Resoconto stenografico
AUDIZIONE
La seduta comincia alle 14.
PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori sarà assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, ai sensi dell'articolo 143, comma 2, del regolamento, l'audizione del ministro della difesa, Antonio Martino, sull'aggiornamento delle missioni internazionali. Dopo aver rivolto il mio saluto e ringraziamento al ministro, ricordo agli onorevoli intervenuti che dopo l'intervento del ministro Martino si procederà ad un dibattito per il quale mi riservo la facoltà, in seguito, di suddividere fra i vari gruppi il tempo a disposizione, anche in considerazione della necessità di concludere i nostri lavori entro le ore 16.
Do ora la parola al ministro Martino.
ANTONIO MARTINO, Ministro della difesa. Signor presidente, onorevoli colleghi, trattare delle missioni internazionali che vedono i nostri contingenti militari impegnati per la pace nel mondo, non può che riportarci alla tragedia del 12 novembre. Quel giorno, nel corso del dibattito in Aula, caratterizzato da grande serietà e compostezza, per le quali desidero esprimere riconoscenza a tutti i colleghi, mi riservai di tornare a riferire più dettagliatamente.
Credo che oggi, a venti giorni dall'attentato, un esame più approfondito ed una discussione più ampia siano legittimi ed opportuni. Lo facciamo con dolore ed amarezza ancora struggenti, per aver visto tanta devastazione sul luogo della strage, il pianto per i nostri morti, le pene dei feriti. Con indignazione e rabbia per quell'atto di violenza che ci ha portato via uomini che adempivano generosamente alla loro missione di pace. Ma anche con orgoglio, per il modo in cui l'intera comunità nazionale ha reagito.
Quegli uomini, con il loro sacrificio, ci hanno consegnato una grande nazione, consapevole di dover accettare il peso delle proprie responsabilità internazionali, capace di far sentire alle famiglie dei caduti ed ai soldati rimasti sul campo che è con loro.
Rispetto alla dinamica dell'evento, le prime indagini amministrative, avviate immediatamente dopo l'attentato, non hanno rilevato elementi sostanzialmente diversi da quelli già noti. Naturalmente, la ricostruzione dell'attentato non può ancora essere ritenuta definitiva e solo le ulteriori indagini potranno darne un quadro completo. Mi riferisco a due inchieste amministrative in corso, una dell'Esercito ed una dell'Arma dei carabinieri, ed alle attività d'indagine avviate dalla magistratura ordinaria e dalla magistratura militare. Dunque, su questo non mi soffermerò.
Un pensiero, doveroso e mesto, lo rivolgiamo ai 19 caduti. I loro familiari si sono comportati in modo esemplare, per dignità e compostezza. Non li abbandoneremo.
Lo ha detto il Presidente della Repubblica, lo confermo a nome del Governo e delle Forze armate.
I feriti sono stati 26, di cui 22 dell'Arma dei carabinieri, 3 dell'Esercito ed un civile. 22 sono stati dimessi dall'ospedale militare del Celio. Un carabiniere è ancora ricoverato in Germania, in terapia intensiva, con gravi lesioni addominali, ma i medici si dichiarano ottimisti. Un ferito è tuttora ricoverato al Celio, in condizioni non preoccupanti. Purtroppo, anche gli iracheni hanno avuto 8 vittime ed 84 feriti.
Signor presidente, onorevoli colleghi, cercherò di dare risposta ad alcuni dei quesiti più pressanti di questi giorni. Innanzitutto sul rischio. Negli ultimi tempi, le condizioni generali di sicurezza in Iraq sono drammaticamente peggiorate ed il conseguente rischio per le forze del contingente è progressivamente aumentato.
Siamo in presenza di un sensibile inasprimento dell'offensiva della guerriglia e di una escalation del terrorismo, per il livello della violenza e per l'estensione geografica. Guerriglia e metodi terroristici, dal cosiddetto triangolo sunnita, si sono allargati a tutto l'Iraq.
La stessa dinamica dell'attentato di An-Nassiriyah ha manifestato logiche e schemi di portata molto più ampia delle realtà locali della regione sud irachena. Le evidenze sul territorio ci hanno autorizzato a ritenere che la responsabilità dell'attentato sia riconducibile ad unità di «Feddaiyn Saddam», ai quali si sarebbero saldate componenti terroristiche della nebulosa Al Qaeda, di provenienza anche esterna all'Iraq, con possibili coperture sul posto.
Il rischio generale non è stato mai sottovalutato, né sottaciuto. Nel presentare la missione al Parlamento, il 14 maggio, riferii testualmente: «...permangono problemi di violenze, di attentati, di banditismo, di criminalità, di saccheggi, di episodi di vera e propria guerriglia», « ...la missione è delicata e difficile perché in ambiente tendenzialmente non permissivo, cioè in un ambiente a rischio. È un rischio di cui siamo consapevoli. In questo quadro, l'uso della forza dovrà ...assicurare, nel modo più efficace, la tutela e la sicurezza del nostro personale» e, ancora, « ...si tratta di una missione che comporta rischi. In operazioni militari sono sempre elevati, in particolare quando si è in prima linea. Non li abbiamo mai minimizzati o nascosti, ne intendiamo farlo ora».
In una comunicazione scritta ai presidenti delle Commissioni difesa, il 18 settembre, informavo: «Le condizioni di sicurezza di quel Paese restano contrassegnate da una situazione di instabilità che, finora sostanzialmente limitata all'area a forte concentrazione sunnita, è suscettibile di estendersi, a causa delle tensioni emerse recentemente all'interno della comunità sciita, anche al sud del paese»; « ...si valuta che l'area interessata sia caratterizzata da rischio diversificato di livello "medio-alto"».
Successivamente, il 17 ottobre, sempre ai presidenti delle Commissioni, scrivevo: «che l'area interessata alla visita delle Commissioni (An-Nassiriyah) continua ad essere caratterizzata da rischio diversificato di livello "medio- alto"».
Ma, al di là di queste valutazioni, è sul piano delle attività di indirizzo politico e di pianificazione operativa che è stata sempre richiamata, con grande incisività, attenzione particolare alla tutela e alla sicurezza del nostro personale. Quanto all'attività di intelligence, le informazioni - che possono provenire da più parti - vengono diffuse, direttamente o indirettamente, in tutte le direzioni e vengono gestite per aggiornare le decisioni della catena di comando, tenuto conto del quadro di situazione, della missione assegnata e dei conseguenti compiti.
Circa le sistemazioni di sicurezza del nostro contingente, le autorità militari riferiscono che erano e sono adeguate. Esse sono state realizzate in teatro in relazione alle necessità connesse con i compiti assegnati e con un elevato livello di sicurezza dei nostri uomini. Quanto, più in particolare, al fatto del 12 novembre, insieme all'immediatezza ed efficacia della reazione degli uomini di guardia, il posizionamento ad opportuna distanza delle difese passive - ostacoli di contenimento, barriere e mezzi militari - ha impedito
all'autobomba di raggiungere la palazzina verso la quale si era scagliata, limitando gli effetti dell'esplosione e scongiurando danni e perdite ancora più gravi.
Bisogna anche considerare, per quanto riguarda i comprensori dei carabinieri, che i compiti e le funzioni della MSU ne hanno comportato la dislocazione in città, a contatto con la popolazione, per poterne guadagnare la fiducia e stimolarne la collaborazione ed esercitare l'attività loro propria e specifica. Invece, le altre forze del contingente italiano, in relazione alla loro differente funzione, sono state sistemate in basi più strettamente munite, a qualche chilometro dalla città, protette all'esterno, anche da diverse «cinture» concentriche.
Naturalmente, la nuova impennata del terrorismo comporta un'intensificazione delle misure di sicurezza, con regole e strumenti sempre più spinti ed apprestamenti difensivi ulteriormente rinforzati. I comandanti in teatro hanno già posto in essere disposizioni volte ad assicurare una ancora maggiore protezione delle nostre unità ed a contenerne l'inserimento delle dislocazioni nel contesto urbano, in misura tale, peraltro, da non compromettere l'assolvimento della missione.
Ma perché l'attacco, proprio alla base dei nostri carabinieri? Perché i nostri carabinieri sono un simbolo. Insieme ai nostri soldati, essi sono stati uccisi perché stavano ottenendo un grande successo nell'assicurare ordine e stabilità nella regione. Colpendoli si sono volute intimidire le forze della coalizione e anche i tanti iracheni che collaborano con i nostri militari.
Per questo, gli attacchi indiscriminati contro obiettivi sia civili che militari, esponenti politici e religiosi moderati e collaborativi, ma anche stazioni di polizia e commissariati iracheni, magistrati e personalità impegnate nel processo di ricostruzione dello Stato, luoghi di culto, sedi dell'ONU o della Croce Rossa, mirano ad accrescere i fattori di disagio e di incertezza tra la popolazione locale, al fine di favorire il diffondersi di una generalizzata sfiducia nei riguardi dell'azione della coalizione e di isolarne quanto più possibile le forze.
I nostri non sono caduti in battaglia, ma sono stati trucidati per mano di terroristi assassini. Questi terroristi, in buona parte provenienti da altri paesi, sono i veri nemici del popolo iracheno, che non vogliono che riprenda il cammino della normalità e giocano la carta della destabilizzazione estesa a tutto il territorio. Per questo non dobbiamo parlare di resistenza popolare irachena. D'altra parte, agli occhi degli strateghi del terrore, il fatto che i rapporti tra i nostri militari e la popolazione fossero buoni è sembrato un intollerabile esempio da sradicare al più presto.
Invece, la gente del posto ha manifestato solidarietà nei nostri confronti. Il giorno successivo, numerose persone hanno portato il proprio cordoglio agli italiani non solo ad An-Nassiriyah, ma anche a Baghdad. Ciò ci ha fatto pensare, paradossalmente, che i nostri siano morti proprio perché ben visti dalla popolazione locale che, per il modo di operare, percepisce il contingente italiano per quello che è: non una forza di occupazione, ma di sostegno e di pace.
Signor presidente, onorevoli colleghi, cerchiamo ora di chiarire, su quali basi può proseguire la nostra missione. L'operazione consegue alle risoluzioni della Camera e del Senato del 15 aprile 2003. Quegli atti di indirizzo parlamentare rappresentano il formale assenso ed il principio fondante del nostro impegno in Iraq, compreso quello militare.
Il 14 maggio ho riferito, sui dettagli della missione, alle Commissioni congiunte Esteri e Difesa di Camera e Senato. La missione, con la necessaria copertura finanziaria, è stata autorizzata con il decreto legge 10 luglio 2003, n. 165, convertito dalla legge 1o agosto 2003, n. 219, che dovrà essere rinnovato all'inizio de1 2004. Lo scopo della missione è di offrire un futuro migliore al popolo iracheno.
Il drammatico crescendo di attentati e di allarmi non modifica queste finalità e la natura complessiva della nostra presenza
militare. Rafforza, semmai, il nostro impegno ed impone una riconsiderazione delle modalità di impiego dei reparti secondo criteri di maggiore copertura rispetto alla accresciuta minaccia. Dunque, la missione militare resta la stessa, come dissi il 14 maggio: di concorso, con gli altri paesi della Coalizione, a creare le condizioni di sicurezza e stabilità necessarie agli aiuti umanitari ed alla riedificazione del paese. Le sistemazioni e le procedure si adeguano, invece, al più rischioso contesto attuale.
Si tratta, dunque, di effettuare operazioni di ricognizione e sorveglianza, di protezione e sicurezza, di stabilizzazione e assistenza. La condotta delle operazioni militari mantiene linee guida di profilo essenzialmente pacifico, protettivo e difensivo: presenza delle forze sul terreno quanto più discreta possibile; capacità di intervento e di risposta immediata alle possibili minacce, guidate dalla funzione intelligence e basate su adeguati assetti terrestri ed aerei. In realtà, il processo di ricostruzione del dopo-guerra è difficoltoso, travagliato e fortemente disomogeneo.
È un percorso più lungo del previsto, è vero. Ma non si è mai fermato, anche se è poco noto. Il fatto è che siamo portati a focalizzare la nostra attenzione sugli aspetti negativi. Sono quelli che fanno più notizia, com'è naturale che sia. La normalità non fa notizia. Eppure è proprio la normalità che si vuole in quel paese e, prima ancora, il ritorno alla sicurezza, senza la quale non ci potrà essere né libertà, né democrazia.
Una lettura più approfondita dello scacchiere iracheno mette, invece, in risalto molti e significativi risultati, oltre, naturalmente, alla cacciata di Saddam. Erano stati previsti due milioni di rifugiati, ma non vi è stato alcun esodo di massa. Quasi 40 mila poliziotti iracheni appositamente addestrati pattugliano le strade. Scuole, università ed ospedali funzionano. Nel paese circola una stampa libera e Internet e TV satellitari hanno riavuto la legalità. Ciò significa libertà di opinione, libertà di culto e libertà di insegnamento, che sono i pre-requisiti della democrazia.
Molto importante, ancora, è che non un solo centesimo dei ricavi ottenuti dal petrolio iracheno sia stato stornato dal fondo per la ricostruzione del paese, fondo amministrato dalle Nazioni Unite. Notevoli sono, dunque, i progressi ottenuti, soprattutto nella nostra provincia: dalla riattivazione dei servizi più elementari alle forniture idriche, all'elettricità, all'assistenza sanitaria, all'istruzione, ai trasporti ed alla circolazione delle merci, al controllo della distribuzione del carburante.
Si pensi alle attività più tipicamente militari delle nostre truppe, di controllo capillare del territorio, di pattugliamento e presidio dei punti delicati e delle infrastrutture, delle linee elettriche e degli oleodotti, che hanno subito furti e danneggiamenti, della centrale elettrica di An-Nassiriyah, che garantisce energia a metà Iraq, della strada per Baghdad, per contrastare il fenomeno del banditismo. A queste attività si aggiungono le distribuzioni di viveri e aiuti umanitari ai villaggi più poveri, le operazioni di pagamento delle pensioni agli anziani e degli stipendi a oltre 20 mila ex militari iracheni che vengono effettuate ogni mese nello stadio di An-Nassiriyah.
Si pensi ai Carabinieri della MSU, che svolgono una vasta gamma di compiti di sicurezza che vanno dalla prevenzione criminale all'antisommossa, dall'antiterrorismo alla raccolta delle informazioni sulla malavita e sui gruppi estremisti, dal mantenimento dell'ordine pubblico, alla selezione, addestramento e affiancamento dei circa 2 mila poliziotti iracheni presenti nella provincia di Dhiqar. Così, ogni tentativo di manifestazioni violente da parte di gruppi estremisti è stato contrastato efficacemente e senza violenze superflue dalle compagnie antisommossa.
Si pensi, ancora, alla Task Force CIMIC, di cooperazione civile-militare, costituita nell'ambito della Brigata, che assolve a funzioni fondamentali quali il collegamento con le autorità locali, con i rappresentanti di Organizzazioni internazionali, con le organizzazioni non governative,
con la gente; il supporto alla popolazione; il sostegno alla forza militare da parte della popolazione stessa. Una attività, quella CIMIC, che presuppone un forte inserimento nel contesto sociale urbano, per svolgere progetti particolari, nonché per intervenire in settori meno tipicamente militari, quali giustizia, istruzione, sanità, infrastrutture, servizi pubblici, pubblica amministrazione.
Come vediamo, molto è stato fatto. Ma molto resta ancora da fare. Oggi abbiamo un importante strumento sulla base del quale la comunità internazionale è in grado di esprimere una significativa coesione: la risoluzione 1511, adottata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 16 ottobre scorso.
Essa attribuisce alle Nazioni Unite una funzione vitale rafforzata, ampliata alla dimensione ed alla componente umanitaria, al nation building, al processo di transizione politica. Essa stabilisce che «la garanzia di sicurezza e stabilità è fondamentale affinché il processo politico si compia con successo» e «autorizza» una nuova forza multinazionale sotto comando unificato - a guida USA - a prendere tutte le misure necessarie per contribuire a tale scopo. Nel contempo, la forza ha anche lo scopo di assicurare le condizioni necessarie per l'attuazione del calendario e del programma, nonché per contribuire alla sicurezza della missione di assistenza delle Nazioni Unite, del Consiglio di Governo e delle altre istituzioni dell'amministrazione provvisoria e delle infrastrutture economiche e umanitarie chiave.
In particolare, la risoluzione, nel confermare la vocazione umanitaria dell'intervento, indica un percorso che mira alla restituzione, al più presto possibile, della sovranità e dell'esercizio dei poteri al popolo iracheno, in una cornice di integrità territoriale del paese.
Il suo voto all'unanimità indica che, ormai, è tutta la comunità internazionale che riconosce che siamo in Iraq con la piena legittimazione delle Nazioni Unite. Anche per questo non rimettiamo in discussione la presenza italiana, riconoscendoci pienamente in quel progetto, di cui cogliamo la chiara strategia: sovranità ed integrità territoriale sono gli obiettivi del processo di ricostruzione e di rigenerazione morale e politica dell'Iraq.
In questi giorni, il quotidiano bollettino delle vittime e l'enormità della tragedia del nostro contingente, hanno determinato uno straordinario impulso alla definizione del processo di transizione all'autogoverno iracheno. L'ipotesi che esso si realizzi in tempi anche più rapidi di quanto inizialmente previsto, potrà essere finalizzata da qui alla scadenza del 15 dicembre, individuata dalle Nazioni Unite per la presentazione di piani più dettagliati.
Si prevede che il Consiglio di Governo si disciolga a giugno 2004, dopo la convocazione di un'Assemblea costituente di 200 membri e la formazione di un nuovo Governo provvisorio. Successivamente dovrà aprirsi la fase costituente ed elettorale, che potrebbe essere completata nel 2005, eventualmente preceduta da una sorta di legge fondamentale o Costituzione provvisoria.
La nuova Costituzione sarà sottoposta a referendum e porrà le basi di una moderna democrazia con la separazione dei poteri, una magistratura indipendente, un esecutivo in grado di funzionare. Alle elezioni seguirà l'ingresso in carica di un Governo permanente, che implicherà lo scioglimento dell'Autorità provvisoria.
Con questo progetto si avvia una fase in cui si pongono le basi di una nuova dimensione di vita per il popolo iracheno, con i valori di democrazia, libertà, diritto e crescita dell'individuo al centro delle dinamiche di ricostruzione civile, sociale ed economica del paese. Così, il popolo iracheno ha, per la prima volta, una speranza concreta per il futuro.
Certo, non possiamo sottovalutare la complessità di questa transizione. Ma questa difficoltà non può e non deve farci desistere dal sostenere quello che appare un progetto concreto e perseguibile. Un progetto che non può prescindere dalla presenza di forze militari che garantiscano una cornice di sicurezza e stabilità. Per questo si pensa di tutelare il passaggio dei poteri con forze destinate a restare in Iraq
previo negoziato e, nel contempo, di predisporre unità operative irachene in grado di una progressiva assunzione di capacità di garantire sicurezza e difesa contro il potenziale offensivo della guerriglia e del terrorismo.
Non si tratta, dunque, di ritirarsi dall'Iraq. Questo oggi, è impossibile: significherebbe creare un vuoto di potere micidiale e consegnare la regione all'estremismo, al fanatismo ed alla destabilizzazione. Si tratta, invece, di organizzare e sostenere, anche sul campo, un tempestivo ma ordinato trasferimento dei poteri e delle responsabilità agli iracheni.
Per quanto sta in noi, nel contesto internazionale, ci impegniamo per l'assunzione e la realizzazione di un programma chiaro e coerente. In teatro, ci impegniamo per superare insidie e diffidenze, moltiplicando le forme di contatto e le occasioni di collaborazione, senza discriminazioni, né esclusioni, dialogando con tutti.
È quello che stiamo facendo. Come è stato ben evidente nelle immagini televisive del grande pranzo di fine Ramadan, consumato all'interno della mensa della Brigata Sassari con tutti i capi tribù ed i notabili della regione. In questo quadro, uno dei più pressanti problemi resta il ruolo degli organismi internazionali: noi siamo, da sempre, convinti assertori e promotori che le Nazioni Unite, responsabili primarie della pace e della sicurezza internazionale e garanti del rispetto dei diritti dell'uomo, debbano assumere, anche in Iraq, più ampie responsabilità.
È nell'ambito delle Nazioni Unite, come già in altre occasioni ed in altre parti del mondo, che l'intervento internazionale può trovare una risposta di alto profilo.
D'altra parte, la risoluzione non prevede un impegno diretto delle Nazioni Unite. Per questo l'Italia, nell'esercizio della Presidenza semestrale dell'Unione europea e di ogni altro consesso, continua ad adoperarsi perché venga assunta una posizione univoca e forte delle Nazioni Unite a favore della ricostruzione istituzionale e materiale dell'Iraq e per un coinvolgimento sempre più multilaterale nella gestione della crisi.
In questo senso, in prospettiva futura, l'ipotesi di una guida NATO delle forze internazionali, sul modello di quanto avviene in Afghanistan, è possibile, se e quando richiesto da un Governo iracheno rappresentativo, in quanto la NATO, da alleanza difensiva ai tempi della guerra fredda, è divenuta un'organizzazione di sicurezza. Né deve escludersi che sia, anche, valutato un coinvolgimento della stessa Unione europea, nella misura in cui sarà in grado di condurre autonomamente operazioni militari.
Signor presidente, onorevoli colleghi, un Iraq prospero, democratico e libero costituirebbe un esempio che metterebbe a rischio i regimi dispotici e non sarebbe più un santuario per i terroristi di Al-Qaeda. Per questo la posta in gioco è altissima: perché lì si combatte una battaglia decisiva fra terrorismo globale e civiltà, fra democrazia e tirannide, fra umanità e barbarie.
In questa fase, le nostre Forze armate dovranno restare in Iraq a puntellare l'insediamento delle nuove istituzioni, ben sapendo che per i fondamentalisti la prospettiva di un Governo iracheno con qualche credenziale democratica è forse ancora più negativa di quella del prolungamento dell'amministrazione militare della coalizione.
I terroristi hanno fatto dell'Iraq un banco di prova. Sanno che perdere da parte loro la sfida irachena non significa soltanto la fine della tirannia e del fanatismo per quel popolo. Sanno che perdere in Iraq significa probabilmente perdere anche la loro sfida globale. È evidente che l'obiettivo del terrorismo e della guerriglia è quello di far venire meno il consenso all'interno dei paesi della coalizione ed indurli a lasciare l'Iraq prima del consolidamento del nuovo corso e, dunque, di un'alternativa irachena all'anarchia e al caos. È un tranello, in cui non dobbiamo cadere.
Ogni nostro tentativo di sottrarci allo scontro, con cedimenti e concessioni, non
farebbe che convincere il nemico della nostra debolezza e indurlo ad intensificare la sua offensiva nei confronti sia del nuovo corso iracheno, sia degli interessi civili e militari stranieri. Resteremo, dunque, e continueremo a fare il nostro lavoro in modo fermo, ma anche amichevole, senza disperdere quel patrimonio di relazioni e rapporti umani tanto pazientemente intessuti in questi mesi con la gente irachena, povera e vittima essa stessa. Diversamente lasceremmo dietro di noi quella violenza, quel disordine, quella ingiustizia per i quali i nostri militari sono caduti.
Nel dibattere sulle ragioni della nostra presenza in Iraq, abbiamo la consapevolezza che un tema così vitale richiede la stessa maturità e lo stesso spessore che emersero, proprio in Italia, negli anni settanta, quando si dovette reagire alla prima, grande sfida del terrorismo, quello interno. La nostra determinazione di proseguire con coraggio la missione deriva dalla certezza che saremo in grado, come allora, di sconfiggere anche questo terrorismo, quello globale.
Signor presidente, onorevoli colleghi, passiamo ora a considerare il teatro afghano. L'Italia continua a partecipare all'International Security Assistance Force (ISAF) e all'Enduring freedom, due operazioni diverse ma complementari nei loro obiettivi, che trovano fondamento giuridico e legittimazione nel favorevole pronunciamento delle Nazioni Unite, negli espliciti atti di indirizzo del Parlamento italiano e nei provvedimenti legislativi di autorizzazione. Ricordo che l'ISAF agisce sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, con il compito di assistere l'autorità afghana ad interim, insediata a Kabul il 22 dicembre 2001, a mantenere un ambiente sicuro nella città di Kabul e nelle aree limitrofe, nel quadro degli accordi di Bonn.
Il Comando dell'operazione, che ruota su base semestrale è attualmente esercitato dal Comando NATO CincNorth. Su un totale di 6.500 unità, il contributo nazionale è di circa 500 militari, inquadrati in reparti del Genio, NBC, trasmissioni, carabinieri e due velivoli C-130 schierati negli Emirati Arabi Uniti.
Con l'operazione Enduring freedom, invece, prosegue la più ampia campagna contro il terrorismo internazionale che impegna una grande coalizione di circa 70 paesi. Essa è stata avviata nell'ottobre 2001 sulla base di una serie di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ne focalizzano gli scopi di stabilizzazione e ricostruzione dell'Afghanistan sotto il legittimo Governo.
L'Italia ha partecipato a Enduring freedom con un contingente interforze composto di reparti terrestri (la Task force «Nibbio»), di una componente navale e di una aeronautica. La pianificazione delle attività è stata concordata direttamente con il Comando USA di Tampa, ove continua ad operare un nucleo del Comando operativo di vertice interforze.
Il contributo nazionale all'operazione è attualmente limitato ad una unità navale, la Fregata Espero, con un equipaggio di circa 230 militari, che opera nell'oceano Indiano nell'ambito del dispositivo navale europeo (Italia, Spagna, Francia e Portogallo). Questa dislocazione ha come scopo operazioni di identificazione, sorveglianza e riconoscimento, di interdizione marittima, di interdizione della leadership e di monitorizzazione di eventuali traffici illeciti.
La partecipazione all'operazione della Task Force «Nibbio», di mille militari, e della componente aeronautica, di circa 80 uomini, si è conclusa il 15 settembre scorso. La Task Force ha operato nella zona di Khowst per neutralizzare ed eliminare le formazioni terroristiche, le loro possibili basi logistiche e i centri di reclutamento ancora presenti nell'area.
Più in generale, la Task Force ha effettuato attività di interdizione area, impedendo infiltrazioni di terroristi di Al Qaeda o di talebani, nella cosiddetta Sanctuary denial area situata nella parte orientale dell'Afghanistan, fino al confine con il Pakistan.
In tale contesto, il contingente italiano ha condotto un'attività operativa fortemente
dinamica, con una diffusa presenza sul territorio mediante pattuglie e complessi di forze itineranti tendenti, da un lato, a raccogliere informazioni e ad ostacolare la libertà di movimento dei gruppi armati, dall'altro ad intensificare il contatto con la popolazione locale, anche attraverso la distribuzione di aiuti umanitari ed interventi di ricostruzione e di sostegno alle istituzioni locali.
Si tratta di un compito difficile, molto impegnativo e densissimo di rischi - come confermano gli attacchi subiti dalle nostre forze, per i quali ho più volte espresso la mia preoccupazione - che i nostri soldati hanno assolto, con una professionalità riconosciuta ed apprezzata da tutti, che ha contribuito a rafforzare le già buone relazioni esistenti con la popolazione locale. Tutto ciò grazie anche ad un efficiente e penetrante servizio di intelligence.
L'operazione «Nibbio» è stata una delle più complesse e rischiose missioni affrontate dalle Forze armate nel dopoguerra per svariati motivi: per la notevole distanza del teatro operativo dalla madre-patria, che ha imposto di utilizzare solo il mezzo aereo per garantire il dispiegamento, il regolare rifornimento ed il rientro del nostro contingente; per la necessità di realizzare uno stretto coordinamento e una forte interazione a livello operativo e tattico con le forze americane, indispensabili per garantire l'efficacia delle operazioni; per il difficile contesto socio-economico locale, caratterizzato da precari equilibri politici e di potere, e per le notevoli difficoltà ambientali per la diffusa presenza sul territorio di formazioni armate, che hanno costituito un livello di minaccia costantemente elevato.
L'accurata pianificazione d'impiego e la preparazione dei reparti della Task Force, hanno consentito di portare a termine la missione con pieno successo. Abbiamo avuto quattro feriti lievi. Anche in questa occasione l'Italia ha dato prova di affidabilità e di credibilità sugli scenari internazionali, meritando numerose attestazioni di apprezzamento e stima dei comandi della coalizione e le testimonianze di simpatia e gratitudine delle popolazioni locali.
Tornando alla missione ISAF, la risoluzione 1510, approvata dal Consiglio di sicurezza il 13 ottobre 2003, ne ha autorizzato l'estensione del mandato al di fuori di Kabul, per supportare l'Afghan Transitional Authority nel mantenimento della sicurezza.
In tale contesto, la NATO ha avviato una riflessione sulle possibili modalità operative di espansione dell'operazione e sulla strategia di lungo termine dell'Alleanza nel paese. Un'ipotesi prevede di utilizzare i Provincial reconstruction teams (PRT), come già fatto da USA, UK, Germania e Nuova Zelanda. Tali strutture risultano bene integrate ed accettate dalla popolazione locale per il basso profilo militare, che non le fa percepire come «forze di occupazione». Una soluzione di questo tipo richiede, però, un consistente aumento di uomini, mezzi e strutture di ISAF, sia nel Comando che nelle forze schierate.
Abbiamo, attualmente, al vaglio l'ipotesi di costituzione di un PRT a responsabilità italiana. Si tratterebbe di un team, sotto la responsabilità organizzativa e gestionale del Ministero degli affari esteri, con compiti prevalentemente civili di ricostruzione e di sviluppo. I reparti militari sarebbero preposti al supporto, protezione e sostegno logistico. La componente militare dovrebbe quindi essere dimensionata in funzione delle esigenze di sicurezza e di sostegno, delle attività propriamente militari di controllo dell'area circostante e di contributo alla ricostruzione ed all'addestramento dell'Afghan national army.
Alla luce di tale possibilità, sono state avviate attività preliminari di studio e di ricognizione nell'area che potrebbe essere assegnata al nostro contingente, per le necessarie valutazioni di merito tecnico operativo, preventive al previsto iter decisionale ed autorizzativo. Trattandosi di una sostanziale estensione dei compiti di ISAF, da Kabul ad altri centri urbani afgani, all'interno, comunque, del numero complessivo di militari già autorizzato per
le operazioni in Afghanistan, questo tipo di impegno potrebbe richiamare un generale consenso. Fra l'altro, come ricorderete, su tale tipo d'intervento si dibatté ampiamente in Parlamento, fino all'approvazione di specifici atti di indirizzo al Governo.
Resta tuttavia il delicato problema connesso all'alto e crescente livello di rischio, diffuso in tutta la regione afgana. Sebbene ISAF e Enduring Freedom siano due operazioni separate con differenti mandati, compiti militari ed obiettivi, in prospettiva rimane possibile ed auspicabile un approccio complessivo.
L'obiettivo finale va perseguito progressivamente, secondo i parametri indicati dalle risoluzioni delle Nazioni Unite. Anzitutto un programma di Disarmament, demobilisation and reintegration e costruzione dell'esercito afgano. Secondo, il rafforzamento dell'autorità di Governo centrale e della sicurezza interna, polizia nazionale e sistema giudiziario, con lotta al narcotraffico. Terzo, lo svolgimento della Constitutional Loya Jirga ed approvazione di una nuova Costituzione, con successiva elezione di un Governo. Ricordo che tale organismo si riunirà per la prima volta il prossimo 10 dicembre, in strutture per le quali le nostre unità del Genio hanno predisposto misure di protezione e rafforzamento. Infine l'evoluzione positiva delle relazioni con i Paesi confinanti e progressi nella lotta alla minaccia terroristica. Si tratta di un meccanismo già saldamente consolidato dall'esperienza dell'Alleanza nei Balcani.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, giungo, così, alla conclusione. Come ben emerge dalla panoramica illustrata, questo che stiamo vivendo è un periodo assai importante per la Difesa italiana: per la quantità delle missioni, per loro la complessità organizzativa, per la qualità degli impegni.
Si tratta di missioni che sostanziano il ruolo del nostro Paese nel mondo. Artefici ne sono i nostri militari. Di essi dobbiamo andare orgogliosi. È in quest'ottica che riteniamo giusto inquadrare il nostro impegno internazionale, avvertendo l'esigenza di riaffermare la primaria importanza di agire in nome di un sistema di valori che è fondamento di quella civiltà che crediamo di dover condividere con l'intera comunità internazionale. Anche se abbiamo dovuto accettare che quei valori hanno un prezzo, che può essere anche altissimo.
PRESIDENTE. Ringrazio il ministro per la sua esauriente relazione.
Nel dare la parola ai colleghi che intendono intervenire, ricordo che, considerando il tempo a nostra disposizione (circa un'ora), la durata degli interventi sarà ripartita per i diversi gruppi come segue: Forza Italia 17 minuti, Democratici di sinistra-l'Ulivo 12 minuti, Alleanza nazionale 10 minuti, Lega nord Padania 5 minuti, Margherita, DL-l'Ulivo 7 minuti, gruppo Misto 7 minuti e Rifondazione comunista 4 minuti.
MARCO MINNITI. Naturalmente ringrazio il ministro per la sensibilità che ancora una volta ha dimostrato ricorrendo ad un positivo rapporto con il Parlamento. Il presidente ed il ministro mi consentiranno di concentrare il mio intervento essenzialmente sulla vicenda irachena, questo non perché io sottovaluti gli altri scenari ma perché credo che oggi essa costituisca l'argomento principale sul quale misurarci, rinviando ad ulteriori approfondimenti parlamentari le valutazioni sugli altri scenari.
Personalmente, ministro, mi scuso con lei ma non le rivolgerò delle domande. Tenterò invece di svolgere un ragionamento perché credo siamo di fronte ad un passaggio dinanzi al quale è bene che le posizioni siano chiaramente delineate sul campo. Naturalmente il dolore per quella che io ho considerato e considero una grande tragedia nazionale rimane sempre forte e vivo e la ringrazio per aver voluto riconoscere al Parlamento la grande compostezza tenuta nell'affrontare questa tragedia: è un giudizio che condivido. Tuttavia, penso che sia giusto e doveroso per tutti quanti noi, per coloro che sono morti, per i loro parenti, compiere ogni sforzo per comprendere ciò che è avvenuto.
Abbiamo un dovere: senza strumentalizzazioni, senza colpi di spettacolo è giusto comprendere quanto avvenuto. Sono in corso indagini della magistratura; penso sia utile che anche il Parlamento, certo nelle sedi opportune, tenti di comprendere quanto è accaduto.
Non spetta a me fare delle valutazioni, dare dei suggerimenti, però in altri casi sono state assunte delle iniziative di indagine da parte dello stesso ministero: ritengo che ciò non sarebbe del tutto inutile. L'attentato nei confronti delle nostre forze armate e dei civili a Nassirya, rappresenta una drammatico salto di qualità. In sostanza ci ha detto che l'Italia è entrata nel mirino del terrorismo internazionale: l'Italia è un obiettivo. Rispetto a questo messaggio, pesante ed inquietante per la sicurezza nazionale e la sicurezza degli italiani fuori dai confini nazionali, è necessario che ci sia una risposta, la più intelligente e la più efficace possibile.
Posso dire, tuttavia, che passate ormai alcune settimane, non possiamo limitarci soltanto al dolore - che rimane vivo -. È necessario comprendere un aspetto: un grande paese, nel momento in cui è colpito fa quello che è possibile - ma lo fa davvero - affinché ciò che è avvenuto non possa ripetersi più!
Signor ministro, non ci si può dire in questa sede che confermiamo quanto affermato il 14 maggio scorso. Successivamente a quella data, è cambiato tutto: c'è stata una scia di sangue drammatica, una scia di sangue che prima sembrava essersi concentrata nel triangolo sunnita e poi si è estesa a tutto il paese, a tutto l'Iraq. Da parte della guerriglia è stata mostrata una notevole capacità di intervento militare e di intelligence. In sostanza, in Iraq ci troviamo di fronte ad una guerra dichiarata, conclusa formalmente, ma che, di fatto, non è terminata. Nello stesso tempo, non si può non vedere come rispetto a quanto appariva subito dopo la conclusione delle ostilità vi sia stato un cambiamento, anche di qualità, nell'atteggiamento della popolazione irachena. Una parte, infatti, sembra solidarizzare con i guerriglieri ed i terroristi e una altra parte, forse la più grande, non è favorevole ai terroristi ma, sicuramente, esprime una critica ed un fastidio verso presenze considerate come occupanti.
Penso che questo tipo di giudizio, che non è forzato, comporti l'esigenza di trarre un bilancio. Chiedo scusa se sto per rendere una affermazione troppo netta ma in pochi minuti non si può fare diversamente: la strategia dell'amministrazione statunitense, nel dopoguerra iracheno, è arrivata ad un punto di scacco. Gli americani, da soli, non ce la fanno. Non mi riferisco alla guerra, sulla quale c'è un netto ed evidente giudizio di contrarietà che, purtroppo, è stato confermato negli effetti; voglio riferirmi all'oggi. La strategia del dopoguerra è in scacco e non basta una correzione o un aggiustamento, c'è bisogno di un suo cambiamento. Tale cambiamento di strategia, in sostanza, deve ruotare attorno ad un punto e, cioè, che il terrorismo internazionale è in Iraq e non si combatte con le modalità seguite sino ad ora. L'Iraq testimonia la drammatica insufficienza della risposta militare. Quindi, c'è bisogno di introdurre qualcosa in più in termini di politica e di diplomazia, in Iraq come nella lotta al terrorismo.
Noi abbiamo fissato tre punti che desidero riproporre in questa sede. Il primo è basato sulla risoluzione n. 1511 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Questa risoluzione, signor ministro, ha modificato il quadro giuridico. Tuttavia, sul campo non è cambiato nulla, purtroppo. La transizione democratica deve effettuarsi il più rapidamente possibile; rapidissimamente, io aggiungo. Il mese di giugno mi sembra molto lontano. Deve insediarsi un governo degli iracheni, allo stesso modo in cui si è proceduto in Afghanistan.
Il secondo punto attiene ad una correzione di strategia che metta in campo una iniziativa multilaterale in Iraq. In questo quadro, è necessario un ruolo delle Nazioni Unite, che assumano direttamente la responsabilità del processo di stabilizzazione e di ricostruzione di tale paese.
Il terzo punto consiste in una iniziativa che preveda sul campo, in Iraq, una presenza politica, diplomatica e militare di quei paesi che non hanno partecipato o si sono opposti alla guerra: per essere più chiari, l'Unione europea e i paesi arabi moderati.
Tutto ciò aveva bisogno di una iniziativa straordinaria del nostro Governo. L'Esecutivo aveva il dovere, ed ha il dovere, per così dire, di fare tutto quanto è necessario in questo campo; ha questo dovere, a maggior ragione, perché siamo un paese che è stato colpito. Invece, ci troviamo, in questa sede, a trarre il bilancio, confermato da quanto lei ha affermato, di un Governo inattivo e silente. L'Italia esercita la presidenza di turno della Unione europea. Che cosa deve accadere di più per spingere il nostro Governo a chiedere un vertice straordinario sull'Iraq? Pensavo che noi saremmo arrivati a questo punto avendolo già fatto, avendo chiesto all'Unione europea di assumere insieme un progetto di responsabilità per correggere la rotta nei riguardi della situazione irachena. Nulla di tutto questo è accaduto. Non abbiamo compiuto un passo alle Nazioni Unite e non abbiamo compiuto neppure un passo formale nei confronti degli Stati Uniti. Il nostro Governo non lo ha fatto. Ho ascoltato sagge parole da parte del Presidente della Repubblica ma non ho ascoltato parole significative e forti da parte del Presidente del Consiglio dei ministri. È una lotta contro il tempo.
Signor ministro, in Parlamento noi non abbiamo chiesto il ritiro delle nostre truppe e non lo facciamo neppure oggi. Tuttavia, deve essere evidente quel giudizio che per noi ha comportato una assunzione di responsabilità. Infatti, come lei sa, non abbiamo condiviso l'invio delle truppe italiane in Iraq. Ripeto, non lo abbiamo condiviso. Lo abbiamo affermato chiaramente, in Parlamento, che il quadro non era quello che ci era stato presentato. Tuttavia, pur non chiedendo il ritiro, abbiamo chiesto, contemporaneamente, che fossero costruite le condizioni per potervi rimanere. Ebbene, signor ministro, oggi dobbiamo trarre un bilancio: le condizioni esistenti, oggi, in Iraq non sono tali da consentirci di rimanere e più le settimane trascorrono senza che nulla cambi più la situazione diventa insostenibile, anche dal punto di vista della sicurezza.
Con responsabilità, abbiamo chiesto anche un dibattito parlamentare, in Assemblea, sulla questione irachena e sulle vicende internazionali. Chiediamo al Governo di agire nella direzione che noi abbiamo proposto in sede parlamentare. Con responsabilità, l'opposizione chiede di costruire una correzione ed un cambiamento. Finora, l'Esecutivo è sembrato più attento ad altre cose. La sensazione è quella di essere, in qualche modo, paralizzati. Allora, signor ministro, è bene affermare che, se non si farà nulla, se il Governo non farà nulla - e non bastano le pure esercitazioni verbali - verrà meno alla sua funzione nazionale, alla funzione di rappresentanza collettiva degli italiani che, in passaggi ed in momenti come questo, dovrebbe svolgere. Chi ha tempo, non aspetti tempo, signor ministro. Dinanzi a noi vi è una scadenza imminente, quella del 15 dicembre. In riferimento a quella scadenza bisogna agire nella direzione di una correzione strategica, di un cambio di impostazione. Se il quadro non cambierà, se non si farà nulla per cambiarlo - è bene affermarlo adesso - per quanto ci riguarda non ci sono le condizioni per continuare quella missione. Questo comporta una seria e fortissima assunzione di responsabilità da parte del Governo italiano.
PRESIDENTE. Grazie, onorevole Minniti. Lei ha parlato per più di dodici minuti. Farò parlare i colleghi del suo gruppo, quindi, solo se resta tempo dopo gli interventi degli altri colleghi.
GIUSEPPE MOLINARI. Anche io ringrazio il ministro per la sua puntuale relazione sullo stato delle nostre missioni all'estero. La ringrazio anche per aver ricordato i morti a Nassiriya e per aver sottolineato il comportamento civile e corretto da parte del Parlamento, di tutte le
forze politiche, del nostro paese e della nazione.
Tuttavia, avremmo voluto sentire dal ministro qualche cosa in più sullo stato delle indagini sulla strage di Nassiriya, perché è giusto che il paese, i familiari delle vittime, le forze politiche, ma soprattutto il Parlamento, sappiano realmente cosa è successo in Iraq ai nostri militari e ai nostri carabinieri.
Non è il caso di escludere da parte di questa Commissione l'ipotesi di avviare un'indagine su questa vicenda, una volta terminata quella da parte dell'autorità giudiziaria.
La sua relazione, signor ministro, non mi ha convinto perché lei non ha detto nulla di nuovo rispetto a quanto già conoscevamo e sappiamo cosa sta succedendo oggi in Iraq. È cambiato il quadro rispetto al 14 maggio, quando noi mostrammo, come gruppo della Margherita, tutte le nostre perplessità e le nostre riserve che, a distanza di qualche mese, sono state confermate. Fu detto che quella missione aveva scopo umanitario e invece, di fatto, siamo sotto il comando degli inglesi e degli americani. Pertanto, non si tratta solamente di una missione umanitaria.
Lo stesso ministro più volte ha dichiarato almeno all'inizio che questa missione avveniva in grandi condizioni di sicurezza (solo nell'ultima fase ha fatto una serie di dichiarazioni rispetto all'alto rischio della missione) e che era più sicura di quella afghana, eppure i fatti hanno dimostrato esattamente il contrario.
La sua relazione non ci convince soprattutto perché non vediamo una prospettiva di uscita, quali sono le garanzie per restare in Iraq e quali sono anche le prospettive immediate. È vero che c'è stata una risoluzione da parte dell'ONU a metà ottobre che anche noi avevamo valutato positivamente. Però - come diceva il collega Minniti - nulla è cambiato sul campo. Tutto è rimasto invariato, con il comando degli americani, con quello degli inglesi e non c'è ciò che abbiamo sempre auspicato: un intervento degli organismi internazionali, dell'ONU e dell'Unione europea, rispetto al quale il Governo italiano è molto passivo, mentre avrebbe dovuto assumere una posizione più forte proprio per il suo ruolo di Presidenza dell'Unione europea al fine di creare le condizioni di pace e di maggiore stabilità e sicurezza.
Sono stupefacenti le dichiarazioni del generale Sanchez, che prende spunto dagli ultimi dieci giorni di novembre per dire che il terrorismo è diminuito, mentre sappiamo che il mese di novembre è stato il più nero per tutte le forze presenti in quel paese.
Sarà vero che c'è una parte della popolazione che guarda con simpatia ai nostri militari, ma è pur vero, dalle scene che abbiamo visto in occasione dell'uccisione dei soldati spagnoli e di altre manifestazioni, che con la popolazione irachena non c'è quel feeling che ci viene descritto dalla stampa e dalla televisione.
Ecco perché questo ci induce a riflettere seriamente. Neanche noi chiediamo il ritiro immediato dei nostri militari, però il Governo in occasione del rinnovo di queste missioni deve indicare delle garanzie chiare e precise, i termini delle nostre missioni ed entro quale ambito agire (delle Nazioni Unite e dell'Unione europea), altrimenti mantenere lo status quo in Iraq non gioverebbe a nessuno, tanto meno al nostro paese.
Anche rispetto alla lotta al terrorismo, che viene giustamente invocata per l'invio delle missioni, dopo l'11 settembre il fronte del terrorismo si è esteso notevolmente. Questo perché noi non abbiamo condiviso il maggiore errore, quello della guerra preventiva, che non ha aiutato a sconfiggere il terrorismo, tant'è vero che oggi parliamo di maggiore insicurezza a livello internazionale rispetto a due anni fa, insicurezza che colpisce anche il nostro paese che è entrato oggi nel mirino del terrorismo.
Di fronte a tutto ciò ci vuole un'inversione. La stessa strategia degli Stati Uniti non ha premiato fino ad oggi. Bin Laden, Saddam Hussein e il suo numero due non sono ancora stati catturati, eppure si è scatenata una guerra con questo obiettivo. Capisco bene che l'operazione non era
facile, ma questi obiettivi non sono stati raggiunti. Sono state ottenute delle conquiste importanti in questi paesi - nessuno lo mette in discussione - come l'aver avviato una fase di ricostruzione, che pure è molto lenta.
Quindi noi chiediamo al Governo di assumere un'iniziativa più forte, di dare certezza e di conoscere meglio quali sono le garanzie. Oggi restare in Iraq alle stesse condizioni non giova a nessuno, né tanto meno al nostro paese. La stessa trasposizione della democrazia in maniera automatica, che lei ha presentato nella sua relazione, così descritta sembra accettabile, ma nella realtà ci sono tante difficoltà soprattutto per la storia, per la religione e per le tradizioni. Ecco perché vogliamo maggiori certezze e poter dare un termine preciso alla nostra permanenza in quel paese.
Vorrei fare solo altre due domande. Dal momento che c'è stato un cambiamento della strategia della guerriglia, con assalti a diplomatici, civili, stranieri e volontari, vorrei sapere qual è il grado di protezione assicurato alle nostre organizzazioni non governative e a tutti i civili italiani presenti in Iraq.
In secondo luogo, gli Stati Uniti hanno più volte annunciato una riduzione del loro contingente militare in Iraq. Vorrei sapere se al nostro paese è stato chiesto dagli Stati Uniti un ulteriore sforzo in termini di uomini e mezzi da inviare in Iraq.
PRESIDENTE. Grazie, onorevole Molinari, lei ha parlato per sette minuti e mezzo.
FEDERICO BRICOLO. Anche io a nome del mio gruppo vorrei ringraziare il ministro, che in rappresentanza del Governo, immediatamente dopo la tragedia irachena, si è recato a Nassiriya per prendere visione dell'accaduto ma soprattutto per dare sostegno e forza alle nostre truppe, oltre che chiaramente per rendere omaggio ai nostri morti e ai feriti. Credo che gli italiani abbiano apprezzato questo gesto e che gli stessi nostri militari, impegnati in missioni così difficili, ne abbiano ricevuto degli stimoli per continuare in questa missione, che li porta personalmente a rischiare la propria vita per un interesse comune.
Lei diceva - e su questo noi concordiamo perfettamente - che in questo momento è impossibile andare via. Ciò creerebbe un vuoto di potere micidiale. Prendiamo atto ancora una volta che invece, purtroppo, in questo Parlamento il centrosinistra su questo argomento è assolutamente diviso. Sappiamo che i rappresentanti dei Verdi, dei Comunisti italiani, di Rifondazione comunista e del correntone dei DS, da tempo insistentemente continuano a chiedere la fine di questa missione di pace in Iraq. Devo dire che questo atteggiamento è innanzitutto irrispettoso nei confronti di chi è caduto durante questa missione, ma soprattutto è irresponsabile, visto quanto sta succedendo in questo momento in Iraq, un paese che era governato da un uomo, Saddam Hussein, che di fatto proteggeva, aiutava e finanziava il terrorismo islamico internazionale.
Ricordiamoci che lo stesso Saddam Hussein regalava assegni da 10 mila dollari alle famiglie dei cosiddetti martiri palestinesi che si facevano saltare in aria in Palestina ed in Israele. Evidentemente non possiamo lasciare questo paese allo sbando; è importante rimanere lì anche per interrompere il collegamento con il terrorismo internazionale, purtroppo ramificato non soltanto in Iraq ma anche altrove, ad esempio, in Afghanistan.
Signor ministro, diventa importante, però, anche la situazione che stiamo vivendo nel nostro paese. C'è un grave allarme, il ministro Pisanu ha più volte affermato che atti terroristici potrebbero verificarsi direttamente nel nostro paese. Personalmente ritengo, contrariamente a quella che nell'opinione pubblica ormai sta diventando quasi una certezza, che il Dicastero da lei guidato è evidentemente quello della difesa e non il «ministero delle missioni di pace nel mondo». Gli italiani, dal Ministero della difesa si attendono anche il controllo del territorio. Su questo tema siamo intervenuti già diverse volte; purtroppo sappiamo che terroristi islamici, armi, e quant'altro può
aiutare le cellule terroristiche (purtroppo presenti in Italia e in Europa), spesso usano i canali dell'immigrazione clandestina come passaggio dai paesi di provenienza al nostro.
È dunque chiaro che diventa assolutamente necessario, se si vuole prevenire qualsiasi atto di terrorismo nel nostro paese (i fenomeni terroristici non si possono reprimere dopo che sono accaduti: non possiamo piangere i morti dopo, dobbiamo evitare assolutamente che questi fatti avvengano) che dobbiamo bloccare tutti i flussi migratori che arrivano nel nostro paese. Ieri, purtroppo, durante una visita nel nostro paese, il figlio del colonnello Gheddafi ha fatto delle dichiarazioni assolutamente vergognose. Addirittura è giunto a dichiarare che a Nassiriya gli iracheni hanno fatto solo il loro dovere: cercare di liberare il loro paese dagli occupanti. Ma sappiamo quanto di buono stanno realizzando i nostri militari per cercare di ricostruire quel paese e poc'anzi il ministro lo ha ricordato.
Lo stesso colonnello Gheddafi, poi, afferma che ci sono due milioni di persone pronte ad entrare nel nostro paese; lo stesso colonnello si dice essere stato amico dei figli di Saddam Hussein. Evidentemente vi sono ancora dei governi che hanno certi collegamenti, con essi dobbiamo dialogare ma con un atteggiamento più fermo e più deciso di quello finora dimostrato.
La nostra, più che una domanda al signor ministro è una richiesta: aspiriamo a vedere il nostro esercito finalmente impegnato nel compito di portare la pace, distruggere questa ramificazione terroristica islamica nel mondo ma anche e soprattutto, in un momento così pericoloso, difendere i nostri confini. Auspichiamo anche una collaborazione più attiva con il Ministero degli interni, che più volte ha dimostrato di essere troppo prudente; auspicheremmo una maggiore decisione nella lotta al terrorismo, anche di casa nostra. Si dovrebbe dialogare con il Ministero degli interni e riuscire ad utilizzare le nostre forze dell'ordine per bloccare questi flussi migratori. È chiaro che se qualcosa (armi, terroristi, eccetera) dovesse riuscire ad entrare nel nostro paese evidentemente la responsabilità sarà di chi non è riuscito a respingerle nel momento del loro ingresso illegale nel nostro paese.
Invitiamo anche ad usare più spesso le parole «terrorismo» e «islamico» affiancate; lei stesso, signor ministro, in Aula, dopo i fatti accaduti, ricordava che più che a terroristi vicini ad Al Quaeda l'attentato poteva essere ricollegato a fedayn vicini a Saddam Hussein. Quando alcuni uomini si fanno saltare in aria, si suicidano per portare avanti un disegno politico, è chiaro a tutti - si trattino o no di fedayn di Saddam Hussein - che le motivazioni alla base questi attentati questi soggetti le ritrovano nel Corano, dunque nella loro religione che poi gli riconosce chissà quale vita eterna.
Sono convinto che troppo spesso si parli di terrorismo internazionale per prudenza, ma credo sia giusto parlare di terrorismo islamico. Quello è un terrorismo di matrice islamica, diciamolo, l'abbiamo visto anche dalle centinaia di arresti di terroristi islamici effettuati in Europa in questi giorni. Il pericolo viene anche dalle comunità islamiche, le quali ovviamente al loro interno hanno anche persone assolutamente moderate, non riconducibili in nessun modo ai fenomeni terroristici. Però allo stato attuale, dopo quelle centinaia di arresti effettuati nel nostro paese nei confronti di terroristi islamici che all'interno delle loro moschee predicano violenza e la lotta all'occidente, è anche vero che non c'è stata una sola denuncia da parte di un qualsiasi islamico, cosiddetto moderato, nei confronti di questi leader religiosi, gli imam, che predicano la violenza. Dunque una reazione da questo mondo moderato non l'abbiamo vista; allora è importante monitorare, controllare, avere il polso della situazione e comunque respingere le carrette del mare e l'immigrazione clandestina che, purtroppo, oltre a problemi umani portano anche armi e terrorismo.
PRESIDENTE. La ringrazio onorevole Bricolo, lei ha parlato per 8 minuti.
Do ora la parola al ministro Martino che desidera rispondere a questo primo gruppo di domande.
ANTONIO MARTINO, Ministro della difesa. Vorrei ringraziare l'onorevole Bricolo per le cortesi parole e per le puntuali considerazioni svolte. Desidero esporgli soltanto un'informazione e svolgere una precisazione. L'informazione riguarda il ruolo del Ministero della difesa per quanto riguarda la minaccia terroristica in Italia. Come lei sa, onorevole, noi partecipiamo già, con quattromila unità dell'esercito, alla difesa degli obiettivi sensibili. Per ciò che riguarda il contrasto all'immigrazione clandestina, ricordo che la marina militare ha il compito del monitoraggio e del cosiddetto ombreggiamento nelle acque internazionali; la Guardia costiera si occupa della fascia di mare immediatamente vicina alla costa mentre la fascia intermedia è di competenza della Guardia di finanza. La Difesa, quindi sta già facendo qualcosa.
Se posso permettermi di interpretare le sue parole, forse lei ha in mente - cosa obiettivamente ed effettivamente difficile - il contrasto all'immigrazione clandestina in mare. Ci sono una serie di vincoli legati al diritto internazionale, al diritto marittimo, che limitano le possibilità di azione. Ritengo che quanto si debba e si possa fare è ciò che si è realizzato in Adriatico: cioè raggiungere degli accordi con i paesi interessati per impedire che questi sventurati partano con le carrette del mare. A tal riguardo ho proposto alla NATO un'iniziativa considerata positivamente anche dai colleghi tedeschi, anche loro consapevoli di tali problemi. Si tratta di un'ipotesi che, in vista del vertice di Istanbul del giugno dell'anno prossimo, prevede di includere quanti più paesi mediterranei è possibile nel partenariato per la pace, in modo da coinvolgerli in un'azione di prevenzione dell'immigrazione clandestina. La frustrazione che spesso sentiamo riecheggiare nei discorsi di molti e a cui lei faceva riferimento è comprensibile, sfortunatamente non abbiamo un rimedio immediato.
La mia precisazione riguarda la richiesta di aggiungere l'aggettivo islamico alla parola terrorismo. Mi rendo conto delle ragioni che la spingono a dirlo, e le condivido, però vorrei aggiungere una cosa: è stato sostenuto che la nostra è una guerra di civiltà. Non è così. Si tratta di una guerra tra la civiltà e la barbarie. Per dare un illustrazione di ciò ricordo che il secondo paese islamico al mondo è l'India. In India ci sono 150 milioni di musulmani ma mai si è verificato un atto di terrorismo che sia imputabile ad un islamico indiano. Non è valida l'equazione per la quale Islam è uguale a terrorismo. In realtà i terroristi purtroppo parlano in nome dell'Islam, spesso a sproposito, anche se non mi intendo di cose religiose. Essi trovano nella religione una benzina da versare sul fuoco di un fanatismo che ha altre motivazioni. Comunque capisco perché lei ha fatto quelle osservazioni e la ringrazio in ogni caso per quanto ha detto.
Quanto ai quesiti dell'onorevole Molinari, rispondo che non ci è stato chiesto alcun incremento della nostra presenza militare in Iraq e immagino che non ci potrà essere chiesto, quanto meno a breve scadenza, altrimenti ne avrei avuto sentore. Vorrei ricordare che noi abbiamo utilizzato soltanto una parte di quanto il Parlamento aveva autorizzato. Quest'ultimo, infatti, aveva autorizzato l'impiego di 3000 uomini e ne abbiamo impiegati, al massimo, 2700, che diventeranno circa 2200 a seguito del rientro in Italia del «San Giusto». L'impiego è inferiore a quanto autorizzato e, per quanto io ne sappia, non è destinato ad accrescersi. Ci potrebbe essere - e ci sarà - un rafforzamento delle misure di protezione a seguito della tragedia di Nassiriya e questo, ovviamente, può comportare che ai 2200 uomini che rimarranno in Iraq si affianchi qualche decina di unità impegnate nell'intelligence, nelle forze speciali e per le misure di sicurezza. Certamente, non c'è l'eventualità di uno scambio o riduzione della presenza americana a fronte di un aumento di quella italiana.
Le considerazioni svolte in merito alla sicurezza, in generale, valgono anche per le ONG.
Lei ha affermato, onorevole Molinari, che la popolazione irachena non vede necessariamente con favore la presenza dei nostri soldati. Non è così. Si è verificato, invero, qualche episodio. Ciò a cui lei fa riferimento è opera, con ogni probabilità, di provocatori al soldo degli irriducibili di Saddam Hussein. La cattura del segretario dell'ex «numero 2» del regime pare che abbia coinciso con il ritrovamento di quarantamila dollari, in contanti, di cui questi disponeva. Lei ricorda che uno dei figli di Saddam Hussein ritirò, in un'unica soluzione, un miliardo di dollari, in banconote, dalla banca centrale dell'Iraq, servendosi di tre camion. Perciò, essi dispongono di grandi mezzi. Il loro obiettivo è quello di creare l'impressione che i nostri soldati non sono ben visti dalla popolazione. Lo ripeto, non è così. Esponenti della popolazione di Nassiriya, dopo il tragico attentato, hanno dichiarato unanimemente che non si tratta di opera di iracheni e che non farebbero mai una cosa di questo genere, certamente non ai carabinieri.
Per quanto riguarda la tesi da lei prospettata - se ho capito male, mi corregga - secondo la quale la natura della missione non sarebbe umanitaria perché è sotto comando inglese o americano le rispondo, francamente, che non è così. Tutte le operazioni multinazionali fanno capo ad un comandante da cui dipendono unità che non necessariamente sono della stessa nazionalità di quest'ultimo, dato che si tratta di contingenti multinazionali. Questo non incide sulla natura umanitaria. Vorrei ricordare che, quando sono stato a Nassiriya, il comandante inglese ha tenuto a esprimermi le sue condoglianze e ha usato parole talmente lusinghiere da risultare imbarazzanti. Egli ha elencato tutto ciò che era stato realizzato e ha aggiunto: «se abbiamo potuto farlo è stato soltanto grazie al fatto che avevamo la collaborazione degli italiani, perché erano italiani, perché gli italiani sanno come interagire con la popolazione locale, non suscitano antipatie ma, anzi, riescono ad avere relazioni di amicizia». Un rapporto di fonte americana, da me ricevuto prima della tragedia, affermava che quando i carabinieri passavano per la strada la popolazione locale applaudiva. Quindi, la nostra presenza è molto ben vista e si tratta di una azione umanitaria.
Lei ha parlato anche delle indagini e la ringrazio per aver sollevato il problema. Come lei ha ricordato, essendo in corso indagini della magistratura, sia ordinaria, sia militare, non potevo dire nulla. Non sono stato reticente ma doverosamente silente, per rispettare il lavoro della magistratura. Però, dato che lei mi ha sollecitato, vorrei ricordarle quanto è prassi ordinaria in queste circostanze. Quando accade un incidente di questo genere, immediatamente, al massimo entro due giorni, il comandante deve redigere una relazione tecnica, per quanto provvisoria e incompleta, che è inviata tempestivamente ai comandi militari. I comandi militari dispongono una indagine sommaria. In questo caso, le indagini sommarie sono due, come ho ricordato: una dei carabinieri e una dell'esercito, sia perché ci sono stati morti anche tra i soldati, sia perché la catena di comando è dell'esercito. Al termine delle indagini sommarie, se dovessero emergere elementi che la giustifichino, si aprirebbe una indagine formale. Nel frattempo, si svolge l'indagine della magistratura ordinaria e, ove si ravvisino ipotesi di reati militari, scatta l'indagine della magistratura militare. Si tratta, quindi, di un meccanismo completo di controllo che io trovo abbastanza soddisfacente e vedremo quali esiti dovrà avere. Ovviamente, non ho alcuna intenzione di nascondere alcunché al Parlamento e, perciò, lei può fidare sul mio impegno a riferire puntualmente.
Ringrazio l'onorevole Minniti per le cortesi parole iniziali. Vorrei correggere la sua affermazione secondo la quale l'Italia è entrata, come obiettivo, negli scopi del terrorismo globale. Questo suggerirebbe che lo sia diventata soltanto dopo l'arrivo dei nostri militari in Iraq. Non è così. Il terrorismo globale ha una sua dimensione planetaria e colpisce chiunque. L'attentato
alle sinagoghe, ad Istanbul, certamente non può essere giustificato dalla presenza turca sul territorio iracheno, perché non c'è. In altri termini, l'Italia è sempre stata un obiettivo del terrorismo globale. L'affermazione del sedicente imam di Carmagnola secondo la quale l'Italia è obiettivo di Al Qaeda per attentati terroristici e il primo desiderio è quello di uccidere il ministro della difesa, entro sei mesi, mi sembra che non aggiunga nulla di nuovo a quanto sapevamo, salvo la necessità di portare qualche amuleto.
Per quanto riguarda la distinzione tra la guerra formalmente conclusa e questi atti di terrorismo, non c'è contraddizione perché si è formalmente conclusa la guerra contro i regolari di Saddam Husein ma non si è mai conclusa la guerra al terrorismo globale, che continua. Il termine guerra è improprio, non trattandosi di un conflitto fra Stati. Tuttavia, la considerazione che non si tratta di un conflitto tra Stati non significa che il contrasto al terrorismo globale sia finito nel momento in cui è stata dichiarata conclusa l'azione militare in Iraq.
L'onorevole Minniti ha affermato che una parte della popolazione simpatizza: onestamente, rispondo di no. Simpatizzano soltanto un paio di migliaia di fedelissimi di Saddam Hussein, di nostalgici di un tiranno brutale, sanguinario e corrotto. Quando parliamo di ricostruzione dell'Iraq, ci riferiamo alla esigenza non di rimediare ai danni dell'azione militare ma di rimediare ai danni di trent'anni di una delle peggiori dittature che il mondo abbia conosciuto, non soltanto per la sua brutalità e per il suo carattere sanguinario e violento. Questo dittatore ha fatto uccidere, con il gas nervino, 4000 curdi, in un solo giorno. Inoltre, non aveva alcun rispetto per il suo popolo ed era sistematicamente in guerra con esso. A Nassiriya, gli impianti idrici sono stati costruiti ex novo: non sono stati danneggiati, non c'erano mai stati.
Quanto al cambio di strategia che l'onorevole Minniti chiede e che si articolerebbe in tre punti, noi siamo completamente d'accordo sulla rapida transizione democratica del Governo agli iracheni ed è quello che stiamo cercando di realizzare. Quanto a un maggior ruolo, ad una iniziativa multilaterale e al coinvolgimento delle Nazioni Unite, anche su questo siamo d'accordo, ma sfortunatamente sono state le Nazioni Unite che se ne sono andate dall'Iraq. Speriamo che presto ci sia un'inversione di tendenza e che possano davvero riprendere il controllo.
Quanto al vertice straordinario europeo sull'Iraq, di cui egli auspica la convocazione, vorrei ricordarle che i vertici sono convocati quando c'è la ragionevole probabilità che abbiano successo, perché convocare un vertice destinato a fallire è controproducente. In questo caso, un vertice straordinario dell'Unione europea sull'Iraq avrebbe come unica conseguenza di prendere atto delle differenze attualmente esistenti fra alcuni paesi.
Devo dire che queste differenze sono in via di rapida attenuazione. All'eurodinner che si è tenuto domenica sera a Bruxelles, dove hanno partecipato i paesi europei membri della NATO, dopo avere fatto le condoglianze ai colleghi spagnoli e curdi per gli attentati subiti dai militari spagnoli e alle due sinagoghe di Istanbul, ho ricordato la reazione dell'opinione pubblica e del Parlamento italiano all'attentato di Nassiriya. È stata una reazione dignitosa, composta e compatta che mi ha fatto sentire orgoglioso del mio Parlamento e del mio paese. Ho detto che mi pareva strano che la percezione della necessità di affrontare un nemico comune sia stata avvertita così bene dai parlamentari e dai cittadini italiani mentre non fosse altrettanto ben percepita, talvolta, dai leader di altri paesi europei. La risposta è stata unanime nel senso che mi hanno detto che il terrorismo globale è il nostro nemico e che dobbiamo essere uniti contro di esso. Quindi, le differenze si stanno rapidamente attenuando.
ELETTRA DEIANA. Vorrei ricordare al ministro Martino che il terrorismo e la filiera delle organizzazioni terroriste hanno anche un risvolto interno al mondo musulmano. Vorrei che ricordassimo sempre
- mi dispiace che non c'è l'onorevole Bricolo, che è maestro di semplificazioni sull'Islam - la vicenda dell'Algeria, dove le organizzazioni integraliste islamiche hanno esercitato, e continuano a farlo, le loro strategie di terrore soprattutto contro l'altra parte della popolazione. Credo che la vicenda turca debba essere considerata anche da questo punto di vista, nel senso che lì ci sono dei gruppi che evidentemente hanno interesse a contrastare il partito islamico moderato al potere. Ritengo che tutta la vicenda del terrorismo - può essere un'ipotesi - vada costantemente decostruita e contestualizzata sul piano geografico e degli altri contesti, altrimenti entriamo in una logica totalizzante, più che globalizzante, che ci impedisce di intraprendere percorsi concreti di comprensione e di politica.
Mi sarei aspettata dal ministro che egli ci fornisse un giudizio analitico e politico complessivo sulla vicenda irachena, senza separare, come ha fatto, la vicenda della strage di Nassiriya dalle dinamiche che complessivamente stanno avvenendo. Adesso egli ha parzialmente risposto riprendendo i temi sollevati dall'onorevole Minniti, ma il problema è che non possiamo fare una qualsiasi valutazione di quanto accaduto a Nassiriya senza dare un giudizio sul cosiddetto dopoguerra e sui soggetti che sono all'origine delle complessive azioni di contrasto della presenza delle truppe americane e dei loro alleati. Dobbiamo partire da un giudizio serio di quanto sta succedendo e del violento contrasto che mostra una parte significativa della popolazione irachena. Non mi avventuro in cifre, ma ci sono delle indagini sulla percezione e sulla risposta della popolazione irachena effettuate dai giornali normali, non certo da Liberazione, che dicono che circa l'80 per cento della popolazione irachena è contraria alla presenza delle truppe angloamericane.
ANTONIO MARTINO, Ministro della difesa. Non so quanto farà piacere al mio amico Sandro Curzi il fatto che lei non consideri normale il suo giornale!
ELETTRA DEIANA. Intendevo riferirmi ai giornali non di parte. Sicuramente c'è una crescente parte della popolazione irachena che non sopporta più la presenza delle truppe angloamericane e dei loro alleati. Questo dato è obbiettivo e non è un dato statistico ma politico. La popolazione in maniera crescente e diversificata, dalle terribili danze intorno ai cadaveri degli agenti spagnoli a una larga indifferenza nei confronti dei militari italiani morti (non credo che un centinaio di persone che hanno manifestato in solidarietà con i militari italiani costituiscano un elemento rilevante al fine di valutare la benevolenza della popolazione di Nassiriya nei confronti della presenza italiana) sta dimostrando una crescente insofferenza, indisponibilità e antipatia. Tutto ciò non costituisce un dato statistico ma politico, che ci deve obbligare a capire che rapporto c'è tra questo, la presenza delle truppe angloamericane e dei loro alleati, tra cui l'Italia e gli atti di contrasto, che devono essere individuati nella loro complessità e molteplicità.
Il concetto di terrorismo diventa evidentemente uno stigma negativo indirizzato più a criminalizzare complessivamente l'opposizione, che rischia dal punto di vista occidentale di essere sempre più un'opposizione di gente e che si manifesta in vario modo, piuttosto che a stigmatizzare gli atti concreti rispetto ai quali non vi può essere nessuna simpatia né appoggio, ma che tuttavia possono costituire una delle manifestazioni di questo contrasto (non così lontano dalla percezione della popolazione irachena nei confronti delle truppe di occupazione) e quindi di appoggio agli atti di terrorismo, che sono tra l'altro diversificati. Il ministro avrebbe dovuto dirci qualcosa di più sulla complessità degli atti di contrasto.
PRESIDENTE. A lei, onorevole Deiana, spettavano due minuti. Gliene ho dati quattro e ha parlato per sei!
ELETTRA DEIANA. Ribadisco la nostra richiesta di ritiro immediato delle truppe italiane.
Credo che, proprio per non entrare nella spirale della logica di accettazione della guerra al terrorismo e poi allo scontro di civiltà, abbiamo bisogno di atti unilaterali di pace e di una escalation di diplomazia. Credo che dovremmo ritirare le nostre truppe e chiedere una conferenza internazionale a partire dall'unica modalità con cui questo possa avvenire razionalmente: cioè un impegno in sede europea, ONU, NATO e in sede internazionale presso l'alleato americano per chiedere il disimpegno delle truppe anglo-americane.
La condizione per porre fine all'orrore è il disimpegno degli anglo-americani e la costituzione di un contesto, di una cesura che ci permettano di riprendere un ragionamento credibile sulla vicenda irachena.
PRESIDENTE. Onorevole Deiana lei ha parlato per 8 minuti.
ELETTRA DEIANA. Mi dispiace, signor presidente, ma esprimiamo una posizione atipica in questo Parlamento.
FILIPPO ASCIERTO. Signor ministro vorrei ringraziarla, non solo per la sua precisa esposizione ma anche per quanto ha personalmente fatto per i nostri militari impiegati in Iraq.
La nostra missione, lei lo ha affermato in modo preciso, non cambia la sua fisionomia, non cambia i suoi contenuti. Voglio ricordare, anche a scanso di quell'ipocrisia che sta sempre più aleggiando qui in Parlamento, l'impegno dei nostri militari in aiuto di quelle popolazioni. Ho testimonianze, recenti e passate, di un impegno a favore di coloro che oggi soffrono in Iraq, a favore dei bambini iracheni. I nostri militari sono amati, lei lo ha perfettamente ricordato e ciò corrisponde alla verità e a quanto gli stessi militari dall'Iraq ci fanno sapere.
C'erano uomini, che oggi non ci sono più, caduti per la pace, che aiutavano i bambini di Nassiriya; c'erano dei miei amici che preferivano evitare di consumare tutto il loro pasto per poter dare quel poco che avevano agli altri. Questo ha reso loro onore e ha fatto grande l'Italia. Tutti ci siamo stretti l'un l'altro sentendoci orgogliosi del nostro paese e del lavoro che avevano fatto questi ragazzi. Insieme avevamo affermato che bisognava continuare perché la pace di un popolo, la ritrovata libertà con un dittatore deposto, possono rappresentare un ben chiaro messaggio per i popoli musulmani di quell'area, ma soprattutto per l'integralismo, il fanatismo e le dittature lì presenti.
Allora non possiamo pensare che un lavoro appena iniziato possa essere interrotto. Gli stessi nostri militari, ne ho ascoltati alcuni pochi giorni fa, ci dicono di non mollare, di continuare. Voglio dire ai colleghi che sono intervenuti e hanno posto alcuni interrogativi, che qualche giorno presenterò loro qualche militare in servizio in Iraq per far ascoltare...
ELETTRA DEIANA. Non c'è bisogno! Li abbiamo ascoltati, ci siamo stati in quei luoghi!
FILIPPO ASCIERTO. Bene. Loro ci dicono di continuare, di non mollare. Non possiamo mollare nel momento in cui un paese si sta avviando alla democrazia. Un paese che sta ritrovando le infrastrutture, che sta ritrovando dei servizi. Voglio ricordare che a Nassiriya, anche se è già stato detto, oggi c'è l'acqua ma c'è anche l'energia elettrica, cosa che non c'era prima.
È chiaro che la civiltà, lo sviluppo che sta raggiungendo un popolo fa paura a chi questo popolo lo ha affamato e vorrebbe che non riemergesse. È questo il motivo per cui il terrorismo globale si sta concentrando in Iraq. I nostri ragazzi sanno a che cosa andavano e stanno andando incontro. L'unica cosa da fare, signor ministro, è garantire loro maggiori standard di sicurezza laddove questi possano essere individuati.
Dobbiamo anche far sentire loro - questo è il mio appello - la nostra vicinanza attraverso l'unione, la determinazione. Tornare indietro sarebbe mortificare il loro coraggio anzi, oserei ricorrere ad un termine militare: sarebbe un atto di codardia nei confronti della stessa popolazione.
Vorrei farvi conoscere, il ministro già lo saprà, la volontà degli stessi militari nel partecipare a questa missione. Nel battaglione dei carabinieri di Gorizia, che ha subito il maggior numero di caduti, le richieste di servire la patria in Iraq sono triplicate. È allora questo spirito deve essere la nostra strada portante per conseguire la pace tra i popoli. Lo spirito che abbiamo ritrovato in quei giorni dovrebbe essere la strada portante per far prevalere nel nostro paese dei valori aggreganti. Certo, è inutile ripeterlo e lei, ministro, lo ha ricordato, l'ONU deve fare la sua parte e l'Europa altrettanto, ma noi, sull'esempio di questi ragazzi, dobbiamo imparare a fare la nostra, soprattutto in Parlamento. Ed è per questo che la ringrazio.
GIUSEPPE COSSIGA. Intervengo brevemente affinché resti agli atti la nostra posizione sulla missione irachena e sul suo eventuale proseguimento.
Sottolineo con un certo dispiacere il fatto che ancora una volta in questa Commissione ci sono degli atteggiamenti diversi da parte di forze politiche a seconda che queste si trovino al Governo o all'opposizione. Ringrazio il ministro per aver sottolineato il senso di responsabilità che caratterizza l'azione di questo Governo e di questa maggioranza anche nel difficile momento che sta attraversando la situazione irachena. Ricordo che ci siamo divisi sulla decisione di partecipare o meno a questa missione. L'onorevole Molinari ha citato la posizione del suo gruppo, chiaramente espressa in Parlamento, sulla contrarietà ad una guerra unilaterale piuttosto che ad una guerra preventiva. Com'è noto, il nostro paese non ha partecipato a nessuna guerra. Tuttavia, all'epoca dell'inizio di questa missione si è posto un problema: cosa fosse giusto e utile per il popolo iracheno e per il nostro paese fare in quel momento. Il Parlamento ha dato istruzioni al Governo ritenendo utile aiutare il popolo iracheno a superare questa difficile situazione.
Ora, anche dopo l'episodio di Nassiriya la domanda da porsi è sempre la stessa, a prescindere da ciò che avverrà in futuro (ci auguriamo molto presto) in sede ONU o dell'Unione europea: cos'è giusto e utile per il popolo iracheno e per il nostro paese?
Sarebbe molto facile per me far notare che ciò che noi allora ritenemmo giusto ed utile poi, con un po' di ritardo, è stato riconosciuto come giusto e utile anche dall'ONU. Non sto parlando della guerra ma dell'utilità della presenza di una forza militare di paesi democratici per aiutare l'Iraq ad uscire da quella situazione; questo lo ha riconosciuto anche l'ONU. Noi lo avevamo sostenuto prima, l'ONU lo ha fatto dopo, l'importante è aver preso una giusta decisione.
Oggi è triste constatare che si cavalca un evento, traumatico e triste per il nostro paese come i fatti di Nassiriya, per continuare a fare dei distinguo: non ci si pone la domanda corretta, non si vuole forse dare la risposta corretta.
Noi riteniamo, oggi, come ritenevamo in precedenza, che sia utile e giusto essere presenti in Iraq per aiutarlo a superare questo momento e per garantire al nostro paese - anche questo non deve essere nascosto - la posizione che gli spetta nel contesto delle nostre alleanze. Tale è la posizione di questa maggioranza. Siamo tutti particolarmente addolorati per quanto è accaduto a Nassiriya. Non è questo avvenimento a confortarci nella nostra posizione ma la convinzione che quanto stiamo facendo sia giusto e utile.
SILVANA PISA. Vorrei dire molte cose al ministro, ma l'intervento dell'onorevole Ascierto merita una risposta.
Dal momento che ormai si ripete continuamente questo discorso che rischia di diventare un nuovo senso comune, intendo fare un'affermazione. Tutti insieme abbiamo testimoniato il dolore e il lutto per la morte a Nassiriya dei nostri soldati, a cui riconosciamo di essere caduti per rispettare una legge del Parlamento italiano. Una legge che nel metodo è frutto di un legittimo pronunciamento della maggioranza di questo Parlamento. Ma nel merito comporta che essi non sono morti per
la pace, perché quella in Iraq non è una missione di pace!
Questo lo dobbiamo dire, lo dobbiamo dire tra di noi, prima di tutto per onestà. Lo dobbiamo ripetere ancor di più oggi, che possiamo svolgere in questa sede un ragionamento un po' sereno su quanto accaduto. Anzi dirò di più: si è trattato della cronaca di una morte annunciata. Quando ne abbiamo discusso, a luglio, signor ministro alcuni di noi lo hanno detto.
Negli Stati Uniti lo ha detto anche Edward Kennedy quando ha ammonito della possibilità che fossero i militari a pagare gli errori di Bush. Quindi non abbiamo pronunciato un discorso anti-americano, ma abbiamo riaffermato ciò che molti democratici americani vedevano dietro l'impresa di Bush e dei neoconservatori in Iraq.
La maggioranza del Governo di questo paese, contrariamente a tanti paesi d'Europa, ha deciso l'invio di militari italiani a seguito delle truppe Usa e della Gran Bretagna in un paese occupato e non pacificato e se ne è assunta la responsabilità. Nei mesi di ottobre e novembre vi è stata una escalation, ma l'Iraq non era un paese pacificato nemmeno nei mesi precedenti.
Tant'è vero che ogni giorno morivano numerosi soldati angloamericani. La nostra missione non era di peace-keeping. Sentimentalmente noi abbiamo espresso tutto l'affetto e la solidarietà verso i nostri ragazzi; lei lo sa signor ministro. Tuttavia, concretamente, non si è trattato di una operazione di peace-keeping perché è cosa impossibile in una zona dove c'è la guerriglia. Solo in minima parte era una missione umanitaria. Anzi, secondo alcuni di noi, il carattere umanitario è stato una copertura per l'intervento militare, che a sua volta, lo abbiamo affermato anche in questa sede, era un mezzo per partecipare al business della ricostruzione. L'ambasciatore Armellini, quando ci siamo recati in missione a Nassiriya, ci ha detto: «abbiamo fatto la nostra parte e ci aspettiamo un ritorno economico». Questo ha svelato: il re è nudo! Il nostro intervento è consistito in una operazione un po' cinica, successivamente ammantata di retorica e patriottismo. Però, questo è stata. Anche il discorso che oggi pronunciate sul terrorismo non è corretto: lo dovere dire agli italiani! Questa maggioranza non doveva decidere di contribuire all'occupazione dell'Iraq. Tale occupazione ha scoperto il vaso di Pandora. In Iraq c'era una dittatura feroce - bene ha detto il ministro - ma non c'era il terrorismo, bensì una situazione di spietato controllo. Scoprendo il vaso di Pandora con la guerra si è contribuito a propagandarlo. Il terrorismo non si combatte con la guerra e con le armi, ma con la politica, come lei mi insegna, signor ministro.
Avrei avuto molte altre cose da dire e molte domande da formulare, ma il tempo a mia disposizione non me lo consente.
ROBERTA PINOTTI. Ringrazio il ministro per l'ascolto che ci sta prestando e per le risposte che ci potrà fornire. Voglio associarmi al dolore che il nostro paese ha provato e sottolineare la compostezza con cui lo ha vissuto. Oggi, voglio chiedere al ministro in che modo si possa evitare che avvenga di nuovo quanto è accaduto.
Ho ascoltato con attenzione quello che lei ha affermato e formulerò le domande in base a quanto lei ha detto. Ho rilevato una differenza tra l'attenzione da lei posta sul modo in cui, oggi, ci dobbiamo muovere in Afghanistan, su quanto debba fare l'ISAF, sulla necessità di tenere un basso profilo militare e sul modo in cui la popolazione possa accogliere tutto questo e la determinazione nell'affermare che in Iraq dobbiamo rimanere così come ci siamo andati. Rilevo questa contraddizione perché, come lei ha detto, si stanno saldando guerriglia e terrorismo. Come lei afferma, è una situazione che si sta complicando sempre più. Certamente, c'è una strategia del terrorismo mirante ad accrescere il disagio e l'insicurezza. Dal momento che tutto questo sta peggiorando e non migliorando, la domanda è: come possiamo pensare che, rimanendo, la situazione si risolva? Io non lo credo e mi domando il perché di una evoluzione di attenzione rispetto alla situazione afghana
(all'epoca, ero stata contraria anche alla operazione Enduring Freedom, non all'ISAF, sulla quale ho sempre concordato). Oggi, in Iraq, che cosa può servire?
Sappiamo tutti che la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 1511 è molto debole e non avalla quanto è stato fatto ma prende atto della situazione esistente e afferma che ora, dal momento che la guerra è stata combattuta, bisogna mantenere, comunque, una sicurezza. Capisco la sua affermazione secondo la quale le conferenze internazionali possono essere organizzate se hanno qualche possibilità di successo. Tuttavia, la situazione che abbiamo davanti sta diventando sempre più drammatica e non credo che, proseguendo in questo modo, possa risolversi. È necessario che l'Italia svolga un ruolo affinché l'Unione europea assuma una posizione chiara quando sarà discussa la prossima risoluzione delle Nazioni Unite, affinché ci sia un cambiamento di situazione, sia definito un calendario e si eviti di approvare nuovamente una risoluzione debole, che si limiti ad affermare: speriamo, proviamo, aspettiamo.
Mi rendo conto che non si può lasciare l'Iraq così com'è ma mi rendo conto anche che, perseverando nello stesso atteggiamento tenuto da quando si è decisa la guerra, la situazione si complicherà sempre di più. Credo che bisognerebbe cambiare le truppe presenti attualmente in Iraq perché non si può non notare - dalle interviste e da quanto leggiamo - come, in questo momento, anche chi è stato favorevole all'abbattimento di Saddam stia cambiando sentimento nei confronti delle truppe presenti. Come paese, abbiamo una responsabilità che, a mio avviso, dovremmo onorare, evitando di affermare che tutto deve continuare così come è stato.
ANTONIO MARTINO, Ministro della difesa. Mi perdonerete se non riuscirò a rispondere a tutti, per mancanza di tempo.
Vorrei ringraziare l'onorevole Cossiga e l'onorevole Ascierto per quanto hanno affermato. All'onorevole Ascierto vorrei dire - ma so di portare vasi a Samo e nottole ad Atene - che una delle cose che più mi ha impressionato, durante la mia visita a Nassiriya, è stata la serenità nello sguardo dei feriti, non degli illesi. Sono entrato in ospedale mentre stavano medicando il vicebrigadiere Daniele Livieri, ferito da una scheggia ad un occhio. Nonostante la sofferenza, che posso immaginare, aveva una serenità nello sguardo e una determinazione straordinarie. Il loro unico rimpianto era quello di dover interrompere la loro attività umanitaria in Iraq.
L'onorevole Pinotti, che ringrazio per il garbo con il quale ha voluto rivolgermi le sue domande, ritiene che, data la situazione, non ci sia speranza che l'Iraq possa uscire dall'attuale marasma per avviarsi su una strada di normalità. Onorevole Pinotti, quella è una sfida che non interessa soltanto l'Iraq ma riguarda il mondo. Gli interessi in gioco, a cui lei ha alluso, non sono di tipo economico, non consistono nella partecipazione alla ricostruzione ma consistono in un Iraq prospero, libero e democratico. L'Iraq ha tutte le carte in regola per esserlo; non è vero che la democrazia non vi possa funzionare e già oggi esso è enormemente più libero di quanto non lo fosse sotto Saddam Hussein (Commenti del deputato Pisa). Onorevole Pisa, abbia la cortesia di lasciarmi parlare. Io non l'ho interrotta, mentre lei interrompe continuamente quando parla qualcuno che non la pensa come lei.
SILVANA PISA. Ha ragione, mi scusi.
ANTONIO MARTINO, Ministro della difesa. Per quanto riguarda l'Unione europea, condivido appieno lo spirito di quanto lei ha detto, non è un'ipocrisia ma la verità. Mi piacerebbe che l'Unione europea battesse un colpo sul serio e che quella operazione fosse condotta sotto l'egida dell'Unione europea, perché la stabilità in quelle regioni è interesse più di noi europei di quanto possa esserlo degli Stati Uniti. Sfortunatamente - lei lo sa - in questo momento ci sono delle profonde differenze al riguardo esistenti tra alcuni paesi. Convocare un vertice, come aveva suggerito l'onorevole Minniti, servirebbe soltanto a
prendere atto di queste differenze, cioè a mostrare l'immagine di un'Europa divisa. Mi auguro che quello che ho detto prima, e cioè che queste differenze si stiano attenuando, abbia luogo rapidamente, che il processo si possa concludere e che si possa arrivare a quell'esito che - le ripeto - io ritengo auspicabile.
All'onorevole Pisa - lei sa che per lei ho una grandissima simpatia, al di là delle differenze politiche - dico che in Iraq non c'era il terrorismo nel senso che c'era una feroce dittatura, ma non è vero che non ci fosse Al Qaeda. L'alleanza istituzionale fra Saddam Hussein e Al Qaeda precede, e di molto, l'intervento militare.
ELETTRA DEIANA. Non è dimostrato!
ANTONIO MARTINO, Ministro della difesa. Il terrorismo c'era ed era una base di lancio per il terrorismo globale.
Quanto all'onorevole Deiana - che sa di godere di tutta la mia simpatia anche se dice delle cose diverse dalle mie - stavolta ha veramente superato se stessa. Ha detto delle cose che veramente, se fossi un membro del Parlamento britannico, direi: «temo di non essere in grado di condividere il suo punto di vista». Ossia non sono d'accordo. Come può prendere come esempio di terrorismo all'interno del mondo islamico quanto accaduto in Turchia? Lì sono state bombardate due sinagoghe, onorevole Deiana! E nel mondo islamico lei ci mette anche gli ebrei?
In secondo luogo, quando lei parla di contrasto alla presenza delle truppe USA e dei loro alleati, dimentica che questi terroristi fanatici hanno fatto attentati contro la Croce Rossa Internazionale e le Nazioni Unite e hanno ammazzato magistrati e poliziotti. E questo lo chiama contrasto alla presenza delle truppe USA?
ELETTRA DEIANA. E dei loro alleati!
ANTONIO MARTINO, Ministro della difesa. La Croce Rossa e le Nazioni Unite sono loro alleati? Dice che il terrorismo è uno stigma? Come può dire che il terrorismo non deve essere usato per qualificare quello che ovviamente è terrorismo per chiunque! Io posso anche capire un certo atteggiamento di chi, avendo manifestato opposizione all'azione militare in Iraq, trovi conferma della giustezza della propria posizione in quanto sta accedendo. Ma a tutto c'è un limite. Lei non può dire che non è terrorismo il fatto di fare attentati contro le Nazioni Unite, la Croce Rossa, i magistrati e i poliziotti e dire che sono espressione di una posizione antiamericana, perché onestamente ciò non sta né in cielo né in terra!
ELETTRA DEIANA. È una posizione contro l'occupazione!
ANTONIO MARTINO, Ministro della difesa. Mi dispiace, ma lei non può dire certe cose!
ELETTRA DEIANA. È un'opposizione contro gli occupanti e i loro alleati.
ANTONIO MARTINO, Ministro della difesa. Questo se l'è inventato lei adesso!
PRESIDENTE. Ringrazio il ministro per il suo intervento. Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 16.05.