.
Tutto ciò va impedito attraverso un rafforzamento della buona corporate governance. Quindi, su tali versanti, noi siamo molto rigorosi e chiediamo chiarezza e severità.
Vengo ora alla fragilità del sistema industriale italiano. Le imprese non saprebbero crescere; avrebbero dimenticato come essere un sistema dinamico. Ma, scusi, onorevole Nicola Rossi, una delle peculiarità della storia dell'economia e dell'industria italiana è sempre consistita, purtroppo, in un numero esiguo di grandi imprese e in un tasso di natalità imprenditoriale che è studiato ed invidiato in tutto il mondo. Sotto tale ultimo profilo, se vi è stato, in Italia, un grande fenomeno di massa negli ultimi trent'anni, è stato quello dell'esplosione e del dinamismo del ceto imprenditoriale italiano. Se, con riferimento al nostro paese, consideriamo l'attuale prodotto interno lordo rispetto a quello di 20 o 30 anni fa, constatiamo come si sia enormemente allargata la fascia delle imprese che contribuiscono in maniera determinante e crescente alla creazione del nostro prodotto interno lordo. Ma non è una buona notizia, se guardiamo alla insufficiente dimensione delle imprese italiane; si tratta, infatti, di una circostanza che indica come l'Italia, oggi, abbia meno grandi imprese di quante ne abbia la Svizzera. Personalmente, se posso esprimere un auspicio, mi augurerei che ne avesse, invece, moltissime di più.
Ciononostante, il nostro è sicuramente un sistema dinamico, vitale e forte, che consta di tante imprese; imprese che hanno incontrato, sino ad oggi, serie difficoltà sulla strada per crescere. Infatti, nel nostro paese, abbiamo cercato di fissare soglie tese ad impedire la crescita delle imprese. Ciò, dal punto di vista normativo, e - come dicevo dianzi, riferendomi


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all'onorevole Visco - culturale, ma anche dal punto di vista di quanto era ancora possibile operare. Una delle grandi battaglie condotte da Confindustria in questi anni è consistita proprio in una lotta per eliminare le soglie poste contro la crescita. Dobbiamo, del resto, scontare gli effetti di un'ideologia che ha dominato trent'anni di dibattito; ne sono esempi certi sintagmi invalsi: «piccolo è bello», «la cultura del cespuglio», «la cultura del sommerso». Insomma, in Italia abbiamo assistito a vicende le quali veramente hanno proposto un modello di sviluppo che, di fatto, corre il rischio, oggi, di metterci ai margini di un processo sempre più forte di integrazione dei mercati a livello internazionale.
A mio avviso, le ragioni della fragilità del sistema italiano non sono nel desiderio di impresa che il paese esprime; ritengo siano, piuttosto, nella competitività di sistema che, nel nostro paese, anche oggi, rimane debole. Peraltro, le ragioni della fragilità risiedono, a mio avviso, anche nella insufficiente disponibilità di capitale umano dal punto di vista delle risorse manageriali necessarie per accompagnare i processi di crescita delle imprese. Non necessariamente chi ha l'intuizione, la genialità ed il coraggio di fondare un'impresa ha anche le capacità di farla crescere; anzi, è recentemente apparso uno studio molto interessante, condotto dalla Harvard business school, che ha analizzato tutti i casi di imprese americane nelle quali la fase di crescita è stata - necessariamente - guidata da soggetti diversi dai fondatori delle stesse. Dunque, anche tale aspetto rappresenta sicuramente uno degli elementi critici, uno dei colli di bottiglia del sistema industriale italiano; ma più ancora di ciò, è rilevante la grande rigidità, la grave non competitività che ha accompagnato l'Italia per molti anni.
A mio giudizio, inoltre, le riforme del mercato del lavoro recentemente varate recano, forse, un modesto miglioramento ma non risolvono il problema della mancanza di competitività. Perché si possa crescere occorre, a mio avviso, avere a disposizione un sistema paese che, complessivamente, sia migliore anche per la sua dotazione di norme, per il funzionamento dell'ordinamento giudiziario e quant'altro: sappiamo tutti ciò che all'Italia serve per essere un paese moderno.
Inoltre, un elemento utile per la modernizzazione del sistema è anche il varo di una buona legge fallimentare; il fatto che sia stato necessario adottare, per così dire, nottetempo, a strettissimo giro, il cosiddetto decreto Marzano, ha consentito di evitare una logica strettamente liquidatoria che ha sempre contraddistinto ogni intervento della cosiddetta legge Prodi. Non mi pare - ma correggetemi se sbaglio - che le cosiddette leggi Prodi abbiano portato al risanamento di alcune aziende; ricordo solo, a tale riguardo, lunghissime gestioni della chiusura delle stesse.
Ebbene, nella realtà Parmalat, vi sono, probabilmente, alcuni pezzi industriali meritevoli di essere, quantomeno, per così dire, sperimentati dal punto di vista della loro ricuperabilità; a mio avviso, non disponiamo, nel nostro ordinamento, di strumenti adeguati dal punto di vista giuridico perché questa complessità delle crisi aziendali possa essere recuperata. Il diritto fallimentare è un capitolo ancora tutto da riscrivere, confuso, pasticciato; anziché consentire, ad un tempo, una vera tutela del creditore ed un'effettiva capacità di recupero delle realtà industriali, esso segue una logica penalizzante e liquidatoria di realtà che, in ipotesi, sarebbero recuperabili se vi fossero quegli strumenti - dal chapter eleven ad altri - che, in molti ordinamenti, hanno già dato buona prova di sé. Quindi, il diritto fallimentare presenta un forte arretramento, rivelato proprio dal caso Parmalat; quest'ultimo manifesta, altresì, in maniera molto chiara, proprio con la necessità e l'urgenza del cosiddetto decreto Marzano, un'accelerazione dell'intervento.
Credo di avere risposto a quasi tutte le questioni. Vorrei, però, soffermarmi ancora su alcuni aspetti, soprattutto, circa l'ultimo intervento del senatore Pedrizzi. Ebbene, anzitutto va premessa una questione fondamentale: i toni della polemica che hanno contraddistinto, nel corso delle


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ultime settimane, tutta la vicenda non aiutano. Abbiamo, infatti, bisogno di riportare sul terreno istituzionale l'intervento e, altresì, di maturare una capacità di reazione molto rapida a tali vicende. È necessario lavorare con grande responsabilità e serietà per la soluzione di tali questioni; quindi, questi sono i toni ed i contenuti che noi come Confindustria abbiamo cercato di mantenere su questo aspetto.
Pur senza entrare nella demagogia - che, obiettivamente, corre il rischio di far male un po' a tutti - la circostanza che si siano prodotte situazioni così gravi richiede grande serietà e rigore, in particolare nell'applicazione delle sanzioni e, per così dire, nello scioglimento delle cause per le quali queste situazioni si sono verificate. Ma, nel farlo, dobbiamo anche cercare, naturalmente, di preservare quanto, invece, funzioni bene nel nostro paese cercando, se mai, di migliorarlo. Anche a tale riguardo, credo siano moltissimi gli interventi che sul rapporto banche-imprese possono essere compiuti. Di alcuni credo di aver già riferito, ma anche altri sono meritevoli di un approfondimento.
A mio avviso, uno degli aspetti più importanti sul quale dobbiamo soprattutto, in conclusione, portare la nostra attenzione è il seguente: occorre portare più etica nel modo in cui si fa impresa e finanza, non solo nel nostro paese ma anche in giro per il mondo e credo che ciò sia di fondamentale importanza.
Tuttavia, l'etica non si realizza solamente con richiami ottativi, ma anche con comportamenti positivi, cercando di avere dibattiti più seri e istituzionali ed introducendo quelle sanzioni morali, dalla reputazione in poi, che contraddistinguono la civiltà e la serietà di un contesto sociale ed economico, nel quale la sanzione della reputazione accompagna comportamenti che, dal punto di vista etico, non siano del tutto coerenti. Credo che questo sia molto importante e, ripeto, per chi è convinto che il capitalismo sia un sistema che funzioni, è assolutamente importante che il cattivo capitalismo sia il più possibile bandito.

PRESIDENTE. Ricordo in conclusione il calendario dei lavori della prossima settimana. Martedì 27 gennaio presso il Senato si terrà alle ore 9,45 l'audizione del Governatore della Banca d'Italia, giovedì 29 presso la Camera alle ore 15 l'audizione dell'Autorità anti-trust e alle ore 17 quella della COVIP, venerdì 30 presso il Senato alle ore 9 l'audizione delle associazioni di tutela dei consumatori e alle ore 11,30 quella dei rappresentanti dell'ISVAP.
Ricordo altresì che le presidenze delle Commissioni si riservano, eventualmente, di convocare un ufficio di presidenza con i rappresentanti dei gruppi.
A nome dei presidenti delle Commissioni riunite della Camera e del Senato, ringrazio il presidente D'Amato, il direttore generale e i suoi i collaboratori e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 19,35.