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Seduta del 23/11/2004


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Esame testimoniale di Mario Scialoja.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'esame testimoniale di Mario Scialoja.
Ambasciatore, la ringraziamo per la sua disponibilità per la giornata odierna, perché per noi è di particolare importanza collocare le sue dichiarazioni, secondo l'ordine che abbiamo scelto per le audizioni, in questo momento dei nostri approfondimenti.
Le rappresento che lei, dinanzi a questa Commissione, è ascoltato nella qualità di testimone, e quindi con l'obbligo di dire al verità e di rispondere alle domande del presidente e dei commissari che intenderanno porle. Naturalmente noi contiamo molto sulle sue dichiarazioni, per essere stato presente in Somalia all'epoca dei fatti di cui si discute, per l'autorevolezza della sua posizione, per le consapevolezze che certamente lei avrà maturato in quel contesto ed anche successivamente. Poiché siamo ad un importante momento della nostra investigazione, la sua testimonianza può essere davvero essenziale, e noi non dubitiamo che lei si adopererà in questo senso, naturalmente nei limiti dei suoi ricordi.
Le chiedo innanzitutto la cortesia di declinare le sue generalità e la sua attuale posizione rispetto alla pubblica amministrazione e, in generale, rispetto alle attività che svolge.

MARIO SCIALOJA. Mi chiamo Mario Scialoja e sono un dirigente generale dello Stato a riposo e, come tale, tenuto alla fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica. Pertanto dirò certamente tutta la verità, nei limiti delle mie conoscenze.
Attualmente, dopo essermi convertito all'Islam alla fine del 1988, quando ero a New York, rappresento in Italia un'organizzazione non governativa internazionale, la Lega musulmana mondiale; non credo che lo farò ancora per molto, perché penso che l'anno prossimo mi dedicherò ad attività più leggere e più autonome.

PRESIDENTE. Di che tipo?

MARIO SCIALOJA. Non scriverò libri, perché c'è già troppa gente che scrive.

PRESIDENTE. E nessuno che legge.

MARIO SCIALOJA. Aprirò un mio sito Internet.

PRESIDENTE. Questa è una notizia!
Ambasciatore, lei è stato in Somalia nell'esercizio delle sue funzioni - o di funzioni antecedenti rispetto alle ultime che già ci risultano dalle sue precedenti audizioni e dalle dichiarazioni che ha reso


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all'autorità giudiziaria - nel periodo di nostro interesse, che come lei sa ruota intorno al 20 marzo 1994, giorno in cui Ilaria Alpi e Miran Hrovatin trovarono la morte a Mogadiscio. Prima di questo periodo lei era stato in Somalia per ragioni del suo ufficio o per altri motivi?

MARIO SCIALOJA. Sono stato in Somalia durante la mia carriera diplomatica come primo segretario all'ambasciata di Mogadiscio negli anni 1965-1968.

PRESIDENTE. Quali sono i compiti del primo segretario? È una carica importante?

MARIO SCIALOJA. È un grado della carriera diplomatica. Nelle grandi ambasciate i ruoli erano i seguenti, in ordini crescente di importanza: terzo segretario, secondo segretario, primo segretario, consigliere, primo consigliere, ministro consigliere, ministro ambasciatore. Il mio era un grado iniziale. In una grande ambasciata forse non sarei stato primo segretario.

PRESIDENTE. Quindi dal 1965 al 1968 è stato in Somalia come primo segretario. Invece come ambasciatore?

MARIO SCIALOJA. Come ambasciatore non sono mai stato in Somalia. Ero a New York come vice capo rappresentanza con il rango di ambasciatore quando il ministro Andreatta, dato che si era creata una situazione di tensione tra il contingente italiano e quello americano per delle incomprensioni e dato che io ero - e sono ancora - amico di Kofi Annan ed in ottimi rapporti con gli americani, mi ha pregato di andare in Somalia per cercare di calmare le acque e di migliorare i rapporti.

PRESIDENTE. I rapporti tra chi?

MARIO SCIALOJA. Tra il contingente italiano e soprattutto gli americani e un po' le Nazioni Unite.

PRESIDENTE. In che epoca?

MARIO SCIALOJA. Io sono arrivato a Mogadiscio il 3 o il 4 agosto 1993 e sono ripartito per New York, per riassumere le mie funzioni prima di andare a Riad, verso la fine di aprile 1994.

PRESIDENTE. Quindi non era lì come ambasciatore. Qual era la sua qualifica?

MARIO SCIALOJA. Ero capo della delegazione diplomatica speciale.

PRESIDENTE. E quali erano i suoi compiti?

MARIO SCIALOJA. Dovevo seguire l'attività del contingente italiano.

PRESIDENTE. Chi era il suo predecessore? Augelli?

MARIO SCIALOJA. Sì, Augelli, il quale, poverino, andò...

PRESIDENTE. Per quale ragione avvenne questa successione?

MARIO SCIALOJA. Glielo spiego molto semplicemente: Augelli era un ragazzo molto intelligente, morto prematuramente poco dopo di malattia. Non conoscendo molto la Somalia ha commesso delle imprudenze, nel senso che manteneva dei contatti quasi regolari con un signore della guerra, il generale Mohammed Farah Aidid, al quale gli americani davano attivamente la caccia; non potevano letteralmente vedere Aidid e pertanto si era creata una situazione di grossa tensione.

PRESIDENTE. Quindi volevano qualcuno che fosse in una posizione di imparzialità oppure che fosse legato agli antagonisti di Aidid, come Ali Mahdi. Lei aveva già rapporti con la famiglia di Ali Mahdi?

MARIO SCIALOJA. Assolutamente no.

PRESIDENTE. Non conosceva nessuno del clan di Ali Mahdi?


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MARIO SCIALOJA. Nessuno. Conoscevo molto bene Siad Barre, il dittatore che è stato abbattuto nel 1990; quando sono stato a Mogadiscio, negli anni cinquanta, era comandante dell'esercito e ci frequentavamo anche per motivi di amicizia, ma io non avevo alcun rapporto con signori della guerra o capi fazione in Somalia. Il ministro Andreatta mi pregò di andare lì credo per i miei buoni rapporti con gli americani, con la rappresentanza permanente degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite a New York e per i miei rapporti di amicizia con Kofi Annan.

PRESIDENTE. E dalla Farnesina, in relazione a questa sua «successione» ad Augelli, ha avuto indicazioni particolari sulla linea da tenere e sul tipo di rapporti da privilegiare? Lei ha detto che si trovava a New York presso l'ONU e ha detto che furono gli americani a volere lei, perché non tolleravano la vicinanza di Augelli ad Aidid. Quando lei è partito da New York quali indicazioni le hanno dato - se lo hanno fatto - gli americani, e quali la Farnesina?

MARIO SCIALOJA. Gli americani non mi hanno dato alcuna indicazione. Io ero molto amico del vice capo rappresentanza, ma non ci siamo visti e non mi ha detto niente. Il ministero dava istruzioni ai diplomatici forse fino alla fine degli anni settanta, e per andare a Mogadiscio a me non è stato detto assolutamente niente.

PRESIDENTE. Io non ho fatto mai il ministeriale e quindi è lei che me lo deve dire. Dato che lei ha detto che Aidid non era gradito agli americani e che anzi era visto come il fumo negli occhi, le domando da chi le fu rappresentata questa ostilità nei confronti di Aidid nutrita dagli americani. Era un fatto storico a lei conosciuto, per cui lei andava ad assolvere questo compito per sua scelta personale, oppure no? Se è vero, come lei ha detto, che lei ha preso il posto di chi non andava bene perché era amico di Aidid...

MARIO SCIALOJA. Amico... Teneva contatti.

PRESIDENTE. Insomma, intratteneva rapporti molto forti, che non andavano bene agli americani. Allora le rinnovo la domanda se lei abbia avuto indicazioni - e in caso di risposta affermativa, da chi - rispetto il comportamento da tenere nell'esercizio delle sue funzioni.

MARIO SCIALOJA. Il fatto che Augelli irritasse molto la parte americana per i suoi frequenti contatti con Aidid era ben noto anche a me, nella mia posizione di vice rappresentante a New York; io andavo in Somalia sapendo benissimo qual era la situazione. Il ministero non mi ha dato alcuna informazione aggiuntiva; mi era ben chiaro il quadro chi quanto era successo negli ultimi mesi, in quanto era un fatto diffusamente conosciuto a New York e alle Nazioni Unite.

PRESIDENTE. Ha avuto contatti o rapporti con il suo predecessore, Augelli? Vi siete consultati? Lei è riuscito a capire se fossero vere le ragioni per le quali non era più gradito a Mogadiscio? Le ha dato qualche indicazione? Avete proceduto ad un passaggio di consegne?

MARIO SCIALOJA. No. Conoscevo Augelli perché ero stato con lui per un periodo alla cooperazione. Quando sono arrivato a Mogadiscio lui era già partito e tra l'altro aveva anche lasciato alcuni suoi effetti personali; gli ho chiesto di tornare a prenderseli, ma non lo ha fatto, e quindi non l'ho incontrato. Non ha fatto più ritorno a Mogadiscio.

PRESIDENTE. Quindi non avete avuto occasione di confrontarvi su quelle che potevano essere le linee della futura conduzione del suo incarico.
Scusi, ma non riesco a capire una cosa: la sua carica era di ambasciatore.

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. Anche se lei aveva una denominazione diversa, comunque noi diciamo forse impropriamente «ambasciatore per la Somalia». Lei - fatto che io


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ignoravo - ha indicato la ragione dell'avvicendamento con Augelli nei rapporti tra quest'ultimo ed Aidid: nella nostra - o nella mia - logica, sicuramente poco istituzionale, il fatto che un ambasciatore venga inviato in una sede che ha un certo problema mi fa pensare che qualcuno lo avvisi dell'esistenza di questo problema, vale a dire l'esigenza di sostituire l'ambasciatore Augelli con qualcuno che abbia la possibilità di ristabilire un equilibrio, di ripristinare la serenità. Questo appartiene al buon senso, ma può darsi che anche in questo caso il buon senso faccia commettere dei brutti errori.

MARIO SCIALOJA. Il ministro Andreatta, quando mi ha incaricato di andare in Somalia, me l'ha ho detto brevemente a voce, ma era un fatto che già sapevo.

PRESIDENTE. Allora c'è una fonte.

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. Mi sembrava logico che il responsabile politico della Farnesina, nello scegliere un ambasciatore piuttosto che un altro, avesse fatto delle valutazioni e dato delle indicazioni di massima. Poi ovviamente è la situazione concreta che di volta in volta consiglia un certo comportamento.

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. La sua era una rappresentanza presso Unosom oppure valeva per tutta la Somalia? Che specificità aveva la sua presenza a Mogadiscio?

MARIO SCIALOJA. In Somalia a quell'epoca non esisteva alcuna autorità governativa che avesse il controllo di tutto o di parte del territorio; c'erano delle fazioni che si faceva la guerra l'un l'altra. Il mio rapporto era con il comando dell'Unosom, con l'ambasciatore Coratè e con l'ammiraglio Jonathan Howe e naturalmente avevo l'appoggio al contingente militare italiano. Chiaramente vedevo di frequente i signori della guerra somali, tranne Aidid, che ho visto una sola volta per cinque minuti, con il consenso degli americani. Vedevo frequentemente Ali Mahdi, Kanyare (il capo dei Morussade) e tutti gli altri che cercavano di spartirsi questo infelice paese.

PRESIDENTE. La sede era a Mogadiscio?

MARIO SCIALOJA. Quando sono arrivato la delegazione diplomatica speciale era già insediata in una villa a ridosso del muro di cinta di quella che era stata l'ambasciata d'Italia a Mogadiscio, dove ero stato negli anni sessanta, e dove hanno avuto sede, per le prime settimane della mia permanenza, il comando del contingente ed un notevole numero di militari. In seguito è rimasto un drappello con il comandante che veniva ogni tanto, perché il grosso del contingente militare italiano si è spostato da Mogadiscio ad una località a 40 chilometri da Modagiscio su quella che doveva essere la strada imperiale che doveva portare ad Addis Abeba, in località Balad, sul fiume uadi Shibari.

PRESIDENTE. Ci può descrivere - lei l'ha vissuta in prima persona e anzi è stato artefice della creazione di situazioni di equilibrio, per quanto possibile, perché mi pare che di equilibrio ce ne fosse poco - la situazione dal punto di vista del governo a Mogadiscio dall'agosto del 1993 fino all'epoca che ci interessa più strettamente? Lei ha parlato dei signori della guerra: quali rapporti - o non rapporti - ha trovato? Quale conflittualità? Come si è inserito in questa dinamica?

MARIO SCIALOJA. Mogadiscio era divisa in zone controllate dai vari signori della guerra. La zona di Mogadiscio nord, dove era il compound dell'ex ambasciata, era controllata da Ali Mahdi, che - mi scusi la premessa - era stato nominato alla presidenza ad interim della Somalia in una conferenza di pacificazione nazionale che aveva avuto luogo a Gibuti dopo la caduta di Siad Barre.


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PRESIDENTE. Ali Mahdi aveva avuto rapporti con Siad Barre?

MARIO SCIALOJA. Certamente, come tutti, anche Mohammed Farah Aidid.

PRESIDENTE. Ma dal punto di vista genericamente politico chi era stato più vicino, secondo la sua valutazione, tra Ali Mahdi e Aidid, al regime di Siad Barre e non dico si sia ad esso ispirato ma comunque guardava a quel regime con comprensione o ne dava una valutazione non negativa? Questa è una valutazione per cui lei qui non è considerato un testimone.

MARIO SCIALOJA. Potrei risalire alla storia dell'arrivo del contingente italiano, una cosa interessante che ha anche dei riflessi sul periodo in cui morirono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Né Ali Mahdi né Aidid erano certamente amici o vicini di Siad Barre, che quando cadde lo fece rovinosamente, portando con sé tutta la sua amministrazione. Aidid era considerato da Siad Barre una persona pericolosa perché, pur essendo il capo di un clan molto minoritario (Habr Gedir), è stato uno dei signori militarmente più forti che hanno portato alla sua caduta. Perché? Lei sa che le minoranze, gli Habr Gedir come altri in giro per il mondo, quando sono oppresse e un po' ostracizzate - come loro lo erano dagli altri clan somali -, possono reagire con grande aggressività e combattività. Quindi, indubbiamente le milizie di Aidid, da un punto di vista di impiego militare, erano decisamente più efficienti di quelle di Ali Mahdi.

PRESIDENTE. Dunque il merito principale della caduta di Siad Barre è di Aidid?

MARIO SCIALOJA. Forse il merito principale...

PRESIDENTE. Il maggior peso.

MARIO SCIALOJA. La maggior quota, anche se non era più del cinquanta per cento.

PRESIDENTE. E dopo la caduta di Siad Barre i due come si sono collocati rispetto al precedente regime?

MARIO SCIALOJA. Il precedente regime era condannato da entrambi. La situazione era abbastanza comica, in quanto ambedue affermavano di rappresentare l'85 per cento della popolazione somala. Erano su posizioni totalmente inconciliabili ed anche abbastanza ridicole.

PRESIDENTE. C'era una conflittualità che si esprimeva in termini di scontri armati?

MARIO SCIALOJA. Certo. Naturalmente l'Unosom ha cercato di reprimerli e controllarli, ma dopo la fine dell'Unosom 2 la situazione... Io continuo a seguire la questione perché alcuni somali mi telefonano da Londra e da Nairobi e mi informano su quello che succede. Per me naturalmente è un hobby.

PRESIDENTE. Forse queste persone ci potrebbero dare qualche informazione utile!
Negli anni 1993-1994 qual era la situazione dal punto di vista della conflittualità armata tra i due clan?

MARIO SCIALOJA. Scoppiavano frequenti scontri, che più che scontri erano delle grosse scaramucce; non avvenivano mai battaglie campali (non disponevano neanche dei mezzi necessari), ma si trattava di scontri a fuoco, con morti da una parte e dall'altra.

PRESIDENTE. Erano adeguatamente armati? Lei ha detto che scontri di grande momento non potevano avvenire.

MARIO SCIALOJA. Avevano delle armi che arrivavano da varie parti del mondo.

PRESIDENTE. Voi conoscevate la situazione dei due clan in ordine agli armamenti?


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MARIO SCIALOJA. Certamente. La conosceva il Sismi, che aveva aperto lì una cellula di appoggio per un'opera di intelligence del contingente italiano.

PRESIDENTE. Qual era la consistenza degli armamenti? Innanzitutto, chi era più armato, Aidid o Ali Mahdi?

MARIO SCIALOJA. Questa è una bella domanda. Forse Aidid, ma disponeva di forze numericamente molto più ridotte. Quanto alle armi, ovviamente non avevano i blindati, avevano delle curiose macchine chiamate «tecniche», che in genere erano delle Land Rover o delle Toyota fuoristrada con una mitragliatrice montata sopra. Avevano armi anticarro RPG7 di origine sovietica, con le quali hanno abbattuto anche degli elicotteri americani, cogliendoli nel momento in cui viravano e quindi quando apparentemente, rispetto al RPG7, che era un'arma molto lenta, erano quasi fermi. Avevano anche fucili americani ultimo modello, gli MM16 con fibra in carbonio, che tra l'altro si potevano comprare liberamente sul mercato di Mogadiscio.

PRESIDENTE. Ma dove? Liberamente, va bene; qualsiasi tipo di arma si comprava liberamente.

MARIO SCIALOJA. Gli RPG7 forse no, ma gli MM16 sì. Si diceva che delle armi arrivassero via terra dal Sudan, ma arrivavano anche via mare, naturalmente sbarcate in vari punti sulla costa; in particolare queste armi americane sembrava venissero dall'Iran, e quindi c'era forse una fonte iraniana ed una sudanese. Se ce ne fossero altre, francamente non lo so.

PRESIDENTE. Lei si è mai interessato di capire, attraverso sue indagini o attraverso informazioni provenienti dal Sismi (di cui, come lei ha ricordato poc'anzi, era presente una formazione) sulla provenienza delle armi, se qualche paese europeo ne fosse coinvolto e se l'Italia avesse qualche parte nella fornitura? Capisco che la domanda è molto ingenua, specialmente l'ultima parte, ma io gliela devo porre, riportandomi ovviamente a quello che lei ha ricordato essere il giuramento che la stringerà per la vita alla fedeltà nei confronti della Repubblica italiana.

MARIO SCIALOJA. Certo.
I paesi europei li escluderei proprio, ed escluderei anche forniture ufficiali italiane.

PRESIDENTE. E non ufficiali?

MARIO SCIALOJA. Che ci potesse essere qualche connazionale coinvolto in forniture di armi da una parte o l'altra, francamente non saprei. Non posso affermare naturalmente che ci fossero persone coinvolte, ma sinceramente non posso affermare neanche il contrario.

PRESIDENTE. Marocchino le dice qualcosa...

MARIO SCIALOJA. Come no!

PRESIDENTE. ... a proposito di armi? Poi parleremo di Marocchino, ma intanto la domanda è questa.

MARIO SCIALOJA. Giancarlo Marocchino - se vuole le racconto tutta la storia, ma forse a lei non interessa...

PRESIDENTE. No, ci interesserà, ma in un altro momento della sua audizione, quando avremo avuto altre indicazioni da parte sua. Forse è il momento di affrontare il problema armi.

MARIO SCIALOJA. Cominciamo da quello che è successo dopo per tornare a quello che è successo prima. Gli americani, poco prima di partire, nell'ultimo trimestre del 1993, accusarono Marocchino di fornire o di assicurare un servizio di trasporto di armi per la fazione di Aidid. Marocchino era sposato con una donna somala bella ed intelligente - credo che non se la meritasse - che era una lontana parente o quanto meno era del clan di Aidid.


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PRESIDENTE. Perché non se la meritava?

MARIO SCIALOJA. Perché era bella ed intelligente.

PRESIDENTE. Perché, lui è brutto e stupido?

MARIO SCIALOJA. No, credo che fosse intelligente, ma non mi piaceva come uomo.

PRESIDENTE. Ho capito. Non le piaceva anche perché si occupava di traffico di armi? Per quale motivo non le piaceva?

MARIO SCIALOJA. Non mi piaceva come complesso.

PRESIDENTE. «Complesso» è una risposta un po' generica. Dato che lei c'è entrato, io la devo adeguatamente compulsare.

MARIO SCIALOJA. Complesso...

PRESIDENTE. Parleremo poi della complessità.

MARIO SCIALOJA. ...per le origini della sua storia in Somalia.

PRESIDENTE. Perché, quali erano le origini della sua storia in Somalia?

MARIO SCIALOJA. Vogliamo parlare di armi oppure...

PRESIDENTE. È complesso per le origini: la complessità per le origini riguarda anche le armi?

MARIO SCIALOJA. No. Lui era camionista in un'impresa non della cooperazione italiana ma del FAI, Fondo aiuti italiani, che costruiva la strada Garoe-Bosaso, assolutamente inutile, un pessimo progetto di cooperazione. Quando il governo cadde lui rimase lì, anche perché aveva sposato questa signora...

PRESIDENTE. Che era una parente di Ali Mahdi.

MARIO SCIALOJA. Non credo.

PRESIDENTE. Sì, è una parente di Ali Mahdi.

MARIO SCIALOJA. Allora mi sbaglio, mi scusi. Lui si trovò a disporre in Somalia di un grosso parco di macchine movimento terra e di autocarri da trasporto con grossi pianali che gli permisero di mettere su una piccola attività imprenditoriale. Tra l'altro ci fu anche una causa con la Salini costruttori (o un'altra impresa, ora non ricordo), che lo accusava di essersi appropriato di materiale per un valore di qualcosa come 28 miliardi di lire dell'epoca. Devo dire che si trattava di materiale che per i proprietari era comunque perso, perché stava lentamente arrugginendo con l'umidità e la salinità della zona.

PRESIDENTE. Res derelicta...

MARIO SCIALOJA. Res derelicta, certo. Quindi non credo che si possa veramente incolpare di questo Marocchino.
Tornando alle armi, nell'autunno del 1993 gli americani lo arrestarono con l'accusa di favoreggiamento - diciamo così - nei confronti di Aidid e lo imprigionarono in un edificio che era un padiglione dell'ex università nazionale somala. Io andai a visitarlo varie volte - era mio dovere anche l'assistenza ai connazionali - e riuscii a convincere l'ammiraglio Jonathan Howe ad espellerlo, a farlo ritornare in Italia. Chiaramente Marocchino fu ben contento di questo. Se ben ricordo, lo imbarcammo su un aereo charter dell'Alitalia noleggiato dal contingente. Per far capire quanto gli americani tenessero alla sua partenza basta dire che, fino a quando l'aereo non si avviò verso la pista di decollo, vicino al portellone dell'aereo rimasero dei militari americani che imbracciavano il mitra. Nonostante io abbia insistito con Howe che era ridicolo incolpare una persona di qualcosa e poi non fornire


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le prove, gli americani non fornirono alcun dettaglio in ordine a questa loro azione nei confronti di Marocchino. Lui arrivò in Italia, non so che genere di inchiesta sia stata aperta sul suo conto, alla fine venne rilasciato, tornò in Kenya, rimase parcheggiato lì per un bel po' con la moglie, che curò i suoi affari e alla fine ritornò a Mogadiscio.

PRESIDENTE. Di questo poi dovremo parlare, perché le cose forse non stanno proprio in questi termini, almeno secondo la nostra ricostruzione documentale.

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. Però, al di là di questo episodio che ha colto Marocchino con le armi - perché le armi furono trovate, non è vero che non furono trovate -...

MARIO SCIALOJA. Qui volevo arrivare.

PRESIDENTE. Al di là di questo episodio, che trova una soluzione quasi grottesca e della quale lei è informato, perché da quanto ci risulta ha seguito la vicenda, è in grado di darci qualche indicazione su altri contesti nei quali lei è venuto a conoscenza, direttamente o indirettamente, del coinvolgimento di Marocchino nel traffico di armi, da qualunque parte del mondo, magari passando per l'Italia?

MARIO SCIALOJA. Ci stavo arrivando. L'unica indicazione che posso dare è la seguente: durante il periodo in cui il comandante del contingente militare italiano era non Bruno Loi ma il generale Rossi, se non erro, i militari del contingente italiano fecero un'ispezione in un campo-deposito di Marocchino; Rossi non l'ho mai incontrato e non so se questa ispezione sia stata svolta su iniziativa del contingente italiano oppure su richiesta delle Nazioni Unite o degli americani e per quale motivo, ma tra il materiale di Marocchino furono trovate anche delle armi integrate, anche dei RPG7, se non sbaglio, altre armi di varia natura e, fatto che mi colpì e che ricordo bene, un quantitativo non trascurabile di miccia detonante. La miccia detonante non è quella lenta, è una miccia che detona alla velocità di 6 chilometri al secondo e che viene usata in genere quando si vogliono far esplodere varie cariche esplosive contemporaneamente. Questo materiale gli venne ovviamente sequestrato, ma questo è tutto quello che so.

PRESIDENTE. Le risulta che su queste attività di Marocchino ci fosse la dovuta attenzione, non dico da parte sua ma «anche» da parte sua? Lei di queste cose ha informato gli organi italiani competenti, non soltanto il contingente ma innanzitutto i Servizi di sicurezza? Le risulta che comunque su queste attività, che richiamavano l'attenzione, come lei ha ora ricordato, venissero svolte delle indagini per capire che cosa ci stesse a fare lì Marocchino, oppure tutto avveniva in piena «normalità», nonostante si trattasse di armi potenti e che magari potevano avere come transito proprio il nostro paese? Secondo molte indicazioni, peraltro nessuna ancora concretizzata, si utilizzavano alcuni mezzi di trasporto riferiti alla cooperazione italiana verso la Somalia come copertura per il traffico di armi. Le do un'indicazione per sapere se lei di queste cose ne abbia mai sentito parlare e se magari possa dire alla Commissione qualcosa di più concreto ai fini dell'indagine che stiamo compiendo.

MARIO SCIALOJA. L'ispezione ed il reperimento delle armi nel campo-deposito di Marocchino sono avvenuti vari mesi prima del mio arrivo e non so se abbiano dato luogo ad un'inchiesta. Immagino di sì, ma non lo so. Era un fatto a conoscenza di tutti. Non so neanche se egli avesse dei contatti con l'Italia. È chiaro che si serviva di mezzi che derivavano dalla cooperazione per fare trasporti di varia natura. Tra l'altro Marocchino era utilizzato regolarmente non solo dal contingente italiano ma anche dalle Nazioni Unite per trasporti fuori misura: aveva mezzi molto grandi che erano gli unici in Somalia che potessero trasportare i moduli abitativi,


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quei container lunghi trasformati in ufficio e in abitazione, che furono utilizzati non solo da me come delegazione diplomatica nell'ultimo mese e mezzo di permanenza a Mogadiscio, quando ci spostammo dalla palazzina affittata all'interno del compound dell'ex ambasciata americana vicino al comando dell'Unosom, ma anche dal contingente militare italiano, che ne aveva decine o centinaia. Gli unici mezzi disponibili sul mercato somalo per trasportarli li aveva Marocchino, che lavorava regolarmente anche per le Nazioni Unite ed indipendentemente da qualsiasi servizio reso di trasporto al contingente italiano.

PRESIDENTE. Lei ha parlato di trasporti di varia natura. Nella «varia natura» lei mette anche le armi, per quelle che sono le sue consapevolezze dirette o indirette, e non voglio dire voci correnti nel pubblico perché sarebbero scarsamente significative sul piano tecnico? Lei era un ambasciatore autorevole, certamente era un importante punto di riferimento, perciò lei diventava un terminale di notizie controllate o da controllare.

MARIO SCIALOJA. Uno dei motivi per cui l'ammiraglio Howe mi disse che avevano arrestato Marocchino era il trasporto di armi. Non forniva armi ad Aidid - da quello che mi venne detto - ma trasportava armi dal porto d'imbarco della costa somala per Aidid. Non ho notizie precise. Posso solamente presumere che, se trasportava delle armi, lo faceva con i mezzi presi dalla cooperazione. Era l'unico ad averne. La Somalia è sempre stata una rovina nel campo dei trasporti.

PRESIDENTE. Cooperazione significa anche Ministero degli esteri, e lei, forse, aveva una parentela abbastanza stretta con il Ministero... Non erano questi dei contesti nei quali funzionalmente lei avrebbe potuto intervenire per capire cosa stesse succedendo?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Non avrebbe potuto capire cosa stesse succedendo, cioè se la cooperazione venisse utilizzata per fare traffico di armi?

MARIO SCIALOJA. No, perché i mezzi non erano della cooperazione.

PRESIDENTE. I soldi sì, però.

MARIO SCIALOJA. I soldi pagati anni prima. Comunque, se vogliamo parlare della cooperazione in Somalia, sono prontissimo a farlo.

PRESIDENTE. No. A me interessa capire in che modo possa essere stata piegata la cooperazione, perché, come lei sa, tra i punti di nostro interesse c'è anche questo. La mia domanda era questa: se, trattandosi di qualcosa di vicino agli interessi curati dal Ministero degli esteri, di cui lei era sostanzialmente il rappresentante, ma non soltanto di quello, ci fosse stato un interesse.
Questo era un personaggio centrale nella vita della Somalia, non soltanto per quello che riguardava le attività imprenditoriali, ma, discutendo di armi, credo che avesse una posizione strategica (lo dico tra virgolette), anche rispetto alle autorità italiane presenti. Mi riferisco al contingente militare italiano; mi riferisco ai servizi di informazione, ma mi riferisco anche all'ambasciata. Era un personaggio di peso. Ci risulta che avesse a disposizione parecchi uomini, che avesse mezzi a non finire, che fornisse lui tutte le scorte.

MARIO SCIALOJA. Non credo che fornisse le scorte.

PRESIDENTE. A noi ha dichiarato che forniva le scorte, quando le chiedevano.

MARIO SCIALOJA. Ospitava dei giornalisti della Rai, ai quali assicurava le scorte.

PRESIDENTE. Che rapporto intrattenevate con Marocchino? Da pari a pari? Da istituzione a istituzione?


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MARIO SCIALOJA. Per carità...

PRESIDENTE. Sta di fatto che faceva quello che voleva. Lei dice che era territorio somalo e non era il suo territorio, però si trattava di un cittadino italiano che non soltanto teneva i contatti con l'Italia, e pure frequentemente, ma che era anche fortemente legato all'Italia sul piano imprenditoriale, e veniva spesso in Italia.

MARIO SCIALOJA. Sul piano imprenditoriale non era molto legato all'Italia. Era un'autista con un camion che ha approfittato della situazione quando ha trovato questi mezzi abbandonati, che non erano mezzi della cooperazione, ma che erano mezzi acquistati dalle imprese, anche se erano stati pagati con i fondi della cooperazione. Quindi, c'è un legame, ma non è un legame diretto.

PRESIDENTE. Che tipo di rapporto avevate con lui?

MARIO SCIALOJA. Io lo vedevo molto poco. Ad un certo punto, quando ci andammo ad installare nel compound dell'ex ambasciata americana, ci dovemmo sistemare in questi container abitativi, e fu Marocchino che li trasportò e che li montò su blocchetti di cemento, per tenerli leggermente sollevati da terra. Ma io non vedevo normalmente Marocchino.

PRESIDENTE. Diceva prima che non è che lei avesse una grande considerazione per Marocchino, o sbaglio?

MARIO SCIALOJA. Infatti.

PRESIDENTE. Sinteticamente, come lo definirebbe, o come lo avrebbe definito?

MARIO SCIALOJA. Per quello che ha fatto è stato qualificabile un po' come un avventuriero, ma non in senso troppo deteriore, perché, a parte il guaio in cui si è ficcato con le armi, eccetera, probabilmente avrebbe fatto un lavoro esclusivamente di carattere civile.

PRESIDENTE. Le risultano rapporti stretti, o comunque di forte collaborazione, da una parte con il servizio di informazione militare e dall'altra parte con il contingente italiano, da parte di Marocchino?

MARIO SCIALOJA. Con il servizio di informazione, con il Sismi, proprio non mi risulta affatto.

PRESIDENTE. Sa se avesse rapporti stretti, o non stretti, o non avesse rapporti, con Rajola Pescarini, che era il punto di riferimento della struttura presente a Mogadiscio per il Sismi?

MARIO SCIALOJA. Quando c'ero io, per il personale del Sismi c'era un certo Gianni Giusti, un uomo della marina, che poi è stato l'ultimo a rimanere.
Rapporti con il Sismi certamente no, perché l'unità del Sismi era molto critica nei suoi confronti.
Per quanto riguarda il trasporto delle armi, non è che Marocchino fosse il grande imprenditore che trasportava le armi in tutta la Somalia. Forse ha fatto qualche trasporto della fazione per il generale Aidid, ma insomma lì le armi arrivavano via terra, via mare e da tutte le parti. Marocchino aveva una posizione marginale anche in questo commercio.

PRESIDENTE. Risulta se avesse rapporti con il contingente italiano: se sì che tipo di rapporti, con chi? Per esempio, con il generale Fiore, con il generale Loi e, prima ancora con Rossi?

MARIO SCIALOJA. Marocchino effettuava parecchi trasporti per il contingente. Per esempio, quando il contingente militare italiano si spostò da Mogadiscio nord a Balad, tutti i mezzi pesanti e tutti i container furono trasportati da Marocchino (il contingente non aveva i mezzi per farlo). Erano però contatti di questo tipo. Con chi li intrattenesse, non lo so. Immagino anche con Carmine Fiore. Quando ne


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avrà avuto bisogno, si sarà rivolto a lui, ma non credo che avesse dei rapporti di carattere personale.

PRESIDENTE. Lei ha conosciuto la moglie di Marocchino?

MARIO SCIALOJA. Sì, nel periodo in cui lui era in Italia e poi in Kenia, prima di tornare a Mogadiscio, la signora venne a trovarmi qualche volta per implorarmi, in riferimento al marito, ma adesso, con tutta sincerità, non ricordo il contenuto delle conversazioni.

PRESIDENTE. Mi pare che Marocchino fu detenuto per due giorni.

MARIO SCIALOJA. No, qualcosa di più.

PRESIDENTE. La ragione del contatto fu soltanto quella di un ambasciatore con un cittadino italiano attinto da un provvedimento cautelare?

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. Che cosa ha fatto per trarre Marocchino dalla situazione in cui si trovava?

MARIO SCIALOJA. A Mogadiscio, non avevo contatti diretti con il contingente militare americano che non era sotto il comando delle Nazioni Unite. Gli americani non hanno mai messo propri militari sotto il comando delle Nazioni Unite (questa è una delle ragioni per cui è stato evitato un coinvolgimento diretto delle Nazioni Unite in Iraq). Avevo contatti molto frequenti, però, con l'ammiraglio Jonathan Howe, che è ben conosciuto in Italia perché era stato alla base Nato a Napoli per pochi anni (tra l'altro, parlava anche abbastanza bene l'italiano), che era anche il consigliere militare del contingente delle Nazioni Unite, che comprendeva al suo interno truppe pakistane e di varie nazionalità. Perciò, mi rivolsi a Jonathan Howe, con il quale avevo un rapporto molto cordiale (ci vedevamo molto frequentemente) dicendo: risolviamo un po' il problema di questo tipo; cerca di convincere i tuoi connazionali di cacciarlo via dalla Somalia, che è meglio per lui, anziché stare in una cella fetida, in quello che era un padiglione dell'ex università somala.
Dunque, intrattenni rapporti, per quanto riguarda l'intercessione per Marocchino e l'espulsione dello stesso, con Jonathan Howe.

PRESIDENTE. Nella relazione da lei scritta il 1o ottobre 1993, con riferimento alle armi, di cui era stata fatta la rilevazione, lei parlò di elementi significativi, ma non considerabili come prova. Che cosa voleva significare con questo? Lei sa che noi abbiamo gli atti della inchiesta romana da cui risultano i verbali delle perquisizioni e dei sequestri da cui, per la verità, emergono situazioni abbastanza interessanti dal punto di vista di un indagine un po' più approfondita.

MARIO SCIALOJA. Non ho questo scritto. Può farmelo avere? Non ho conservato tutti gli appunti che feci a quell'epoca.

PRESIDENTE. Però, già in precedenza aveva detto, rispondendo ad una mia domanda: effettivamente, gli americani, che fanno le cose non sempre come dovrebbero, praticamente andavano incontro all'insuccesso perché la prova della detenzione delle armi...

MARIO SCIALOJA. ...non ce la fornirono. Magari loro l'avevano, ma non ce la vollero dare.

PRESIDENTE. In quella relazione è scritto: «Ho chiesto immediatamente un colloquio con il rappresentante» - la data è esattamente quella che le ho indicato, cioè il 1o ottobre 1993 - «personale del segretario generale delle Nazioni Unite in Somalia; mi ha ricevuto alle ore 15 e mi ha confermato che Marocchino era stato fermato per essere interrogato in merito a sue presunte responsabilità per il traffico


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di armi, circa un conflitto a fuoco che aveva coinvolto alcuni militari. Howe aggiunge che l'Unosom, qualora dall'interrogatorio fossero emerse responsabilità di Marocchino, avrebbe potuto decidere la sua espulsione dalla Somalia. Al termine del colloquio con l'ammiraglio, ho visitato il connazionale in un piccolo carcere. Egli dichiarò di essere stato trattato correttamente e, benché agitato per quanto gli stava accadendo, si dimostrò fiducioso. Ho chiesto ai responsabili del carcere che fosse alloggiato in una stanza singola, un avvocato somalo, e via dicendo. Il 29 ho avuto un nuovo colloquio con Howe, che mi disse che i sospetti che Marocchino fosse coinvolto in attività illecite erano sempre più fondati. Sulla base delle istruzioni ricevute, per le vie brevi feci presente all'ammiraglio che un eventuale ordine di espulsione avrebbe dovuto essere notificato per iscritto. La sera del 29 settembre, ricevetti la visita della signora Marocchino, che cercai di tranquillizzare. Il 30 settembre Howe mi ha consegnato una lettera con la quale ci veniva comunicato che Unosom aveva deciso di espellere dalla Somalia Marocchino, accusato di aver fornito armi e tecnologie militari ad Aidid, in quanto egli costituiva un ostacolo per l'operazione delle Nazioni Unite. Precisava in una lettera che avrebbe consegnato quanto prima, in plico separato, documenti contenenti informazioni. Al termine del colloquio, alle 23 del 30, sulla base delle istruzioni ricevute per le vie brevi, ho comunicato ad Howe che eravamo disposti a far viaggiare il Marocchino nel nostro aereo, dato che non potevano limitare in alcun modo la sua libertà. Ho nuovamente sollecitato, inoltre, la consegna della documentazione, eccetera. Alle 13,30 è stato tradotto dal luogo di detenzione» e via dicendo. «Seccato ma serio, precisò che era libero di scegliere se restare in Somalia o partire per l'Italia. Marocchino decise quindi di partire e s'imbarcò».

MARIO SCIALOJA. C'era l'accusa americana di fornire le armi e trasportare le armi per conto di Aidid, però quel fascicolo che Howe mi promise, con tutte le prove, non fu mai consegnato, per cui l'inchiesta in Italia si arenò.

PRESIDENTE. A proposito dell'inchiesta fatta dalla magistratura romana, nella nota che fa il 22 dicembre 1993, spiega di «aver rappresentato al quartier generale di Unosom, al Ministero degli esteri, nella persona dell'ambasciatore Kujat, vice di Howe, l'aspettativa della delegazione da lui diretta, della concessione a Marocchino di rientrare in Italia, comunicandogli l'avvenuta» - 22 dicembre 1993 - «archiviazione, da parte della magistratura italiana, delle accuse a carico di Marocchino, per inesistenza delle prove necessarie all'avvio di un procedimento giudiziario, e dicendo che per le autorità italiane Marocchino era libero di rientrare a Mogadiscio».
Lei dice tutto questo nella nota del 22 dicembre 1993.

MARIO SCIALOJA. Per quanto riguarda la chiusura dell'indagine su Marocchino in Italia, mi viene confermato verbalmente...

PRESIDENTE. Ambasciatore, il problema è questo: siccome la richiesta di archiviazione viene formulata dal pubblico ministero, dottor Saviotti, in data 14 aprile 1994, e l'archiviazione come provvedimento viene emessa in data 17 giugno 1995, lei il 22 dicembre 1993 non poteva saperlo.

MARIO SCIALOJA. Sì, non potevo saperlo.

PRESIDENTE. E allora come ha fatto a dirlo?

MARIO SCIALOJA. Guardi, può esserci una confusione, nel senso che Marocchino, già in precedenza, era stato oggetto di attenzioni da parte delle autorità giudiziarie in Italia, forse anche precedentemente al 1993. Perciò, quella mia nota può riferirsi al fatto che erano stati archiviati questi procedimenti giudiziari iniziati a suo carico, ma per fatti del tutto indipendenti dal traffico di armi. Comunque, è


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una cosa che io appresi per le vie brevi, e non ricevetti alcuna comunicazione dal Ministero degli esteri.
Marocchino aveva già avuto guai giudiziari in Italia, anche prima dell'operazione Unosom 2.

PRESIDENTE. Leggo la parte che si riferisce alla precedente contestazione: «Sulla base delle istruzioni ricevute ieri sera per le vie brevi dalla segreteria generale, stamane mi sono recato al quartier generale dell'Unosom 2 per rappresentare la nostra aspettativa che il signor Giancarlo Marocchino sia autorizzato a rientrare in Somalia. In assenza di Howe, a New York per le ricorrenze di fine anno, ho parlato con l'ambasciatore Kujat. Gli ho comunicato che la magistratura italiana ha archiviato il caso del signor Marocchino per la inesistenza delle prove necessarie all'avvio di un procedimento giudiziario. Pertanto ho detto: per le competenti autorità italiane il signor Marocchino è libero di tornare a Mogadiscio e di riprendere la sua attività economica. Ho dichiarato quindi a Kujat che ci attendiamo che nei confronti del nostro connazionale, qualora decidesse di tornare nel paese, non vengano prese misure limitative della libertà personale. Il vice di Howe mi ha risposto che della vicenda Marocchino si è interessato anche l'imam Mohamud Omar, autorevole esponente religioso Abgal in una lettere all'ammiraglio Howe. Il rappresentante di Boutros Ghali gli ha risposto dichiarandosi assolutamente contrario al rientro di Marocchino e affermando che egli verrebbe immediatamente arrestato. Ho motivo di ritenere che tale rigida posizione dell'Unosom 2 sia sostenuta dall'amministrazione americana. Come è noto, Marocchino è stato accusato di aver messo in pericolo con i suoi commerci la vita del personale delle Nazioni Unite. Si tratta della stessa accusa mossa ai dirigenti della Sna, arrestati qualche mese fa e tuttora detenuti nonostante la fine della caccia all'uomo contro Aidid. Lo stesso Aidid non è stato assolto. Il consiglio di sicurezza, con la nomina della commissione d'inchiesta ha solamente ritenuto necessario effettuare più approfonditi accertamenti sulle sue eventuali responsabilità. Ho provveduto ad informare la signora Marocchino».
Voglio riferirmi a quanto lei dice sulla «inesistenza delle prove necessarie all'avvio di un procedimento giudiziario». C'è infatti un richiamo specifico a ciò che ci interessa in questa sede, cioè alle armi che erano state ritrovate, e al fatto che «la magistratura italiana ha archiviato il caso del signor Marocchino». È stata una preveggenza assolutamente corretta perché dopo tutto quel tempo a cui mi sono riferito prima, è cioè in data 14 aprile, cioè a distanza di quattro mesi, la richiesta di archiviazione sarebbe stata formulata, anche se accolta soltanto il 17 luglio 1995.
Vorrei innanzitutto che lei ci spiegasse questa cosa. Inoltre, da quello che mi pare di capire, c'è una tutela della posizione di Marocchino in questa nota che lei fa al Ministero degli affari esteri, perché testimonia che la magistratura italiana non aveva nulla da rimproverare a questo cittadino italiano, per cui non si vedeva la ragione per la quale egli non dovesse godere di assoluta libertà di movimento e di ingresso in Somalia. Ci può spiegare e ci può far capire questa cosa?

MARIO SCIALOJA. Ebbi la notizia dalla segreteria generale, però, siccome Marocchino era già stato denunciato ed era stato iniziato un procedimento nei suoi confronti per altri eventi di cui ignoro la natura, ben prima dell'operazione Unosom, probabilmente c'è stato un equivoco. Infatti è stato effettivamente prosciolto. Io sapevo che era stato prosciolto da questi procedimenti in corso in Italia, ma evidentemente non si trattava...

PRESIDENTE. Marocchino era stato espulso dalla Somalia in quanto trafficante di armi a favore di Aidid, e per il fatto che gli americani non tolleravano questa cosa. Il tema in discussione era questo. Quando lei scrive questa lettera non è che si riferisce ad altri tipi di procedimenti o di iniziative...


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MARIO SCIALOJA. Però, vi può essere stata una confusione.

PRESIDENTE. È un po' difficile che si sia configurata una confusione in quel momento. Probabilmente, qualcuno le ha fatto un'anticipazione... infatti, poi possono passare quattro mesi. Se un pubblico ministero le dice che archivierà, e magari glielo dice subito, poi se lo può dimenticare e farlo dopo quattro mesi. È assolutamente normale.
Lei ebbe rapporti con la magistratura romana, italiana, su questo problema, su questa vicenda dell'arresto di Marocchino?

MARIO SCIALOJA. Assolutamente no. Ebbi le notizie dalla segreteria generale del Ministero quando c'era l'ambasciatore Ferdinando Sanleo.

PRESIDENTE. Tornando un attimo al tema dal quale eravamo partiti, e cioè a quello che succedeva a Mogadiscio, a proposito dei due clan, che abbiamo indicato, di Ali Mahdi e di Aidid, c'era una spartizione del territorio?

MARIO SCIALOJA. Sì, certo.

PRESIDENTE. In che senso? Ce lo può spiegare?

MARIO SCIALOJA. Mogadiscio era divisa informalmente in zone con confini ben precisi, anche se non delimitati da steccati, staccionate o altre cose. Ali Mahdi controllava la zona di Mogadiscio nord, dove era anche situata l'ambasciata; Aidid controllava una zona relativamente ristretta, chiamata anche popolarmente Baqara Market.

PRESIDENTE. Era al sud?

MARIO SCIALOJA. Sì, era a sud, un po' all'interno. Poi c'erano gli altri pezzi di Mogadiscio, controllati da altri signorotti. Uno di questi era un certo Kaniare, capo del clan dei Morussade, che controllava una piccola zona di Mogadiscio, di lato a villa Somalia, che era la residenza del Presidente della Repubblica. Queste erano le tre forze maggiori. C'era poi un altro clan, collegato con tribù dell'interno, che controllava un'altra zona di Mogadiscio, intorno all'aeroporto.

PRESIDENTE. La cosa più importante era che vi fosse Ali Mahdi da una parte e Aidid dall'altra.

MARIO SCIALOJA. Certamente.

PRESIDENTE. C'erano problemi per spostarsi da una zona all'altra? C'erano problemi di sicurezza?

MARIO SCIALOJA. Certamente.

PRESIDENTE. Mi riferisco sempre al tempo che ci interessa: agosto 1993-marzo 1994.

MARIO SCIALOJA. Certamente. A Mogadiscio ci si spostava unicamente con mezzi blindati. Ad esempio, a me il contingente dava un mezzo con una blindatura leggera. Qualche volta hanno fatto anche fuoco su questo mezzo (chiaramente, me la sono cavata, perché sono qui). Si andava da una parte all'altra di Mogadiscio con una scorta armata. Io mettevo in crisi ogni tanto i carabinieri del Tuscania che mi facevano da scorta, perché ogni tanto andavo in un mercato, scendevo dalla macchina, e cominciavo a girare in mezzo ai somali. Questo li metteva nel panico più assoluto.

PRESIDENTE. Lo credo bene. E per andare da una parte all'altra, da nord a sud, che cosa bisognava fare? Quali precauzioni bisognava prendere? Ciò è per noi di particolare importanza, perché un trasferimento di questo tipo è stato fatale a Ilaria Alpi e a Miran Hrovatin.

MARIO SCIALOJA. Anche a un cameraman di Carmen Lasorella. Carmen, per fortuna, se la cavò, ma se la vide veramente brutta. Sulla linea di confine c'erano in genere dei posti di blocco di


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osservazione delle Nazioni Unite. Uno, per esempio, era a ridosso di quella che in origine era la casa del fascio (che poi per un certo tempo fu sede del parlamento somalo). Fu quel posto di blocco che avvistò le macchine che seguivano la vettura in cui viaggiava Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
Si passava da una zona all'altra senza frontiere. Si passava e basta. Farlo non protetti era assolutamente un tentativo di suicidio.

PRESIDENTE. Ma è vero che il passaggio da nord a sud e viceversa, attraverso la famosa linea verde, se non sbaglio (almeno così ci è stato descritto), se fatto con uomini di scorta provenienti dalla zona dove si intendeva entrare era possibile, era una cautela necessaria e sufficiente?

MARIO SCIALOJA. Non l'ho mai sentito dire. Anche i giornalisti che erano lì viaggiavano da nord a sud con la stessa scorta composta da personale pagato da loro, che garantiva una sicurezza molto relativa.

PRESIDENTE. Le risulta che queste scorte fossero costituite in maniera mista?

MARIO SCIALOJA. Non mi risulta e non lo credo affatto.

PRESIDENTE. Dunque, nel caso che ci interessa, che presenta un tipo di trasferimento di questo genere, all'epoca dei fatti, 20 marzo 1994, per quelle che sono le sue consapevolezze, quel trasferimento era di per sé un suicidio?

MARIO SCIALOJA. Andare senza scorta, sì. Ilaria Alpi, purtroppo, aveva solamente l'autista di scorta.

PRESIDENTE. Non andare senza scorta, ma anche con la scorta?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Se lei aveva una scorta assunta al nord, poteva andare nel sud senza problemi?

MARIO SCIALOJA. Sì, se la scorta era sufficientemente armata e forte, sì. Diciamo: era una scorta transnazionale. Il momento del 20 marzo, poi, era molto particolare. Poi, se vuole, ci ritorneremo.

PRESIDENTE. Quindi, questo era possibile?

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. Dunque, a parte la consistenza della scorta, di cui poi parleremo, non c'era nulla di strano che con una scorta si andasse da nord a sud. Insomma, era perfettamente consentito o, diciamo, era perfettamente praticabile.

MARIO SCIALOJA. Sì, consentito è un po' troppo...

PRESIDENTE. Dove erano gli uffici della vostra delegazione diplomatica? A nord o a sud?

MARIO SCIALOJA. Fino al momento - o poco prima - in cui era cominciata l'evacuazione del contingente militare italiano, eravamo in questa palazzina a Mogadiscio nord, proprio a ridosso del confine con il muro di cinta lato mare di villa Gallotti, come era conosciuta, che era la sede dell'ambasciata d'Italia. Quando, poi, il posto divenne impraticabile, in primo luogo perché il contingente stava smobilitando, in secondo luogo perché ci sparavano quotidianamente addosso. Si verificavano spesso scaramucce tra somali appollaiati su qualche tetto e militari di guardia all'ambasciata. Tutti i giorni venivano sparate delle fucilate. Ad un certo momento, fu obbligatorio, anche per la delegazione, andare in luogo protetto, e ci trasferimmo a fianco del comando dell'Unosom, nel compound dell'ex ambasciata americana. Era un momento di grande tensione.


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PRESIDENTE. Ha conosciuto Ilaria Alpi?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Quando l'ha conosciuta?

MARIO SCIALOJA. Mi intervistò nel corso della sua prima missione in Somalia, nel 1993, certamente, ma se mi domanda il mese, francamente non lo ricordo.

PRESIDENTE. L'ha vista solo nell'occasione dell'intervista o anche altre volte?

MARIO SCIALOJA. Solo nel corso dell'intervista.

PRESIDENTE. Quindi, una sola volta?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Che notizie avevate intorno ad Ilaria Alpi, all'attività che svolgeva in Somalia, e soprattutto con quale tipo di presenza? Era una presenza che in qualche modo suscitava qualche risentimento, oltre ai consensi (mi auguro)? Era un soggetto «attenzionato», per usare una formula brutta, ma espressiva? Naturalmente, mi riferisco alla sua attività professionale.
Soprattutto, a lei, che conosceva questa partizione territoriale e di forze tra Ali Mahdi e Aidid, risultava che nei confronti di Ilaria Alpi si nutrisse qualche opinione negativa da parte di uno di questi clan?

MARIO SCIALOJA. Certamente non ho mai saputo nulla di questo genere. L'ho incontrata una sola volta. Venne una sola volta quando c'erano i giornalisti di tutti i quotidiani italiani, come la Repubblica, o il Corriere della Sera. A parte le troupe della Rai, a parte Carmen Lasorella e così via, c'era Alberizzi, del Corriere della Sera, che ho visto molte volte, c'era Benni, dell'Ansa, che veniva molto frequentemente, ma non ho mai saputo, né immaginato, che la sua attività potesse dare fastidio ad uno o all'altro signore della guerra. Tra l'altro, mi era sembrata una ragazza, certamente molto professionale, ma anche molto tranquilla.

PRESIDENTE. Quella dell'intervista fu un'occasione nella quale Ilaria Alpi le disse quali erano le ragioni del suo interesse per la Somalia? Infatti, l'ultima volta venne in Somalia perché c'era la partenza del contingente italiano, e questa era la ragione, almeno formale, per la quale si trovava in Somalia. Era stata in Somalia non soltanto la volta in cui lei è stato intervistato, ma anche altre volte. Aveva per la Somalia un interesse sul quale aveva insistito. Avete parlato delle ragioni dell'interesse di Ilaria Alpi per la Somalia?

MARIO SCIALOJA. No, fu un'intervista breve - mi ricordo anche dove venne effettuata - ma non mi parlò di alcun motivo. Era lì come corrispondente della Rai. Non mi accennò al fatto che il suo interesse per la Somalia fosse motivato da qualsiasi ragione, di cooperazione o altro, tanto per nominare la cooperazione.

PRESIDENTE. Ricorda l'occasione specifica in cui vi siete incontrati, durante la quale si tenne questa intervista?

MARIO SCIALOJA. No, non potrei indicare il giorno, mi dispiace.

PRESIDENTE. Non il giorno, ma la ragione, o un contesto particolare.

MARIO SCIALOJA. Forse mi fece delle domande sul motivo del trasferimento del contingente italiano, mi sembra, da Mogadiscio a Balad, ma niente di particolare, niente che mi colpì l'immaginazione, altrimenti me lo sarei ricordato.

PRESIDENTE. Non ha memoria di una riunione di riconciliazione che si tenne in quella circostanza in cui lei fu intervistato, posto che è l'unica, come lei ha detto?

MARIO SCIALOJA. Riconciliazione tra Aidid e Ali Mahdi?


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PRESIDENTE. Sì.

MARIO SCIALOJA. No, c'erano delle trattative in seno al gruppo etnico degli Hawiye, con l'imam degli Hawiye che cercava di mettere d'accordo tutti i clan che facevano parte del superclan. Ma non ho mai avuto notizia di incontri tra Aidid e Ali Mahdi, e credo che non si siano mai verificati.
C'era un certo generale Galal, che è stato, tra l'altro, anche a Roma qualche settimana fa, il quale stava normalmente a Mogadiscio nord. L'avevo visto un paio di volte. Era un generale che parlava il somalo e, benissimo, il russo, perché aveva fatto l'accademia militare a Mosca. Lui era considerato dagli Habrghedir come un traditore già allora (e adesso), quindi certamente non era un incontro o un colloquio fra clan.

PRESIDENTE. Non ha mai avuto notizia di contrasti che Ilaria Alpi potrebbe aver avuto con uno di questi clan (mi riferisco sempre ai due più importanti, cioè a quelli di Aidid e di Ali Mahdi)?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. E qualche motivo di contestazione, o di...

MARIO SCIALOJA. ...minacce?

PRESIDENTE. Questo potrebbe essere eccessivo... disappunto manifestato da uno di questi clan nei confronti di Ilaria Alpi?

MARIO SCIALOJA. No, c'era un disappunto manifestato da Ali Mahdi nei confronti del contingente militare italiano. Questo, sì. Invece, nei confronti di Ilaria Alpi, non lo credo.

PRESIDENTE. Ha saputo mai se Ilaria Alpi avesse cercato di incontrare Ali Mahdi?

MARIO SCIALOJA. Lo avrebbe potuto fare in qualsiasi momento.

PRESIDENTE. Le risulta che l'abbia fatto?

MARIO SCIALOJA. Ci metterei la mano sul fuoco, però non lo so.

PRESIDENTE. Lei pensa che l'abbia fatto?

MARIO SCIALOJA. Penso di sì.

PRESIDENTE. Rispetto alle altre presenze istituzionali italiane in Somalia - mi riferisco ancora una volta da una parte al contingente italiano, dall'altra parte al Sismi - quali erano i vostri rapporti? Quali rapporti intrattenevate? C'erano rapporti di forte collaborazione? C'erano ragioni di gestione comune di interesse o di situazione di carattere organizzativo?

MARIO SCIALOJA. No. Per quanto riguarda la missione del Sismi in Somalia, posso dire che, quando sono stato nella villa che aveva affittato Augelli, a ridosso dell'ambasciata italiana di Mogadiscio, a fianco c'era un'altra villetta - era un compound - dove c'era la delegazione del Sismi. Quindi, c'era una relazione di vicinato. Vedevo che loro ricevevano quotidianamente degli informatori somali. È chiaro: svolgevano un servizio di intelligence a supporto del contingente militare italiano.

PRESIDENTE. A lei davano informazioni?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Alcune informazioni no, ma certamente dovevano essere date informazioni riguardanti il territorio, soprattutto se fossero state relative a fonti di pericolo. È capitato che il Sismi le abbia dato informazioni sulla situazione generale, su contesti di pericolosità?

MARIO SCIALOJA. Sì. Per esempio, mi ricordo che una mattina Gianni Giusti...


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PRESIDENTE. Mi riferisco anche a movimenti con carattere religioso.

MARIO SCIALOJA. Con carattere religioso, no.

PRESIDENTE. Il Sismi, invece, registra determinate turbolenze, delle quali poi parleremo. Per esempio, da questo punto di vista, voi eravate informati di situazioni dalle quali potevano nascere dei pericoli, al di là della popolazione, per esempio, nei confronti del contingente o nei confronti degli italiani?

MARIO SCIALOJA. Nei confronti del contingente, i rapporti li faceva il contingente. Ricordo che una volta mi sconsigliarono di recarmi nell'ospedale Forlanini, dove c'era un'unità sanitaria della cooperazione, con un chirurgo (mi sembra che si chiamasse Di Roberto), perché era meglio non andare in quella zona. Così mi dissero. Quindi, quando c'era qualche situazione di pericolo, certamente mi avvertivano.

PRESIDENTE. Che rapporti c'erano con il contingente italiano.

MARIO SCIALOJA. Ottimi.

PRESIDENTE. Non mi riferisco ai rapporti personali, ma a quelli istituzionali.

MARIO SCIALOJA. Quando dicevo ottimi non mi riferivo a quelli personali. Naturalmente, mi sentivo spesso sia con Bruno Loi che con Carmine Fiore. Spesso, siamo andati da Ali Mahdi insieme. Andai da Ali Mahdi una volta con Bruno Loi, un'altra volta con Carmine Fiore, quando Ali Mahdi si lamentò per alcuni asseriti maltrattamenti di somali da parte di militari del contingente militare italiano. Intendiamoci, non sto parlando di torture, degli episodi venuti fuori su Panorama. Ricordo che Ali Mahdi fece una grande storia perché alcuni somali, arrestati giustamente dal contingente militare italiano, erano stati bendati e legati per qualche tempo, o cose di questo genere. Intrattenevo dunque un rapporto di collaborazione con Ali Mahdi, che era l'unico signore della guerra che vedevo.

PRESIDENTE. Che tipo di rapporto aveva con Aidid?

MARIO SCIALOJA. Una volta andai a fargli visita, e mi ricordo che il contingente non era contrario, nel suo quartier generale, a Mogadiscio sud, dopo aver avvertito Jonathan Howe che ci andavo. Infatti, non ho fatto la fesseria di andarci «a vacca» - mi si passi l'espressione - e mi ricordo che mi fermai con Aidid - che poi vidi di nuovo a Nairobi, un paio di volte (lì, però, eravamo fuori del contesto somalo) - mentre un elicottero volteggiava in alto. Vi rimasi però solo cinque minuti.
Quella fu l'unica volta che lo vidi a Mogadiscio.

PRESIDENTE. Con riferimento a questo rapporto con gli americani, di grande conflittualità, che fu poi la ragione per la quale lei sostituì il suo predecessore, vi sono stati sempre rapporti negativi con Aidid, che lei sappia, oppure si sono impennati in un determinato momento, che potrebbe corrispondere con quello della sua presenza in Somalia, ma avevano avuto delle sorti diverse nel passato, o le risulta che le abbiano avute successivamente?

MARIO SCIALOJA. La vera ostilità degli americani alla partecipazione di Aidid, più che del suo clan, al possibile processo di riconciliazione somalo predatava il mio arrivo a Mogadiscio e derivava da una conferenza ad Addis Abeba (uno dei tanti incontri che si tenevano); si trattava di un'ostilità i cui motivi di fondo francamente non conosco e non ho mai ben compreso. Tra l'altro gli americani con il generale Aidid hanno fatto un'ennesima cattiva figura, in quanto non sono riusciti a prenderlo. Durante l'operazione Blackhawk down il 3 ottobre 1993 ero a Mogadiscio ed ho seguito costantemente gli avvenimenti: gli americani paracadutarono i ranger della Delta force vicino all'Olimpic


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hotel, dove si supponeva fosse Aidid, ma chiaramente non c'era, e ad un certo momento i comandi americani furono letteralmente presi dal panico ed ebbero timore di perdere tutti gli uomini che avevano paracadutato lì.

PRESIDENTE. Ma prima di questa conferenza, che lei sappia, i rapporti con gli americani erano gli stessi, oppure erano migliori? Le risulta di un periodo in cui i rapporti con Aidid fossero normali?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Invece con Ali Mahdi lei che rapporti ha avuto? Da quanto mi pare di capire, più stretti.

MARIO SCIALOJA. Era l'unico che vedevo. Era un pacifico proprietario; non aveva l'aspetto del signore della guerra, e non lo aveva neanche il figlio.

PRESIDENTE. Non ne aveva l'aspetto, però era un signore della guerra.

MARIO SCIALOJA. Aveva le sue milizie.

PRESIDENTE. Quando subentra Fiore al comando del contingente italiano, per quanto lei ha potuto osservare, c'è stato un mutamento di atteggiamento nei confronti dei signori della guerra e della comunità somala? C'è stato un mutamento di strategia nei rapporti tra i rispettivi comandi?

MARIO SCIALOJA. Non credo che il problema fosse rappresentato dal generale Bruno Loi in particolare; i rapporti proseguirono come prima. Ripeto, non erano rapporti facili, perché erano viziati dall'origine. Mi spiego: quando prese avviò questa disgraziata operazione di peace-enforcing dell'Unosom 2 il Governo italiano decise di inviare un contingente militare in Somalia. Gli americani non lo gradirono affatto e non lo gradirono neanche le Nazioni Unite, perché per prassi si oppongono, o si opponevano, all'intervento in paesi ex colonie delle ex potenze coloniali. Gli americani ci diedero luce verde solo dopo una prolungata telefonata tra l'allora Presidenza del Consiglio ed il Presidente americano. Ma vi erano anche dei somali che non erano contenti, come il generale Aidid e la sua fazione, perché ci accusavano - erano stati sempre rivali del clan dei Darod di Siad Barre - di aver sempre troppo aiutato e sostenuto questo dittatore somalo. Aidid, anche prima della decisione di inviare il contingente militare, si era dichiarato assolutamente contrario all'intervento italiano; quindi noi andammo lì anche contro gli auspici di un clan certamente non molto numeroso, anzi piccolo, ma senz'altro molto prepotente.

PRESIDENTE. Lei ha parlato prima di contrasti con gli italiani. Che cosa aveva da recriminare Ali Mahdi nei confronti degli italiani all'epoca dei fatti che ci interessano?

MARIO SCIALOJA. Recriminava in continuazione, a torto - poi le dirò perché a torto -, il fatto che secondo lui il contingente italiano aveva adottato una politica di due pesi e due misure. Per esempio, nella sua opera di rastrellamento delle armi avrebbe sempre sequestrato armi delle milizie di Ali Mahdi e mai quelle di Aidid. Questo è anche spiegabile per il fatto che nella zona controllata dal contingente militare italiano, non solamente a Mogadiscio nord ma anche a Balad, erano presenti solo le milizie di Aidid. Ali Mahdi tornava spesso sull'argomento e certamente non era ben disposto nei nostri confronti, tanto che quando il contingente partì l'area pericolosa per noi non fu più Mogadiscio sud ma Mogadiscio nord.

PRESIDENTE. E come si esprimeva questa contrarietà agli italiani da parte di Ali Mahdi? Con quali iniziative?

MARIO SCIALOJA. Per quel che mi consta soltanto con proteste verbali, che espresse varie volte anche a me, non con atti di ostilità, tranne nelle ultime settimane in cui rimasi nella palazzina affittata


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a Mogadiscio nord, quando avvennero dei tiri, senza conseguenze per nessuna delle parti, contro le garitte dei militari italiani, un chiaro atto di ostilità.

PRESIDENTE. Quando si verificarono questi atti di ostilità?

MARIO SCIALOJA. Alla fine di febbraio.

PRESIDENTE. Quindi lei esclude che questa ostilità si possa essere tradotta in atti di violenza?

MARIO SCIALOJA. Questa è una domanda da un milione di euro.

PRESIDENTE. Una volta si diceva da un milione di dollari, ma oggi l'euro vale più del dollaro!

MARIO SCIALOJA. Ci sono stati scambi di fucilate nelle ultime settimane di permanenza nell'ambasciata italiana, ma non prima. Se poi questa atmosfera possa o meno avere avuto qualche influenza sull'assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, non lo so.

PRESIDENTE. Questo è il tipo di aiuto che noi vogliamo chiederle. Lei ha scandito questi passaggi, perché ha parlato di Aidid nei termini in cui ci ha parlato, anche di estrema violenza, perché nonostante fosse più «piccolo», per così dire, era più accanito; però, dell'ostilità nei confronti degli italiani, almeno da quanto sappiamo, da parte di Aidid non ci sono state mai manifestazioni concrete. Le ostilità si sono manifestate soltanto da parte del clan di Ali Mahdi e si sono espresse con la protesta, con la rimostranza nei confronti delle istituzioni italiane presenti in Somalia, ma hanno dato luogo a qualche episodio che lei ha ricordato e anche a qualche fucilata. È soltanto Ali Mahdi a protestare.

MARIO SCIALOJA. No, ci sono stati scontri con Aidid.

PRESIDENTE. Parlo dei rapporti con gli italiani.

MARIO SCIALOJA. Anche con gli italiani. C'è il famoso episodio avvenuto prima del mio arrivo a Mogadiscio contro il posto di blocco «Pasta».

PRESIDENTE. D'accordo, ma quello è tutto un altro contesto.

MARIO SCIALOJA. Ci furono vari interventi...

PRESIDENTE. Dal punto di vista della specificità delle aggressioni, questa è l'epoca intorno alla quale ruota anche la vicenda concernente Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Non voglio dire il 20 marzo, perché sarebbe semplicistico, ma in quel torno di tempo era soltanto il clan di Ali Mahdi a manifestare disappunto ed ostilità?

MARIO SCIALOJA. Sì, perché non c'erano più contatti con il clan di Aidid. Il contingente italiano si trovò ad affrontare le milizie di Aidid anche in altre occasioni, per esempio andando in soccorso di un gruppo di militari di un contingente asiatico che era stato preso di mira da un contingente di Aidid. Quindi, scontri tra contingente italiano e milizie di Aidid ci sono stati, però predatano.

PRESIDENTE. Esatto. Siamo pienamente in sintonia su questo punto. Le aggressioni o comunque le manifestazioni di disappunto che potevano assumere, magari anche involontariamente, magari per eccesso di zelo oppure perché gli ordini venivano eseguiti male, o di protesta, Ali Mahdi come poteva metterle in atto? Aveva delle squadre, dei gruppi di persone per questo? Poteva rivolgersi a qualcun altro per manifestare questo suo disappunto?

MARIO SCIALOJA. Non le mise in atto; l'ultima diatriba tra Ali Mahdi ed il contingente avvenne quando il contingente italiano stava partendo ed Ali Mahdi, in


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maniera un po' ingenua, se di ingenuità vogliamo parlare, chiese a Carmine Fiore di restituirgli le armi sequestrate alle sue milizie. Naturalmente Fiore non accolse la richiesta e le consegnò al comando dell'Unosom.

PRESIDENTE. È vero che queste armi se le vendevano?

MARIO SCIALOJA. Beh, quello che i somali facessero, non lo so. Certo che in questo Bakara market si poteva comprare anche un passaporto diplomatico somalo, ma non ci ho mai pensato...

PRESIDENTE. Ma il contingente italiano se le vendeva le armi?

MARIO SCIALOJA. No, no.

PRESIDENTE. Sicuro?

MARIO SCIALOJA. Sicuro. Beh, non lo so se ci sia stato qualche caso, ma mi sembrerebbe veramente strano.

PRESIDENTE. D'altra parte sarebbero rimaste lì come ferrovecchio, alla fine, e quindi monetizzarle poteva essere utile.

MARIO SCIALOJA. Non credo proprio.

PRESIDENTE. Ali Mahdi aveva delle squadre, delle formazioni, un esercito? Come era organizzato?

MARIO SCIALOJA. Chiamarlo un piccolo esercito forse è eccessivo; aveva certamente delle bande armate.

PRESIDENTE. Cosa facevano queste bande armate, per quelle che erano le sue consapevolezze?

MARIO SCIALOJA. Fortunatamente non ci facevano molto né lui né Aidid, nel senso che, a parte episodi sporadici, c'era un controllo territoriale più o meno efficace da parte dell'Unosom e dei vari contingenti militari, per cui i signori della guerra non avevano grande libertà di movimento. Quello fu un periodo relativamente pacifico all'interno della Somalia, grazie al controllo dell'Unosom; dopo sono accadute cose ben peggiori. Un mese fa sono morte 80 persone tra l'ex British Somaliland e la Migiurtinia.

PRESIDENTE. Nel periodo immediatamente antecedente, anche se non proprio a ridosso, verso la fine del 1993, c'erano stati alcuni agguati nei confronti...

MARIO SCIALOJA. Degli americani.

PRESIDENTE. No, anche degli italiani. Era avvenuto l'omicidio Li Causi, era stata uccisa una suora, Cristina Luinetti. Lei si è interessato di questi fatti? Era in servizio lì?

MARIO SCIALOJA. Io ero lì per due episodi. In primo luogo, per l'uccisione di due militari del contingente italiano che facevano jogging al porto nuovo e che furono presi di mira da due cecchini proprio come al tiro a segno.

PRESIDENTE. Il porto nuovo sarebbe a Mogadiscio nord?

MARIO SCIALOJA. Tra nord e sud. Si tratta di un porto che venne costruito, con un progetto dell'allora Comunità economica europea, negli anni settanta. Il secondo episodio fu il gravissimo fatto della morte della suora, che avvenne quasi di fronte all'ingresso dell'ex ambasciata italiana a Mogadiscio; una persona, che probabilmente voleva soldi, entrò, tenne a bada tutti, venne catturato dai militari del contingente, venne arrestato ed interrogato per qualche ora e poi venne consegnato all'Unosom.

PRESIDENTE. Questi episodi, dei quali lei si è potuto interessare e che ha potuto vedere da vicino, come si collocano, quanto a procedure, ad approfondimenti da parte vostra, rispetto a tutto quello che ci siamo detti fino a questo momento relativamente ad Aidid e ad Ali Mahdi? Come li colloca lei?


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MARIO SCIALOJA. Quanto all'omicidio dei due militari uccisi al porto, non si sa chi sia stato: potrebbero essere stati dei miliziani di Aidid, di Ali Mahdi o di Kanyare. Quanto all'episodio della suora, penso sia stato un fatto di criminalità, mentre Li Causi no, morì...

PRESIDENTE. Criminalità attuata da chi? Dagli uomini dei due clan?

MARIO SCIALOJA. È probabile, ma non credo assolutamente che si sia trattato di un episodio attuato solo da Ali Mahdi o Aidid.

PRESIDENTE. Io non sto dicendo questo. Vorrei solo capire chi aveva la possibilità di esercitare violenza; dato che i clan devono accordare il permesso per qualsiasi cosa, è chiaro che se si commette un fatto delittuoso nel territorio sotto il controllo di Ali Mahdi o di Aidid si deve parlare di persone che rientrano nell'una o nell'altra formazione, per così dire. Poi, che sia stato Ali Mahdi o che sia stato Aidid, questo è un discorso ulteriore. Ma in quel contesto quale poteva essere la ragione per cui si riteneva di dover giungere ad episodi così gravi come l'uccisione dei due giovani e della suora? Sono tutte situazioni che ci riguardano da vicino.

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. Lei prima ha detto che non c'erano ragioni particolari per cui la protesta potesse trasbordare in episodi di violenza nei confronti degli italiani, però questi tre episodi confermano esattamente il contrario, a cominciare da Li Causi. Secondo lei dove si colloca Li Causi?

MARIO SCIALOJA. Li Causi morì a Balad.

PRESIDENTE. Sì, ma discutendo di organigrammi?

MARIO SCIALOJA. Era nell'autoblindo del contingente che aveva proceduto ad una perlustrazione sulla strada tra Balad e Johar, ex Villaggio Duca degli Abruzzi, e tornando furono presi di mira da una banda di armati, che spararono, e purtroppo Li Causi morì. Chi fossero questi armati francamente potrebbe dirglielo Carmine Fiore.

PRESIDENTE. Di chi era il territorio?

MARIO SCIALOJA. Era un po' al confine tra il territorio di Aidid e quello dei clan del centro, che controllavano anche la zona di Johar, ex Villaggio Duca degli Abruzzi. Non ricordo esattamente quale.

PRESIDENTE. Di chi era il territorio di Li Causi?

MARIO SCIALOJA. Grosso modo Ali Mahdi confina con questo territorio.

PRESIDENTE. Di chi era il territorio dove sono stati uccisi i due che praticavano jogging? Anche questo era di Ali Mahdi?

MARIO SCIALOJA. No, era il porto nuovo, Mogadiscio sud. All'uscita del porto avvenivano frequentemente degli scontri occasionali, episodi di non grande importanza tra le bande di Ali Mahdi e di Aidid. Anche un esperto della cooperazione, un certo Oliva, rimase gravemente ferito in uno di questi scontri proprio all'uscita del porto nuovo.

PRESIDENTE. E la suora?

MARIO SCIALOJA. L'uccisione della suora è avvenuta in pieno territorio di Ali Mahdi, però la natura e le modalità dell'episodio non facevano assolutamente pensare ad un'azione autorizzata o tollerata da lui.

PRESIDENTE. Questo non glielo ho chiesto, sono cose che dobbiamo approfondire noi. La risposta potrebbe essere intesa nel senso che non le risulta che possa essere stato Ali Mahdi a dare l'incarico di uccidere questa suora.


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MARIO SCIALOJA. È così.

PRESIDENTE. Non le risulta.

MARIO SCIALOJA. È una mia opinione.

PRESIDENTE. Chi era Franco Oliva?

MARIO SCIALOJA. Era un esperto della cooperazione; mi sembra avesse qualcosa a che fare con l'approvvigionamento idrico. Un giorno rimase vittima di uno scontro fra bande delle due fazioni mentre transitava di fronte al porto nuovo. Non so se lo abbia dichiarato o sia risultato, ma sembra che andasse in qualche spaccio per comprare generi alimentari o altri prodotti. Comunque ebbe la disgrazia di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, e venne ferito. Lui mosse delle rivendicazioni nei confronti del ministero, in parte giustificate, perché il ministero non doveva di mandare del personale in una zona come la Somalia di allora senza un'adeguata copertura assicurativa.

PRESIDENTE. Lei cosa può dire su questo ferimento?

MARIO SCIALOJA. Se la pallottola sia partita dal fucile di Ali Mahdi o di Aidid proprio non lo so.

PRESIDENTE. Lei ha fatto in modo che si svolgessero delle indagini? Si è interessato affinché si potesse chiarire l'episodio, tanto più che credo che Oliva si sia lamentato anche con lei, almeno da quanto ci risulta, di quanto gli era successo? Si ricorda che Oliva si lamentò con lei?

MARIO SCIALOJA. Forse dopo. Lì per lì non mi sembra.

PRESIDENTE. Si lamentò con lei e con il Ministero degli affari esteri.

MARIO SCIALOJA. Con il Ministero degli affari esteri sì, eccome!

PRESIDENTE. Furono svolte indagini per cercare di capire come fossero andate le cose e chi avesse attuato l'attentato?

MARIO SCIALOJA. Diciamo che non era un attentato ad Oliva. Egli si trovò in mezzo ad uno scontro a fuoco.

PRESIDENTE. Quindi secondo lei fu un fatto casuale.

MARIO SCIALOJA. Fu un fatto casuale.

PRESIDENTE. Ma una casualità accertata oppure ritenuta?

MARIO SCIALOJA. Ritenuta, a fronte di quello che succedeva.

PRESIDENTE. Perché secondo lei era un fatto casuale?

MARIO SCIALOJA. Perché l'uscita del porto di Mogadiscio sud era una zona di scontri molti frequenti, in quanto il porto era ancora moderatamente operativo e chiaramente era un punto di grande tensione fra le fazioni che si combattevano. Oliva fu certamente vittima di una disgrazia; era nel punto sbagliato nel momento sbagliato. Non fu un attentato mirato contro di lui, perché non ne sarebbe uscito vivo.

PRESIDENTE. Sa se Marocchino abbia avuto qualche parte nella vicenda di Oliva? C'è una letteratura su questo punto e quindi glielo devo chiedere. Non le risulta nulla?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Noi non vogliamo sapere i suoi fatti personali, ma dato che vogliamo capire le chiedo se all'epoca di cui stiamo parlando, agosto 1993, si fosse già convertito alla religione islamica.

MARIO SCIALOJA. Sì. Alberizzi del Corriere della sera lo sapeva. Gli dissi di


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farmi il piacere, trattandosi di un fatto personale, di non pubblicarlo, e lui non lo fece. Ma lì lo sapevano tutti.

PRESIDENTE. Come ha saputo dell'omicidio dei giornalisti? Dov'era quando si verificò?

MARIO SCIALOJA. Ero nel mio ufficio nel compound dell'ex ambasciata americana e lo appresi da una telefonata di Marocchino ad un esperto della cooperazione, Annibale Angelozzi, tra le 15.30 e le 16 del 20 marzo, per avvertirlo che due giornalisti italiani erano stati uccisi.

PRESIDENTE. Questa è la comunicazione che avete avuto?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. C'è stata qualche altra comunicazione ufficiale?

MARIO SCIALOJA. No, quel giorno no. Questa è stata la comunicazione che poi ha messo in moto tutto il meccanismo.

PRESIDENTE. E che avete fatto, quando avete saputo questa notizia?

MARIO SCIALOJA. Io ero nell'impossibilità di muovermi perché le autovetture erano al porto nuovo per l'imbarco di un po' di materiale e di una parte dei componenti della scorta. La situazione a Mogadiscio in quel momento era estremamente delicata. Io avevo avvisato tutti i giornalisti di spostarsi da Mogadiscio nord e di andare a Mogadiscio sud, in particolare in un albergo che si trovava in località Quarto chilometro. Quella volta purtroppo non vidi Ilaria, perché non mi venne a trovare, altrimenti l'avrei vivamente consigliata di restare a Mogadiscio sud, in albergo, buona e zitta. Credo che glielo abbia consigliato il generale Fiore di non circolare, almeno mi sembra. Per gli italiani era un momento di pericolo...

PRESIDENTE. Quindi lei non andò perché non era nelle condizioni di farlo.

MARIO SCIALOJA. Certo, e poiché ebbi timore per il personale delle altre ONG italiane che si trovavano a Mogadiscio nord, mi misi in contatto con loro - avevamo contatti con la cooperazione e con tutte le ONG tramite l'unità tecnica, tramite radio - e li avvisai avvertendoli di lasciare se possibile i propri uffici e di rifugiarsi sulla Garibaldi, la nave ammiraglia della flotta italiana. I dipendenti di una di queste organizzazioni, non ricordo quale...

PRESIDENTE. Ma fu data disposizione a qualcuno di recarsi sul posto per vedere cosa fosse successo? Marocchino, tramite Angelozzi, non disse che erano morti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ma disse che un giornalista era morto e che Ilaria era ancora in vita.

MARIO SCIALOJA. No, io ricevetti la notizia che erano morti tutti e due.

PRESIDENTE. La ricevette un po' più tardi.

MARIO SCIALOJA. Anche la natura delle ferite riportate...

PRESIDENTE. A parte questo, lei non c'è andato. Ha dato incarico a qualcuno di andare?

MARIO SCIALOJA. No, perché sapevo che era già sul luogo il personale del contingente militare. Anche il signor Tedesco si recò sul posto, perché era al porto nuovo con le vetture...

PRESIDENTE. Lei l'ha saputo dopo, però, che Tedesco era andato là.

MARIO SCIALOJA. No, l'ho saputo subito.

PRESIDENTE. Chi glielo ha detto e come?

MARIO SCIALOJA. Per radio.


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PRESIDENTE. Quindi lei ebbe notizia da Tedesco per radio che tutti i soccorsi possibili erano partiti.

MARIO SCIALOJA. Sì, ho parlato al telefono con qualcuno dei militari, sempre tramite la cooperazione, e si recarono immediatamente sul posto.

PRESIDENTE. Tedesco o chi altri?

MARIO SCIALOJA. Non solamente lui. Lui era su una camionetta dove c'era del personale militare.

PRESIDENTE. Vorrei ricostruire bene: Marocchino, attraverso Angelozzi, comunica che due giornalisti sono morti. Lei, su mia domanda se Marocchino abbia fatto sapere che Ilaria Alpi era ancora in vita, ricorda che erano morti tutti e due.

MARIO SCIALOJA. Esatto.

PRESIDENTE. Dopo di ciò, lei non si reca sul posto perché era preoccupato per le altre ONG.

MARIO SCIALOJA. Perché sapevo che c'era già personale del contingente.

PRESIDENTE. L'ha saputo, come lei ha detto, via radio: da parte di chi? Noi accerteremo questo fatto, per riscontrarlo. Da Tedesco? Chi altri poteva essere stato a parlare con l'ambasciatore?

MARIO SCIALOJA. Non con me, ma sempre con l'unità tecnica. Io non avevo la radio in mano.

PRESIDENTE. L'unità tecnica dell'Unosom?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Sua?

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. Sua, dell'ambasciatore Scialoja?

MARIO SCIALOJA. No, del ministero.

PRESIDENTE. Beh, certo, non è personale.

MARIO SCIALOJA. Comunque io seppi passo per passo che c'era personale militare, che erano stati già presi contatti con la marina militare, con la Garibaldi, che era già stato disposto il trasferimento dei corpi al porto vecchio. L'incidente era avvenuto un po' prima dell'hotel Hamana. Per arrivare dal compound nell'ambasciata al porto vecchio occorrono forse tre minuti in automobile. Ho seguito la vicenda punto per punto: ho saputo che erano stati portati via e che erano stati presi a bordo della Garibaldi.

PRESIDENTE. Vezzalini è stato avvertito da lei?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Presso l'hotel Hamana, che lei ha ora ricordato, le risulta che fosse presente una pattuglia di Unosom?

MARIO SCIALOJA. Vezzalini disse - un rapporto assolutamente insoddisfacente redatto dall'Unosom - che quando la macchina di Ilaria Alpi passò da Mogadiscio sud a Mogadiscio nord il posto di controllo dell'Unosom, situato presso l'ex Casa del fascio, l'assemblea parlamentare somala, vide che era seguita da due macchine, mi sembra una Land Rover di colore blu e l'altra non ricordo. Che una pattuglia dell'Unosom fosse sul posto proprio non l'ho mai assolutamente sentito. Credo che non vi fosse.

PRESIDENTE. Qualcuno le fece presente che la strada per andare sul luogo in cui si era verificato il fatto era interrotta? Come lo seppe? Glielo disse Tedesco?

MARIO SCIALOJA. Quale strada?

PRESIDENTE. Quella che portava verso l'hotel Hamana.


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MARIO SCIALOJA. Ma da dove, scusi?

PRESIDENTE. Da dove si sarebbe dovuto recare lei.

MARIO SCIALOJA. A parte il fatto che non avevo la macchina e che non potevo andarci, la strada non era interrotta.

PRESIDENTE. Poteva farsi accompagnare da qualcuno, o no?

MARIO SCIALOJA. E da chi?

PRESIDENTE. Non avevate personale americano o italiano che poteva darvi...

MARIO SCIALOJA. Gli americani non mi avrebbero dato una macchina neanche se mi fossi messo in ginocchio.

PRESIDENTE. Perchè? Una macchina, no, ma personale che la potesse accompagnare sul posto, certamente sì.

MARIO SCIALOJA. Presidente, il comando dell'Unosom distava circa 500 metri da dove ero io; a piedi sarebbero occorsi pochi minuti. Non so se mi avrebbero dato una macchina, perchè non è che fossero estremamente cooperativi in questo senso. In ogni caso, poi, avevo delle cose più importanti da fare, perché ho avuto paura per i connazionali residenti a Mogadiscio nord. In effetti i dipendenti di una delle ONG prese sul serio il mio avvertimento e andarono a trascorrere la notte sulla Garibaldi. Non era una situazione semplice.

PRESIDENTE. Il 10 aprile lei ha dichiarato al PM dottor Pititto: «Questo posto di controllo dove si trovavano i militari delle Nazioni Unite si trovava a due terzi e forse anche a tre quarti del percorso tra i due suddetti alberghi verso l'albergo Hamana; era cioè un posto di controllo situato a circa un chilometro e mezzo dall'albergo nella zona Mogadiscio nord».

MARIO SCIALOJA. È quello che le dicevo io, dove hanno avvistato la macchina.

PRESIDENTE. «Io seppi ciò via radio dall'intervento dei militari. In ambasciata non avevo altri veicoli e comunque, se anche ne avessi avuti, non mi sarebbe stato possibile mandare degli uomini in tempo utile, in quanto la strada diretta ambasciata-luogo dell'attentato era stata interrotta per disposizione del comando delle Nazioni Unite».

MARIO SCIALOJA. Sì. Forse interrotta è un termine...

PRESIDENTE. «Sicché per coprire il tratto bisognava percorrere una lunga strada di circonvallazione, in parte sterrata, che dall'ambasciata giungeva al mare, in località Jezira, e quindi l'aeroporto e la città, lunga circa 27 chilometri».

MARIO SCIALOJA. Esatto.

PRESIDENTE. Chi le diede questa comunicazione, che - mi pare di capire dalle dichiarazioni che lei ha fatto all'autorità giudiziaria - è stata la ragione per la quale lei non è andato?

MARIO SCIALOJA. Certo. Ho anche firmato.

PRESIDENTE. Chi le disse che era interrotta?

MARIO SCIALOJA. Interrotta forse è un termine un po' forte. Era vietata dall'Unosom perchè considerata troppo pericolosa, per cui era obbligatorio percorrere la strada che passava per una circonvallazione e andava alla centrale elettrica ormai in disuso di Jezira.

PRESIDENTE. Questa è la situazione. Gli elicotteri ci sarebbero potuti andare? Ci sono state occasioni in cui sono stati utilizzati, in casi analoghi a questo, o comunque in situazioni di emergenza, che a lei risulti?


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MARIO SCIALOJA. Gli elicotteri hanno preso a bordo i due corpi al porto vecchio. Non credo che in quel momento il contingente italiano avesse degli elicotteri operativi, perchè ormai a terra erano rimasti pochissimi uomini. Comunque per un elicottero atterrare nella strada in cui c'era l'hotel Hamana è un po' problematico, in quanto si tratta di una strada stretta e con una certa pendenza.

PRESIDENTE. Come ha valutato il fatto che Marocchino si trovasse sul posto o comunque fosse giunto immediatamente dopo l'uccisione dei due ragazzi? Ha mai pensato a possibili coinvolgimenti di Marocchino in questa vicenda?

MARIO SCIALOJA. Assolutamente no.

PRESIDENTE. Come valuta questa presenza? Tra tutti - contingenti militari, ambasciata e Servizi - arriva Marocchino! Se non c'era Marocchino anche in questa situazione, le nostre provvidenze non avrebbero funzionato. Purtroppo in questo caso...

MARIO SCIALOJA. Che le devo dire? Marocchino è stato disgraziato, ha avuto sfortuna, nel senso che stava tornando a casa sua quando, arrivato ai piedi di una salita che portava all'ex residenza...

PRESIDENTE. Questo glielo ha detto Marocchino?

MARIO SCIALOJA. Sì, poi l'ho saputo anche da cose che Marocchino... Fu fermato da un somalo che lo avvisò che c'era stato questo attentato. Marocchino, che avrebbe fatto più o meno la stessa strada per andare a casa sua, si precipitò sul posto; data la distanza e data la strada, che è a due corsie con i giardini in mezzo, deve averci messo veramente poco più di una manciata di secondi per arrivare sul posto. Lui fu avvertito fortuitamente di questo tragico evento; non è che si trovasse lì per fare qualche cosa, ma stava semplicemente andando a casa sua.

PRESIDENTE. A proposito dei materiali che Marocchino recuperò - mi riferisco alla macchina fotografica di Ilaria Alpi, al block-notes, al registratore e così via - lei fu informato di questi prelievi?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Da chi?

MARIO SCIALOJA. Da personale della scorta, del contingente, anche dell'altro materiale che fu prelevato...

PRESIDENTE. «Personale della scorta, del contingente»: che significa?

MARIO SCIALOJA. Da militari, forse anche da Alfredo Tedesco.

PRESIDENTE. «Forse anche da Alfredo Tedesco»: non può essere più preciso su questo punto?

MARIO SCIALOJA. No, mi dispiace. Fu prelevato anche altro materiale nella stanza d'albergo di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin da colleghi giornalisti che andarono loro stessi a bordo della Garibaldi e passarono la notte lì.

PRESIDENTE. Lei ha incontrato i giornalisti Porzio e Simoni? Ci ha parlato?

MARIO SCIALOJA. No. Benni dell'ANSA, sì. Sapevo che si erano trasferiti, che avevano lasciato l'hotel Hamana, che era un po' il luogo di residenza abituale dei giornalisti che erano andati al Quarto chilometro. Ero a conoscenza fin dall'inizio di questi due set di materiali presi da Marocchino a bordo della macchina e di quelli presi dai giornalisti nella stanza d'albergo di Ilaria e del suo cameraman.

PRESIDENTE. In tempi successivi lei ha avuto modo di incontrare o di parlare con l'autista e con la guardia del corpo di Ilaria Alpi? Sa chi fossero?

MARIO SCIALOJA. No.


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PRESIDENTE. Non ha mai saputo chi fossero né ci ha mai parlato.

MARIO SCIALOJA. No. Io chiesi subito a Vezzalini, che sostituiva temporaneamente il capo dei servizi, che era un asiatico (ora non ricordo chi fosse) che era in vacanza. Era il numero due della polizia dell'Unosom. L'unica autorità che potesse svolgere attività di polizia, interrogare e fermare gente era l'Unosom, perchè il contingente militare italiano ormai non esisteva più; c'era a terra poca gente accampata nei pressi dell'aeroporto in attesa di imbarcarsi. Del Sismi c'era solamente Alfredo Tedesco. Il controllo del territorio e qualsiasi attività di polizia poteva essere svolta soltanto dall'Unosom, ma non credo che abbia fatto molto.

PRESIDENTE. Lei personalmente non ha svolto indagini? Non era compito suo...

MARIO SCIALOJA. No, non è che non fosse compito mio, è che non avrei saputo proprio da dove cominciare.

PRESIDENTE. Lei era tutelato dai Carabinieri del Tuscania; mi diceva prima appunto che sarebbe stato possibile, in altre circostanze, essere accompagnato in una certa località. I Carabinieri del Tuscania sono stati da lei interessati in qualche modo perchè potessero raccogliere immediate informazioni? Questo lo dico anche perchè l'ambasciatore Cassini, che è suo collega, ha avuto invece incarichi precisi di svolgere indagini ed investigazioni. Ha fatto pure troppo, oppure troppo poco - questo lo stabiliremo -, però il fatto di essere ambasciatori non è in contraddizione o in conflitto permanente con l'attività di acquisizione di informazioni e notizie sulla sorte di due cittadini italiani che muoiono nel luogo in cui si esercitano le proprie funzioni. Da quanto ho capito, lei non ha svolto indagini. Ha dato disposizioni a qualcuno di svolgerle? Più in generale, lei sa se qualcuno abbia fatto indagini su questa vicenda? Italiani, somali, polizia, parapolizia?

MARIO SCIALOJA. L'Unosom.

PRESIDENTE. E che tipo di indagini ha svolto?

MARIO SCIALOJA. Polizia e parapolizia somale non esistevano. Il momento di Cassini e il mio erano ben differenti, perchè quando c'ero io...

PRESIDENTE. Certo. Cassini viene sicuramente dopo. Però vorrei capire: per quel che riguarda la parte italiana, il contingente che partiva, i Servizi che restavano...

MARIO SCIALOJA. La cosa è stata demandata all'Unosom d'accordo e con istituzione...

PRESIDENTE. Ma c'era un servizio di intelligence all'Unosom, che lei sappia?

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. Lei si è preoccupato di capire se effettivamente svolgessero indagini o se si fosse creduto fin dall'origine che quella era stata una disgrazia nella quale erano capitati i due giornalisti?

MARIO SCIALOJA. Ma che disgrazia!

PRESIDENTE. Allora, dato che sicuramente - come lei più volte ha detto e che con questa battuta sta a ribadire - di tutto si trattava meno che di una disgrazia, le domando: dato che l'Unosom era dotato di un servizio di intelligence, oltre che di persone che potevano svolgere investigazioni, lei ha ritenuto di potersi interessare presso questo organismo perchè effettivamente le svolgessero e soprattutto nei primissimi tempi, che erano quelli più importanti per poter raccogliere elementi per l'individuazione dei colpevoli di questo duplice omicidio, oppure si è affidato all'Unosom, perché era compito suo, e questo era quanto poteva fare un ambasciatore?


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MARIO SCIALOJA. Sono andato da Vezzalini il giorno stesso e ci sono tornato più volte. Alla fine mi trasmisero un rapporto, non ricordo in quale data, forse alla fine di marzo, primissimi di aprile. Io lo inviai al ministero giudicandolo insoddisfacente e seguitando a fare pressioni; è chiaro che stavo alle calcagna dell'Unosom e di Vezzalini stesso.

PRESIDENTE. E invece per quello che riguarda il contingente italiano e il Sismi, che lei sappia, non sono state fatte indagini? Oppure sono state fatte? Per esempio, ad un certo punto, quando parte il contingente, lei dice a Tedesco di rimanere a Mogadiscio. Le chiedo innanzitutto se sia vera o no questa circostanza. La ragione di questa richiesta stava anche nel fatto che era necessario seguire le indagini sulla morte dei due giornalisti, oppure le ragioni erano altre? Se sì, quali?

MARIO SCIALOJA. Indagini sulla morte dei giornalisti, no, ma indubbiamente la delegazione del Sismi aveva contatti con una serie di informatori somali. Quindi, la presenza di Tedesco a Mogadiscio poteva avere importanza per quello. Chiaramente, non poteva fare indagini, perché gli mancavano gli strumenti.

PRESIDENTE. Quindi, la richiesta di permanenza non fu collegata con le esigenze di indagine sulla morte di questi due giornalisti?

MARIO SCIALOJA. In senso indiretto, nel senso che lui non poteva andare in giro a interrogare o a fermare la gente, perché non aveva le possibilità materiali per farlo, ma, disponendo il Sismi di una rete di contatti e di informatori, poteva rivestire una sua utilità.

PRESIDENTE. Quando partì Rajola?

MARIO SCIALOJA. Innanzitutto, Rajola non è stato mai permanentemente a Mogadiscio. È venuto due o tre volte.

PRESIDENTE. E rispetto al giorno dell'omicidio? Sappiamo che il giorno dell'omicidio si trovava altrove?

MARIO SCIALOJA. Era partito quattro o cinque giorni prima, quando partì il grosso dei suoi.

PRESIDENTE. Quella costituita presso Unosom era una commissione di indagine o no?

MARIO SCIALOJA. Fu svolta un'indagine, ma per quello che ne so io non nominarono commissioni.

PRESIDENTE. Mi riferisco ora ad una dichiarazione che ha già reso all'autorità giudiziaria, secondo la quale lei aveva saputo che l'auto di Ilaria Alpi era stata seguita da una o da due autovetture, sin dalla partenza dal Sahafi, e che questo fatto sarebbe stato notato in coincidenza con il passaggio attraverso uno o due check point delle Nazioni Unite.

MARIO SCIALOJA. Me lo disse Vezzalini.

PRESIDENTE. Ce la può riferire con precisione? Che cosa disse con precisione Vezzalini? Quando glielo disse, innanzitutto?

MARIO SCIALOJA. Qualche giorno dopo, forse uno o due giorni dopo.

PRESIDENTE. In occasione della richiesta da parte sua di informazioni sull'andamento delle indagini?

MARIO SCIALOJA. No, in uno dei miei contatti successivi, perché quando gli chiesi di effettuare delle indagini praticamente i due corpi non erano ancora sulla nave da guerra. Mi disse che da questo checkpoint delle Nazioni unite, situato più o meno in una zona delicata e di passaggio tra Mogadiscio nord e Mogadiscio sud, era stata notata la macchina di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, seguita da due autovetture.


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Ora non vorrei sbagliarmi, ma mi sembra che una fosse una Land Rover o una Range Rover di colore blu.

PRESIDENTE. Da quando parte dal Sahafi per andare all'hotel Hamana?

MARIO SCIALOJA. No, al momento del passaggio a questo checkpoint.

PRESIDENTE. Venendo dal Sahafi?

MARIO SCIALOJA. Sì. La cosa che mi incuriosì un po' fu che in tutti gli eventi successivi all'attacco e l'assassinio mi sembra si sia parlato sempre di una sola macchina di inseguitori. Ma non vorrei sbagliare, perché sono eventi ormai accaduti un po' di tempo fa... Vezzalini mi parlò definitivamente di due macchine che seguivano la vettura di Ilaria Alpi.

PRESIDENTE. Leggo: «Ilaria Alpi e il suo operatore sono stati uccisi con chiara determinazione. Lo ha detto l'ambasciatore italiano Mario Scialoja, inviato a Mogadiscio dalla Farnesina, che ha ricostruito le fasi dell'episodio, confermando in sostanza i particolari appresi fino a questo momento. I due giornalisti erano arrivati a Mogadiscio nord provenendo dalla parte sud dove alloggiavano, probabilmente per incontrare due colleghi che erano ospiti dell'albergo Hamana, di fronte all'ex ambasciata italiana. Proprio accanto a quella villa si trovavano le palazzine nelle quali, fino a dieci giorni, fa avevano alloggiato tutti i componenti della missione diplomatica»...

MARIO SCIALOJA. Dieci giorni fa? Un po' di più.

PRESIDENTE. ...«speciale italiana e personale della cooperazione. Tutti questi si sono trasferiti di recente nel complesso Unosom, al settimo chilometro della strada Afgoi. Ad un posto di blocco di caschi blu nigeriani, i militari, ha detto l'ambasciatore Scialoja, avevano notato la vettura di Alpi, seguita a distanza da una Land Rover blu e con a bordo sei persone armate. È stata proprio questa vettura che ha affiancato l'automobile con i giornalisti. Ne sono scesi sei armati, hanno aperto le portiere dell'auto e hanno fatto fuoco contro Alpi e Hrovatin». Allora, questo è un comunicato stampa del 20 marzo del 1994 e le vengono messe in bocca queste parole.
Innanzitutto, le chiedo: lei conferma di avere riferito queste cose ai giornalisti? Corrisponde alle sue consapevolezze del momento (siamo al 20 marzo)?

MARIO SCIALOJA. No, guardi, onestamente mi sembra che fossero due le macchine, a parte la Land Rover blu. Mi sembra veramente che le macchine fossero due. Comunque, il fatto che la macchina era stata affiancata e che avessero sparato, eccetera, erano notizie che erano venute dall'autista e guardia del corpo di Ilaria Alpi.

PRESIDENTE. Quindi, lei riferisce queste circostanze?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. In questo senso, qui si parla di una sola macchina, la Land Rover.

MARIO SCIALOJA. Ho la netta impressione di ricordarmi che fossero due, anche se non vorrei sbagliarmi.

PRESIDENTE. Può darsi pure che sbagli il giornalista, per carità.
Comunque, il contesto di questo comunicato stampa che noi abbiamo letto è confermato dall'ambasciatore Scialoja.
Lei, come ha ricordato poc'anzi, ebbe da Vezzalini (esattamente in data 24 marzo 1994) un rapporto.

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. In questo rapporto si parlava di due attentatori feriti e trasferiti all'ospedale di Mogadiscio. Lei ha verificato se questa circostanza corrisponde a verità, oppure no?


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MARIO SCIALOJA. Non l'ho potuta verificare.

PRESIDENTE. In allegato, in data 1o aprile 1994, è pervenuta una nota: «Incidente nei pressi dell'ambasciata d'Italia. Generalità. Come è noto, nell'incidente in oggetto hanno perso la vita due...», eccetera. «Le informazioni contenute. Gli assalitori: sei uomini armati, attendevano a bordo di una Land Rover di colore blu, parcheggiata di fronte all'hotel. I due giornalisti, scortati da una guardia del corpo armata, hanno lasciato l'hotel a bordo di un'autovettura, guidata da un autista locale, pochi minuti prima delle 16. Hanno seguito l'auto dei giornalisti per circa cento metri, fino all'incrocio di via Treves con corso della Repubblica, poi, dopo averla superata, l'hanno stretta verso il marciapiede, impedendole di proseguire. A questo punto, c'è stata l'immediata reazione dell'uomo di scorta che ha aperto il fuoco contro gli assalitori, uccidendone uno e ferendone un altro. Contemporaneamente, l'autista inseriva la retromarcia e tentava di allontanarsi dal luogo d'attacco. Lo scambio di fuoco tra gli assalitori e la guardia del corpo è durato uno o due minuti, poi i banditi hanno rapidamente abbandonato la scena dell'incidente. Rimanevano sul luogo due italiani uccisi, la guardia del corpo lievemente ferita, e l'autista illeso. Ad incidente concluso, è intervenuta una pattuglia della polizia somala, che ha provveduto a recuperare i corpi e a trasferirli al porto. Gli assalitori erano sei: cinque awad e un abgal. Il ferito è l'abgal. Al momento è ricoverato all'ospedale Keinsainei. L'organizzazione dell'attacco è Abar, un abgal capobanda di delinquenti».

MARIO SCIALOJA. È la prima volta che sento queste informazioni.

PRESIDENTE. Quindi, lei non si è preoccupato di capire se fosse vero o no quello che scriveva Vezzalini in questo rapporto?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Ne ha preso atto?

MARIO SCIALOJA. Sì. Comunque, che la Land Rover blu fosse ferma di fronte all'hotel Hamana contrasta con quanto mi disse Vezzalini, e io ho sempre saputo, e cioè che la seguiva da Mogadiscio sud e che era stata vista transitare da quel posto di controllo dell'Unosom a due chilometri abbondanti prima della strada che portava all'ingresso dell'ambasciata d'Italia.
Vorrei anche dirle che quando si parla di parla di Auadlei e di Abgal, eccetera, si parla di gente della parte di Ali Mahdi.

PRESIDENTE. A lei risulta che Ilaria Alpi andò a Bosaso?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Le risulta che dopo il ritorno da Bosaso parlò con il generale Fiore?

MARIO SCIALOJA. È possibile.

PRESIDENTE. Questa fu l'occasione nella quale Fiore fece qualche raccomandazione ad Ilaria Alpi? Le risulta? E, se le risulta, chi glielo ha detto?

MARIO SCIALOJA. Me lo disse una volta Carmine Fiore.
Presumo che questo contatto tra Ilaria e il capo del contingente italiano vi sia stato dopo la gita di Ilaria a Bosaso.

PRESIDENTE. A proposito del rapporto Unosom, lei, se non ha manifestato una sorta di incredulità, non ha condiviso pienamente quello che il rapporto intendeva affermare nella ricostruzione dei fatti. Ci può dire la ragione di tutto questo?

MARIO SCIALOJA. Perché mi sembrava inconsistente. Non era per le conclusioni. Mi sembrava francamente che non avessero fatto un accidente di niente.

PRESIDENTE. Lei aveva ragioni ulteriori, informazioni ulteriori, per non ritenere


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compatibile con lo svolgimento dei fatti la ricostruzione effettuata da Unosom?

MARIO SCIALOJA. No, mi sembrò semplicemente un rapporto fatto senza aver messo molta passione nel lavoro. Come lei sa, poi, a Mogadiscio sono morti diversi giornalisti: quello della Reuter, quello della Cnn.

PRESIDENTE. Le leggo la nota che lei ha redatto per il Ministero degli affari esteri il 7 aprile 1994 dove, tra l'altro, dice: «Allego copia di un primo rapporto Unosom 2, classificato confidential, sull'attacco contro i due giornalisti del TG3. Si tratta di un semplice tentativo di ricostruzione dell'attacco stesso, non del tutto convincente alla luce di informazioni forniteci da altre fonti. Non è affatto certo, tra l'altro, che uno dei sei attaccanti, armato di fucile d'assalto, sia stato ucciso dall'unico uomo di scorta dei due giornalisti (che è rimasto illeso), e che un secondo sia rimasto ferito. Unosom 2 prospetta la tesi del tentativo di sequestro di persona ed esclude quella dell'omicidio premeditato. Si può senz'altro condividere il parere espresso...»
Questa nota, da lei redatta, dice innanzitutto che la ragione delle sue perplessità non è causale, ma è alla luce di informazioni forniteci da altre fonti. Di quali fonti si tratta? Fonti confidenziali? Fonti riservate? Ce le potete dire? Avessimo, una volta tanto, una fonte, di quelle vere, che abbiano nome e cognome! Infatti, giriamo tra quindici fonti: un pezzo sta al Ministero dell'interno, un pezzo al Ministero degli affari esteri, un altro pezzo alla DIGOS! Avete tutti le vostre fonti. Dateci una fonte sicura! Chi erano queste fonti? Una, ce ne basta una.
Ambasciatore, ho fatto una battuta per rompere la tensione, però lei è un pubblico ufficiale che scrive questa nota e scrive «da altre fonti». Chi sono queste fonti?

MARIO SCIALOJA. Un po' è Alfredo Tedesco.

PRESIDENTE. Diamo nome e cognome: Tedesco.

MARIO SCIALOJA. Vorrei anche riferirmi ad una cosa che lei non ha letto, ma che credo sia in quel documento che riguarda Vezzalini, e cioè che quando si verificò questa sparatoria, il contingente militare italiano aveva chiesto, per tutelare gli immobili, che all'interno della cancelleria dell'ambasciata d'Italia entrasse un contingente della polizia somala di Mogadiscio nord, comandata da un certo generale Gilao, che ogni tanto viene a Roma (è stato a Roma anche un mese fa). Quindi in quel momento in ambasciata c'erano questi poliziotti di Ali Mahdi.
Quando si verificò la sparatoria, alcuni di questi somali uscirono per la strada, ma non fecero assolutamente nulla. Forse si recarono lì solo per curiosare.

PRESIDENTE. Dunque, per fonti si intende Tedesco?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Prosegue: «Non è affatto certo che uno dei sei attaccanti, armati di fucile, sia stato ucciso, e che un altro sia rimasto ferito». Questi sono i due famosi personaggi che poi avremmo dovuto trovare nell'ospedale e rispetto ai quali io le ho fatto la domanda se, per caso, lei si fosse adoperato per accertarlo. Da dove viene questa notizia? Sempre da Tedesco?

MARIO SCIALOJA. Da Tedesco o da personale militare italiano, del Tuscania o altri, come l'autista addetto a Ilaria Alpi. Il fatto che l'uomo di scorta di Ilaria Alpi abbia reagito è sembrato a tutti assolutamente poco verosimile.

PRESIDENTE. Praticamente, è stato Tedesco oppure qualcuno del battaglione Tuscania. Qualcuno che cosa significa? Un brigadiere, un soldato semplice o un uomo del vertice? Penso che lei parlasse con i vertici del Tuscania.


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MARIO SCIALOJA. C'era il maggiore Tonzi, mi sembra.

PRESIDENTE. È vero che le è stato vietato di trattare l'argomento sull'omicidio di Ilaria Alpi e di avanzare ipotesi su possibili mandanti da parte del Ministero degli affari esteri?

MARIO SCIALOJA. Assolutamente no.

PRESIDENTE. Lei ha saputo che qualcuno afferma che lei avrebbe avuto un incontro con l'imam Hirab, su proposta di Aidid, proprio al fine, nell'ambito di un più ampio schema di collaborazione, di individuare gli aggressori di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin? Lei può confermare questa circostanza?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Conosce l'imam Hirab?

MARIO SCIALOJA. Ho avuto dei contatti con questo imam, quando si era messo in mente di mediare tra tutti i clan della parte centrale della Somalia, per avviare un discorso di riunificazione, ma non in relazione alla morte dei due giornalisti.

PRESIDENTE. Questa è la nota da cui abbiamo tratto queste notizie: «Non è forse soltanto un caso che il rapimento dei due collaboratori sia avvenuto in coincidenza con la visita a Mogadiscio del sottosegretario Azzarà, mentre l'uccisione dei due giornalisti italiani sopravviene nella fase conclusiva di trattative di pace dirette, tra le diverse fazione. Scendendo sul terreno più concreto, ha indicato di aver già incaricato il responsabile dei servizi di informazione e movimento, tale Sahid Cadi, che sarebbe stato formato in Italia, di condurre un'approfondita inchiesta, coordinando gli sforzi con tutte le parti interessate a far luce sull'omicidio. Ha aggiunto di aver inoltre sollecitato un preliminare rapporto al vicepresidente del Sna e presidente del Ssnm, El Adil Sceik Yusuf, che dovrebbe arrivare da Mogadiscio domani. Un nostro incontro in sua presenza potrebbe, secondo il generale Aidid, essere utile al fine di valutare insieme i primi elementi disponibili. Ha espresso in proposito di mettersi in contatto con l'imam Dellairib, il quale potrebbe essere in grado di raccogliere, da parte sua, qualche informazione. Un contatto diretto tra l'ambasciatore Scialoja e il capo religioso potrebbe essere opportuno».
Le risulta tutto questo? Ha avuto seguito tutto questo?

MARIO SCIALOJA. Ci sono stati dei contatti con questo imam degli Abgal, ma non mi sembra che si riferisse all'episodio di Ilaria Alpi. Da dove risulta?

PRESIDENTE. Leggo: «...mentre l'uccisione dei due giornalisti italiani sopravviene nella fase conclusiva di trattative di pace dirette tra le diverse fazioni, per le quali l'Italia si è discretamente e utilmente adoperata».
Per concludere questo argomento: questa è stata una previsione che poi non si è mai attuata?

MARIO SCIALOJA. Non si è mai attuata.

PRESIDENTE. Lei ha conosciuto questo imam?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Ha mai parlato con lui?

MARIO SCIALOJA. Ho parlato con lui a quell'epoca.

PRESIDENTE. Ha parlato dell'omicidio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin?

MARIO SCIALOJA. No, assolutamente.

PRESIDENTE. Dunque, questa è una cosa che dobbiamo togliere di torno, almeno secondo l'ambasciatore (poi vedremo se le cose stanno così).


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Vi è qui una notazione di Tedesco, che dice: «La zona interna del porto nuovo e l'ingresso dell'aeroporto saranno controllati dalle forze USA solo fino al 27 prossimo venturo, data ultima del ripiegamento del contingente. Verrà conseguentemente a mancare anche la sicurezza fornita attualmente dagli elicotteri durante l'atterraggio e il decollo degli aerei. Per l'uccisione della giornalista italiana e del suo operatore, Unosom sta orientando la indagine sulla tesi della tentata rapina e della casualità dell'episodio, non trascurando tuttora particolari che indicherebbero il contrario. Anche da Roma è giunto a Scialoja esplicito divieto di trattare l'argomento e di avanzare ipotesi sui probabili mandanti, ricordando che tale compito spetta solo a Unosom, al termine degli accertamenti in corso». Questo è Tedesco che scrive.

MARIO SCIALOJA. È una solenne sciocchezza. Non ho mai avuto istruzioni in questo senso dal Ministero, e non mi è mai passato per la testa che fosse un tentativo di rapina. È stato un omicidio premeditato bello e buono.

PRESIDENTE. Quella della rapina è una deduzione che fa Tedesco, ma per quanto riguarda la questione degli ordini che lei avrebbe ricevuto di non interessarsi più, che tra l'altro trovano una perfetta corrispondenza con il fatto che lei, sostanzialmente, ha ritenuto che tutto fosse rimesso a indagini - si fa per dire - Unosom...

MARIO SCIALOJA. Su istruzione del Ministero.

PRESIDENTE. Sostanzialmente lei, fin dal momento in cui i fatti si verificarono, non ebbe modo di fare alcun tipo di intervento, ma solo di prendere qualche informazione da Unosom e, secondo quello che io apprendo adesso, questo appartiene al cliché del modus operandi in queste circostanze. Quindi, quando Tedesco dice una cosa come quella che è scritta in quelle righe che le ho letto, e cioè che lei aveva avuto ordini precisi di non interessarsi di niente, c'è anche - come diremmo noi tecnici - un riscontro oggettivo, perché in effetti non si è interessato di niente. Anzi, nel momento in cui ha fatto qualche ipotesi - mi riferisco a quella recata dal comunicato stampa del 20 marzo, che prima abbiamo letto - era possibile pensare che si fosse avvicinato ad una ricostruzione plausibile. Quindi, che lei oggi dica che Tedesco in un atto pubblico faccia un'affermazione di questo genere senza ragione - quindi una falsa affermazione, questo è il costrutto - è una contraddizione che noi vorremmo venisse un po' più approfondita.

MARIO SCIALOJA. Per me non è una contraddizione perché non ho mai avuto un ordine del Ministero, neppure lontanamente.

PRESIDENTE. Non ho detto del Ministero. Poteva averla avuta anche da qualcun altro.

MARIO SCIALOJA. Da nessun altro.

PRESIDENTE. Magari da qualche autorità somala?

MARIO SCIALOJA. Assolutamente no.

PRESIDENTE. Ali Mahdi, ad esempio, tutto sommato era una persona con la quale, in qualche modo...

MARIO SCIALOJA. Non ho più visto Ali Mahdi.

PRESIDENTE. Da quando?

MARIO SCIALOJA. Non mi sembra di averlo visto dopo l'assassinio di Ilaria Alpi fino alla mia partenza, che è avvenuta poche settimane dopo. Comunque, non ho mai ricevuto né suggerimenti, né ordini, né preghiere, da parte di Ministeri o da parte di qualsiasi altra persona, italiana, somala o neozelandese, sul fatto di non parlare dei moventi dell'omicidio di Ilaria Alpi. È completamente inventato.


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PRESIDENTE. Sospendo la seduta.

La seduta, sospesa alle 20,40, è ripresa alle 22,15.

PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori.
Dunque, ambasciatore, dovremmo parlare un po' di fondamentalismo islamico in Somalia all'epoca dei fatti.
Cos'era questa corte islamica di Mogadiscio? Siamo sempre nel periodo che ci interessa. Vogliamo saperlo innanzitutto dal punto di vista culturale, per capire meglio le cose.

MARIO SCIALOJA. Con il collasso della struttura dello Stato somalo, quindi con il collasso della polizia, della giustizia, dei luoghi di detenzione, e altro, alla caduta di Siad Barre e con il caos che ne è seguito (certo, se Siad Barre fosse stato sostituito da un altro governo, tutto quello che è successo non sarebbe accaduto), tornarono alla ribalta e in attività queste corti islamiche governate dalla sharia, che fecero il bello e il cattivo tempo. Ho visto per esempio una volta, per fortuna solo in filmato, una cosa assolutamente tragica: la lapidazione di un ragazzo che aveva violentato una giovane.
Dunque, era ciò che aveva preso il posto di una struttura statale che non c'era più.
Lei, prima, ha fatto un accenno al fondamentalismo islamico. Certamente, c'erano dei gruppi, che poi si sono rafforzati.

PRESIDENTE. Siad Barre cade nel 1991. Quando viene istituita la corte islamica, se lo sa?

MARIO SCIALOJA. Non c'è stato, chiaramente, alcun provvedimento formale di istituzione, perché non c'era nessuno che poteva formalizzare una cosa del genere. Penso che questi tribunali islamici abbiano cominciato ad operare forse qualche anno dopo la caduta di Siad Barre. Infatti, dopo la caduta di Siad Barre, che non era un uomo molto religioso, si sono cominciati a instaurare in Somalia questi nuclei di fondamentalisti islamici, incoraggiati e finanziati dal Sudan, che non ha un governo precisamente moderato, e anche dall'Iran, con un paio di localizzazioni geografiche: a nord nel Puntland e a sud all'interno di Bardera.

PRESIDENTE. Che anni sono?

MARIO SCIALOJA. Avevano già avuto inizio allora. Quanto tempo prima non lo so.

PRESIDENTE. Che significa: allora?

MARIO SCIALOJA. Nel 1993 e nel 1994. E si sono rafforzati successivamente, contrastati senza grande successo - la cosa può sembrare curiosa, vista la natura dello Stato teocratico saudita - da organizzazioni private umanitarie, le fondazioni saudite, che vedevano il fondamentalismo di stampo sudanese o iraniano come il fumo negli occhi. È un fenomeno certamente preoccupante e anche negativo. L'Arabia Saudita è ancora preoccupata che la Somalia possa diventare un focolaio di fondamentalismo islamico in quell'area.

PRESIDENTE. La presenza di una corte islamica è certamente un espressione di integralismo, a dispetto di chi? Per esempio, rispetto ai grandi clan di Aidid e di Ali Mahdi, la corte islamica che cosa rappresentava? Un fatto di contrapposizione ad entrambi, oppure...? Entrava nella società civile in modo da creare una contrapposizione al potere o ai vari poteri, sia pure spezzettati nei vari clan, oppure voleva soppiantarli? Come veniva presa dalle «istituzioni», tra virgolette, e dalla cittadinanza, la presenza di una corte islamica?

MARIO SCIALOJA. Da Ali Mahdi e dagli altri signori della guerra non era certamente vista positivamente, però nel fondo della società somala c'era sempre una vena di fondamentalismo religioso. Ricordo che, quand'ero in Somalia negli


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anni sessanta, andando in giro, si vedevano ogni tanto delle grosse capanne sui bordi delle piste o delle strade, soprattutto andando a nord di Mogadiscio, sopra le quali c'era una bandiera colorata. Quello era il segnale che dentro c'era un imam molto seguito.
Dunque, di questi tribunali somali, vidi quel tremendo filmato del ragazzo ucciso, in quella barbara maniera, a Mogadiscio nel 1994. Era il 1994 perché ricordo che vidi il filmato a Riad quando venne il capo del Sismi a Riad. Era con Luca Rajola. Mi portarono questo filmato e me lo fecero vedere: terribile!

PRESIDENTE. Lei conosce le cose molto meglio di noi, da questo punto di vista. Le risulta che questa corte islamica abbia avuto vita lunga anche dopo il 1994? Ha avuto modo di essere sempre più punto di riferimento per la società civile o no?

MARIO SCIALOJA. Non mi risulta.

PRESIDENTE. Oggi, c'è ancora la corte islamica, che lei sappia?

MARIO SCIALOJA. Non lo so, non mi risulta, ma glielo posso far sapere. Posso informarmi presso amici somali.

PRESIDENTE. Quindi, all'epoca del 1994, comunque, era sicuramente in vigore e operativa.

MARIO SCIALOJA. Sì, aveva riempito un vuoto. La mia impressione era che si occupasse soprattutto di «procedimenti» - se possiamo chiamarli procedimenti, li mettiamo tra quattro virgolette - di natura penale. Non è che si occupasse di controversie contrattuali o di servitù di passaggio.

PRESIDENTE. La comunità guardava con attenzione, con rispetto, con interesse? Non so, definisca lei.

MARIO SCIALOJA. Credo che si trattasse veramente di una minoranza, però, in un situazione di totale assenza di potere, è chiaro che...

PRESIDENTE. Le corti islamiche che cosa utilizzavano come prigioni? Avevano delle loro sedi adibite a prigioni o si servivano di quelle che c'erano? Mi pare che anche l'Unosom ne avesse.

MARIO SCIALOJA. L'Unosom aveva adibita un'ala dell'università della Somalia come luogo di detenzione.

PRESIDENTE. E la corte islamica se ne serviva?

MARIO SCIALOJA. Assolutamente no.

PRESIDENTE. In un rapporto della DIGOS del 7 gennaio di quell'anno, si parla della presenza di un santone in Somalia che aveva a sua disposizione delle bande che svolgevano attività criminale a tutti gli effetti e che si paludava del fatto di essere islamica. Si trattava, ancora una volta di una presenza di tipo integralista. Le risulta questa circostanza?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Allora, le leggo la dichiarazione resa da Tedesco in data 7 gennaio: «Intendo dire che Unosom tendeva sempre a minimizzare la portata degli eventi. Unosom era responsabile della sicurezza in Somalia e quindi tendeva a dare una versione credibile, vista la situazione in città, senza ulteriori approfondimenti. Ritengo, e l'ho già detto, che tale atteggiamento fosse dovuto a non approfondire il tema dei fondamentalisti islamici, che forse avrebbero potuto essere coinvolti nell'accaduto. Ammettere o semplicemente ipotizzare un loro coinvolgimento da parte di Unosom avrebbe acuito molto la tensione ed esposto ad eventuali ritorsioni. Inoltre, in ambito Unosom c'erano dei reparti di paesi di religione islamica. La mia dicitura sulle reali cause è riferita all'integralismo islamico. Anche


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la parte del messaggio relativa a Scialoja riguarda questo tema. L'ambasciatore mi aveva detto che dal Ministero degli esteri l'avevano invitato a non fare ipotesi» (la solita storia) «Si riferiva comunque alla matrice fondamentalista dell'episodio. In quel periodo a Mogadiscio nord, nella zona di Ali Mahdi, c'era un santone di cui non ricordo il nome, che abitava nei pressi della zona nord, vicino alla corte islamica, che disponeva di truppe armate che spesso, senza opposizione, si davano ad atti di banditismo. Inoltre, erano apparse in città scritte antitaliane».
Mi interessa adesso concentrare l'attenzione su questo fatto di questo santone di religione islamica che aveva queste truppe con le quali compiva atti di banditismo. Le risulta questa circostanza?

MARIO SCIALOJA. Non ne so assolutamente nulla. Quello che dice Tedesco sul fatto della delicatezza dei rapporti tra Unosom e gruppi più o meno fondamentalisti somali, data la presenza nel contingente Unosom di contingenti di paesi islamici, è vero. Chiaramente, era un imbarazzo.

PRESIDENTE. In che senso era un imbarazzo?

MARIO SCIALOJA. I fondamentalisti purtroppo sono dappertutto. Non posso escludere, anche se non ne so assolutamente niente, che tra il contingente malese o del Pakistan (il Pakistan è un paese di una marca islamica abbastanza fondamentalista o ultra ortodossa) potessero esserci delle simpatie per determinati gruppi somali. Questo è possibilissimo, anzi è probabile.

PRESIDENTE. Abbiamo seguito una vicenda che ha riguardato una signora che si chiama Sumur. Questa signora sarebbe stata, secondo l'impianto accusatorio originario, violentata da Hashi Omar Hassan, che è la persona somala che è stata condannata con sentenza definitiva. La contestazione di questa violenza carnale viene fatta qui in Italia quando Hashi Omar Hassan viene arrestato, se non che successivamente sarebbe stato assolto per non aver commesso il fatto perché si accertò che all'epoca in cui avrebbe consumato questa violenza carnale, in realtà, la donna si trovava detenuta nelle carceri della corte islamica dove era stata condannata per traffico di bambini. Le risulta questa vicenda?

MARIO SCIALOJA. No, mi sembra molto strana...

Turno 5 BONAFACCIA

MARIO SCIALOJA. No, mi sembra anche molto strana, perchè una violenza carnale, un rapporto sessuale extraconiugale, soprattutto se una delle due persone è stata coniugata, per i fondamentalisti islamici - secondo me in modo del tutto errato, in base ad una corretta interpretazione dei testi - è un reato punibile con la pena di morte.

PRESIDENTE. Noi abbiamo la sentenza - può anche darsi che sia falsa, non so - la quale, in data 1o luglio 1996, «condanna la donna al pagamento della somma di 25.870 dollari che la medesima ha ammesso di dover restituire ai legittimi proprietari. Condanna la signora Suhur Hassan Osman alla pena di anni due di reclusione». Questo per il traffico di bambini. La sentenza emessa dalla corte islamica a noi serve soltanto perché è la fonte dell'accertamento definitivo che a quell'epoca si trovava in carcere e non poteva essere violentata da nessuno, se non dentro il carcere, dove non c'era Hashi Omar Hassan. Lei è totalmente all'oscuro di questa vicenda?

MARIO SCIALOJA. Totalmente. L'apprendo questa sera.

PRESIDENTE. Lei sa dell'esistenza di campi di addestramento di fondamentalismo islamico in Somalia all'epoca dei fatti che ci interessano o comunque di iniziative tendenti alla costituzione di questi campi?


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MARIO SCIALOJA. No. Che ci fossero gruppi con tendenze fondamentaliste con finanziamenti esterni, sì, di campi di addestramento, no. Questa era un'ipotesi avanzata dagli americani dopo l'11 settembre a proposito di Al Qaeda e tutto il resto, ma poi mi sembra che anche gli americani non vi abbiano dato alcun seguito.

PRESIDENTE. Nel rapporto della Commissione del Congresso sui fatti dell'11 settembre si ricostruiscono i fatti della Somalia in maniera assertiva, nel senso di aver accertato che in quell'epoca Bin Laden era in Somalia. Le risulta?

MARIO SCIALOJA. Io so che Bin Laden venne espulso dal Sudan su pressioni del Governo saudita, perché dopo l'Afghanistan si era rifugiato in Sudan, dove tra l'altro faceva un sacco di soldi come imprenditore (costruiva strade).

PRESIDENTE. Della sua presenza in Somalia non ne ha notizia?

MARIO SCIALOJA. Della sua presenza in Somalia non ho mai saputo. So che era a Riad e che ad un certo momento, sotto energiche pressioni del Governo di Riad, il Sudan lo espulse e Bin Laden andò in Afghanistan, dove si trova tuttora, apparentemente.

PRESIDENTE. E della costituzione di questi campi di addestramento di fondamentalisti islamici, che tra l'altro sarebbero stati finanziati in quell'epoca dagli americani proprio in relazione alla guerra tra l'Afghanistan e la Russia, non le risulta nulla?

MARIO SCIALOJA. Campi finanziati anche dagli americani?

PRESIDENTE. Finanziamento di tipo...

MARIO SCIALOJA. Avevano certamente fatto delle cose analoghe in Pakistan, con l'aiuto del Pakistan e con finanziamenti sauditi, per la guerra contro l'occupazione sovietica in Afghanistan. Che abbiano finanziato campi di questo genere in Somalia, non posso dire di no, ma non ne so assolutamente nulla.

PRESIDENTE. Di iniziative per la costituzione di campi fondamentalisti ha mai sentito parlare?

MARIO SCIALOJA. No. Francamente non mi stupirei, ma non ne ho mai sentito parlare.

PRESIDENTE. Sa di rapporti intercorsi tra Osama Bin Laden ed Aidid?

MARIO SCIALOJA. No, è la prima volta che lo sento. Quando Aidid morì, fine 1995 o primi mesi del 1996, io ero a Riad. Di rapporti tra Osama Bin Laden ed Aidid non ne ho mai sentito parlare.

PRESIDENTE. Ha mai saputo che Aidid ha fatto proprio riferimento a movimenti fondamentalisti islamici, in particolare a quello dell'Al Ittihad ed al movente politico, come causa dell'uccisione dei due giornalisti italiani?

MARIO SCIALOJA. Non l'ho mai sentito.

PRESIDENTE. Ci pensi bene. Il generale Fiore, il giorno stesso dell'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, rilasciò un comunicato-stampa all'ANSA, che Benni raccolse, nel quale dichiarò appunto che furono gruppi di integralisti islamici ad aver disposto l'uccisione di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin.

MARIO SCIALOJA. Me lo ricordo, ma non mi ricordo alcun collegamento con Aidid.

PRESIDENTE. Lo dico anche perché noi abbiamo proceduto ad una cernita delle notizie più importanti - non di tutte, perché sarebbe estremamente difficile - che sono state raccolte a suo tempo dal Sismi. Per esempio, in una nota del 22 marzo 1994 si parla di una riunione


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tenuta da lei il 21 marzo con i responsabili delle ONG italiane presenti in Somalia. Si ricorda di aver tenuto questa riunione?

MARIO SCIALOJA. Sì. Li avevo avvertiti per radio la sera stessa dell'assassinio per avvertirli che secondo me correvano un rischio.

PRESIDENTE. Peraltro nell'appello, non fu preso in considerazione da molti, si faceva riferimento anche ai problemi legati al fondamentalismo islamico che si stava manifestando. Ricorda questo particolare?

MARIO SCIALOJA. Sì, è possibile, anche se non lo ricordo molto bene. Certamente non feci alcuna menzione, né la potevo fare, ad Osama Bin Laden, perché non avevo la minima idea di chi fosse.

PRESIDENTE. 8 aprile 1994, nota ai Ministeri di grazia e giustizia e dell'interno: «Accompagnato dall'ambasciatore Di Leo, ho avuto un lungo colloquio con il generale Aidid; ha indicato di aver già incaricato i responsabili dei servizi di informazione del movimento, tale Said Kadi, che sarebbe stato formato in Italia, di condurre un'approfondita inchiesta, coordinando gli sforzi con tutti le parti interessate a far luce sull'omicidio. Ha aggiunto di aver sollecitato un preliminare rapporto al vicepresidente della SNA e al presidente della SSMM, El Hadi Sheik Jusuf, che dovrebbe arrivare da Mogadiscio domani. Un nostro incontro con i predetti in sua presenza, secondo il generale, potrebbe essere utile al fine di valutare insieme i primi elementi disponibili. Ho cercato di meglio comprendere, ponendogli specifiche domande, quanto il generale avesse in mente riferendosi all'intervento di mandanti e ad interferenze politiche esterne. Egli ha ribadito che era convinto del movente politico dell'omicidio e che non andava sottovalutato l'interesse di alcuni paesi dell'area a portare pregiudizio alle ottime relazioni esistenti tra Italia e Somalia e ad osteggiare la partecipazione dell'Italia al processo di ricostruzione. Ha altresì fatto cenno ad un possibile coinvolgimento nell'omicidio del movimento fondamentalista Al Ittihad».
Questa relazione è sempre della persona che abbiamo indicato prima, il dottor Luigi Mancarella, direttore amministrazione contabile al ministero. Che ci sa dire di questo?

MARIO SCIALOJA. È la prima volta che leggo questo testo.

PRESIDENTE. Secondo lei sono notizie infondate, gonfiate, non controllate, oppure hanno una plausibilità?

MARIO SCIALOJA. È difficile esprimere una valutazione. Non mi sembrano molto plausibili.

PRESIDENTE. Il movimento fondamentalista Al Ittihad...

MARIO SCIALOJA. Mai sentito nominare.

PRESIDENTE. Però esiste?

MARIO SCIALOJA. Probabilmente sì.

PRESIDENTE. È abbastanza noto, risulta presente in molta storiografia dell'integralismo islamico.

MARIO SCIALOJA. Sì, ma a quell'epoca non lo avevo mai sentito nominare. Questi gruppi fondamentalisti hanno messo una certa radice in Somalia.

PRESIDENTE. Lei smentisce oppure ritiene che possa essere un'interpretazione libera di accadimenti meno rilevanti di quanto non appaia da questa nota?

MARIO SCIALOJA. Smentire è difficile, ma mi sembra un'interpretazione molto libera. Francamente non riesco a prenderla molto seriamente. Sto apprendendo questa sera delle cose nuove, ma d'altra parte è inevitabile.


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PRESIDENTE. In una nota della DIGOS di Roma del 23 settembre 2000, con la quale si informa la procura di Roma, si dà atto che il documento reca delle correzioni effettuate su due note manoscritte datate 23 marzo 1994, ma non è stato individuato il funzionario che avrebbe fatto queste annotazioni. Il messaggio originario dice: «Appare evidente la volontà di Unosom di minimizzare sulle reali cause che avrebbero portato all'uccisione dei giornalisti, continuando a battere la pista della tentata rapina e della casualità dell'episodio, trascurando chiari particolari che indicherebbero il contrario. Anche da Roma» - torna la solita questione sulla quale lei non ci vuole rispondere - «è giunto a Scialoja esplicito divieto di trattare argomenti e di avanzare ipotesi sui probabili mandanti».

MARIO SCIALOJA. È falso! Scusi se la interrompo, ma è falso. Nessun ministero darebbe un'istruzione di questo genere ad un suo funzionario, e tanto meno quello degli affari esteri. Avrei denunciato chi mi avesse dato un'istruzione di questo genere. È assolutamente falso!

PRESIDENTE. La nota viene dai Servizi. La DIGOS riporta una nota dei Servizi.

MARIO SCIALOJA. Tedesco si è inventato una cosa.

PRESIDENTE. Una nota Sismi del 15 febbraio 1994 dà conto di tutte le cose che lei ha fatto per liberare, dopo aver avuto contatti con i rapitori, operazione che lei avrebbe compiuto insieme all'ex moglie di Ali Mahdi e l'imam della regione...

MARIO SCIALOJA. No, l'imam no.

PRESIDENTE. Qui si parla anche dell'imam della regione e si dice che avreste trascorso la notte in un villaggio dell'entroterra in attesa del ritorno di alcuni emissari somali...

MARIO SCIALOJA. Non in un villaggio, ma nella boscaglia; ho dormito sotto un albero.

PRESIDENTE. ... inviati per contattare i rapitori. In questa circostanza noi abbiamo la possibilità di riscontrare un suo forte interessamento per poter raggiungere l'obiettivo della liberazione di due nostri connazionali. Ha dormito nella boscaglia in attesa che si realizzasse il contatto con i rapitori; si parla anche di una somma di denaro che sarebbe stata versata (5.000 dollari invece di 10.000). Insomma, l'operazione viene descritta in tutti i suoi particolari.
Leggo: «Alle prime luci dell'alba gli emissari sono tornati ed hanno riferito che il contatto poteva avvenire in altro punto della boscaglia. Il movimento per raggiungere tale punto doveva essere effettuato a piedi e non con la vettura prevista in radio. Preso contatto con i rapitori è stato stabilito che il rilascio dei connazionali sarebbe avvenuto in altra località da raggiungere a piedi. Al secondo incontro i somali hanno consegnato all'ex consorte di Ali Mahdi i due connazionali». Quindi ci sono dei rapporti forti che dimostrano quanto lei fosse presente nella società somala e soprattutto nella società che conta. Viene spontanea una domanda: è vero che lei mi può rispondere dicendo che aveva saputo che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano morti, per cui non c'era niente da fare, ma è mai possibile che con questi rapporti e con questi contatti così importanti lei non sia riuscito almeno a capire, ad avere un'informazione importante, di rilievo, non dico determinante, su chi li abbia uccisi il 20 marzo? Questi rapporti, per esempio, ci indicano un forte contatto con l'ex moglie di Ali Mahdi, comunque con una persona molto vicina ad Ali Mahdi. Ci può dare una spiegazione del black out totale intorno alla vicenda di Ilaria Alpi?

MARIO SCIALOJA. Per ridimensionare un po' l'episodio dei due tecnici sequestrati all'ex Villaggio Duca degli Abruzzi, era il giorno in cui si trovava a Mogadiscio


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il sottosegretario Azzarà ed abbiamo appreso di questi due giovani cooperanti che avevano preso la Land Rover la mattina senza scorta e che erano stati sequestrati. Abbiamo avuto tutti l'impressione che si trattasse in realtà non di una banda organizzata con fini anti-italiani ma di una banda di ragazzi che volevano un po' di spiccioli; infatti nel periodo in cui ero in Somalia furono sequestrati altri cooperanti italiani, tra l'altro nelle zone controllate dagli Habr Gedir del generale Aidid, ed uno di questi riuscì a farli liberare senza il pagamento di alcun riscatto tramite l'intervento di quel generale somalo che ho menzionato prima, Galal, che era un Habr Gedir, anche se era considerato un po' un traditore. Quindi quando furono rapiti questi due giovanotti prima di tutto fecero sapere che non volevano assolutamente il coinvolgimento dei militari del contingente italiano, altrimenti li avrebbero uccisi. Io mi trovavo a Johar e presi la macchina; c'era anche Nurta Ali Mahdi, che era non solamente l'ex moglie ma anche in totale rotta con l'ex marito, con un gruppo di ragazzi. Non c'era alcun imam della zona. Andammo appresso a questi rapitori (ero convinto che fossero dei ragazzi), fu stabilito un contatto mentre passavamo la notte io sotto un albero e Nurta Ali Mahdi sdraiata sul sedile della Land Rover. Dissero: niente armi e niente macchina con la radio. Facemmo un tratto con la macchina, poi un tratto a piedi, incontrammo questi ragazzi che erano guidati da un solo somalo, che aveva 37 anni (mi ricordo, chissà perché, l'età), che aveva studiato in Italia e che era un po' cattivello. Questi ragazzi, che all'inizio avevano chiesto 50.000 dollari, quando hanno visto che io ne avevo solo 5.000 se li sono presi e mi hanno dato i due cooperanti. Io l'ho fatto come l'avrei fatto esattamente per Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e per chiunque altro.

PRESIDENTE. Ma la mia domanda era un'altra: i contatti erano tanti e tali per cui...

MARIO SCIALOJA. Certo. Diciamo che quell'operazione conclusasi con successo - mi telefonò anche il Presidente della Repubblica per congratularsi; una volta tanto si è parlato di un diplomatico italiano per una cosa positiva - era di basso livello, non era rivelatrice di rapporti di intimità e confidenzialità con esponenti somali. Io purtroppo né da Ali Mahdi né da alcun altro ho mai sentito niente che potesse agevolare una ricostruzione di quel tragico 20 marzo 1994.

PRESIDENTE. L'11 febbraio 1994, quindi circa un mese prima dell'uccisione dei nostri ragazzi, Tedesco scrive: «A Mogadiscio sono state diffuse notizie riguardanti l'intenzione degli integralisti islamici di effettuare azioni dimostrative contro il personale ed i mezzi del contingente italiano. È stato distribuito anche un volantino in cui accusano le forze italiane di abusi e di violenze perpetrate nei confronti della popolazione civile. Gli Habr Gedir avrebbero restituito all'ambasciatore Scialoja la somma pagata per il rilascio dell'operatore dell'ONG Gino Del Nero, rapito nei giorni scorsi». È vera questa circostanza?

MARIO SCIALOJA. Francamente non me la ricordo.

PRESIDENTE. Anzitutto, è vero che in quel torno di tempo erano state manifestate intenzioni degli integralisti islamici di fare atti dimostrativi e quindi anche violenti nei confronti del contingente italiano? Altrimenti, questo Tedesco si inventava le cose!

MARIO SCIALOJA. No, per carità. Né Tedesco né Giusti mi fecero vedere queste informazioni riservate del Sismi, però rientra nella realtà delle cose, perché per esempio anche quegli altri - uno o due - italiani che vennero sequestrati dalle parti di Belet Uen...

PRESIDENTE. E questa accusa alle forze italiane di perpetrare abusi e violenze nei confronti della popolazione civile


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aveva un fondamento o comunque, se non lo avesse avuto, erano accuse che venivano formulate nei confronti degli italiani?

MARIO SCIALOJA. Nei confronti della popolazione civile non lo so, ma quell'episodio che poi fu denunciato da Panorama con tanto di fotografie purtroppo credo che corrisponda alla realtà. Diciamo che gli altri contingenti militari operanti in Somalia non hanno fatto di meglio; per esempio i canadesi hanno preso due somali e li hanno fatti girare sopra il fuoco acceso. Poi ovviamente furono congedati con disonore e messi in galera. Purtroppo...

PRESIDENTE. Ma i soldi del riscatto glieli hanno restituiti o no?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Quindi quando Rajola Pescarini e per lui Tedesco dicono: «Questa mattina, alle ore 10 locali, su sua richiesta, è avvenuto un incontro tra il professor Issa dell'OSM ed il dottor Cipriani e il connazionale del nero rapito e poi rilasciato, il dottor Issa ha detto che la somma pagata di 5.000 e non di 10.000 come richiesto (...)».

MARIO SCIALOJA. Mi ero dimenticato.

PRESIDENTE. Adesso ricorda?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Allora glieli ha restituiti questi 5.000 dollari?

MARIO SCIALOJA. Probabilmente sì. L'avrà passati all'ONG che li aveva pagati. Issa abitava a Mogadiscio e ad un certo momento era una sorta di ministro degli esteri. Non c'era il veto di vederlo come c'era su Aidid; Issa circolava liberamente.

PRESIDENTE. Sei aprile 1994: «Sempre più frequenti sono i somali che chiedono indennizzi per danni provocati dal contingente italiano durante le perquisizioni e per gli incidenti. Alcuni di loro sono arrivati a pronunciare chiare minacce nei confronti degli italiani che a vario titolo sono ancora presenti in Somalia. Nella maggior parte dei casi si tratta di truffatori e di gente già risarcita dai nostri militari, che tentano di ottenere danaro. Tale situazione potrebbe provocare incidenti a danno dei nostri connazionali presenti a Mogadiscio. Nella giornata di ieri l'ambasciatore Scialoja ha incontrato il professor Issa e successivamente Ali Mahdi; dai due incontri non è scaturito nessun segnale positivo per un accordo politico, anzi le posizioni dei due gruppi sembrano essere sempre più distanti». È corretto?

MARIO SCIALOJA. Sì. Si trattava soprattutto di danni dovuti ad incidenti stradali. È assolutamente vero.

PRESIDENTE. Quindi anche Ali Mahdi è stato visto. Per dirgli che cosa?

MARIO SCIALOJA. Per fargli presente che molte di queste persone erano veramente dei truffatori. Ma, veri o presunti che fossero, si trattava per lo più di danni provocati da incidenti stradali, quindi da mezzi del contingente. Me lo ricordo benissimo. I somali sono specializzati in questo.

PRESIDENTE. Il 27 settembre 1993 lei si trovava presso il comando Unosom con l'ammiraglio Howe. Durante gli incontri colpi di mortai erano caduti dentro l'infrastruttura. Ricorda questo?

MARIO SCIALOJA. Cadde un colpo di mortaio...

PRESIDENTE. «Un colpo è esploso nei pressi di un gruppo di automezzi militari italiani».

MARIO SCIALOJA. No, su una sola macchina, quella che mi aveva portato al comando Unosom, che riportò le portiere sforacchiate ed una gomma a terra, per cui poi dovetti tornare in ambasciata con


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un altro sistema. Ricordo che è stato abbastanza comico: quando stavo da Jonathan Howe esplose questo colpo di mortaio a cinque metri di distanza e si scatenò un fuggi fuggi generale. In genere queste cose non mi impressionano.

PRESIDENTE. Però non mi pare che il clima fosse dei migliori.

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Il 5 luglio 1993 il Sismi segnala la «presenza di grosse frange di fondamentalisti islamici che agirebbero in supporto delle milizie contro le forze Unosom. Il maggior coinvolgimento di gruppi fondamentalisti islamici in attività anti-Unosom 2 è dimostrato dall'utilizzazione di luoghi di culto quale nascondiglio di armi pesanti fatte affluire a Mogadiscio dalle regioni centrali e da Afgoi dopo la distruzione dei depositi della capitale. In merito va segnalato che a Mogadiscio sono ricomparsi mortai e armi contraeree occultati in compound annessi a luoghi di preghiera». Questa è una nota del Sismi del luglio 1993, quando lei ancora non c'era, dato che è arrivato ad agosto.

MARIO SCIALOJA. È possibile.

PRESIDENTE. In data 14 febbraio 1994 il generale Pucci segnala: «I fondamentalisti islamici proseguono nella loro opera tesa a screditare qualsiasi attività gestita sia dai contingenti internazionali sia dalle ONG, allo scopo di sostituirsi a loro». Le risulta ?

MARIO SCIALOJA. Allo scopo di sostituirsi a loro, mi sembra un po' strano. Che volessero screditarle, non fa una piega. Certamente sì.

PRESIDENTE. Nota del Sismi del 9 aprile 1994: «Nel documento si fa riferimento al rischio di attentati e di azioni dimostrative e soprattutto rapimenti in danno di persone delle ONG, quali sollecitazioni al pagamento di presunte prestazioni. In tale quadro assumono particolare valenza le richieste di risarcimento che continuerebbero ad essere presentate all'ambasciatore Scialoja anche dopo la partenza del contingente italiano». È vero?

MARIO SCIALOJA. Sì, sempre per danni. Quando ero in Somalia, negli anni 1965-1969, vi erano ancora dei somali che chiedevano risarcimenti per presunti danni subiti quarant'anni prima!

PRESIDENTE. Tedesco, il 27 gennaio 1998, dichiara alla DIGOS di Roma: «Anche l'ipotesi che le cause della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin andassero ricercate nel viaggio a Bosaso è un'indicazione ricevuta in maniera estemporanea sul posto. È nata dal fatto che vicino a Bosaso vi era all'epoca un campo di fondamentalisti islamici, e lì qualcuno ipotizzò che la Alpi avesse potuto avere irritato in qualche maniera». Le risulta l'esistenza di un campo di fondamentalisti a Bosaso?

MARIO SCIALOJA. Nella zona della Migiurtinia c'erano certamente campi di fondamentalisti, non so se a Bosaso. Ilaria andò a Bosaso per una cosa di tutta evidenza come il sequestro del peschereccio della Shifco; poi ho sentito parlare di presunte scoperte di Ilaria di scorie nocive che sarebbero state utilizzate come massicciata per la strada Garoe-Bosaso, il che secondo me è una fantasia. Che Ilaria possa aver fatto un'incursione professionale in un campo di fondamentalisti islamici io non l'ho mai sentito.

PRESIDENTE. Ma lei ritiene possibile che, come concausa se non come causa unica, probabilmente con l'intersecarsi di tutte le cose delle quali si è parlato ma, fino a questo momento, senza elementi di prova concreti, nell'uccisione dei due giornalisti gruppi di integralisti islamici possano aver avuto un ruolo?

MARIO SCIALOJA. La prenderei come ultima ipotesi, forse.


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PRESIDENTE. E la prima quale sarebbe?

MARIO SCIALOJA. Che Ilaria avesse scoperto, anche se era un po' la scoperta dell'acqua calda, un traffico di armi a Bosaso.

PRESIDENTE. Se mettiamo come prima ipotesi la scoperta di un traffico di armi, alla conclusione della storia noi non troviamo elementi concreti con i quali confrontarci, almeno allo stato degli atti (poi naturalmente ci potremmo arrivare); invece il quadro che viene tracciato dai Servizi di sicurezza e che lei qua ha sostanzialmente confermato, correggendo un po' il tiro rispetto ad un primo approccio che abbiamo avuto in precedenza, dimostrerebbe che la situazione aveva invece una sua realità. Lei addirittura ha detto che, sia pure in parte minoritaria - come del resto in tutte le storie di integralismo, si tratta sempre di situazioni minoritarie - dentro la società le sacche di questo tipo c'erano. Noi abbiamo accertato, non solo con i Servizi ma anche attraverso le indagini svolte dalla Commissione del Congresso americano, che in effetti la situazione, vista oggi, con le consapevolezze di oggi, e facendo una retrospettiva, era un pochino più allarmante di quanto non si percepisse. Bin Laden stava là, e questo è accertato; si parla del sultano di Bosaso, e secondo le informazioni il sultano di Bosaso sarebbe stato un personaggio vicino a Bin Laden; si fa riferimento prima ad Ali Mahdi e poi a tutti e due come possibili personaggi che veicolavano armi a favore di Bin Laden per i campi di addestramento che si stavano costruendo; abbiamo accertato l'esistenza dei campi di addestramento (ne abbiamo trovati quattro). La situazione era questa.
Prima le ho posto una domanda: nella vicenda l'integralismo islamico può avere un senso? Lei mi ha risposto: lo metterei per ultimo, al primo posto metterei le armi. A me sembra impossibile che lei, che ha conosciuto profondamente la zona, non sappia chi ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e chi siano i mandanti dell'omicidio. Mi sembra impossibile che non lo sappia o quantomeno che non lo immagini, e già l'immaginazione sarebbe una cosa importante. Però adesso abbiamo messo in fila tante cose, e tante cose le abbiamo dovute rivisitare, e con il suo aiuto siamo riusciti a mettere qualche punto fermo. Forse potrebbe essere il momento nel quale un contributo ulteriore lei decidesse di darlo effettivamente (Commenti).

MARIO SCIALOJA. Ne abbiamo parlato anche prima.

PRESIDENTE. Scusi, ma il generale Fiore è impazzito? Qui sono impazziti Rajola Pescarini, Tedesco, il generale Fiore. Ma un generale di quella portata, che tutti quanti hanno ritenuto uno dei migliori comandanti del contingente italiano in Somalia, appena uccidono i due ragazzi dice che sono stati i fondamentalisti islamici! Lei non è un fondamentalista, quindi ha tutto l'interesse a distinguersi, come ha fatto nella storia della sua vita.
La corte islamica aveva degli uomini dei quali si serviva per fare spedizioni punitive?

MARIO SCIALOJA. Non credo assolutamente. Se io dovessi fare una scommessa, presidente, direi che i mandanti sono persone vicine o appartenenti alla fazione di Ali Mahdi.

PRESIDENTE. Italiani ce ne sono?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Esclude mandanti italiani?

MARIO SCIALOJA. Non li posso escludere del tutto. Ricollegandoci per esempio alla questione di Bosaso, come si è detto anche in tribunale...

PRESIDENTE. Bosaso, perché? Lo spieghi.


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MARIO SCIALOJA. C'era stato l'episodio del peschereccio sequestrato; non era la prima volta...

PRESIDENTE. Lei ha conosciuto il sultano di Bosaso?

MARIO SCIALOJA. No. Quando era a Mogadiscio, un giorno andai a Bosaso con un G222 dell'aeronautica militare per cercare di risolvere un problema di Africa 70, che era tartassata dall'autorità che in quel momento governava Bosaso, che dipendeva da un certo generale Mohamed Abscir Musse, che io conoscevo bene perché negli anni sessanta era a capo della polizia (filoamericano e ubriacone; comunque, affari suoi). Andai a Bosaso dalla mattina alla sera per questo problema e poi tornai. Il sultano Bogor non l'ho mai visto. Se dovessi fare una scommessa, punterei su quello, più che sul fondamentalismo islamico.

PRESIDENTE. Vale a dire?

MARIO SCIALOJA. Su gente della fazione di Ali Mahdi.

PRESIDENTE. Ma la fazione di Ali Mahdi è anche la fazione che troviamo in collusione, secondo le notizie...

MARIO SCIALOJA. Con il fondamentalismo?

PRESIDENTE. Certo.

MARIO SCIALOJA. Diciamo che io privilegerei la componente Ali Mahdi, perché Ali Mahdi in quel momento certamente aveva dei grossi risentimenti contro gli italiani, in quanto - del tutto a torto - accusava il nostro contingente di aver sequestrato le sue armi piuttosto che quelle di Aidid, fatto dovuto al controllo del territorio e non ad una benevolenza del nostro contingente nei confronti di Aidid.

PRESIDENTE. Lei ha sempre detto che questo duplice omicidio non era casuale e che invece era frutto di una precisa determinazione.

MARIO SCIALOJA. Certo. Intendevo questo.

PRESIDENTE. Ho capito. Quindi, non è un ragionamento...

MARIO SCIALOJA. Non è stato un ragionamento a posteriori; l'ho pensato all'istante.

PRESIDENTE. Lei all'istante ha pensato che la determinazione - vorremmo dire quasi la preordinazione, perché a questo punto non potrebbe essere altro che questo, se sono vere le notizie per cui l'auto sarebbe stata seguita fin da quando è partita dall'hotel Sahafi - fosse da attribuire ad Ali Mahdi. E invece sugli esecutori materiali non può darci indicazioni? Comunque è gente al soldo di Ali Mahdi.

MARIO SCIALOJA. Anche quei nomi che mi ha letto prima di gente che sarebbe stata ferita e poi portata in ospedale, le etnie indicate, se non sbaglio, erano appartenenti al gruppo di Ali Mahdi.

PRESIDENTE. Sì.

MARIO SCIALOJA. Quei nomi li ho sentiti per la prima volta stasera.

PRESIDENTE. Lei ha conosciuto Beri-Beri?

MARIO SCIALOJA. Chi era?

PRESIDENTE. Mohammed Ismail Jusuf, detto Beri-Beri. Lo ha mai sentito?

MARIO SCIALOJA. I somali hanno tutti soprannomi come zoppo, marchese e così via. Non lo ricordo.

PRESIDENTE. Mugne l'ha mai conosciuto?


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MARIO SCIALOJA. Mugne sì, ma l'ho conosciuto in Italia.

PRESIDENTE. Era di Ali Mahdi?

MARIO SCIALOJA. Questa è una domanda, se non da un milione, forse da centomila euro. Mi posso informare e glielo faccio sapere per telefono nei prossimi giorni. Mugne era coinvolto nella gestione dei pescherecci della Shifco: era un ingegnere che ha studiato e viveva a Bologna. Io lo conobbi a Roma quando lavoravo alla cooperazione; mi venne a trovare per un qualcosa di improbabile, di cui non ricordo più assolutamente nulla.

PRESIDENTE. Mugne aveva rapporti con il sultano di Bosaso?

MARIO SCIALOJA. Non lo so. Quando ero in Somalia non sapevo neanche dell'esistenza di Mugne. L'ho conosciuto a Roma qualche mese dopo aver assunto l'incarico di coordinatore dell'aiuto bilaterale a favore dei paesi dell'Africa del sub-Sahara. L'ho visto tre o quatto volte e poi l'ho perso di vista.

PRESIDENTE. In conclusione, ci può dire che dal punto di vista dei mandanti lei si muoverebbe nel settori di Ali Mahdi...

MARIO SCIALOJA. È la sensazione dall'atmosfera che c'era a Mogadiscio.

PRESIDENTE. A Mogadiscio lo sanno tutti chi ha ucciso e chi è il mandante?

MARIO SCIALOJA. Certo.

PRESIDENTE. Quindi, la sua sensazione, che è autorevole, è che da Ali Mahdi provenga il mandato, che gli esecutori siano gente sua, e non può escludere che tra i mandanti ci sia anche qualcosa che riguardi l'Italia.

MARIO SCIALOJA. Non potrei dire se Ali Mahdi in persona. Ali Mahdi era a capo di un conglomerato di signorotti e di persone; mi riferisco dunque alla fazione. Ali Mahdi come persona tenderei ad escluderlo, perché era un agricoltore e proprietario di ristorante...

PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare del sequestro di una nave a Bosaso?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Chi è che sequestrava? Erano dei ricatti veri e propri?

MARIO SCIALOJA. Sì. Ci sono stati due sequestri di pescherecci della Shifco: uno, parecchi mesi prima dell'episodio di Ilaria Alpi, di un peschereccio il cui comandante e qualche membro dell'equipaggio erano italiani e furono portati da Bosaso all'interno e detenuti. A quell'epoca io non ero in Somalia né immaginavo che ci sarei andato, ma ricordo che avevo seguito la vicenda anche perché mi sono sempre interessato della Somalia. Il ministero se ne occupò e credo che mandò in missione quello che allora era il console onorario d'Italia a Gibuti. Si trattò certamente - sul secondo episodio si possono avere dubbi - di un litigio tra le due fazioni che si contendevano il controllo della Migiurtinia, quella di Abdullah Jusuf, che come sappiamo è ancora in gioco, e quella del generale Mohammed Abscir Musse, che adesso è totalmente rimbecillito, che facevano pagare delle royalty - diciamo così - per permettere ai pescherecci di pescare al largo delle coste della Migiurtinia. La fazione che non percepiva le royalty faceva i dispetti all'altra. Fu un sequestro dovuto a questa ragione.
Posso dire una cosa interessante per la Commissione: quando venne sequestrato il peschereccio, qualche giorno prima dell'assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, l'ammiraglio Calamai, comandante della flotta italiana, ad un certo momento mi aveva proposto di andare a Bosaso - e io ci sarei andato con mio grande divertimento, perché certe cose mi divertono e mi piacciono - con l'aereo per vedere che cosa era accaduto a questo peschereccio. Io pensavo e penso ancora che si sia


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trattato semplicemente della solita questione delle royalty, però ad un certo momento, dopo aver parlato al ministero di questa possibile spedizione di ricerca e di indagine sull'episodio, dal ministero ebbi per telefono l'istruzione di lasciar perdere perché tanto gli armatori italiani - che erano una cooperativa di pescatori di Ravenna, se non erro - che la Shifco avevano detto che non era necessario intervenire perché il problema era stato risolto. Io credo che Ilaria Alpi si sia mossa, sia andata a Bosaso proprio per questo episodio del peschereccio. Lo penso io.

PRESIDENTE. Lo pensa in base a qualche elemento?

MARIO SCIALOJA. Lo penso perché questo fatto di partire da Mogadiscio e andare a Bosaso, dove si era verificato questo episodio, non vedo quale altro motivo potesse sottendere. Questo è quello che mi viene spontaneo pensare.

PRESIDENTE. E Chisimaio che cosa le dice?

MARIO SCIALOJA. Chisimaio è una città sul mare a seicento chilometri a sud di Mogadiscio che allora era controllata da un certo generale Morgan, un altro signorotto della guerra, ma un po' scassato.

PRESIDENTE. È quello che adesso ha deposto le armi?

MARIO SCIALOJA. Sì. Era un parente di Siad Barre.

PRESIDENTE. Le risulta che a Chisimaio ci fosse un campo di fondamentalisti islamici?

MARIO SCIALOJA. No, mi risulta che a Chisimaio vi era un porto costruito, credo, dagli americani. Nell'entroterra vi era una zona agricola.

PRESIDENTE. Che ragioni di interesse giornalistico vi erano a recarsi a Chisimaio, secondo lei?

MARIO SCIALOJA. Ilaria Alpi vi si è recata? No.

PRESIDENTE. La prima tappa avrebbe dovuto essere Chisimaio, invece venendo meno l'aereo non ci poté andare, e per questa ragione andò a Bosaso.

MARIO SCIALOJA. Come vi andò? Con un aereo dell'Unosom?

PRESIDENTE. Sì.

MARIO SCIALOJA. Francamente, non mi dice niente. I fondamentalisti che conoscevo erano nell'entroterra, piuttosto lontani dal porto di Chisimaio. Poi, essendo Morgan della pasta di Siad Barre, non credo che desse molta corda ai fondamentalisti.

PRESIDENTE. Lei conosce l'ambasciatore Cassini, questo deus ex machina di tutta la vicenda giudiziaria che poi ha portato alla condanna di quello che è attualmente ritenuto responsabile, Hashi Omar Hassan?

MARIO SCIALOJA. Sì, certo.

PRESIDENTE. Quando avete cominciato a parlare dei problemi dell'indagine sulla vicenda di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin?

MARIO SCIALOJA. Non ne abbiamo mai parlato, perché Casini lo conoscevo per i contatti avuti al Ministero, ma quando ebbe questo incarico dal Ministero, in seguito al quale ha imbarcato per l'Italia questo Hashi, non ho avuto nessun contatto con lui. Per lo meno, non me lo ricordo.

PRESIDENTE. Non le ha mai parlato di questa ricerca di testimoni che stava compiendo, a beneficio dell'accertamento giudiziario?


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MARIO SCIALOJA. Forse me ne avrà parlato en passant...

PRESIDENTE. Tra le altre cose risulta un po' strano che dopo parecchio tempo lui trovi, nel gennaio 1998, quindi dopo tre anni circa da quando sono avvenuti i fatti, colpevoli, testimoni e tutto il resto - vedremo poi se sarà vero o meno, ma questo è un altro discorso - diversamente da quello che era avvenuto nelle immediatezze del fatto, quando nessuno, a cominciare da lei, era riuscito a sapere niente, e a capire che cosa fosse successo. Da dove vengono queste virtù taumaturgiche di Cassini?

MARIO SCIALOJA. Sarà forse molto più bravo di me.

PRESIDENTE. Forse aveva lei come suggeritore occulto?

MARIO SCIALOJA. No. A quell'epoca ero ancora a Riad. Ero appena rientrato a Roma. No, non ebbi contatti con Cassini.

PRESIDENTE. Non sono necessari i contatti, basta parlare.

MARIO SCIALOJA. Una cosa, di cui non conosco le ragioni o le motivazioni, mi incuriosì. Durante il processo che terminò con la condanna di quel ragazzo, quando mi recai a testimoniare, il professor Alpi e la signora Alpi mi dissero che loro non credevano alla colpevolezza del ragazzo. Non so se, poi, il professore abbia cambiato idea, ma, insomma, non so quale sia stata l'operazione compiuta dal collega Cassini.

PRESIDENTE. Non sa nulla.
Conosce Ahmed Washington?

MARIO SCIALOJA. No. Chi è?

PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare di un somalo, un certo Shino?

MARIO SCIALOJA. No, ma se mi dice chi è, magari mi può venire in mente.

PRESIDENTE. Era persona conosciuta da Cassini.

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Ha mai sentito nominare Ali Ahmed Rage, detto Gelle?

MARIO SCIALOJA. Sì, non ricordo adesso chi è, ma l'ho sentito nominare.

PRESIDENTE. Può averlo mai conosciuto in qualche circostanza?

MARIO SCIALOJA. Penso di sì, perché il nome mi è molto familiare.

PRESIDENTE. E quando l'avrebbe conosciuto?

MARIO SCIALOJA. Potrei averlo addirittura conosciuto negli anni sessanta.

PRESIDENTE. No, è un giovane.

MARIO SCIALOJA. Io conoscevo Ali Raghe, ma questo non vuol dire niente, perché la grafia dei nomi somali è perlomeno incerta.

PRESIDENTE. Non lo conosce (mostra una fotografia)?

MARIO SCIALOJA. No, non lo ricordo. Chi era?

PRESIDENTE. È il testimone dell'accusa.
Conosce qualcuno (mostra una fotografia)?

MARIO SCIALOJA. È possibile che ne abbia conosciuto qualcuno, ma non lo ricordo.

PRESIDENTE. E invece, ha mai conosciuto il ragazzo che hanno condannato?

MARIO SCIALOJA. No, l'ho visto a Roma.


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PRESIDENTE. Ha mai conosciuto Osman Ato?

MARIO SCIALOJA. L'avevo incontrato a Mogadiscio e poi l'ho rivisto a Riad. Mi venne a trovare. Ma a Riad vennero parecchi esponenti somali e anche un antico presidente della repubblica, Abdullah Osman, che è ancora vivo (credo che sia quasi centenario).

PRESIDENTE. Che rapporti aveva con lei?

MARIO SCIALOJA. Era presidente della repubblica negli anni sessanta, ma poi venne cacciato via con la rivoluzione di ottobre. Osman Ato venne una volta a trovarmi a Riad. Era venuto per avere contati con l'allora capo dell'intelligence saudita, che ora è ambasciatore a Londra, con il quale avevo contatti anch'io, sempre per la Somalia.

PRESIDENTE. Chi era questo professor Issa?

MARIO SCIALOJA. Era, o è perché forse è ancora vivo, un giovane che era considerato responsabile per gli affari esterni, o esteri, se vogliamo, degli Habrghedir. Abitava in una villa vicino al compound dell'Unosom.

PRESIDENTE. Cioè, dalla parte di Aidid?

MARIO SCIALOJA. Sì, dalla parte di Aidid. L'ho visto varie volte. Lui circolava liberamente. Non c'era la preclusione americana nei contatti con lui. Per me è sempre stato un mistero il fatto che gli americani avessero preso di punta Aidid. Secondo me è anche uno sbaglio che hanno fatto, perché poi la legnata che hanno preso il 3 ottobre, con la reazione dell'opinione pubblica americana, ha causato il loro ritiro.

PRESIDENTE. Prego, onorevole Bulgarelli.

MAURO BULGARELLI. Lei era un po' il collettore degli italiani in Somalia, in quel periodo. Ci vuole parlare degli altri italiani che erano presenti in Somalia? Abbiamo parlato di Marocchino, di Tedesco, ma c'erano altre persone, aziende private e ditte.

MARIO SCIALOJA. Aziende private e ditte non mi sembra. C'era un gruppo di suore, curiosamente. C'erano due o tre suore che abitavano a Mogadiscio nord. C'erano dei cooperanti, tra i quali una certa Annalena Tonelli, che poi fu uccisa ad Argheisa, e non so perché; non so che imprudenza possa aver commesso. Annalena Tonelli, che io conoscevo bene, era una pasionaria della cooperazione. Stava a Merka. C'era del personale della cooperazione, ma italiani a Mogadiscio, della vecchia colonia italiana, non c'era rimasto nessuno.

MAURO BULGARELLI. Ha conosciuto il maresciallo Li Causi, del Sismi?

MARIO SCIALOJA. Sì.

MAURO BULGARELLI. Ci parli di Li Causi. Che cosa faceva in Somalia? Come è avvenuto l'assassinio? Come l'ha vissuto? Ci racconti un po' di questa vicenda.

MARIO SCIALOJA. Con piacere, ma francamente non ricordo molto, altrimenti non avrei nessuna difficoltà. Mi spiace.

MAURO BULGARELLI. Conosce Menicacci? Le dice niente.

MARIO SCIALOJA. No. Mi sembra che non mi dice niente. Di quell'epoca, a Mogadiscio, a parte il personale dell'unità tecnica di cooperazione del Ministero degli esteri e delle organizzazioni non governative che lavoravano a Gioara, a Mogadiscio, a Merka, a Bosaso, e in altre località, non ricordo proprio nessun altro.

MAURO BULGARELLI. E sulla strada Garoe-Bosaso?


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MARIO SCIALOJA. Fu un progetto finanziato non dalla cooperazione del Ministero, ma dal fondo aiuti italiani, quel fondo speciale che era diretto dal sottosegretario Francesco Forte. Era un progetto che io ho sempre pensato che fosse una sorta di regalo a Siad Barre, più o meno a fini militari e di controllo. Infatti, si trattava di una strada la cui costruzione era stata oggetto di condanna senza nessuna possibilità di appello da parte della Banca mondiale, e che non ha mai avuto in realtà alcun traffico. Tra l'altro è stata completata soit disant, perché in molte parti credo che la carreggiata fosse stata limitata come larghezza e qualche tratto non è stato neanche mai asfaltato. È un bruttissimo progetto di cooperazione.

MAURO BULGARELLI. Diversi dicono che la Garoe-Bosaso fosse utilizzata per seppellire rifiuti tossici.

MARIO SCIALOJA. È difficile smentire completamente una cosa di questo genere, poi, d'altra parte, le ditte italiane non sono nuove ad esperimenti in questo senso. Ricordo che, quando arrivai a New York, nel 1988, era in corso una polemica. Eravamo in difficoltà, soprattutto nella terza commissione dell'Assemblea generale, per un episodio di scorie altamente nocive, sbarcate da navi italiani in Nigeria. Eravamo veramente sotto accusa. Quindi, la storia non è impossibile di per sé, ma a parte il fatto che oggi queste scorie vengono tutte buttate liberamente a mare, il fatto di portarle in un paese come la Somalia, in un posto come Bosaso, dove non c'è un porto, dove c'è difficoltà di sbarco, difficoltà di trasporto, e tutto il resto, mi ha sempre colpito come una cosa piuttosto inverosimile. Sì, lo so che la voce è circolata molto. Mi sembra che sia stata anche menzionata la questione delle scorie dannose nel film Il più crudele dei giorni, il film su Ilaria Alpi che andai a vedere. Ma mi ha sempre colpito come una cosa altamente improbabile. Era semplicemente un pessimo programma di cooperazione.

MAURO BULGARELLI. E riguardo alla domanda, relativa alla sua lettera del 22 dicembre 1993, che le ha fatto il presidente, lei dice che ha appreso la notizia dell'archiviazione dalla segreteria generale del Ministero degli affari esteri e che c'è stato un equivoco. L'ha saputo a voce o per iscritto?

MARIO SCIALOJA. Probabilmente a voce, perché in genere parlavamo con la radio satellitare. Molte comunicazioni scritte tra il Ministero e la delegazione speciale non ci sono state. Ma, lo ripeto, sono assolutamente convinto del fatto, perché Giancarlo Marocchino era stato già oggetto di vive attenzioni da parte dell'autorità giudiziaria in Italia per altre faccende che non avevano niente a che fare neanche con la cooperazione (non so che traffici avesse fatto). L'inchiesta si concluse con la sua assoluzione.

MAURO BULGARELLI. Dunque, non ricorda altro di come può essere nato eventualmente l'equivoco?

MARIO SCIALOJA. No. D'altra parte, nella storia di Giancarlo Marocchino - sarà agli atti della Commissione - vi è una prima inchiesta in Italia, che non era stata portata avanti in seguito alle denunce (anche se denuncia formale non c'è mai stata) dell'ammiraglio Jonathan Howe, ossia dell'Unosom, per il supporto del traffico di armi con Aidid, ma che riguardava altro.

MAURO BULGARELLI. Ha conosciuto Garelli?

MARIO SCIALOJA. No, chi è?

MAURO BULGARELLI. Conosceva Marocchino. Ha mai sentito parlare del progetto Urano?

MARIO SCIALOJA. Un progetto di cooperazione? Guardi, conosco tutti i progetti di cooperazione in Somalia: dalla fabbrica di urea, ad altri, ma non conosco progetti Urano o Nettuno o relativi a qualsiasi altro astro.


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MAURO BULGARELLI. Quindi lei non ricorda Garelli, né lo ha mai incontrato?

MARIO SCIALOJA. Francamente, non ci potrei giurare, ma non mi dice assolutamente nulla.

MAURO BULGARELLI. Il nome Martini le dice niente?

PRESIDENTE. Mirco Martini.

MARIO SCIALOJA. No, chi è?

PRESIDENTE. Un parente del generale.
Prego, onorevole De Brasi.

RAFFAELLO DE BRASI. Signor ambasciatore, lei ha detto che le risulta che il Sismi fosse piuttosto critico con Marocchino. Ma noi abbiamo agli atti una realtà che in qualche modo potrebbe contrastare con questa sua affermazione, nel senso che Marocchino dava comunque informazioni e non faceva solo logistica e servizi. Dava informazioni e svolgeva anche un ruolo piuttosto attivo, essendo un conoscitore delle cose somale, oltre ad aver rapporti sia con il gruppo di Aidid che con quello di Ali Mahdi. Mi può dire per quale ragione il Sismi era critico con Marocchino?

MARIO SCIALOJA. Marocchino non era ben visto e, malgrado l'Unosom se ne servisse, non era prediletto nemmeno dall'Unosom. C'era stato l'episodio, di cui abbiamo parlato nella prima parte dell'audizione, delle armi sequestrate nel suo campo. C'era quindi tutta una situazione che rendeva Marocchino un personaggio perlomeno discutibile. Quindi, nessuno certamente lo amava. Tutti se ne servivano perché purtroppo lui era l'unico che in Somalia possedeva le motrici con pianali da trasporto per portare carichi voluminosi, quindi se ne serviva l'Unosom, e forse non se ne servivano gli americani perché gli americani avevano un contingente con pochi mezzi pesanti e non avevano blindati. Questa fu la ragione per cui il 3 ottobre si misero in quel guaio. Dunque, tutti se ne servivano, ma nessuno lo stimava. Che poi Marocchino potesse fornire delle informazioni al Sismi, è molto probabile. Gente di questo genere cerca di comprarsi le simpatie anche in questo modo.

RAFFAELLO DE BRASI. Durante i lavori della Commissione abbiamo ascoltato affermazioni molto nette, che lo descrivevano sicuramente come un agente del Sismi. Questo contrasterebbe abbastanza con la sua interpretazione. La sua è un'interpretazione o ha avuto rapporti diretti con il Sismi che le hanno confermato questa sua affermazione?

MARIO SCIALOJA. No era una mia impressione, motivata anche dagli atteggiamenti locali dei rappresentanti del Sismi. Sul fatto poi, che possa essere un agente del Sismi, lei sa benissimo che gli agenti che lavorano sotto copertura possono assumere le identità più svariate, quindi non lo posso certamente escludere. Comunque, Marocchino era un personaggio criticato da tutti, anche se poi tutti se ne servivano, tranne gli americani.

RAFFAELLO DE BRASI. L'altra domanda riguarda il sequestro della nave Shifco, a Bosaso. Lei ha fatto un'affermazione, ma in un secondo momento l'ha precisata nel senso che si trattava di una sua interpretazione, che mi pare non abbia grandi riscontri. Mi riferisco al fatto che, secondo lei, Ilaria Alpi fosse andata a Bosaso perché sapeva di questo sequestro e anche delle trattative che erano in corso (il Ministero degli affari esteri ne era a conoscenza, e quindi immagino anche lei). Le domande sono due. Lei informò Ilaria Alpi di questo sequestro? Nella comunità giornalistica abbiamo ascoltato altri giornalisti, e questi ci hanno detto che non lo sapevano. Carmen Lasorella mi ha detto esplicitamente, rispondendo ad una mia domanda, che lei non conosceva assolutamente questo sequestro, cioè che questo sequestro non era conosciuto dai giornalisti. Questo è ciò che lei ha detto, poi non so se questo corrisponda al vero oppure no.


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MARIO SCIALOJA. Carmen non era a Mogadiscio, allora. Quindi, è possibile che non lo sapesse.

RAFFAELLO DE BRASI. Quindi lei sostiene che nella comunità giornalistica si sapeva, però nessuno parlò e nessuno scrisse di questa questione in quel momento in cui avvenne il sequestro della Shifco, quindi non ci sono notizie di stampa che fanno riferimento a questo sequestro nel mentre avvenne, mentre ovviamente il Ministero lo conosceva. Quindi, quando lei fa l'affermazione secondo la quale Ilaria Alpi è andata a Bosaso per questa ragione, è una sua deduzione, né lei ha parlato di questo ad Ilaria Alpi.

MARIO SCIALOJA. Infatti, come era stato ricordato prima, non vidi Ilaria Alpi nel corso della missione che poi si è conclusa così tragicamente. È una mia deduzione. Ciò avveniva proprio mentre si parlava con Calamai di fare una specie di raid a Bosaso per capire cos'era successo. Teniamo presente che vi erano, non ricordo se il comandante e quali membri dell'equipaggio, italiani.

RAFFAELLO DE BRASI. Tre erano italiani. E lei fu coinvolto in questa trattativa?

MARIO SCIALOJA. Me ne occupai nel senso che poi ebbi istruzioni dal Ministero di lasciar perdere, che tanto la questione era in via di risoluzione, e infatti si risolse.

RAFFAELLO DE BRASI. Quindi, non ebbe una parte attiva nella trattativa?

MARIO SCIALOJA. No.

RAFFAELLO DE BRASI. Dalle sue informazioni, questa attenzione che la Alpi poteva avere su questa nave era dovuta esclusivamente al sequestro - era una notizia anche quella (c'erano anche degli italiani) - o invece la sua attenzione era dovuta a tutto ciò che si pensava e si ipotizzava sul ruolo e sulla funzione delle navi Shifco, in particolare con riferimento a traffici illegali, cioè alla possibilità che queste navi svolgessero un'attività illegale?
Secondo lei - lei ha parlato di questa possibile attenzione della Alpi - Ilaria Alpi poteva essere attenta anche su questo, cioè sul ruolo che le navi Shifco potevano svolgere nei traffici illegali? Ne ha mai parlato con lei?

MARIO SCIALOJA. No. La questione è stata poi discussa nel corso del processo che ha portato alla condanna del giovane somalo. Mi ricordo che nella mia testimonianza affermai che, se non potevo escludere che le navi della Shifco, anche se una parte degli armatori erano italiani, stesse effettuando dei trasporti di armi (via terra si sapeva che venivano giù dalla parte di Bosaso), però non avevo neanche alcuna ragione per pensarlo, né per negarlo, come dissi in tribunale.
L'importazione delle armi in Somalia era una questione abbastanza complicata. Per esempio, ci fu un episodio di una nave, non so battente quale bandiera, che partiva da Gibuti con un carico di armi, che fu fermata dagli americani in mare e rispedita al porto di partenza. Quindi, delle armi giungevano da nord, e la via di terra era certamente più sicura della via di mare, dove c'erano delle forze navali italiane, americane e altre.
Certo, mi rendo conto che avanzare un ipotesi di questo genere da parte mia è anche una cosa abbastanza grave, perché significa mettere in dubbio anche l'operato della cooperativa di pescatori di Ravenna, e di chi gestiva i pescherecci. Certamente, non posso dire né di no, né di sì. L'episodio del sequestro, di per se stesso, con degli italiani sequestrati, aveva fatto rumore a Mogadiscio, tant'è vero che l'ammiraglio Calamai stava pensando di fare questa spedizione militare. Quindi, se Ilaria sia andata a Bosaso solamente per l'episodio del sequestro o se già avesse dei sospetti o delle idee al riguardo, non posso dirlo. Tenderei tendenzialmente ad escludere che vi sia andata solamente per l'episodio del sequestro che in quei giorni era molto discusso.


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RAFFAELLO DE BRASI. Lei dice che era discusso. Dunque, era conosciuto dai giornalisti di Mogadiscio?

MARIO SCIALOJA. Penso proprio di sì. Benni in quei giorni non era a Mogadiscio...

RAFFAELLO DE BRASI. C'erano tanti altri giornalisti.

MARIO SCIALOJA. Ce n'erano due o tre all'hotel del quarto chilometro. Mi sembra strano che non lo conoscessero. Era una cosa di dominio pubblico, e se ne parlava continuamente. Sarebbero stati giornalisti ciechi sordi e muti, come le scimmiette della canzoncina.

RAFFAELLO DE BRASI. Lei prima ha parlato di questa ostilità di Ali Mahdi nei confronti del contingente italiano, ...

MARIO SCIALOJA. Più che ostilità, risentimento.

RAFFAELLO DE BRASI. A noi risulta che vi fosse un risentimento di Ali Mahdi anche nei confronti del TG3, per il quale lavorava Ilaria Alpi, nel senso che abbiamo avuto la prova che lui fece conoscere ai giornalisti del TG3, in maniera anche indiretta il fatto che lui si sentisse - come per le armi - risentito perché il TG3 dava più spazio a Aidid (lo faceva per una ragione banale, e cioè che Ilaria Alpi tentò diverse volte di intervistare Ali Mahdi, e non ci riuscì, mentre per lei fu molto più semplice intervistare Aidid). Questa è la ricostruzione che noi abbiamo fatto. La mia domanda è questa: le risulta che nei confronti dei media italiani, e quindi anche della televisione italiana vi fosse un risentimento di Ali Mahdi dovuto a come venivano a conoscenza di ciò che i nostri media trasmettevano? Che tipo di rapporto c'era con i media italiani, da parte di questi gruppi, in particolar modo di Ali Mahdi?

MARIO SCIALOJA. Mi sembra strano che Ali Mahdi fosse preoccupato delle sue apparizioni sui telegiornali italiani.
Lei parlava adesso di Ilaria Alpi e dei contatti con Aidid. Non credo che Ilaria abbia visto Aidid.

RAFFAELLO DE BRASI. Sì, lo ha intervistato.

MARIO SCIALOJA. Quando? Forse durante la prima apparizione. Infatti, uno dei problemi che si erano creati in Somalia, prima del mio arrivo a Mogadiscio, erano i troppi contatti tra i giornalisti italiani e Aidid, che era già sotto il tiro degli americani. Quindi, è possibile. Non credo che l'abbia visto quando c'ero io, forse in precedenza. Infatti, in quel momento era veramente molto difficile vedere Aidid, anche perché era lui che non si faceva vedere.
Come lei sa, onorevole, i tentativi americani di prendere Aidid hanno avuto lo stesso successo di quelli di Osama Bin Laden (tranne che Bin Laden sta dove sta, mentre Aidid si nascondeva in un quartiere a sud di Mogadiscio, all'interno, di pochi chilometri quadrati e sfuggiva alla cattura spostandosi di giorno e di notte, senza dire dove andava nemmeno alla moglie, e senza utilizzare il cellulare, che già cominciavano ad apparire in Somalia, perché sarebbe stato localizzato immediatamente).
Gli americani fecero una volta un'incursione nell'ufficio dell'Undp, a Mogadiscio, su informazioni della nota agenzia di intelligence americana. Spararono all'impazzata. Per fortuna, con il visore agli infrarossi, quei superaddestrati non ammazzarono nessuno. Un'altra volta, fecero un'incursione, sempre per catturare Aidid, in una villa di Mogadiscio nord, mi sembra del generale Gilao, dove ammazzarono il guardiano della casa. Però Aidid non c'era. Dunque, vedere Aidid era veramente difficile.

RAFFAELLO DE BRASI. Risulta avvenuto prima.
L'ultima domanda riguarda Vezzalini. Infatti, in corte d'assise, Vezzalini ha detto che c'era una pattuglia dell'intelligence


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dell'Unosom vicino al luogo dell'agguato. Lei ha incontrato Vezzalini, se non ho capito male, dopo l'agguato?

MARIO SCIALOJA. Certo, il pomeriggio stesso.

RAFFAELLO DE BRASI. Le ha detto niente di questa pattuglia?

MARIO SCIALOJA. No.

RAFFAELLO DE BRASI. Sapeva già dell'agguato, quando lei lo ha incontrato?

MARIO SCIALOJA. Lo incontrai, credo, un'ora e mezzo dopo. Probabilmente sì, ma dato che io lo abbordai subito con l'argomento, non mi disse che ne era al corrente. Non ricordo, ma probabilmente sì, dato che l'Unosom aveva diversi posti di controllo in tutta Mogadiscio, dai quali erano state viste le macchine. Questo sì, ma che ci fosse un'unità dell'intelligence dell'Unosom vicino al porto dell'agguato, non me l'ha mai detto.

PRESIDENTE. Prego, onorevole Deiana.

ELETTRA DEIANA. Desidero fare alcuni approfondimenti sulla questione relativa al fondamentalismo islamico che nel lavoro della Commissione è emerso come una realtà che si andava affermando in quella fase abbastanza significativamente. Per tornare alla questione della corte islamica, le chiedo di confermare o di non confermare quello che io suppongo essere questa corte islamica. Cioè, si tratta di un'autoistituzione che si afferma nel vuoto di potere subentrato alla crisi del regime di Siad Barre, nel senso che essendo il regime di Siad Barre di tipo laico, durante il regime stesso non c'era la corte islamica.

MARIO SCIALOJA. No.

ELETTRA DEIANA. Quindi, è sostanzialmente un'autorganizzazione del clero islamico, che si propone di imporre in Somalia la sharia, cioè la legge coranica.

MARIO SCIALOJA. Magari la sharia fosse solo la legge coranica...

ELETTRA DEIANA. Sì, deriva dall'interpretazione fondamentalista del corano. Ovviamente, la corte islamica, come tutta la deformazione politico ideologica dell'islam, fa capo a gruppi politici. C'è qualcuno che ne garantisce la sopravvivenza.

MARIO SCIALOJA. O li tollera.

ELETTRA DEIANA. Li tollera e li garantisce. Infatti, le due fazioni di Aidid e di Ali Mahdi sono conniventi, cioè le supportano.

MARIO SCIALOJA. Sì, certo.

ELETTRA DEIANA. La corte islamica, questo gruppo di fondamentalisti, agisce anche sul territorio con propri strumenti. Poiché si tratta di imporre determinate modalità, anche di comportamento della società, le chiedo, per la sua conoscenza delle realtà fondamentaliste: è possibile che avessero gruppi, se non di polizia, di fanatici che andavano in giro per realizzare e per imporre gli obiettivi della corte islamica?

MARIO SCIALOJA. Sì, è possibile.

ELETTRA DEIANA. Quindi, in riferimento alla nota che ricordava prima il presidente, in cui si parla di un santone che aveva al suo seguito un esercito di fanatici, è possibile che ci fossero delle connessioni tra questi gruppi di fanatici e la corte islamica?

MARIO SCIALOJA. Certamente sì. Credo che questi tribunali islamici fossero sopportati, e non tollerati o supportati, da Ali Mahdi e gli altri, perché non avevano nemmeno i mezzi per contrastarli. Indubbiamente, questo fondamentalismo che contrasta con il regime, da lei giustamente definito laico, di Siad Barre, non credo che fosse gradito ad Ali Mahdi o a Aidid.


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In un certo senso era tollerato. Non potevano farne a meno. Non potevano eliminarlo o reprimerlo.

ELETTRA DEIANA. La questione del fondamentalismo non fu soltanto un fatto legato a comportamenti religiosi, resi fanatici, o un tentativo di imporre un controllo di tipo morale sul territorio. Ebbe anche intrecci politico-strategici nel senso che la penetrazione dei gruppi fondamentalisti di stampo terrorista fa parte dello stesso fenomeno. Da questo punto di vista, tutto quello che si è appurato finora, sui traffici di armi, di materie contaminate, eccetera, possono aver avuto secondo lei - per quello che lei conosce della realtà della Somalia di quegli anni - connessioni con i gruppi terroristi e con il fondamentalismo?

MARIO SCIALOJA. Credo che, all'epoca, tutti i vari traffici, compreso quello di armi, fosse piuttosto diretto dai capi fazione, dai signori della guerra, piuttosto che dai fondamentalisti islamici.

ELETTRA DEIANA. Non dai fondamentalisti?

MARIO SCIALOJA. A quell'epoca? Non credo. È possibile dopo, per quello che è successo.

ELETTRA DEIANA. È appurato che c'erano campi di addestramento dei terroristi in Migiurtinia.

MARIO SCIALOJA. Sì, è possibile. Io non ne sono del tutto convinto ma è possibile. È stata ventilata varie volte l'ipotesi, anche negli ultimi anni, di un terrorismo islamico che potesse anche riguardare l'Europa, in connessione con la situazione di instabilità della Somalia. Però, trattandosi di quell'epoca, 1993-1994, ben prima del fatto delle Torri gemelle e di tutto il resto, sarei portato a non dare un'eccessiva importanza al fondamentalismo con riferimento ai campi di addestramento. I campi di addestramento sono venuti dopo.

ELETTRA DEIANA. Poteva essere una fase iniziale.

MARIO SCIALOJA. Sì.

ELETTRA DEIANA. A me interessa in riferimento alla vicenda dei due giornalisti. Tra le ipotesi che noi abbiamo dovuto prendere in considerazione, contrastanti con l'ipotesi iniziale che avevamo formulato (cioè che Ilaria Alpi fosse andata volontariamente, per scelta, a Bosaso), per le testimonianze che abbiamo avuto, vi è quella per cui può darsi che sia andata casualmente a Bosaso. Infatti, volendo andare a Chisimaio, mancando l'aereo, si recò a Bosso.

MARIO SCIALOJA. Insomma, come se io, volendo andare a Milano, a causa di un problema della linea, andassi a Napoli...

ELETTRA DEIANA. Sì, soltanto che lei vive, mentre Ilaria è stata uccisa, quindi c'è una bella differenza...
A noi risulta che quel sultano fosse legato al fondamentalismo islamico. Era un esponente del fondamentalismo. Quindi, è possibile che Ilaria Alpi abbia scoperto qualcosa. È un'ipotesi. Allora, le faccio una domanda. Per quello che lei conosce delle modalità, dei modi di trasmettere, di mettersi in contatto, di comunicare, potrebbe essere possibile che - se Ilaria Alpi avesse scoperto qualcosa di molto pericoloso, o comunque qualcosa che non doveva arrivare al TG3, relativamente alla connessione tra traffici e terroristi e tra responsabilità di vari personaggi o potenze - attraverso la rete dei fondamentalisti, da Bosaso a Mogadiscio, sia stato preordinato l'agguato con l'uccisione dei due giornalisti?

MARIO SCIALOJA. Sì, è possibile. A Bosaso, come in tutta la Somalia, si comunicava via radio e quindi non vi era alcuna difficoltà a far arrivare istruzioni o mandati a gente a Mogadiscio.

ELETTRA DEIANA. In una nota della DIGOS del 23 settembre 2000 al dottor


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Ionta si mette l'accento sull'atteggiamento dell'Unosom di minimizzare sulle reali cause che avrebbero portato all'uccisione dei due giornalisti. Lei ricorda da quali contingenti era formata l'Unosom?

MARIO SCIALOJA. Pakistano, e per gli occidentali c'erano quello francese, quello inglese, quello canadese. Furono i pakistani ad andare a recuperare gli americani il 3 ottobre...

ELETTRA DEIANA. Ma qual era il contingente più numeroso e con maggiori responsabilità militari sul terreno?

MARIO SCIALOJA. Il Pakistan aveva un grosso contingente, con blindati. Quali altri contingenti dei paesi asiatici fossero presenti adesso francamente non lo ricordo. C'erano anche i malesi.

ELETTRA DEIANA. È possibile che questa minimizzazione delle reali cause fosse voluta dal Pakistan, se aveva un ruolo di direzione significativo?

MARIO SCIALOJA. Tutto rientra nel regno delle possibilità. Mi sembra un'ipotesi di fantapolitica, però certamente tutto è possibile.

ELETTRA DEIANA. Comunque il Pakistan aveva un ruolo importante?

MARIO SCIALOJA. Un ruolo importante... Era un contingente abbastanza agguerrito e, ripeto, furono loro a togliere dagli impicci gli americani. Ricordo che Jonathan Howe, quando gli americani si misero in quel guaio, mi telefonò preso dal panico e mi chiese di telefonare al generale Carmine Fiore (perché loro non riuscivano a mettersi in contatto con Balad, mentre io avevo la linea diretta) per chiedergli di mandare tutti i blindati che aveva a Mogadiscio per cercare di salvare questi americani. I blindati si mossero, però dovevano fare un percorso particolarmente lungo; arrivarono quando erano già arrivati i pakistani e avevano tirato gli americani fuori dagli impicci. Quindi il contingente pakistano era ben armato e numeroso.

ELETTRA DEIANA. Quali sono gli agenti, gli informatori del Sismi di cui lei ha avuto conoscenza?

MARIO SCIALOJA. Somali?

ELETTRA DEIANA. No, italiani.

MARIO SCIALOJA. Gianni Giusti e Alfredo Tedesco e poi l'altro che morì a Balad, Li Causi.

ELETTRA DEIANA. Non ne ha conosciuti altri?

MARIO SCIALOJA. No. Il generale Rajola era venuto giù un paio di volte, ma altri non ne ricordo.

ELETTRA DEIANA. Il 19 marzo, un giorno prima della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, furono spostati due elicotteri per soccorrere il capitano della 21 October della Shifco, Moretti. Come mai il giorno dopo non venne spostato alcun mezzo per portare aiuto ai due giornalisti italiani?

MARIO SCIALOJA. Si riferisce ad elicotteri dall'aeronautica militare italiana spostati a Bosaso?

ELETTRA DEIANA. Non a Bosaso. Furono spostati per portare soccorso al capitano della 21 October, Moretti, che stava male, per trasportarlo sulla Garibaldi.

MARIO SCIALOJA. Come abbiamo visto dall'inizio, purtroppo, i due giovani erano morti, ed in effetti mezz'ora dopo l'elicottero stava al porto vecchio per prelevare i due corpi e portarli a bordo della Garibaldi. Ripeto, la notizia che era arrivata era quella. Gli elicotteri in quel momento erano solo quelli della marina; non mi sembra che ce ne fossero altri a terra. Il motivo è quello. Purtroppo non si trattava di un malato.


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ELETTRA DEIANA. Già si sapeva che erano morti.
A proposito della vicenda del capitano Moretti, la giornalista Marina Rini, in sede di commissione sulla cooperazione, ha dichiarato che lei, ambasciatore Scialoja, avrebbe dato l'ordine di tacere su tale vicenda.

MARIO SCIALOJA. È falso!

ELETTRA DEIANA. Quindi la giornalista ha detto il falso.

MARIO SCIALOJA. Il falso a lettere cubitali.

ELETTRA DEIANA. Lei parlò con il generale Fiore della possibilità di intervenire con il contingente militare italiano per liberare il capitano della nave, Nazzareno Fanesi.

MARIO SCIALOJA. Del peschereccio di Bosaso?

ELETTRA DEIANA. Sì, e dell'equipaggio italiano. Perché non si procedette?

MARIO SCIALOJA. Parlai di questa idea dell'ammiraglio Calamai di mandare una piccola flotta di spedizione a Bosaso. Non si procedette perché, interpellato il Ministero degli affari esteri, mi dissero che gli armatori non gradivano e che l'episodio comunque si stava concludendo. In effetti, uno o due giorni dopo il peschereccio venne rilasciato. Semplicemente per questo motivo. Ma l'idea di mandare un aereo con dei militari a Bosaso era originata proprio dall'ammiraglio Calamai, che forse aveva i suoi mezzi.

ELETTRA DEIANA. Lei prima ha detto di non ricordarsi niente della vicenda di Li Causi.

MARIO SCIALOJA. Della morte di Li Causi?

ELETTRA DEIANA. Sì.

MARIO SCIALOJA. Stasera mi sto confondendo con i nomi. Li Causi rimase ucciso a Balad mentre rientrava da una perlustrazione che il contingente militare faceva per assicurare la transitabilità della strada che da Balad proseguiva verso l'ex Villaggio Duca degli Abruzzi, Belet Uen e così via. Rientrando a Balad, prima di arrivare al campo dove si era attestato il contingente italiano, in una località dove c'era una vecchia fabbrica di tessili o di cotone dono della cooperazione tedesca, vennero presi di mira da questo gruppo di somali chiaramente ostili. Non so se nel momento in cui venne colpito Li Causi stava andando in soccorso di qualcun altro; comunque, era con questi mezzi militari che rientravano al campo. Ricordo che la notizia arrivò da Gianni Giusti.

ELETTRA DEIANA. Ho concluso. Grazie.

PRESIDENTE. Onorevole Motta, prego.

CARMEN MOTTA. Ambasciatore, a lei risulta che Ilaria Alpi, tornando da Bosaso, incontrasse o parlasse con il generale Fiore, il quale la sconsigliò di circolare per Mogadiscio? Se questa circostanza le risulta, da chi l'ha appresa?

MARIO SCIALOJA. Mi risulta certamente, e l'ho appresa dal generale Fiore.

CARMEN MOTTA. In che termini si espresse il generale Fiore?

MARIO SCIALOJA. Lui aveva incontrato Ilaria Alpi - io in quell'occasione non la vidi, perché non venne dove mi trovavo io con la delegazione diplomatica speciale - e giustamente le disse che era un momento estremamente delicato e pericoloso per gli italiani, in quella fase finale di imbarco del contingente e, dato che i suoi colleghi stavano ben chiusi nell'hotel del Quarto chilometro, era meglio che anche lei non andasse in giro. Forse l'avrebbero uccisa lo stesso, chi lo


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sa, ma questo colloquio certamente è avvenuto e di questo avvertimento il generale Carmine Fiore mi parlò lì per lì.

CARMEN MOTTA. Ilaria Alpi non era una sprovveduta. Il fatto che non abbia tenuto in considerazione questo suggerimento, detto così esplicitamente, secondo lei a che cosa può essere riferito? Al fatto che si considerasse comunque sufficientemente protetta oppure al fatto che pensava che il generale Fiore potesse eccedere nella preoccupazione? Non credo che un generale dia un avvertimento di questo genere senza avere degli elementi; d'altra parte però anche Ilaria Alpi non era persona che non conoscesse il territorio ed i pericoli cui poteva andare incontro. Quindi, o aveva cose talmente pressanti che la spingevano ad andare comunque incontro ad un certo grado di pericolo, oppure non so. Vorrei il suo parere su questo.

MARIO SCIALOJA. Dicendo una cosa un po' a latere, tra i pericoli che lo stesso generale Fiore correva nelle fasi dell'imbarco del contingente italiano c'erano forse proprio gli atti di ostilità intensificati da parte di gruppi somali contro i militari italiani. Per questo diede l'avvertimento ad Ilaria Alpi. Se lei avesse avuto dei motivi tanto impellenti per andare all'hotel Hamana, dove c'erano due colleghi giornalisti, francamente non lo so; mi sembra strano, ma non so quello che avesse in mente, perché purtroppo non l'ho vista. Forse è stato - lungi da me l'idea di gettare un'ombra sulla sua memoria - un eccesso di fiducia nella sua scorta e in quello che faceva. Forse, però non posso escludere neanche altre ipotesi. Il fatto di andare in un piccolo albergo ormai disabitato dove c'erano due giornalisti che, per qualche motivo, non se n'erano andati, non mi sembra una cosa così impellente. Poi, se avesse delle altre motivazioni, non lo so.

CARMEN MOTTA. Le ho posto questa domanda perché lei, all'inizio dell'esame testimoniale, ha detto che sostanzialmente non c'era questa necessità, passando da Mogadiscio sud a Mogadiscio nord e viceversa...

MARIO SCIALOJA. Di cambiare la scorta.

CARMEN MOTTA. Ciò significa che la scorta che un giornalista o comunque una persona poteva avere era di per sé sufficiente a garantire la sicurezza. Io vedo una certa contraddizione, nel senso che è vero che il contingente italiano se ne stava andando e che i pericoli potevano aumentare, però è anche vero che lei all'inizio ha detto che il passaggio dal sud al nord della città non necessitava di uno scambio di scorta. Qui noi abbiamo sentito persone che ci hanno detto cose molte diverse, vale a dire che per passare da un capo all'altro della città addirittura era necessario avere delle scorte miste; c'è stato detto da persone autorevoli e che conoscono la situazione.
Insisto nella domanda per capire il contesto, perché delle due l'una: o c'è stata una sottovalutazione dei rischi o c'è stata una sopravvalutazione da parte di qualcun altro, altrimenti oggettivamente la situazione porta a pensare che la persona abbia voluto rischiare per qualche motivo, ma che lei giustamente ha detto di non conoscere. Non è ancora chiaro il contesto, perché il generale Fiore dice che era molto pericoloso, persone che hanno testimoniato qui hanno detto che non si andava da Mogadiscio sud a Mogadiscio nord e viceversa senza scorte dell'una e dell'altra parte o addirittura miste, che garantissero la non belligeranza. Sappiamo che scorta avesse Ilaria Alpi. Lei dice che non è vero e che si poteva girare. Ci faccia capire meglio.

MARIO SCIALOJA. Per andare da Mogadiscio sud a Mogadiscio nord, soprattutto se non si disponeva di una macchina blindata, il rischio c'era sempre. Sulla macchina su cui viaggiavo io hanno sparato varie volte. La scorta di Ilaria Alpi purtroppo era estremamente esigua, essendo composta di un elemento solo; ad


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un certo momento, un uomo della scorta che vede arrivare della gente che vuole ammazzare la persona che scorta si scansa e dice «prego, fatevi avanti». Il fatto che occorressero delle scorte miste o che fosse necessario cambiare la scorta, ad un confine peraltro inesistente e fluido come quello tra Mogadiscio nord e Mogadiscio sud, non l'ho mai sentito; certamente chi disponeva di una scorta - ma non c'erano molti giornalisti che andassero in giro con una scorta, a quanto ne so - circolava con una macchina con due o tre uomini, o con due macchine, una per lui e una per la scorta; la protezione che Ilaria Alpi si era data e che forse era l'unica che la RAI le pagasse non era assolutamente sufficiente a garantire, come purtroppo si è visto, la sua incolumità o quanto meno la sua difesa. Se lei andava veramente all'hotel Hamana, dove stava arrivando quando fu raggiunta, bloccata ed uccisa, non vedo quali motivi impellenti avesse, però non voglio turbare la sua memoria o gettare discredito su di lei, che era certamente un'ottima professionista. Forse aveva dei validi motivi, ma se avesse seguito i consigli del generale Fiore o gli stessi che le avrei dato io se fosse venuta da me, forse, chissà - perché nessuno può dire che cosa sarebbe successo -, sarebbe ancora tra di noi.

CARMEN MOTTA. Lei ha avuto modo di conoscere Faduma Aidid?

MARIO SCIALOJA. No, ho conosciuto Aidid. A Nairobi mi ha anche regalato un suo libro sull'India (non l'aveva scritto lui). Faduma Aidid, no.

CARMEN MOTTA. Grazie.

PRESIDENTE. La parola all'onorevole Bindi.

ROSY BINDI. Ambasciatore, a parte l'imprudenza e l'esiguità della scorta, lei mi sembra tra coloro che pensano che Ilaria non sia morta per caso, cioè che non sia semplicemente andata incontro ai suoi esecutori. Era una vittima predestinata, in qualche modo.

MARIO SCIALOJA. Sì.

ROSY BINDI. Secondo lei, l'ipotesi di una ritorsione dei somali contro gli italiani è verosimile?

MARIO SCIALOJA. È l'ipotesi più probabile, sempre che a Bosaso non abbia scoperto qualcosa che noi non sappiamo.

ROSY BINDI. Quindi, la prima ipotesi è che i somali, arrabbiati con gli italiani, ne abbiano visti due e gli hanno sparato. La seconda, in ordine di probabilità, è che i somali erano arrabbiati con gli italiani anche per i fatti di cui veniamo a conoscenza più tardi (1996-1998), le sevizie e quant'altro. La terza è che abbia scoperto qualcosa, come armi e rifiuti.

MARIO SCIALOJA. Le sevizie no, perché quando Ali Mahdi si lamentò con me e con Fiore (oppure con Loi, non ricordo) di queste cosiddette sevizie agli uomini arrestati, incappucciati e legati, non fece mai cenno a batterie collegate e alle altre cose comparse su Panorama. Non credo si fosse trattato di episodi così clamorosi da...

ROSY BINDI. Magari non erano neanche avvenuti.

MARIO SCIALOJA. Questo è difficile dirlo. Per me l'ipotesi più probabile è quella dei rancori, ma sinceramente non posso affatto escludere che non ci fosse sotto qualcosa di diverso.

ROSY BINDI. La pista del fondamentalismo islamico è una lettura del tempo nel quale abbiamo riaperto questo caso? In sostanza, siamo influenzati oggi da questo fatto che allora era quasi sconosciuto? C'è un'interpretazione retrospettiva per cui attribuiamo la responsabilità al fondamentalismo islamico, a meno che


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non vi siano altri collegamenti, cioè che il fondamentalismo islamico fosse il crocevia anche degli altri aspetti?

MARIO SCIALOJA. Incolpare soltanto il fondamentalismo islamico perché...

ROSY BINDI. Sarebbe stata una notizia così sconvolgente per il TG3, per esempio?

MARIO SCIALOJA. È fare forse un po' dietrologia. Non so se in quel momento il fondamentalismo islamico, che si è impiantato solidamente dopo, fosse veramente così aggressivo nei confronti di stranieri.

ROSY BINDI. E che cosa avrebbe dovuto fare, se fosse questo il motivo? O ha scoperto un traffico di armi, le malefatte della cooperazione e quant'altro, oppure, esclusa questa, una motivazione per cui il fondamentalismo islamico si metteva ad uccidere una ragazza...

MARIO SCIALOJA. Non lo vedo. Anche le malefatte della cooperazione italiana in Somalia non erano solamente la strada Garoe-Bosaso. Tra le altre cause la più probabile secondo me è rappresentata dai risentimenti di carattere politico. In quel momento più che quella di Aidid, che era sicuramente ostile al nostro ingresso in Somalia all'inizio di Unosom 2, era la parte di Ali Mahdi ad avere rancori nei nostri confronti.

CARMEN MOTTA. Mi scusi, ambasciatore, ma mentre lei rispondeva all'onorevole Bindi riflettevo sul fatto che questa sera lei più volte ha parlato di un duplice omicidio con una chiave di premeditazione e con una valenza politica. Adesso, anche in base alle domande che io e l'onorevole Bindi le abbiamo rivolto, lei ha detto di inquadrare maggiormente la vicenda nell'ambito della ritorsione, ma a me questo passaggio non è molto chiaro. Se si è trattato di un delitto chiaramente politico e premeditato, è vero che può essere stato compiuto nel momento ritenuto più favorevole, più facile da compiere. Se fosse davvero solo per ritorsione, quello era il momento più favorevole, ma se era, come lei ha detto anche questa sera, qualcosa di un po' più premeditato, con una valenza più politica, continuo a non avere chiaro il quadro. Vorrei che fosse così gentile da precisare meglio questo fatto, perché sono concetti - mi permetta - non dico in contraddizione ma che non collimano esattamente.

MARIO SCIALOJA. Vede, può essersi trattato di una premeditazione datata molti anni addietro oppure di un omicidio pianificato a breve termine. Con premeditazione intendevo che certamente non è stato un assalto ed un assassinio a scopo di rapina o un crimine comune, ma che c'era una volontà. Questo non vuol dire che fosse maturata sei o otto mesi prima, poteva essere una cosa anche di un paio di mesi, quando sono si sono cominciati a turbare i rapporti tra Ali Mahdi ed il contingente per il risentimento per i sequestri delle armi e per il diniego - giustissimo, d'altra parte - di Fiore di restituirgli le armi al momento della partenza e così via. Forse non c'è contrasto; bisogna vedere appunto questa premeditazione... Non si è certo trattato di un reato d'impulso. Può essere stato un omicidio pianificato relativamente poco tempo prima.

CARMEN MOTTA. Grazie.

ROSY BINDI. Ambasciatore, secondo lei le due vittime sono da mettere sullo stesso piano, come nel caso del cameraman di Carmen Lasorella, o si tratta di una cosa diversa?

MARIO SCIALOJA. Nel caso del cameraman di Carmen Lasorella, la giornalista si trovò con la sua macchina in uno scontro tra fazioni somale; il cameraman è stato ucciso e lei fortunatamente - perché la stimo e avevo con lei dei rapporti di amicizia - se l'è cavata, mentre nel caso di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin volevano colpire lei ma hanno dovuto uccidere anche lui. Se era una cosa pre


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meditata, probabilmente era Ilaria l'obiettivo principale, ma chiaramente hanno ucciso anche il cameraman. Nel caso di Carmen Lasorella la situazione è simile a quella capitata ad Oliva.

PRESIDENTE. Do la parola all'onorevole Deiana.

ELETTRA DEIANA. Vorrei ritornare sulla testimonianza del generale Fiore. Lei quando l'ha visto? Subito dopo l'omicidio?

MARIO SCIALOJA. No. Forse il giorno dopo.

ELETTRA DEIANA. E il generale Fiore le ha detto che il giorno dell'omicidio lui ha sconsigliato Ilaria...

MARIO SCIALOJA. No, anche il giorno prima.

ELETTRA DEIANA. No, il giorno prima non è possibile, perché Ilaria Alpi era a Bosaso.

MARIO SCIALOJA. E allora il giorno stesso.

ELETTRA DEIANA. Il generale le ha detto in quale momento? Ilaria Alpi e Miran Hrovatin rientrano da Bosaso intorno a mezzogiorno, vanno in albergo, si fanno la doccia, mangiano e poi vanno via. Quando li avrebbe visti il generale Fiore? Glielo ha detto?

MARIO SCIALOJA. No. Bisognerebbe domandarlo a lui. Evidentemente li ha visti nel primo pomeriggio. Non so dirle il giorno e l'ora precisa, ma potrebbe essere stato prima della partenza della ragazza per Bosaso; non è detto che sia stato il giorno stesso del ritorno da Bosaso e prima dell'assassinio.

ELETTRA DEIANA. Noi abbiamo il problema di capire - perché il quadro cambia moltissimo - come rientra Ilaria Alpi dall'aeroporto all'albergo e poi perché si reca in questo albergo. Il generale Fiore, oltre a raccontare a lei di aver dato raccomandazioni generiche sulle norme di sicurezza da seguire in quei giorni, le ha anche detto qualcosa circa le ragioni per cui si era spostata? Lei non gli ha posto domande per sapere se Ilaria Alpi avesse detto al generale Fiore le ragioni per cui aveva fatto quel viaggio un po' avventuroso attraverso la città?

MARIO SCIALOJA. No.

ELETTRA DEIANA. Quindi lei si ricorda solo vagamente che Fiore le ha...

MARIO SCIALOJA. Fiore mi disse che l'aveva avvertita. Me lo disse dopo l'attacco; prima non aveva neanche motivo di dirmelo. Il momento esatto in cui lui ha fatto questa raccomandazione ad Ilaria Alpi non sono io a poterlo dire. Lo sa solo Carmine Fiore. Capisco che la cosa ha la sua importanza, però non lo so.

ELETTRA DEIANA. Certo, anche perché se gliela avesse fatta il giorno dell'assassinio è probabile che le avrebbe chiesto perché si accingeva ad attraversare la città.

MARIO SCIALOJA. Questo deve essere Fiore a dirlo. Non so che dire, ma non escluderei il fatto che Ilaria Alpi lo avesse incontrato anche prima della partenza per Bosaso. L'albergo dove stava Ilaria al Quarto chilometro era a distanza di un chilometro, un chilometro e mezzo, dall'aeroporto e non credo che se lo sia fatto a piedi; penso che avrà chiesto...

ELETTRA DEIANA. E lei non ha avuto modo di raccogliere informazioni sullo spostamento dall'aeroporto all'albergo?

MARIO SCIALOJA. No.

ELETTRA DEIANA. Non ha cercato di sapere...

MARIO SCIALOJA. Sarà stata accolta all'aeroporto. Lì si faceva tutto per radio,


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non era difficile dalla sua macchina a Mogadiscio. Aveva noleggiato una macchina con l'autista e con l'uomo della scorta, quindi avrà avvisato qualcuno e la saranno andati a prendere all'aeroporto. Non posso immaginare altre cose. Certamente non si è spostata con macchine del contingente e neanche dell'Unosom; l'ipotesi più probabile è che sia stata prelevata dalla macchina che aveva noleggiato.

ELETTRA DEIANA. Non ci risulta che sia andata così.

MARIO SCIALOJA. E che cosa le risulta? Mi incuriosisce. Non capisco veramente quale sia il grosso problema di spostarsi dall'aeroporto all'albergo dove risiedeva tornando da Bosaso, quando per radio poteva avvertire la macchina. Comunque...

ELETTRA DEIANA. Questo è un pezzo oscuro.

PRESIDENTE. Ambasciatore, questo muro di gomma non si riesce ad infrangere, perché da qualunque parte ci volgiamo non riusciamo ad avere, nemmeno da chi è stato protagonista di quei giorni, indicazioni precise. Naturalmente con tutto il beneficio della buona fede e della mancanza di ricordo rispetto a cose accadute dieci anni fa, ma pensavamo di poter ottenere dai servitori dello Stato forse qualche indicazione più precisa; oggi invece si infrange anche quest'ultima nostra aspettativa. Ne prendiamo atto.
Le vorrei porre qualche domanda conclusiva, tornando anzitutto sull'aspetto cui ha fatto riferimento l'onorevole Deiana. È inutile che continuiamo a dire «sarà stato», «potrebbe essere stato», «potrebbe essere accaduto» e via dicendo, ed alla fine non ci rimane niente in mano, in quanto con le opinioni non facciamo niente e con le ipotetiche facciamo ancora meno. Lei ha parlato di premeditazione: ne ha parlato in maniera inappropriata, probabilmente, per dire soprattutto che si è trattato di un omicidio voluto, volontario, come diciamo noi tecnici.

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Il problema è che l'omicidio avviene rispetto ad un gesto del quale dobbiamo trovare la spiegazione logica, altrimenti non serve a niente: il passaggio dall'hotel Sahafi all'hotel Hamana. Infatti, che l'uccisione avvenga vicino all'hotel Hamana però non quando Ilaria (e non Miran Hrovatin) entra ma quando esce dall'hotel, resta un mistero. Abbiamo cercato di capire che cosa potesse esserci di tanto impellente ed interessante o importante nell'hotel Hamana, posto che Benni era già partito e quindi non ci poteva essere nemmeno una ragione di incontro con un collega giornalista, anche se c'era il satellitare che poteva essere utilizzato in quella circostanza o altro. Noi dobbiamo ipotizzare che gli aggressori attendessero al varco e in qualche modo sapessero in partenza o avessero saputo nelle strettissime more tra l'entrata e l'uscita di Ilaria dall'albergo. Su questo punto non ci sa dare alcuna indicazione?

MARIO SCIALOJA. Le indicazioni che ho dato prima...

PRESIDENTE. Di chi era l'albergo?

MARIO SCIALOJA. Era di proprietà di somali. Non so chi fossero.

PRESIDENTE. È vero che rientrava nella disponibilità di Ali Mahdi?

MARIO SCIALOJA. Era nella zona di Ali Mahdi. Se rientrasse nella sua disponibilità, non lo so. Quello che le ho detto e che ho saputo dall'Unosom è che Ilaria era stata seguita da Mogadiscio sud a Mogadiscio nord. Non è stata incontrata per caso mentre entrava o usciva dall'hotel Hamana; era stata seguita.

PRESIDENTE. Ma perché aspettare che arrivi all'hotel Hamana, che esca dalla macchina, che entri nell'albergo e che ne esca? La potevano ammazzavano prima, con maggiore facilità ed agevolezza.


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MARIO SCIALOJA. Quello che io ho capito è che l'anno ammazzata prima, francamente. Questo fatto che lei sia entrata all'hotel Hamana...

PRESIDENTE. Lei è entrata nell'hotel Hamana, è uscita, e quando è uscita l'hanno uccisa. Questa è la dinamica. Lei è arrivata con la macchina nei pressi dell'hotel Hamana; Miran Hrovatin è rimasto in macchina; Ilaria è entrata in albergo; quando è uscita è stata uccisa. È rientrata in macchina, ma l'avvio non è stato possibile perché sono stati affiancati ed uccisi.

MARIO SCIALOJA. Lei prima ha parlato di muri di gomma. Di muri di gomma, nei miei confronti...

PRESIDENTE. No, io non parlo di lei. Io dico genericamente di tutti. È un muro oggettivo di gomma, così nessuno si offende.

MARIO SCIALOJA. D'accordo, ma io le cose che non so non me le posso inventare!

PRESIDENTE. Lei non se le può inventare, certamente, nessuno chiede che si inventino, però bisognerebbe anche capire come sia possibile questa serie impressionante di attenzioni rispetto a certi casi e di omissioni rispetto ad altri. La risposta che quelli erano morti e che era inutile interessarsene non è una risposta oggettiva, perché proprio le consapevolezze che lei qui ha manifestato - non è un'accusa, ambasciatore -, cioè che si tratta di un fatto sicuramente voluto nei confronti di questi due ragazzi, dovevano stimolare fortemente a fare di tutto per capire e per sapere. E non sappiamo niente.

MARIO SCIALOJA. Lo so. Purtroppo...

PRESIDENTE. No, purtroppo...! Dovevate fare e non avete fatto!

MARIO SCIALOJA. E che dovevo fare io? Mica potevo andare io ad interrogare i somali. C'era l'Unosom, che era l'unico responsabile del territorio!

PRESIDENTE. L'ambasciatore Cassini ha fatto tante cose per incarico degli organi istituzionali, e come l'ha fatto lui non c'era ragione perché non lo facesse lei, a maggior ragione in quanto era l'ambasciatore del posto in quel momento.

MARIO SCIALOJA. Quando Cassini è intervenuto non c'era più la stessa situazione, non c'era più il contingente.

PRESIDENTE. La situazione era sostanzialmente identica, tant'è vero che per portare la gente in Italia si è dovuto ricorrere a parecchi stratagemmi. Comunque, questa è la situazione con la quale ci confrontiamo.

MARIO SCIALOJA. Non è facile.

PRESIDENTE. Non è assolutamente facile per lei e si figuri per noi, che brancoliamo nel buio per capire e per cercare di ricostruire in qualche modo le cose. La Commissione parlamentare d'inchiesta non solo ha il compito di accertare i responsabili da consegnare con dovizia di particolari all'autorità giudiziaria perché proceda per suo conto, ma deve stabilire anche che cosa non ha funzionato nei meccanismi delle istituzioni, a cominciare dalla magistratura (abbiamo già fatto il nostro dovere), per cui non si è giunti a sapere chi sono i responsabili.
Allora, è evidente che se non facciamo riferimento al contingente italiano, all'ambasciatore in Somalia e ai servizi di sicurezza, a chi dobbiamo rivolgerci? Al Padreterno? Erano là presenti tre istituzioni, e addirittura il generale Fiore parlò della causale dell'omicidio, ma noi non siamo in grado di dare una risposta plausibile - non dico nomi e cognomi - ai nostri interrogativi. Non so se è chiaro.
In questo caso, non siamo in Italia, ma siamo in Somalia, a Mogadiscio nord e sud. Lei ci dice addirittura che, contrariamente


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a quello che ci viene detto dagli altri, il percorso dall'una all'altra parte era idilliaco...

MARIO SCIALOJA. Idilliaco? No.

PRESIDENTE. Qui, come è stato giustamente ricordato dall'onorevole Motta, ci è stato detto che chi sbagliava scorta moriva. Ci hanno detto questo! Diverse persone ce lo hanno detto. Dunque, fa meraviglia che l'ambasciatore italiano in Somalia - non me ne voglia - non sappia queste cose, che invece gli altri conoscono. Quindi, due sono le cose: o gli altri ci hanno mentito oppure lei non ha un buon ricordo.

MARIO SCIALOJA. Non ho ricordo di gente che sia morta per mancanza di scorta o per scorta insufficiente, a parte Ilaria Alpi. Oliva si è trovato in mezzo ad uno scontro nel quale lui non c'entrava.

PRESIDENTE. I giornalisti della Reuter, però, sono stati ammazzati.

MARIO SCIALOJA. Sì, ma quella cose è accaduta perché volevano ammazzare dei giornalisti, così come è accaduto per quel dipendente della CNN.

PRESIDENTE. Quindi, come vede, pur con tutta la scorta, li hanno ammazzati.

MARIO SCIALOJA. Evidentemente, quelli erano degli obiettivi.

PRESIDENTE. Comunque, noi sappiamo che il limone è spremuto e quindi non tiriamo fuori più niente.
Vorrei farle ancora alcune domande. Lei sa che cos'è Albaraqat?

MARIO SCIALOJA. Era un mercato. Era una località.

PRESIDENTE. Oggi, che cosa significa Albaraqat?

MARIO SCIALOJA. Il significato? Non lo so. È come dire: Prati.

PRESIDENTE. Non conosce istituti bancari di riferimento?

MARIO SCIALOJA. È la famosa banca che trasferiva i risparmi dei somali.

PRESIDENTE. Come trasferiva? Fa riciclaggio di denaro di integralismo islamico terrorista.

MARIO SCIALOJA. È stata chiusa?

PRESIDENTE. Chiusa? È ancora aperta, e come!

MARIO SCIALOJA. In Italia?

PRESIDENTE. Ci sono delle banche, come forse lei saprà, che fanno un lavoro laterale rispetto ad Albaraqat. Basta che va a piazza Venezia...

MARIO SCIALOJA. A piazza Venezia? A piazza Venezia c'è la banca araba.

PRESIDENTE. Vede che lo sa?
Che cosa le dice Albaraqat, rispetto al periodo del quale ci stiamo interessando? C'erano delle propaggini somale che si interessavano degli affari che facevano capo a questa sorta di holding mondiale, che a sua volta faceva capo al terrorismo islamico?

MARIO SCIALOJA. Ho sentito nominare Albaraqat.

PRESIDENTE. Ha avuto rapporti con Albaraqat, dal punto di vista economico, per finanziamenti, per investimenti. Ha avuto mai rapporti? Ci pensi bene.

MARIO SCIALOJA. Preferisco la Chase Manhattan.

PRESIDENTE. Lei preferisce la Chase di Manhattan, risponda però alla domanda - se ritiene di poterlo fare - se ha avuto occasioni di rapporti diretti o indiretti con qualche emittente di Albaraqat.


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MARIO SCIALOJA. Direttamente, certamente no.

PRESIDENTE. Ma indirettamente, sì.

MARIO SCIALOJA. Qualche volta, negli anni passati, per conto di un mio domestico somalo, che sta qui in Italia. Gli ho dato dei soldi da mandare alla madre e allo zio. Se lui l'abbia mandati con Albaraqat non lo so.
Certamente ho appreso l'esistenza di Albaraqat qui, in Italia. Quand'ero in Somalia non sapevo nemmeno che ci fossero servizi di telefonia a basso costo per emigrati in tutto il mondo e che ci fossero queste western union islamiche per trasferire rapidamente somali qui e là. È possibile che Abdulkadir, che è il nome del ragazzo che la mattina fa le pulizie a casa mia, abbia così mandato i soldi alla madre.

PRESIDENTE. Quindi, se noi, per esempio, nelle nostre indagini avessimo incontrato il nome di Mario Scialoja nei rapporti con Albaraqat, può essere che sia dipeso da questo?

MARIO SCIALOJA. Sì.

PRESIDENTE. Ne prendiamo atto.

MARIO SCIALOJA. Direttamente, certamente no.

PRESIDENTE. Lei dice che non può escludere che ci possano essere mandanti italiani dell'omicidio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin. La formula per cui lei non può escludere, a me, come giurista, non dico che fa schifo, ma quasi - infatti, anche l'1 per cento significa non escludere -, perché il suo valore è praticamente pari a zero, però non è proprio zero.
Se lei dice che non può escludere, e quindi considera anche solo un 1 o uno 0,5 per cento, a quali settori italiani lei pensa che ci si possa utilmente riferire, per capire chi potrebbe essere il mandante italiano, qualora ci fosse? Rajola Pescarini?

MARIO SCIALOJA. No, i gestori della Shifco, i gestori dei pescherecci. È l'unica cosa che posso pensare, ma, come lei diceva può essere una cosa del valore dello 0,5 per cento.

PRESIDENTE. E perché i gestori dei pescherecci dovevano uccidere Ilaria e Miran?

MARIO SCIALOJA. Che ne so? Ammesso che facessero traffici di armi - io non posso dirlo, è solo una possibilità che io ho evocato, anche in tribunale, e che ripeto qui -, ciò potrebbe costituire un movente. È un'idea che lancio lì, senza avere assolutamente elemento a supporto. È per fare tutte le ipotesi possibili.

PRESIDENTE. E invece, per Rajola Pescarini lo può escludere? Credo che i traffici fossero ben conosciuti dai servizi di sicurezza. Le armi non si trafficano senza che ci siano consapevolezze dei servizi di sicurezza.

MARIO SCIALOJA. Erano armi che probabilmente provenivano dallo Yemen o dal Sudan, cioè da posti vicini.

PRESIDENTE. Questo non è significativo. Né possiamo rispondere dicendo che Rajola Pescarini non era presente in Somalia e che vi si è recato solo due volte, perché, per dare disposizioni e per controllare la situazione, non c'è bisogno di essere sul posto. Se si sta sul posto è meglio, ma se non ci si sta... Infatti, quando è morta Ilaria Alpi, Rajola Pescarini non era sul posto, ma questo non significa assolutamente niente.
Le domando: c'erano delle interessenze dei servizi di sicurezza italiani, tali per cui le ragioni che possono aver portare all'uccisione dei due ragazzi, laddove fossero state individuate delle ragioni o dei motivi - ammesso che ci possano mai essere dei motivi per uccidere una persona -, possano o potessero ricondurre all'opera dei servizi italiani?


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MARIO SCIALOJA. No. Questa è un'idea che non mi è neanche passata per la testa.

PRESIDENTE. Lei conosceva Ferraro?

MARIO SCIALOJA. Chi è?

PRESIDENTE. È l'uomo del Sismi che si suicidò nel bagno di casa sua qualche anno fa, impiccandosi alla maniglia della porta (alla maniglia bassa, non ad una maniglia alta).

MARIO SCIALOJA. Alla maniglia bassa? No, non lo conoscevo.

PRESIDENTE. Che posizione prenderebbe rispetto ad una ipotesi, soltanto da ventilare, per cui i servizi di sicurezza possono essere stati, come erano, al centro della vita somala, e in collegamento con la vicenda della quale ci stiamo occupando?

MARIO SCIALOJA. Per dirla con tutta onestà e sincerità, è un'idea che non mi è mai passata per la testa.

PRESIDENTE. E adesso che io gliela faccio passare per la testa, lei che pensa?

MARIO SCIALOJA. Mi entra da un orecchio e mi esce dall'altro.

PRESIDENTE. Esattamente come Albaraqat.

MARIO SCIALOJA. Che c'entra Albaraqat?

PRESIDENTE. Che rapporti aveva Vezzalini con i pakistani dell'Unosom?

MARIO SCIALOJA. Francamente, non lo so.

PRESIDENTE. E che rapporti aveva Vezzalini con l'integralismo islamico, che lei sappia?

MARIO SCIALOJA. A questa domanda non posso rispondere dicendo che non aveva alcun rapporto, perché è una cosa di cui non ho mai avuto il minimo sentore. Mi dispiace, capisco che do l'impressione di un muro di gomma, ma...

PRESIDENTE. Ormai ci siamo abituati. Siamo assolutamente tetragoni in riferimento a queste cose. Dunque, lei non sa di un Vezzalini particolarmente legato ai pakistani, che rappresentano una parte dell'integralismo islamico?

MARIO SCIALOJA. In quel momento, in Somalia, certamente sì.

ELETTRA DEIANA. Ci sono pakistani integralisti e non integralisti.

MARIO SCIALOJA. Certamente.

PRESIDENTE. I pakistani dell'Unosom, in quel momento, avevano una precisa collocazione.
Conosceva Starlin?

MARIO SCIALOJA. Sì, era dell'associazione delle donne somale. Sì, me la ricordo. Non so poi che fine abbia fatto.

PRESIDENTE. Sa niente dei suoi rapporti con Ilaria Alpi?

MARIO SCIALOJA. No, ma è possibile che ne avesse perché era una donna molto attiva, che si muoveva molto in Somalia, in quell'epoca.

PRESIDENTE. In che settore si muoveva quella donna molto attiva? Anche in materia di rinnovamento dei costumi della donna islamica?

MARIO SCIALOJA. Sì, più o meno. Faceva parte dell'associazione donne islamiche, relativamente modernizzatrice.

PRESIDENTE. E, come la vicinanza di Starlin testimonia, della questione si interessava molto anche Ilaria Alpi. Domanda, ma non per il testimone: questo è un aspetto che in quel contesto, rivisitato alla luce delle consapevolezze di oggi, poteva


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determinare, nella società somala del 1994, ragioni di ulteriore attenzione nei confronti di Ilaria Alpi, e quindi di risentimento da parte dell'islam estremista?

MARIO SCIALOJA. Non mi sembra una motivazione assurda, distorta o pazzesca, per dei criminali folli, fondamentalisti. È come quella che ha portato ad uccidere Van Gogh in Olanda. D'altra parte Starlin faceva parte di un'associazione di donne, si muoveva liberamente e non credo che subisse alcun ostracismo da parte di somali o di altri.

PRESIDENTE. Sì, ma se non sbaglio è stata uccisa.

MARIO SCIALOJA. Starlin è stata uccisa?

PRESIDENTE. Sì, certamente, come è stato ucciso l'autista di Ilaria Alpi.
Lei ha mai sentito parlare di un contratto della Rai, che poi è stato rinnovato, con un'articolazione di Albaraqat, la Dalla Albaraqa?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Lei si è mai interessato di contratti con la RAIper l'utilizzazione di satelliti?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Cerchi di ricordare, ambasciatore, perché forse se ne è interessato.

MARIO SCIALOJA. Non lo ricordo, ma se lei mi può smentire, mi smentisca. Francamente non lo ricordo.
All'epoca in cui ero in Somalia, c'erano delle società di telecomunicazioni che stavano entrando nel settore della telefonia a basso costo, ma non erano società italiane. Era una cosa che si sentiva dire, ma non me ne sono mai occupato.

PRESIDENTE. Leggo: «In Italia, invece, i sauditi, rappresentati da Taraq Ben Ammar, trovano buona accoglienza».
Lei conosce Taraq Ben Ammar?

MARIO SCIALOJA. No.

PRESIDENTE. Leggo ancora: «È introdotto in ambienti politici giusti, ed è amico di Bettino Craxi. È anche amico dell'ambasciatore Mario Scialoja, ambasciatore convertitosi all'islam».

MARIO SCIALOJA. Chi?

PRESIDENTE. Taraq Ben Ammar.

MARIO SCIALOJA. Mai sentito.

PRESIDENTE. Leggo: «È diventato brosseur d'affari per società finanziarie arabe, come per l'arcipelago della Dalla Albaraqa e delle consociate, le famigerate Albaraqat, presenti in tutto il mondo arabo, che dalla Somalia dirigevano i flussi di finanziamento di quattrini verso il fondamentalismo islamico».
Lei ignora tutto questo?

MARIO SCIALOJA. Ignoro tutto questo e non ho mai sentito nominare quel signore.

PRESIDENTE. Leggo: «Vicenda della partnership tra RAIe gruppo arabo saudita Dalla Albaraqa, di cui è azionista di riferimento lo sceicco saudita Saleh Abdullah Camel».

MARIO SCIALOJA. So delle proprietà saudite di quella televisione satellitare diretta ai paesi arabi, che sta a Roma, di un cugino dell'ambasciatore dell'Arabia Saudita a Roma, e che avevano le antenne nel Fucino, e che era una televisione satellitare puramente saudita. Ma di contatti con la RAIo di queste cose qui non ho mai sentito.

PRESIDENTE. Leggo: «Taraq Ben Ammar, nipote dell'ex premier tunisino Burghiba,»...


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MARIO SCIALOJA. Non mi dice niente.

PRESIDENTE...«brillante produttore cinematografico, personaggio di spicco del mondo internazionale e uomo di fiducia del principe saudita Al Waled Bin Talal».
Non le dicono niente tutti questi nomi?

MARIO SCIALOJA. Waled Bin Talal, sì.

PRESIDENTE. È ancora scritto: «Lascia intravedere una via d'uscita. Entrambi, infatti, risultano soci della Dalla Albaraqa, domiciliata a Gedda, in Arabia Saudita. Dal 1992 la RAIinizia i primi rapporti di lavoro e di collaborazione con la Dalla Albaraqa. Tra i primi accordi, quello della gestione degli impianti di telefonia satellitare per gli inviati dei TG Rai, e per il pagamento delle fatture del traffico telefonico compiuto dagli operatori e dai giornalisti del servizio pubblico, in giro per il mondo.»
Le ricorda niente tutto questo?

MARIO SCIALOJA. No

PRESIDENTE. Leggo, ancora: «Il principe arabo Al Waled è un tipo con miliardi di petrolgrana, da spendere e investire in tutto il mondo. È in splendidi rapporti con la famiglia Bush. È stato il responsabile della difesa del Kuwait durante la guerra del golfo, si è comprato il dieci per cento delle azioni della City bank, il che lo rende il banchiere più importante del pianeta. Proprio in quel periodo, i sauditi sono in cerca di sedi in Europa, da cui trasmettere i segnali tv di due emittenti nei paesi islamici. Le tv si chiamano Orbit e Art (Arab radio television). La Art fa capo alla società Dalla Albaraqa, coniata dallo sceicco Sale Camel, e sotto inchiesta da parte della Sec», la Consob degli USA, «per riciclaggio di denaro sporco. Interpellati sia gli inglesi che i francesi, declinano le offerte saudite». «Timori non infondati, come dimostreranno gli avvenimenti. In Italia, invece, i sauditi, rappresentati da Taraq Ben Ammar, trovano buona accoglienza. Taraq Ben Ammar è introdotto in ambienti politici giusti ed è amico di Bettino Craxi, ed è anche amico dell'ambasciatore Mario Scialoja...

MARIO SCIALOJA. È assolutamente falso, non l'ho mai sentito nominare!

PRESIDENTE. ...dell'allora amministratore delegato di Telespazio, Minicucci, e via dicendo«. Quindi lei contesta...

MARIO SCIALOJA. Contesto nella maniera più assoluta. Non l'ho mai sentito nominare.

PRESIDENTE. ...la evocazione del suo nome in relazione a questa circostanza.
Ringrazio l'ambasciatore Mario Scialoja e dichiaro concluso l'esame testimoniale in oggetto.

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