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Seduta del 31/1/2006


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Seguito dell'esame della relazione conclusiva.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'esame della relazione conclusiva, iniziato nella seduta del 24 gennaio 2006.
Do pertanto la parola ai colleghi che desiderano intervenire.

GIOVANNI BRUNALE. Signor presidente, onorevoli colleghi, la scorsa settimana ho ascoltato attentamente l'intervento del relatore, onorevole Raisi, in sede di presentazione della relazione conclusiva, che ha inteso presentare a nome della maggioranza. Ciò che mi ha colpito negativamente di quella relazione non è tanto la disarticolazione che vi è, a mio giudizio, tra i contenuti, gli atti, la documentazione, faticosamente raccolta e acquisita al nostro lavoro - sorretto peraltro egregiamente da molti dei nostri consulenti -, e alcune delle parti più impegnative e significative


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della relazione conclusiva dell'onorevole Raisi, ma il fatto che l'approdo a cui giunge, cioè l'inesistenza dell'occultamento come fatto volontario teso a non perseguire gli eventuali responsabili dei crimini efferati commessi contro circa 15.000 innocenti cittadini italiani, è aberrante, perché costituisce, a mio modo di vedere, un falso dal punto di vista sia documentale sia storico.
È un approdo che cozza contro ogni evidenza e che disconosce non solo le conclusioni a cui giunsero l'indagine condotta dal Consiglio della magistratura militare dopo la scoperta dei fascicoli a palazzo Cesi nel 1994 e l'indagine conoscitiva della Commissione giustizia della Camera dei deputati nella XIII legislatura, il cui documento finale fu votato all'unanimità, ma disconosce, di fatto, le stesse ragioni che ci vedono qui, da oltre due anni, posto che il mandato conferitoci dal Parlamento è stato appunto quello di indagare sulle cause dell'occultamento dei fascicoli e sulle relative responsabilità, nonché sui motivi che non hanno consentito di individuare e perseguire i responsabili di quei crimini.
Dovremmo dire davvero al Parlamento e al paese che non ci fu occultamento volontario? Che gli atti, le audizioni e i documenti qui depositati dicono che ci fu semmai grave negligenza a proposito del comportamento dei vertici della magistratura militare, anche prima del 1994, e che, almeno in parte, non ci furono interferenze e responsabilità politiche in materia da parte dei ministri e dei Governi dell'epoca? Davvero è pensabile sostenere legittimamente, oltre che documentalmente, che non si trattò di illegale occultamento volontario, perché «il clima che si respirava in Italia dopo il biennio 1948-1950, specie ad amnistia avvenuta, era tendente a sopire i drammi del recente passato e a guardare oltre, fino a indurre i vertici della magistratura militare a recepire nei propri comportamenti tale clima, a cui si ispiravano» - secondo l'onorevole relatore - «indistintamente tutti i partiti rappresentati in Parlamento»?
Ripeto, tali assunti, a mio modo di vedere, sono indimostrabili sul piano documentale e storiografico; mi appaiono artefatti, cioè surrettizi a sostenere una tesi di comodo e perciò abnormi nel loro contenuto. Insomma, a mio giudizio, consegnare agli italiani una conclusione di quella portata sarebbe gravemente lesivo della dignità dell'istituto parlamentare. Oltretutto, e non è l'ultima cosa, l'offesa subita da migliaia e migliaia di famiglie italiane, i cui effetti rimangono vivi nella memoria più nobile dell'intero paese, sarebbe gravemente e ingiustificabilmente ribadita. Qualsiasi serio studioso della materia, non appena avesse accesso all'intero materiale documentale raccolto, smentirebbe clamorosamente quell'assunto; è per questo che mi permetto di chiedere serenamente all'onorevole relatore di maggioranza di rivedere in profondità la sua proposta conclusiva, altrimenti impossibile da emendare, con rispetto alla forma e alla sequenza logica dei vari capitoli trattati.
D'altra parte, il compito a cui siamo stati chiamati esigeva ed esige consapevolezza. A sessant'anni da quei tragici eventi non si tratta di dimostrare la dinamica di quei fatti e il loro grado di efferatezza; se abbiano avuto dei responsabili certi nei militari tedeschi e delle SS dell'esercito nazista e, in molti casi, con la responsabilità e complicità dei fascisti repubblichini; se ad essere colpiti fossero civili innocenti e inermi o nemici in armi; se la pianificazione del terrore contro i civili italiani fosse stata decisa o meno con certezza da vertici militari tedeschi durante la loro ritirata per punire gli ex alleati. Ciò interessa sì, ma in altra sede; non tanto, dunque, per il nostro lavoro che, invece, secondo me, prende corpo e poggia sull'esigenza insopprimibile di dare contenuto e forza alla Repubblica, alla sua democrazia, del cui patto fondativo celebreremo i sessant'anni il prossimo 2 giugno e che, tra le altre cose, parla dei contenuti di giustizia e verità che il complesso scenario europeo e mondiale degli anni cinquanta e sessanta, soprattutto in quel periodo, ha condizionato, al di là di


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ogni ragionevole opinione. Non a caso, tra i paesi dell'Asse solo l'Italia non ha celebrato processi contro i propri militari accusati di crimini di guerra.
Se questo paese, anche in anni più recenti, ha avuto a che fare addirittura con la degenerazione di alcuni settori significativi dello Stato - non solo nel caso dei Servizi segreti - è assai arduo sostenere, come fa la relazione di maggioranza, che la magistratura militare dell'epoca non abbia macchie e si sia solo adeguata, per così dire, ad un clima, incorrendo perciò in una condizione di mera negligenza. A mio giudizio, si tratta invece di una chiara responsabilità penale, oltre che morale, e di una gravità assoluta, di cui non possiamo tacere: in ogni caso è fuori dai principi e dalle garanzie costituzionali, cioè fuori dallo Stato di diritto. Ciò a maggior ragione dopo la riforma del 1981, ma anche e soprattutto in precedenza: tra il 1954 e il 1971 quei vertici non hanno servito lealmente il nostro paese, lo hanno tradito con atti illegali e dal sapore eversivo. Ripercorrete, se volete, le stesse audizioni qui svolte di molti tra i componenti la magistratura militare del passato e del presente: spesso il loro apporto è stato scarso, confuso, non in grado di ricostruire avvenimenti documentalmente avvenuti sotto la loro stessa responsabilità o con il loro supporto materiale.
Mi pare di non sbagliare nel dire che, ad eccezione di un magistrato militare, tutti gli auditi, anche quelli impegnati in funzioni direttive rilevanti, hanno riferito alla Commissione la totale mancanza di ricordo, in alcuni casi, o la non corrispondenza delle deleghe documentate con la reale responsabilità che portavano sul campo, rimasta - guarda caso - sempre in capo ad altri. In alcuni casi, le loro posizioni polemiche, riscontrate sia in Commissione sia sulla stampa - che, a mio avviso, non trovavano una giustificazione logica nelle eventuali risultanze dell'istruttoria della nostra Commissione - non possiamo non interpretarle, in ultima analisi, se non come una delle forme corporative di autotutela a cui questi signori si sono aggrappati. Un'autotutela corporativa che è anche e sicuramente parte delle più complesse ragioni che portarono all'occultamento e al suo perdurare nel tempo, anche quando, dal 1970 in poi, le ragioni di carattere politico ormai avevano perso di intensità.
A mio avviso, perciò, non può far velo a questa parte di verità né la sostanziale ambiguità del diritto internazionale in merito alla punizione dei crimini di guerra, che io riconosco, né la contiguità tra alcuni vertici della magistratura militare - che in alcuni casi era palese, anche se limitatamente ad alcuni vertici - che quei crimini doveva perseguire e i militari che li avevano commessi. È la sedimentazione nel tempo, di tipo culturale e politico, che l'ordinamento giudiziario militare aveva introiettato al proprio interno, condizionata fortemente agli impulsi superiori della politica, ad orientare i comportamenti e le decisioni della magistratura militare italiana dell'epoca, e che nemmeno la riforma del 1981 poteva dissolvere in breve tempo. Come in parte è dimostrato, quella magistratura rispondeva delle proprie azioni con grande convinzione e con chiara volontarietà alle necessità superiori. Nasce così, onorevoli colleghi, l'occultamento, che di certo non fu un armadio con le ante rivolte verso il muro e nascosto nei sotterranei. Occorreva evitare i processi: non nascondere materialmente i fascicoli a se stessi, peraltro in ambienti dove solo loro potevano accedere, bensì nascondere razionalmente e con procedure extra legem alla magistratura territorialmente competente la possibilità di avviare ogni percorso e ogni decisione utile ad un regolare processo.
È il bilancio dei processi celebrati dai tribunali militari italiani a parlare: rispetto alla mole documentaria raccolta presso la procura generale militare, della quale puntuale strumento di ricognizione è il registro generale scoperto nel 1994 assieme all'intero archivio, il numero dei processi celebrati fu molto limitato. L'elenco che Borsari invia al Ministero degli esteri nell'aprile del 1949 riferisce di cinque procedimenti a carico di imputati detenuti e di sei a carico di imputati non


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detenuti; alla data del 16 luglio 1951 i militari tedeschi condannati erano undici, sei avevano usufruito dei provvedimenti di clemenza, due erano in carcere in attesa dell'esito del ricorso, uno in carcere in attesa di giudizio. Comunque, i procedimenti arrivati a sentenza a fine anni quaranta-inizio anni cinquanta furono solo tredici; anche considerando che negli anni successivi si conclusero in fase istruttoria almeno diciotto procedimenti penali per crimini di guerra, il loro numero complessivo resta incredibilmente basso in relazione al numero e alla gravità degli episodi di stragi e di eccidi che avevano interessato i territori italiani occupati dalle truppe tedesche e dai loro alleati, i fascisti di Salò.
Clamorosa, poi, è l'indeterminatezza di molte delle indagini concluse con un nulla di fatto per non essere riuscite a individuare gli autori dei crimini perché, ad esempio, i loro nomi risultavano storpiati, come nel caso eclatante di Cefalonia. Perciò, a mio giudizio, appare curiosa la giustificazione su questo punto che il documento finale presentato dal relatore intende sostenere. Nella sua relazione, onorevole Raisi, lei tira in ballo la questione dell'amnistia del 1946 e i provvedimenti di natura clemenziale degli anni cinquanta come una delle più fondate ragioni a sostegno della tesi che non ci fu occultamento. Ovvero, posto che con l'amnistia la procura generale militare si fosse trovata di fronte a reati considerati estinti, va da sé che la decisione di non provvedere all'inoltro alla magistratura territorialmente competente e quindi l'archiviazione provvisoria del 1960 e il non luogo a provvedere successivo si configurerebbero come una mera negligenza, un peccato veniale, irrilevante, dunque, ai fini del perseguimento dei responsabili dei crimini efferati che dopo l'8 settembre tedeschi e fascisti commisero a danno di civili.
Ebbene, intanto sappiamo che la procura generale militare - e ciò è indiscutibile - non aveva alcun titolo per disporre dei fascicoli: quello fu un reato. Comunque, è agevole osservare che se fosse stato vero quanto da lei asserito a proposito degli effetti dell'amnistia, a maggior ragione la procura generale militare non avrebbe dovuto avere alcuna remora a seguire la strada maestra della legge e dello Stato di diritto, inviando tempestivamente ogni fascicolo in suo possesso a chi di dovere: le procure militari territorialmente competenti non avrebbero potuto far altro che archiviare, per estinzione del reato, atto dopo atto. Dunque, onorevole relatore, in tutta evidenza quella non è una motivazione fondata del suo ragionamento e perciò la risposta che lei dà al quesito posto dalla legge di istituzione di questa Commissione circa le cause del mancato perseguimento non può essere assunta credibilmente in un documento conclusivo così importante e impegnativo, anche per rispetto ai signori consulenti e alla loro dignità professionale.
Non mi convincono nemmeno, a tale riguardo, le tesi sostenute nel suo intervento dal senatore Eufemi, di cui peraltro ho apprezzato il diverso impianto analitico e di giudizio sul materiale documentale raccolto, rispetto alla relazione presentata dal relatore di maggioranza. Mentre quest'ultimo con una tesi quantomeno ardua o, se volete, con «una relazione shock» - così come giudicata dalla stampa - tende chiaramente ad escludere l'occultamento operato dalla procura generale militare dei fascicoli riguardanti i crimini di guerra nazifascisti, le osservazioni e le modifiche sostenute dall'intervento del collega senatore Eufemi mi paiono, invece, finalizzate a lasciare in ombra le eventuali responsabilità del sistema politico e di Governo, durante l'arco di quei decenni, quasi a proteggere, in sostanza, nel più generale quadro di tutela complessiva dei numerosi Governi succedutisi in concomitanza con il periodo dell'occultamento, anche evidenti e documentate responsabilità individuali.
Vi è una liaison, un contatto importante tra le due posizioni dei colleghi Raisi ed Eufemi che non è convincente, perché i documenti dimostrano altro. Ciò che unisce il loro punto di vista, infatti, è la negazione di una gestione dei fascicoli durante gli anni sessanta e settanta. Da un lato, dunque, si sostiene che i fascicoli


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sono stati conservati dalla procura generale militare, in quanto comunque i processi non si sarebbero potuti celebrare in ragione del trattato di estradizione siglato tra Italia e Germania e rimesso in vigore nel 1953, che impediva l'estradizione per reati politici, e, per quanto concerne gli imputati italiani, i provvedimenti di amnistia aventi ad oggetto i reati politici avrebbero reso inutile l'inoltro dei fascicoli alle autorità territorialmente competenti. Dall'altro, si tende a dimostrare che negli stessi anni i livelli politico-istituzionali sarebbero stati totalmente all'oscuro dell'esistenza dell'archivio, declassando, ad esempio, il noto carteggio dell'ottobre 1956 tra i ministri Martino e Taviani a una mera iniziativa personale ed episodica, oppure ignorando del tutto, come fa Raisi, o minimizzando, come fa Eufemi, l'esplicita corrispondenza del periodo tra il dicembre 1962 ed il gennaio 1963 tra il ministro Andreotti e il direttore generale degli affari politici del Ministero degli esteri sul caso Leibbrand, o ignorando, come avviene in tutti e due i casi, la corrispondenza tra il procuratore Santacroce e il ministro Andreotti del marzo 1965 e tutta la corrispondenza intercorsa tra il 1965 e il 1971 tra la procura generale militare e il Ministero della difesa.
Agli atti vi sono documenti inequivoci, come la relazione che Santacroce invia al ministro della difesa il 28 aprile 1967 in ordine alla richiesta avanzata da Simon Wiesenthal, che specifica che quelle informazioni emergevano dall'esame del carteggio esistente presso quell'ufficio, ovvero presso quella procura; lo stesso accadde anche per altre evenienze nei mesi e negli anni immediatamente successivi al 1967. Ciò per dire che quell'archivio viveva, e viveva anche sui tavoli del Governo.
D'altra parte, anche dopo l'avvenuta illegittima archiviazione provvisoria del 1960, la nostra Commissione ha potuto valutare e ben riconsiderare il fatto che l'inoltro alle procure militari territorialmente competenti di una parte dei fascicoli, che la procura generale militare deteneva illegalmente, non costituì un parziale rientro nella legalità, come sostenuto in questo caso non nella relazione presentata, ma nella relazione finale dell'indagine promossa dal Consiglio della magistratura militare. A parte il fatto che quei circa 1.200 fascicoli non contenevano notizie utili per l'identificazione degli autori del reato e, quindi, erano inidonei a determinare l'avvio di veri e propri procedimenti penali, è documentalmente provato che l'iniziativa, prendendo avvio dalla richiesta proveniente dal Governo della Germania di entrare in possesso di una copia del materiale ancora sconosciuto riguardante gli eccidi compiuti durante il dominio del nazionalsocialismo, fu oggetto nel 1965 di una corrispondenza esplicita con il ministro della difesa da parte della Procura generale militare.
Nelle lettere inoltrate al ministro, il dottor Santacroce dà atto allora dell'esistenza e, in parte, del contenuto dell'archivio illegalmente costituito. Dopo quella fitta corrispondenza decide di accompagnare con una lettera, in forma di ordine di servizio, l'inoltro dei 1.265 fascicoli detenuti (dei 2.274 totali) alle procure territorialmente competenti. È palese che a cominciare dal contenuto della lettera con cui venivano inviati i fascicoli, fino a giungere alle concrete modalità di trattazione dei fascicoli stessi, che avveniva sotto il costante controllo della procura generale, il fatto non costituì un parziale rientro nella legalità, come sostenuto dal Consiglio della magistratura militare, ma, a nostro giudizio, il perpetrare da parte di quei vertici in termini ancora più discutibili e raffinati l'occultamento dell'archivio, che durerà ancora per trent'anni. Anzi, per certi aspetti, quanto avvenuto a partire dal 1965 in ordine ai fascicoli sulle stragi si è rivelato un fatto ancor più dannoso dell'occultamento terminato nel 1994, proprio per l'evidente intrusione degli uffici della Procura generale militare nell'ambito valutativo del singolo magistrato. Inutili, a tale riguardo, sono state le nostre insistenti richieste di chiarimento ad alcuni protagonisti della vicenda - basta verificare le audizioni e le domande poste - soprattutto in merito alla ragione


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che avesse mosso Santacroce a tale iniziativa, imponendo nei fatti una trattazione così orientata alla chiusura dei procedimenti.
Va da sé, allora, che il documento conclusivo che questa Commissione dovrà produrre non può prescindere, a mio avviso, da un giudizio chiaro e severo sul capitolo occultamento e sulle dirette responsabilità della magistratura militare, certamente non ignote ai vertici dei Ministeri della difesa e degli esteri e dei Governi, durante quel lungo periodo. Allo stesso modo, con ogni evidenza, meritano un preciso rilievo critico - ma qui le cose appaiono molto più chiare a tutti - i comportamenti, le decisioni e le modalità assunte in seno alla Procura generale militare in esito alla scoperta dell'archivio nel 1994 e alla sua non nitida gestione, che a molti è sembrata forse - a ragione, aggiungo io - la brutta copia di quanto accaduto nel più lontano passato. Si tratta, tuttavia, di comportamenti anomali che non depongono a favore del buon funzionamento e del corretto dispiegarsi delle prerogative istituzionali e costituzionali di tale autonomo ordinamento.
In ciò non c'è alcuna forzatura, come sostenuto dal senatore Eufemi con riferimento ai documenti e alla relazione presentata con l'intervento dell'onorevole Carli, ma solo il rispetto della verità documentale: vorrei che la Commissione potesse attenersi a questo. Su questo punto non siamo ancorati ad analisi e supposizioni che, come nel caso del richiamo al Piano Marshall o ai legittimi interessi economici italiani nel riarmo della Germania, possono giudicarsi debordanti rispetto all'oggetto dell'inchiesta. Credo che quello da me trattato sia il cuore delle ragioni dell'inchiesta e le sue conclusioni non possono che essere fedeli alla documentazione raccolta, che è nostro auspicio sia messa integralmente a disposizione degli italiani. Per questo confido che quest'ultima fase del lavoro e il confronto che si è aperto dopo l'ascolto della relazione presentata dall'onorevole Raisi possano ancora trovare nella verità dei fatti e dei documenti una composizione di merito che, soprattutto - ne devo dare atto - l'equilibrio e l'impegno del presidente forse può ancora favorire nel rispetto del mandato conferitoci dai Presidenti di Camera e Senato e dell'onestà intellettuale di ciascuno di noi.

FRANCESCO SERVELLO. Signor presidente, onorevoli colleghi, mi trovo in una singolare posizione: non ho frequentato molto, anzi pochissimo, questa Commissione, però in qualche guisa ho seguito i lavori della medesima. Mi sono convinto che il linguaggio che ho ascoltato poc'anzi è vecchio, antico. Il mondo è cambiato: si va verso forme di rinnovamento, nel bene e nel male, tali da guardare al futuro con tutte le possibilità e le energie di cui disponiamo. Dopo sessant'anni, discutere di questi fatti appare a me singolare: io quei fatti e quelle vicende del dopoguerra le ho vissute personalmente a Milano, anche con qualche disgrazia familiare di cui non intendo parlare, e fin da allora mi hanno ispirato un diverso modo di vedere le cose, soprattutto quelle che nel frattempo erano state dimenticate.
Oggi al Senato ho avuto la gioia di incontrare una medaglia d'oro al valore civile, conferita dal Presidente Ciampi e che sarà consegnata giovedì al Quirinale: la sorella di una ragazza ventenne, laureanda, prelevata da casa insieme a tutta la famiglia, che viene seviziata, violentata e infoibata insieme al padre, a Parenzo. Di fronte a questa donna straordinaria, una direttrice didattica, ho provato un senso di emozione e non di ritorsione, perché quei fatti, purtroppo, sono consegnati ad aspetti deteriori, a una specie di incubo della nostra storia. Mi sarei, quindi, aspettato maggiori aperture in questa Commissione.
Vorrei esprimere un giudizio di carattere politico, che il presidente mi permetterà di pronunciare leggendo.
I lavori di questa Commissione non hanno offerto elementi sufficienti alla tesi secondo cui vi sarebbe una causa unica e di tipo politico dietro il presunto occultamento dei fascicoli relativi ai crimini di guerra commessi nel nostro paese tra il 1943 e il 1945. L'analisi dei documenti e


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delle testimonianze ha fatto emergere una eterogeneità di fattori che portarono la procura generale presso il Tribunale supremo militare a non trasferire molti di quei procedimenti ai tribunali territorialmente competenti.
La relazione dell'onorevole Raisi appare, quindi, equilibrata e serena, avendo egli messo in luce le cause che, nella maggior parte dei casi, resero impossibili le inchieste. Si trattò per lo più, in base a quello che il relatore ha messo in luce, di crimini di cui risultavano ignoti gli autori o di cui non erano state identificate, parzialmente o totalmente, le vittime. Tant'è che il relatore sottolinea che in un'ottantina di casi i fascicoli furono inviati ai tribunali competenti, alcuni di questi anche negli anni sessanta. Nella relazione viene altresì precisato che si trattò di processi correttamente istruiti, nei quali era evidentemente possibile risalire agli autori dei crimini. L'onorevole Raisi ricorda altre circostanze, come le difficoltà di coordinamento tra le autorità italiane e quelle alleate, soprattutto alla fine dell'occupazione militare. Una ventina di fascicoli vennero anche inviati all'ambasciata tedesca su richiesta del Ministero degli esteri di Bonn.
Da tutta la documentazione, invece, non emergono elementi sufficienti a suffragare l'ipotesi di pressioni politiche da parte dei Governi italiani, dirette a ostacolare, rallentare o inibire l'azione della giustizia militare. Si cita a sostegno di tale ipotesi solo un carteggio fra due ministri, ma si tratta di uno scambio di opinioni relative al singolo caso di un ufficiale tedesco. Per autorizzare l'ipotesi di una manovra politica, attuata nel quadro della guerra fredda e nell'ambito di una concertazione internazionale, sarebbero occorsi ben altri elementi. Non è infatti plausibile immaginare che un'operazione tanto vasta e imponente, come quella diretta a inibire l'azione della giustizia militare in tante centinaia di procedimenti e nell'arco di svariati decenni, sarebbe potuta avvenire senza lasciare un numero ingente di documenti e testimonianze. Ma nulla del genere è emerso.
Data la delicatezza dell'argomento e la natura dei rapporti tra l'Italia del dopoguerra e i propri alleati, come pure il prestigio dei massimi organi della giustizia militare italiana, la Commissione non poteva giungere a conclusioni affrettate, quanto semplicistiche. Non si poteva denunciare dopo più di cinquant'anni una sorta di congiura internazionale senza possedere un numero sufficiente di elementi. Con un certo sconcerto, quindi, ho appreso gli attacchi rivolti alla relazione Raisi, come quelli contenuti nell'intervento di chi mi ha preceduto questa sera. L'accusa di faziosità appare ingiusta e immotivata. Non deve essere questa la sede delle polemiche politiche, ma del sereno confronto su fatti dolorosi del nostro passato. La storia nazionale, come ho personalmente ribadito in innumerevoli occasioni, non può essere utilizzata come strumento della contesa tra forze politiche: tale regola va confermata anche in questa occasione.
D'altra parte, non posso omettere il fatto che la nascita di questa Commissione è avvenuta dopo una campagna giornalistica, dieci anni fa, nella quale l'ipotesi della «congiura internazionale» era stata data per scontata. Già il titolo, «L'armadio della vergogna», conteneva in sé una tesi precostituita ed era tale da condizionare il clima in cui si sono svolti l'esame dei documenti e il relativo dibattito.
Quando venne proposta l'istituzione della Commissione, nell'Assemblea di Palazzo Madama esposi diversi motivi di perplessità, come ricorderà anche il presidente. Ritenevo che si dovesse procedere a un lavoro più vasto e diretto a mettere in luce i motivi storici e politici che condussero l'Italia dei decenni passati a mettere sotto silenzio i capitoli più oscuri della guerra civile, soprattutto in relazione alle stragi dell'immediato dopoguerra e al tragico capitolo delle foibe, di cui all'episodio che vi ho raccontato dianzi.
Vale, infatti, la pena di sottolineare che la polemica intorno al cosiddetto «armadio della vergogna» venne prodotta nello stesso periodo in cui l'opinione pubblica nazionale tornò a parlare di quei capitoli


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oscuri della nostra storia. In quello stesso anno, il giudice romano Pititto aveva dato avvio all'inchiesta volta ad accertare le responsabilità dell'eccidio degli italiani in Istria, sessant'anni fa. È bene ricordare che allora la mancata richiesta di estradizione per uno dei responsabili venne motivata in modo sconcertante: si disse che l'inchiesta non poteva continuare perché l'Istria apparteneva all'ex Iugoslavia, mentre all'epoca dei fatti era sotto la giurisdizione italiana. Giudicai, quindi, più opportuno e produttivo giungere alla costituzione di una Commissione unica, con il compito di far luce e di ricostruire con autorevolezza e serietà le circostanze storiche che impedirono di far emergere le responsabilità intorno alle stragi - è bene precisarlo - da chiunque commesse e per qualsiasi motivazione politica e militare.
Ritenevo, e continuo a ritenere, che l'Italia di oggi abbia bisogno di ricostruire nel suo insieme i contorni, finora oscuri, del proprio passato. La distanza temporale dai fatti e la pratica impossibilità di procedere ancora per via giudiziaria consigliano di seguire piuttosto un'operazione di ricostruzione storico-politica.
In ogni caso, è bene tenere la polemica fuori dalla porta: questa è la mia conclusione. Il peso storico di tante tragedie ci obbliga a uno sguardo assai più sereno rispetto a quello che è emerso in questi giorni di inutili polemiche.

ALBERTO STRAMACCIONI. Signor presidente, vorrei svolgere alcune considerazioni su almeno quattro punti che considero fondamentali, dopo aver ascoltato le relazioni dell'onorevole Raisi e dell'onorevole Carli e dopo il dibattito che si è svolto, compresi gli interventi di questa sera.
Prima di svolgere queste considerazioni, vorrei partire da un dato, confermato anche dall'intervento del senatore Servello. Dalle relazioni e dalla discussione sta emergendo un contrasto radicale, profondo, sulle risposte alle domande che ci sono state poste con l'istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta in relazione alle cause dell'occultamento di fascicoli relativi ai crimini nazifascisti. Questo contrasto è radicale e profondo, perché sta emergendo una lettura storico-politica radicalmente contrapposta, che interessa periodi e vicende particolarmente importanti della storia italiana, dalle quali discendono responsabilità politiche e istituzionali altrettanto rilevanti.
La relazione di maggioranza ci propone una lettura storico-politica della vicenda italiana dal dopoguerra ad oggi che, sostanzialmente, non risponde alla domanda di verità e giustizia che non è provenuta solo dal Parlamento; certamente si può polemizzare su come è nata questa Commissione, su qual è stato il dibattito precedente alla sua istituzione, però oggi siamo qui dopo due anni di lavoro. Una risposta chiara ci è richiesta dal Parlamento e dalle associazioni dei familiari delle vittime e, io credo, anche dalla coscienza civile del paese.
La relazione di maggioranza si regge su un assunto fondamentale, dal quale discende tutto il resto: i crimini nazifascisti devono essere valutati come reati politici, sui quali sono intervenute le amnistie del 1946 e del 1959; quindi, pur avendo colpito dei civili inermi (giovani, donne, vecchi e bambini), non sono crimini contro l'umanità e per ciò stesso imprescrittibili, come è stato stabilito non solo sul piano della valutazione politica o storiografica, ma da una sentenza della Corte di Cassazione del 2003 relativa alla vicenda di Priebke.
Dunque, siamo di fronte a un giudizio e a una valutazione storico-politica che per noi è inaccettabile, perché nega in radice la vera e propria guerra ai civili, organizzata dai comandi tedeschi dopo l'8 settembre attraverso - è bene ricordarlo - specifici ordini emanati dal generale Kesselring e messi in atto dagli ufficiali dell'esercito tedesco e dagli ufficiali dell'esercito della Repubblica sociale italiana, che hanno portato alle stragi che tutti conosciamo.
Se si nega l'esistenza stessa della guerra ai civili, la vicenda dell'occultamento dei fascicoli e le conseguenti responsabilità della magistratura militare e del potere


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politico e di Governo, in quest'ottica, diventano responsabilità minori o, comunque, di minor rilievo giuridico e politico. Negare l'esistenza di una vera e propria guerra ai civili - che peraltro è stato un fatto europeo, non soltanto nazionale, e si possono leggere tanti studi sulle diverse vicende che hanno interessato i vari paesi europei - significa esprimere, come peraltro è interpretato da una corrente storiografica, un certo «negazionismo storico», cioè una forma di revisionismo a proposito di cose vecchie e nuove, alle quali faceva riferimento poco fa il senatore Servello, che tradisce un uso abbastanza spericolato, politico, della storia.
Credo non sia giusto e non si possa negare che vi è un rapporto stretto tra storia e politica e in fondo - come qualcuno ha detto più autorevolmente di me - la storia, anche quella più antica, in qualche modo è storia contemporanea. Quindi, c'è un uso pubblico della storia. Ma credo che con la relazione di maggioranza siamo di fronte ad un uso abbastanza spregiudicato e politico della ricostruzione storica.
Se si valutano come reati politici anche i più efferati crimini nazifascisti, si dà una chiave di lettura della storia italiana dal 1943 al 1945 esclusivamente - lo sottolineo - come caratterizzata da una guerra civile tra italiani fascisti e italiani antifascisti. Ritengo che un conflitto vi sia certamente stato, ma, come ha ammesso per primo uno storico di sinistra - si direbbe comunista -, Pavone, esso rappresenta solo un aspetto della più generale guerra di liberazione nazionale, combattuta nella Resistenza antifascista e antinazista da partigiani, militari dell'esercito italiano ricostituito e semplici cittadini, assieme alle truppe anglo-americane. Quindi, si tratta di un movimento di liberazione nazionale che, al di là di ogni mitizzazione o ideologizzazione - è giusto che anche su questi aspetti si evitino le mitizzazioni -, è stato il fondamento politico e culturale della costituzione della Repubblica, come spesso ci ricorda il Presidente della Repubblica Ciampi.
Se i crimini nazifascisti sono stati reati politici, ciò sottintende che anche le stragi più efferate sono state, in qualche modo, la legittima reazione di nazisti e fascisti ad un'offesa e, come si potrebbe dire oggi, una specie di legittima guerra preventiva. D'altronde, questo era l'intendimento di Kesselring quando ha emanato i suoi ordini per tutelare l'esercito nazista, che risaliva la penisola contrastato dall'offensiva anglo-americana, dall'esercito di liberazione nazionale e dagli stessi civili.
Questo negare il carattere di crimini contro l'umanità non può che attenuare - e vengo al secondo dei quattro punti che volevo affrontare - il giudizio sulle responsabilità della magistratura militare per non aver celebrato i processi attraverso la messa in atto di una vera e propria pianificazione dell'occultamento. Siamo di fronte ad una magistratura militare - dobbiamo sottolinearlo e lo abbiamo verificato nel corso delle audizioni e dell'acquisizione dei documenti - i cui più alti gradi avevano ricoperto incarichi di rilievo nel corso del ventennio fascista e poi, in alcuni casi, nella Repubblica di Salò, e furono particolarmente legati al potere politico dell'immediato dopoguerra. Questa magistratura era chiamata a giudicare - come è stato ricordato - tanti ufficiali nazisti tedeschi, responsabili delle stragi in Italia, ma anche tanti ufficiali dell'esercito italiano, imputati per i crimini compiuti in territorio jugoslavo o in Grecia, che dopo la guerra, lungi dall'essere processati o epurati, continuavano a ricoprire proprio le più alte cariche dell'esercito italiano. Questa specie di conflitto di interessi della magistratura militare - lo chiamerei così - è un dato incontrovertibile dalle acquisizioni e dal lavoro fatto in Commissione.
A tutto ciò, a guardare la relazione di maggioranza, non si vuole attribuire la rilevanza che invece merita, poiché spiega le vere ragioni dell'occultamento. Alla volontà iniziale delle forze alleate e del Governo Parri di procedere alla raccolta delle istruttorie sui crimini nazifascisti per poi celebrare i processi ha fatto seguito non una semplice negligenza da parte


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della magistratura militare, come viene affermato nella relazione di maggioranza, ma un occultamento, volutamente perpetrato negli anni, con le tappe e i passaggi che abbiamo ricostruito e che precedentemente ha citato anche il senatore Brunale, e che è emblematicamente rappresentato dalla cosiddetta «archiviazione provvisoria» del 1960.
Questo atteggiamento della magistratura militare - dispiace dirlo - è proseguito anche dopo il 1994. Nella relazione, rispetto a ciò, cioè dopo la scoperta del cosiddetto «armadio della vergogna», non è stato fatto o non viene fatto nessun riferimento significativo. A proposito dei comportamenti della magistratura militare dopo il 1994, sarebbe utile ricordare che, circa un anno fa, vi fu una discussione nella nostra Commissione sull'opportunità o meno di inviare alla magistratura ordinaria un esposto-denuncia, che poi venne fatto. Quindi, in qualche modo, c'è già stato un pronunciamento su una responsabilità abbastanza precisa della magistratura militare. Pertanto, vi è stata una contiguità tra i membri della magistratura militare e i militari imputati di crimini, e ciò può aver consentito non solo la concessione di attenuanti o la prescrizione del reato in quei pochissimi processi che sono stati celebrati prima del 1981, anno della riforma dell'ordinamento della magistratura militare, ma anche l'impunità e l'occultamento degli anni successivi. Credo che ciò non possa essere accettabile in alcun modo da parte di nessuno.
A maggior ragione, credo che non sia sostenibile, come è detto nella relazione di maggioranza, che nel perseguimento dei responsabili dei crimini nazifascisti si possa negare, per la magistratura militare, l'obbligatorietà dell'azione penale. D'altronde, se questa interpretazione dovesse trovare fondamento, credo che farebbe emergere una logica, tutta politica, fondata sulla necessità di arrivare a una specie di pacificazione nazionale, o meglio a una malintesa pacificazione nazionale, dove vittima e carnefice risulterebbero messi sullo stesso piano, in spregio ai valori della verità e della giustizia. Inoltre - e concludo su questo punto - la magistratura militare verrebbe considerata del tutto asservita a quel potere politico che voleva la pacificazione nazionale negli anni più duri della rinascita della guerra fredda (e, anche dopo il 1981, quantomeno sarebbe risultata acquiescente a quel potere politico che intendeva lasciare nel dimenticatoio i documenti e i fascicoli legati ai crimini). Ma la magistratura doveva considerarsi autonoma da quel potere politico ed esercitare l'obbligo dell'azione penale.
Vengo alla terza e penultima questione, che mi sembra particolarmente rilevante ai fini della comprensione delle ulteriori ragioni dell'occultamento dei fascicoli e della questione del ruolo dei Servizi segreti in Italia e in Germania - sul quale, al di là della relazione dell'onorevole Carli, si è insistito abbastanza poco - nel quadro dei paesi dell'Alleanza atlantica. Il ruolo dei Servizi segreti è una questione nuova avviata dal lavoro di indagine della Commissione, che non è facile approfondire per tante ragioni, in parte anche comprensibili. Credo che in un sistema politico democratico il lavoro dei Servizi di intelligence debba essere sempre più trasparente, fatte salve le prerogative di segretezza e riservatezza che il loro lavoro molto spesso esige e comporta. A questo proposito, però, la relazione di maggioranza considera tutto già noto (così è stato detto): noto il rapporto di collaborazione tra ufficiali nazisti e la CIA per contenere l'espansione sovietica nei paesi nell'Europa occidentale; noto il sistema delle coperture che la NATO ha generosamente elargito ai militari nazisti considerati responsabili di crimini efferati, come quelli compiuti, per esempio, dal capitano Theodor Saevecke a proposito della strage di piazzale Loreto, un ufficiale che - è bene ricordarlo - non si è mai voluto processare e che poi ha ricoperto importanti responsabilità nella Germania federale.
Certamente alcuni casi erano già noti, come quello del colonnello nazista Gehlen, ma con la nostra relazione si mette in evidenza il ruolo particolare, per esempio, di un signore dei Servizi segreti americani, che si chiama Joseph Luongo, che cooptò


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ex ufficiali nazisti - come Karl Hass, considerato responsabile delle Fosse Ardeatine insieme a Priebke e Keller e, guarda caso, tutti principali collaboratori di Kesselring - ed ex repubblichini, inseriti in una struttura americana che svolgeva attività informative e di sicurezza in funzione anticomunista nel nord Italia negli anni della strategia della tensione, gli anni sessanta e settanta. Tutto ciò emerge da un'indagine della magistratura in relazione, in particolare, all'attività di Ordine nuovo. Lo stesso Luongo era in rapporti diretti con il Ministero dell'interno del nostro Paese; sarebbe interessante approfondire l'insieme delle relazioni tra il SIFAR e il SID e alcuni personaggi come Luongo, sempre tutelati dai funzionari dell'ufficio degli affari riservati del Ministero dell'interno di allora.
Alla luce di questi elementi, quindi, non considererei irrilevante il fatto che la nostra Commissione abbia acquisito, presso l'archivio del NARA negli Stati Uniti, un fascicolo sul maggiore Karl Hass, qualificato come un importante collaboratore del CIC, il Servizio di informazione militare degli Stati Uniti, del Ministero dell'interno italiano e del SIFAR, proprio negli anni in cui la magistratura militare italiana avrebbe dovuto processarlo per le sue responsabilità nelle stragi. Accanto all'arruolamento degli ex nazisti nei Servizi segreti USA, dal lavoro della Commissione si conferma la collaborazione di ex appartenenti - questo certamente è già noto, ma è una conferma storicamente e politicamente rilevante - alla Decima MAS di Junio Valerio Borghese, tramite James Angleton all'OSS prima e alla CIA poi, in un'organizzazione della NATO, quale poi è risultata essere la rete «Stay behind», di cui la Gladio fu l'organizzazione italiana.
In questo quadro, credo che, come risulta dai fascicoli, si debba rilevare che molti militari della Decima MAS sono indicati come responsabili di crimini di guerra. Credo che i dati acquisiti sul ruolo e sulla presenza in Italia dei Servizi segreti degli Stati Uniti negli anni dell'immediato dopoguerra sollecitino ad approfondire anche le modalità di ricostituzione dei nostri Servizi segreti dopo la fine della guerra che - è bene sottolinearlo - vengono ufficialmente ricostituiti solo il 1o settembre 1949, e non prima. E vengono ricostituiti sulle ceneri del vecchio SIM, il servizio di informazione militare nato durante il regime fascista, da cui ereditano uomini e strutture. Il SIFAR nasce nel 1949 senza un dibattito parlamentare, ma semplicemente con una circolare interna del ministro della difesa di allora, il noto Randolfo Pacciardi, un repubblicano abbastanza noto per le sue convinzioni filo-occidentali.
Comunque, non si vuole ripercorrere la storia dei Servizi segreti italiani fino alla riforma del 1977, ma credo che si possa affermare - non è certo una grande novità, vi sono state tante inchieste della magistratura al riguardo - che i diversi tentativi di colpo di Stato nel 1964, nel 1970 e nel 1973-1974 hanno coinvolto, a vario titolo, i Servizi segreti, parti o personaggi di essi, nei tanti depistaggi o nelle inchieste sulle stragi. Quindi, non è ininfluente conoscere modalità, soggetti e forme di reclutamento degli operatori dei Servizi in quegli anni, nell'immediato dopoguerra e negli anni successivi, per valutare chi di questi abbia fatto parte della Repubblica sociale o sia considerato responsabile di stragi o di crimini, compiuti da solo o insieme ai nazisti. Su questo punto, anche se da me interpellato, il senatore Andreotti è stato particolarmente sfuggente e reticente nel corso dell'audizione presso la nostra Commissione.
Vengo al quarto e ultimo punto, relativo alla responsabilità politica, che è stata definita «ragion di Stato», che è stata giustificata o legittimata con la particolare situazione internazionale della guerra fredda e del riarmo tedesco che, secondo un comune sentire, «avrebbe consigliato» - questa è stata l'espressione che è stata utilizzata - «l'occultamento, cioè il non perseguimento dei crimini compiuti dal cosiddetto soldato tedesco». Anche in questo caso, credo si faccia strada una tesi storico-politica, secondo cui l'Italia era un paese a totale sovranità limitata rispetto al contesto internazionale e, in particolare,


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rispetto al contesto euro-atlantico. Di certo, non saremo noi, o io, a negare l'influenza, il peso, che gli Stati Uniti d'America hanno avuto in particolare tra il 1943 e il 1948, ma anche negli anni successivi, sulle vicende politiche italiane. L'Italia, da paese nemico a paese alleato, ma con l'inaffidabile rango di cobelligerante non era certo considerato un paese vincitore della seconda guerra mondiale.
Pur tuttavia, non vorrei che noi non riconoscessimo alle rinate istituzioni italiane, anche se fragili nell'immediato dopoguerra, alcuna autonomia, anche prima del trattato di pace, a cui è stato fatto riferimento più volte, nel 1947. L'Italia, lo Stato e le istituzioni italiane avevano le responsabilità tipiche dei governanti di uno Stato sovrano, con un Parlamento liberamente eletto nel 1946, e quindi erano politicamente e storicamente nelle condizioni di dover e poter far fronte a tutte le importanti decisioni di politica interna e internazionale. È stata quindi giustamente accertata una precisa responsabilità politica del Governo e dei Governi nel non dar corso alle richieste di estradizione di militari italiani, quali presunti criminali di guerra, da parte di altri paesi (Jugoslavia e Grecia). Contestualmente, il Governo italiano si trovava nell'imbarazzante situazione di dover procedere alla richiesta, proveniente dalla magistratura militare italiana, di estradizione di militari e criminali di guerra tedeschi.
Tra queste due opposte esigenze, credo che in qualche modo si sia abdicato alla responsabilità politica, lasciando ad alti e importanti funzionari dello Stato a vari livelli, come i magistrati Zoppi, Mirabella e Santacroce, di occuparsi delle diverse vicende. E quelli che ho appena citato, insieme ad altri, avevano la particolare caratteristica - come accennavo prima - di essere tutti, o quasi, funzionari che si sono occupati della questione dei crimini nazifascisti ma che, già in epoca fascista, avevano rilevanti responsabilità direttive nei ministeri, nella magistratura e nell'esercito.
Aggiungo che dalla documentazione acquisita agli atti della Commissione risulta che l'azione congiunta della magistratura militare e dell'autorità politica, in particolare del Ministero della difesa nel 1957, ha impedito che si svolgessero - limitiamoci almeno a questo - i processi riguardanti l'eccidio di Fossoli e quello della divisione Aqui a Cefalonia. Tali procedimenti, peraltro, sono stati avviati dalle procure militari territoriali, non certo dalla procura generale, e su sollecitazioni abbastanza personali.
A confermare questo orientamento politico dei governi, vi è il noto carteggio Taviani-Martino che non sottovaluterei o non liquiderei rapidamente, senza averne valutato i contenuti; sarebbe opportuno valutare anche la vicenda Leibbrand del 1962-1963. Dalla lettura di questi documenti emerge un collegamento esplicito tra l'occultamento dei fascicoli sui crimini nazifascisti e la volontà di non compromettere l'immagine dell'esercito tedesco nel momento della sua ricostituzione. Dopo la cosiddetta «archiviazione provvisoria» del 1960 - alla quale abbiamo fatto tutti riferimento -, nel 1964 l'archivio viene catalogato e sistemato, e solo nel 1971 si dà formalmente conto della sua esistenza al ministro della difesa (tutto, però, rimane sepolto fino al ritrovamento dell'armadio nel 1994). Responsabilità politiche e responsabilità della magistratura militare, a mio avviso, emergono con grande chiarezza, anche per chi ritiene di dover attenuare o comprendere il tutto nel contesto del clima internazionale di quei tempi che, come ho sostenuto, non può giustificare l'abdicazione verso i diritti-doveri fondamentali e propri di uno Stato e di una nazione sovrana.
Per concludere, credo che dobbiamo arrivare a una conclusione del nostro lavoro, tenendo in considerazione soprattutto i risultati raggiunti nel corso del tempo (l'acquisizione dei documenti, le audizioni), nel rispetto del lavoro e dell'impegno di tutti. Credo che noi - come Unione, come centrosinistra - abbiamo dato un contributo importante e significativo al lavoro di questa Commissione. La relazione di maggioranza, però, arretra totalmente rispetto alle acquisizioni dell'indagine


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conoscitiva e alle acquisizioni dell'indagine condotta dal Consiglio della magistratura militare. Si è scelta la strada di considerare reati politici quelli che sono, invece, crimini contro l'umanità e, quindi, si è poi negato tutto il resto. Penso che sarebbe sbagliato (e da evitare) che il lavoro della Commissione si concludesse con una contrapposizione frontale come quella che si sta sviluppando.
Abbiamo infatti una responsabilità che forse nell'immediato viene valutata poco dai mezzi di informazione e dall'attenzione pubblica verso il nostro lavoro, ma in prospettiva occorre considerare che con le relazioni si riscrivono pagine importanti della nostra storia nazionale. Siccome, giustamente e da più parti, si parla della necessità di una storia o di una memoria condivisa di tutti gli italiani, o il più possibile condivisa - un'aspirazione e un obiettivo che ci invita a realizzare spesso anche il Presidente della Repubblica -, credo che dobbiamo fare uno sforzo per arrivare a una soluzione di questo genere. Infatti, una solida identità nazionale si basa anche su un'interpretazione storica del passato il più possibile condivisa.
Oggi siamo nella condizione di dover fare i conti con due interpretazioni, due riletture della storia italiana che dividono profondamente. E non mi auguro che si sia scelta una linea di riscrittura della storia nazionale, così come viene presentata nella relazione di maggioranza, della quale si debba solo prendere atto. Non vorrei infatti che ci si ispirasse a questa rilettura della storia politica nazionale sulla linea di quell'ormai famoso disegno di legge, presentato da un senatore di Alleanza nazionale, che intende ottenere l'equiparazione giuridica tra i partigiani e i repubblichini. Credo che queste iniziative, che possono sembrare abbastanza limitate o confinate in un ambito giuridico ristretto, abbiano un peso e una rilevanza politica e culturale notevole per il nostro paese.
Spero ed auspico - rivolgo questo auspicio innanzitutto a me stesso, ma non solo - che non tutte le componenti della Casa delle libertà condividano un'interpretazione del genere del lavoro conclusivo della nostra Commissione. È vero che siamo al termine di una legislatura particolarmente conflittuale tra i due schieramenti, che non ha avuto precedenti nella storia del Parlamento e della Repubblica italiana; è vero che siamo all'avvio, o forse nel pieno, della campagna elettorale, ma è altrettanto vero che si può fare uno sforzo reciproco, senza mettere in discussione alcune convinzioni che sono i capisaldi delle interpretazioni della vicenda dell'occultamento e della storia italiana, per arrivare a una conclusione che non sia completamente contrapposta, come appare oggi.

PRESIDENTE. Nel ringraziare l'onorevole Stramaccioni per il contributo offertoci, sospendo brevemente la seduta.

La seduta, sospesa alle 21,45, è ripresa alle 21,55.

PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori. Do la parola al senatore Zorzoli.

ALBERTO ZORZOLI. Signor presidente, colleghi, nelle fasi conclusive dei nostri lavori, la Casa delle libertà non ha mai fatto cadere la possibilità di arrivare a una relazione condivisa. Vorrei ricordare all'onorevole Stramaccioni che, tutti d'accordo, avevamo pregato, e poi investito, il presidente, quale relatore alla conclusione dei nostri lavori, proprio perché identificavamo anche nella sua figura istituzionale la possibilità di giungere a un qualcosa di condiviso. Per una serie di ragioni, tra le quali non ha poca importanza l'urgenza con cui siamo stati costretti a chiudere i nostri lavori, ciò non è stato possibile fino ad ora. Tuttavia, credo che non bisogna mai porre limiti ai risultati della buona volontà e, se questa buona volontà si manifesta veramente da ambo le parti, non è da escludere che si riesca a raggiungere qualche obiettivo.
Mi sono riferito in particolare all'intervento del collega che mi ha preceduto perchè la base per giungere a qualche valutazione condivisa non può essere lo


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stravolgimento delle relazioni che di per sé già mostrano qualche lontananza. L'onorevole Raisi avrà la possibilità di valutare le affermazioni che sono state fatte e, al limite, di replicare. Vorrei ricordare all'onorevole Carli - che ha definito «relazione della vergogna» quella del relatore di maggioranza - che io (forse provengo da un'altra scuola) sono abituato a rispettare sempre le opinioni degli altri e, soprattutto, a non esprimere giudizi così a caldo. Una relazione così lunga forse andava letta per intero, e poi valutata.
Si è tornati, oggi, a dare un peso politico particolare - direi anche odioso - al passaggio interlocutorio in cui l'onorevole Raisi ha parlato del significato del «reato politico» peraltro seguito da un altro in cui si diceva che «sotto il profilo procedurale, tutti i reati oggetto dei provvedimenti di clemenza citati necessitavano, comunque, di un atto formale del giudice che disponesse l'archiviazione o il non luogo a procedere» (avrà modo l'onorevole Raisi di esternare le sue considerazioni). E ancora, ho sentito dire che in qualche parte della relazione - ma non sono proprio riuscito neanche a trovarla - si parlerebbe della non obbligatorietà o del venir meno dell'obbligatorietà dell'azione penale. Credo di essere stato molto attento ai nostri lavori, soprattutto in quest'ultimo periodo, ma non sono proprio riuscito a cogliere questo passaggio.
Comunque, e credo di poter parlare a nome dei colleghi della Casa delle libertà, si dovrebbe trovare lo spiraglio per iniziare un percorso comune, però volendo raggiungere un obiettivo comune, perché se cominciamo a strumentalizzare le cose che diciamo e non le collochiamo nel loro reale significato, certamente il percorso diventa quasi impraticabile. Ma non voglio far perdere tempo ai colleghi, perciò svolgerò le mie valutazioni rispetto al testo della relazione finale dell'onorevole Raisi, tenendo presente anche alcuni spunti emersi negli interventi dei colleghi, che ho seguito - tutti - con molta attenzione.
Prima di entrare nel merito, è mia intenzione chiarire qual è stato il mio atteggiamento in relazione a questo doloroso e complesso problema, a questi efferati delitti commessi nei confronti della popolazione civile. Nell'attività di individuazione delle cause che determinarono la mancata celebrazione dei processi per crimini, nei quali trovarono la morte 15.000 nostri connazionali, ho provato innanzitutto a immedesimarmi in uno dei parenti di quelle vittime: ho tentato di capire in tutti i modi come sia stato possibile che per mezzo secolo i processi per simili crimini non fossero stati celebrati. Sono stato e sono animato non solo dal proposito di ottenere le punizioni dei responsabili, quanto piuttosto dalla ferma volontà di sapere, conoscere e accertare unicamente la verità. Invero, a distanza di oltre sessant'anni da quei tragici fatti, non sarà affatto facile ottenere condanne, ma oggi il paese, più che la punizione dei responsabili degli eccidi, forse si attende che dai lavori della Commissione scaturisca una compiuta ricostruzione delle cause che impedirono la celebrazione di quei processi: il diritto di conoscere la verità, anche quello, è imprescrittibile.
È questo il problema: è necessario consegnare al paese una verità compiuta, non parziale, tanto meno distorta; un tema nobile, come quello che occupa la nostra Commissione, non può e non deve essere oggetto di strumentalizzazioni. Per queste ragioni, durante l'intero arco dei lavori ho cercato di capire con animo sereno e pacato cosa fosse realmente accaduto, evitando di aderire aprioristicamente a tesi precostituite o ad infarciti pregiudizi, capaci soltanto di letture di comodo o deformate dalla lente di qualche ideologia.
Le indagini precedentemente svolte dal Consiglio della magistratura militare e dalla Commissione giustizia della Camera avevano dato per scontato che i processi non si celebrarono a causa della ragion di Stato, considerando quindi già provata la complicità della politica con la magistratura militare dell'epoca - questa tesi è echeggiata anche questa sera - e si è demandato a questa Commissione il compito di accertare e di limitare l'ambito delle responsabilità politiche.


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Ebbene, ho tentato di verificare se quella verità sopravviveva a tutte le prove di resistenza che mano a mano erano consentite dagli accertamenti da noi espletati. Presto mi sono reso conto che quella verità era stata costruita in parte servendosi soprattutto di dettagli, quasi come se si fosse guardato da un buco della serratura, cioè attraverso delle letture parziali, dei frammenti, ma senza voler tentare di guardare da altre angolazioni, né di osservare l'insieme. L'esperienza di tutti noi mi consente di non dilungarmi sulla facilità con la quale, riportando soltanto una battuta estrapolata da una più ampia intervista, si riesca a stravolgere il senso di un intero ragionamento. Del resto, una prova l'abbiamo avuta anche questa sera a proposito di alcuni titoli e dichiarazioni apparse sulla stampa in merito alla relazione Raisi che, a mio parere, stravolgono il contenuto della relazione stessa, ma, come ho detto prima, penserà lui stesso a fare chiarezza.
È stato allora che ho deciso che dovevo riconsiderare tutto, per gettare piuttosto le fondamenta di una ricostruzione, magari simile, se non addirittura uguale a quella precedente, ma questa volta - almeno per quanto mi riguarda - solida, stabile e vera.
I lavori della Commissione, infatti, hanno consentito di fare piena luce su alcuni aspetti che erano stati completamente stravolti. Mi riferisco - richiamandomi a dichiarazioni che ho appena sentito - al carteggio Martino-Taviani dell'autunno del 1956, da sempre indicato, anche nei recenti interventi di quasi tutti i colleghi dell'opposizione, come emblematico della volontà politica di evitare la celebrazione dei processi sui crimini di guerra. Ebbene, sin dal 1999 sono state costruite responsabilità, a mio avviso, del tutto inesistenti: leggendo integralmente il carteggio si possono anche comprendere le effettive ragioni che indussero due tra le più alte personalità della nostra vita repubblicana a concordare sulla soluzione prospettata - si badi bene - dallo stesso giudice istruttore del tribunale di Roma, che aveva avanzato la richiesta.
Si tratta di ragioni, sia ben chiaro, di natura esclusivamente giuridica, rappresentate dall'impossibilità di richiedere l'estradizione di cittadini tedeschi, preclusa dal trattato di assistenza giudiziaria del 1942, come modificato nel 1953. È vero che quel carteggio si riferiva anche a considerazioni di opportunità - non voglio sottacere nulla - ma è sufficiente riportare un altro passaggio contenuto all'interno di quello stesso carteggio, tanto essenziale quanto inspiegabilmente omesso, per comprendere come sia stato un errore attenersi a dati parziali, capaci soltanto di mistificare realtà ben diverse. Si legge, infatti, nel carteggio (voglio ripeterlo, affinché rimanga a verbale, per amore di verità): «ma a parte tali considerazioni, ritengo che proprio in virtù delle disposizioni citate al numero 2, pagina 4, della lettera del giudice istruttore della procura militare di Roma, in data 25 settembre ultimo scorso, da te inviatami in copia, non sia possibile richiedere alla Germania l'estradizione delle persone indicate nel foglio stesso». Quella decisione - che peraltro riguardava un singolo caso, un singolo imputato - maturò per l'impossibilità, solo ed esclusivamente di natura giuridica, evidenziata dallo stesso giudice competente, di richiedere l'estradizione alla Germania. Non riesco proprio a vedervi nessuna ragion di Stato.
Risulta, quindi, evidente che la ragione principale e assorbente della decisione del ministro della difesa aveva riguardato l'impossibilità sul piano giuridico di richiedere l'estradizione di cittadini tedeschi, proprio in virtù delle ragioni del diritto positivo indicate nella richiesta del giudice istruttore, vale a dire le disposizioni contenute nell'articolo 4 del trattato italo-tedesco del 1942, come modificato nel 1953. Se è del tutto logico che uomini politici esprimessero valutazioni su una delicata vicenda giudiziaria, con risvolti che travalicavano i confini nazionali, è inconfutabile che la vera ragione per cui non venne dato corso alla richiesta prospettata dal giudice istruttore aveva natura prettamente ed esclusivamente giuridica.


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Dalla ricostruzione che precede, strettamente aderente all'integrale contenuto del carteggio del 1956 - che è a disposizione di tutti - risulta conseguentemente confutata la ricostruzione contenuta nella relazione del 2001 della Commissione giustizia, secondo cui si sarebbe trattato di un documento emblematico della rilevanza che la situazione politica internazionale assume per la vicenda in esame, tanto che la ragion di Stato avrebbe condizionato in negativo l'accertamento delle responsabilità per i crimini di guerra. Del resto, anche il Consiglio della magistratura militare, nella relazione conclusiva del 23 marzo 1999, aveva ritenuto che se nell'illegalità delle determinazioni della Procura generale militare non possano che essere confluiti motivi di opportunità politica - in un certo senso, una superiore ragion di Stato - dal carteggio acquisito se ne può desumere una puntuale definizione. In altri termini, mentre le precedenti inchieste avevano concordemente indicato nel carteggio del 1956 l'emblema dell'intervento diretto della politica nella gestione dei fascicoli in argomento, da un esame approfondito e - ritengo - obiettivo delle stesse missive emerge documentalmente che la vera ed unica ragione dei comportamenti tenuti dagli esponenti governativi dell'epoca è individuabile nell'impossibilità giuridica di richiedere l'estradizione dei cittadini tedeschi, così come sancito nei trattati che ho già citato.
Non desidero mai polemizzare, ma non posso esimermi dall'osservare come, ancora oggi, dopo un'inchiesta parlamentare durata alcuni anni, si continui a indicare quel carteggio come il riscontro documentale di un'interferenza politica sulla magistratura militare e, di riflesso, come la causa della mancata celebrazione dei processi sui crimini di guerra. È sufficiente rileggere i resoconti dei nostri dibattiti di questi giorni per rendersi conto di come questo carteggio - e questa sera l'abbiamo sentito ancora una volta - viene indicato come il momento più eloquente dell'intervento della politica per evitare la celebrazione di quei processi.
Credo di aver precisato sufficientemente questo aspetto, ma voglio essere chiaro fino in fondo: la politica si interessò - e come! - alle problematiche dei crimini di guerra, ed era suo preciso dovere farlo, ma lo fece sul piano esclusivamente politico, senza alcuna interferenza a livello giudiziario nella mancata celebrazione di processi; lo fece contenendo gli interventi entro la propria sfera di competenza, per esempio, tracciando le linee di fondo con atti largamente condivisi di politica giudiziaria ed estera, da un lato, cioè con i provvedimenti di clemenza, necessari per superare il passato, varati da personalità del calibro dell'onorevole Palmiro Togliatti, dall'altro con i trattati internazionali, quale quello del 1953, anno nel quale le cariche di Presidente del Consiglio e di ministro degli esteri erano ricoperte nientemeno che dall'onorevole Alcide De Gasperi.
Procedendo ad esaminare il merito della relazione presentata dall'onorevole Raisi, devo dire che ne condivido le linee di fondo, seppur proponendogli la modifica e l'integrazione nel testo di qualche passaggio (per esempio, la qui citata verità sul carteggio Martino-Taviani) che ha dato luogo a eccessive strumentalizzazioni, riguardando la parte dei reati politici, dell'amnistia e via dicendo. Sapendo che non rappresentano il pensiero del collega, credo che si possa facilmente riportare chiarezza su questi punti.
Sento il dovere, però, di richiamare l'attenzione di tutti sull'imponenza del dato numerico dei documenti acquisiti e sul rilievo che altre importanti ricerche già avviate non sono ancora state ultimate, con la conseguenza che per la Commissione non è stato possibile disporre di tutti i dati che pure sono stati individuati.
Il collega Eufemi mi ha anticipato, definendo come parziali le conclusioni raggiunte, in considerazione dei circa 10.000 documenti ancora da esaminare e - soprattutto - da contestualizzare in un arco temporale di mezzo secolo (senza contare l'esigenza di tradurre, almeno in parte, la documentazione acquisita negli archivi tedeschi, inglesi e americani, per


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un totale di alcune migliaia di documenti). Sono, dunque, dell'avviso che possa anche pervenirsi ad una relazione conclusiva, demandando al nuovo Parlamento ogni valutazione circa l'opportunità di completare gli accertamenti su un tema che, come ho cercato di dimostrare, non tollera frammenti di verità.
Chiarite le cautele connesse alle considerazioni che precedono, desidero ora procedere ad illustrare una sintesi della ricostruzione complessiva degli elementi riportati nelle osservazioni che presenterò al relatore.
Le notizie di reato riguardanti i crimini di guerra vennero accentrate nel 1945 presso la procura generale del Tribunale supremo militare, dove avvenne la fascicolazione e la costituzione dell'archivio. Nel 1946 l'allora procuratore generale, dottor Umberto Borsari, trasmise alcuni fascicoli alle autorità giudiziarie, ordinarie e militari, territorialmente competenti e avviò, agendo in piena autonomia, le indagini sulla maggior parte degli altri fascicoli, proseguite fino al 1949. Risale a quel periodo la fase iniziale di inerzia nella gestione dei fascicoli, proseguita senza interruzioni fino agli anni 1958-1959. Nel frattempo, precisamente nel marzo del 1953, era rientrato in vigore - con fondamentali modifiche - il trattato di assistenza giudiziaria del 1942 tra l'Italia e la Germania, prima, e con la Repubblica federale tedesca, poi; una normativa che dal 1953 in avanti non avrebbe più consentito l'estradizione per crimini di guerra fra Italia e Repubblica federale tedesca. È proprio per tale ragione che nel 1956 non si diede corso a una richiesta di estradizione nei confronti di un militare tedesco dimorante in Italia, presentata dalla Repubblica federale tedesca al nostro paese. Sono le stesse ragioni che hanno consentito di chiarire, come abbiamo visto, l'essenza del carteggio Martino-Taviani.
È necessario, a questo punto, tenere conto dei provvedimenti di clemenza intervenuti in quegli anni. All'amnistia Togliatti e agli effetti prodotti - esaminati in dettaglio nella parte che aggiungerò - si aggiunge dapprima il condono del 1953 e successivamente l'amnistia cosiddetta «tombale» del 1959, che annoverava tra i primi firmatari della proposta di legge Pertini e Berlinguer. Si è pure dimostrato, attraverso la disamina del caso Caneva, come pesantissime condanne, quale quella a trent'anni di reclusione per omicidio volontario, vennero interamente estinte, prefigurandone le conseguenze anche su una parte dei reati rubricati nei fascicoli rinvenuti nel 1994.
A questo proposito, non posso affatto esimermi da una valutazione del tutto soggettiva. Personalmente, quelle amnistie, così come vennero approvate, non le avrei affatto votate perché includevano crimini che non possono essere cancellati con un semplice colpo di spugna. Certi crimini, per quanto mi riguarda, non possono mai rientrare in provvedimenti di clemenza, pur se varati dopo un conflitto bellico.
Quel che qui conta, però, è che quei provvedimenti di amnistia vennero approvati con larghissime maggioranze e, dal mio punto di vista, è questo - caro collega Vitali - che mi fa sobbalzare di più e non, semmai, il riferimento di Raisi agli effetti delle amnistie. Ecco perché dico che nella relazione questi passaggi vanno esplicitati meglio. Quel che più conta è che poi quelle amnistie vennero applicate. Sono questi i dati che dobbiamo limitarci a registrare, al pari delle numerose sentenze per amnistia pronunciate in quegli anni. Sia ben chiaro, tutto ciò non sposta neanche di una virgola il giudizio di disvalore che deve essere attribuito alla mancata trasmissione alle procure militari dei fascicoli, impropriamente trattenuti a palazzo Cesi. Non rileva affatto, cioè, che alcuni di quei reati si sarebbero potuti amnistiare o meno perché, in ogni caso, quei fascicoli dovevano essere trasmessi alle procure territoriali. Di ciò dobbiamo occuparci, cercando di individuarne le cause.
Proseguendo nella disamina, si è avuto modo di constatare come il dottor Santacroce, non appena subentrato al suo predecessore Mirabella, negli anni 1958-1959, formò un gruppo di lavoro incaricato di riordinare l'archivio e i fascicoli sui crimini di guerra; nel gennaio del 1960 decise


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di emanare l'archiviazione provvisoria. Grazie alle dichiarazioni di uno dei magistrati incaricati di riordinare l'archivio, il dottor Giovanni Di Blasi (l'altro era Foscolo, poi divenuto procuratore generale), si è fatta luce sulle finalità di un atto sul quale molto, e non sempre a proposito, è stato detto.
Anche in questo caso, intendo esprimere una valutazione personale: quel provvedimento non venne emesso per occultare i fascicoli, anche se successivamente venne probabilmente utilizzato per giustificare la mancata trasmissione di fascicoli che, se effettuata, avrebbe potuto esporre alcuni magistrati militari a pesanti rilievi sul piano della responsabilità per gravi inadempienze. L'effettiva finalità di quel provvedimento - inesistente sul piano giuridico e non rientrante neanche in astratto negli atti consentiti a un procuratore generale, che per di più non aveva funzioni di merito, ma soltanto di legittimità -, così come precisata da un vero e proprio testimone diretto, è stata confermata dalle dichiarazioni precedentemente rese da altri due magistrati militari, Floro Roselli e Ottavio Orecchio, non adeguatamente tenute presenti nelle successive indagini del Consiglio superiore della magistratura militare e, di riflesso, dalla Commissione giustizia della Camera, così come dall'intero contenuto del carteggio che ho citato prima.
L'esame della documentazione acquisita ha anche consentito di dimostrare, da un lato, che i fascicoli vennero effettivamente esaminati e, dall'altro, che il provvedimento di archiviazione provvisoria del 14 gennaio 1960 venne emanato per tutti i fascicoli pendenti a quella data presso la procura generale, confutando definitivamente la tesi secondo cui quel provvedimento venne inserito soltanto nei fascicoli da occultare e sarebbe servito, nella sostanza, a trattenere a palazzo Cesi quei carteggi che poi vennero rinvenuti nel 1994.
Negli anni successivi al 1965, nel contesto della questione della prescrizione ventennale tedesca, vanno segnalate le richieste dirette alla procura generale, provenienti dai Ministeri della difesa e degli esteri, di conoscere l'esistenza di fascicoli sui crimini di guerra non ancora definiti per mancanza di prove, a cui fece seguito la nota con la quale Santacroce affermò che risultavano giacenti pochi casi con sufficiente documentazione. Era poi seguita la trasmissione in Germania, attraverso il ministero, di 24 fascicoli, di cui quattro abbinati. Fu un intervento positivo dell'esecutivo di quegli anni, e non una cappa che tutti i politici di maggioranza e di opposizione avrebbero fatto calare sui processi, come è riecheggiato in qualche intervento. Ma anche tale comunicazione da parte di Santacroce nell'indagine del CMM forse è stata definita troppo frettolosamente come mistificatrice di una ben diversa situazione reale dei fascicoli sui crimini di guerra. Sono stati trascurati, infatti, alcuni fondamentali aspetti: innanzitutto, che quei fascicoli vennero selezionati anche da magistrati collaboratori di Santacroce, fra cui Campanelli, Veutro e Foscolo, poi divenuti tutti procuratori generali; in secondo luogo, che fu lo stesso Santacroce, in successive note, a chiarire - come già è stato comunicato - che «l'unito prospetto si riferisce a una minima parte dell'intero materiale di informazione», chiarendo subito dopo: «sia perché la maggior parte di esso riguarda fatti commessi da militari tedeschi assolutamente sconosciuti sia perché sovente gli elementi probatori, anche in relazione a casi straordinariamente gravi, risultano assai incerti».
Ai rilievi che precedono e che contrastano con la ricostruzione offerta nella relazione del 23 marzo 1999 occorre aggiungere, in attesa di un'auspicabile traduzione degli atti, i risultati della missione effettuata dalla Commissione nel luglio del 2004 presso gli archivi di Berlino, Coblenza e Ludwigsburg, da cui risulta che nessuno dei fascicoli trasmessi nel 1966 si è concluso in Germania con sentenza di condanna. Quest'ultimo è certamente un dato da tenere presente, ma che nulla toglie alla responsabilità della tardiva e, in


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alcuni casi, omessa trasmissione di tutti i fascicoli alle procure militari territorialmente competenti.
Continuando nella disamina, negli anni 1965-1966, Santacroce trasmise alle procure territoriali 1.267 fascicoli contro ignoti. Anche tale comportamento è stato definito come un'attività di occultamento, finalizzata a nascondere quei fascicoli, che invece vennero trattenuti a palazzo Cesi e poi rinvenuti nel 1994. Anche qui, l'altro giorno, il collega Vitali non ha esitato a definirlo un occultamento, se possibile ancor più perverso. Ma anche in tal caso non è possibile condividere questa valutazione, in quanto non tiene conto dei rilievi, sui quali ci si è soffermati a lungo nella proposta che allegherò, che voglio riassumere brevemente.
La trasmissione dei fascicoli contro ignoti risulta la conseguenza sul piano logico e cronologico della selezione e dell'inoltro dei 20 fascicoli in Germania: cioè, si era affermato che erano pochi i casi contenenti atti idonei a consentire la celebrazione dei processi - i fascicoli trasmessi in Germania - e allora risulta logica la trasmissione, avvenuta immediatamente dopo, di altri fascicoli che invece non contenevano elementi utili né alla prosecuzione delle indagini né alla celebrazione dei processi. Tutti i fascicoli contro ignoti trasmessi alle procure territoriali contenevano l'archiviazione provvisoria del 14 gennaio 1960 e, a mio avviso, non è neanche lontanamente ipotizzabile che Santacroce, avendo firmato con quell'atto l'occultamento di fascicoli, abbia poi trasmesso la prova dell'occultamento stesso alle procure militari di Palermo, Bari, Napoli, Roma, La Spezia, Verona, Torino e Padova, ben sapendo che i fascicoli sarebbero stati esaminati anche dai giudici istruttori che avrebbero emesso, come infatti avvenne, le sentenze di proscioglimento contro ignoti. Inoltre, non vennero trasmessi tutti i fascicoli contro ignoti e trattenuti soltanto quelli contro noti: è emerso, infatti, che dei fascicoli rinvenuti nel 1994 a palazzo Cesi, oltre la metà è risultata contro ignoti. Allora, non si comprende la ragione di occultare fascicoli definibili con sentenze contro ignoti, nel senso che non sarebbe stato affatto necessario occultarli. I fascicoli rinvenuti nel 1994 non sono affatto collegati tra di loro da un filo conduttore: accanto a crimini assolutamente non qualificabili, come quello della strage di Sant'Anna di Stazzema, vi sono fascicoli contro ignoti, e per fatti molto meno gravi; vi è addirittura un fascicolo per un episodio di estorsione risalente nientemeno che al 1922.
Proseguendo nella disamina, anche dal verbale di consegna del 1968 si ricavano elementi che, sul piano logico, contrastano con un'attività di occultamento di fascicoli. In estrema sintesi, può ritenersi compatibile con un'attività di occultamento di fascicoli la redazione di un verbale di consegne, che fotografava la reale situazione dell'archivio e, quindi - secondo la tesi che io contrasto - avrebbe cristallizzato tutte le fasi dell'occultamento compiute fino a quel momento, costituendo un'ulteriore prova, quasi definitiva, dell'illecita attività di occultamento dei fascicoli? In altri termini, è davvero ipotizzabile che il dottor Santacroce, dopo aver formato e firmato l'occultamento emettendo l'archiviazione provvisoria, dopo averne spedito la prova a tutte le procure militari d'Italia e, infine, dopo aver affermato il falso trasmettendo 20 fascicoli in Germania, abbia poi voluto cristallizzare tutte le fasi di una condotta delittuosa - l'occultamento - in un verbale di consegne, in un certo senso formando un'ulteriore prova a suo carico? Risposte affermative sarebbero davvero illogiche, anche se la finalità effettiva della predetta domanda è soltanto ed esclusivamente quella di sollecitare delle riflessioni nell'ottica della funzione di conoscenza e di superamento del passato, alla quale ho fatto cenno all'inizio.
È poi certo che anche gli altri magistrati in servizio della procura generale fossero pienamente consapevoli dell'esistenza dell'archivio e della giacenza dei fascicoli sui crimini di guerra a palazzo Cesi. Il rilievo non è affatto di poco conto, ove si consideri che, dopo la scomparsa del dottor Enrico Santacroce, l'alta carica


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di procuratore generale venne rivestita prima da Foscolo e poi da Veutro, cioè da magistrati che, come si è dimostrato, avevano partecipato direttamente a selezionare, evidentemente in ben più numeroso ambito, i 20 fascicoli trasmessi in Germania.
È proprio nel 1981 che venne varata la riforma ordinamentale con la quale veniva eliminata la dipendenza della magistratura militare dal potere esecutivo e con la quale veniva ottenuta dai magistrati militari l'indipendenza e l'autonomia dal potere politico, con una piena equiparazione alla magistratura ordinaria. Se fino ad allora la magistratura militare fosse stata realmente asservita al potere politico, allora, dopo la riforma ordinamentale entrata a regime nel 1988, sarebbe stato lecito attendersi un comportamento finalmente diverso, che invece non si è avuto modo di registrare. Un comportamento diverso che non solo non è stato costatato dopo la riforma, ma che non è stato riscontrato neppure in occasione del rinvenimento dei fascicoli del 1994, quando vennero inspiegabilmente omesse operazioni di routine e nessuno denunciò alla procura della Repubblica di Roma la scoperta di un occultamento che si era protratto per quasi cinquant'anni. Nemmeno la semplice notizia del rinvenimento trapelò dalle mura di palazzo Cesi dal giugno 1994 al giugno 1996, quando, in circostanze singolari, venne pubblicata su un settimanale.
Mi sono soffermato anche sul comportamento della cosiddetta commissione mista, vagliato dalla magistratura ordinaria romana e giudicato immune da rilievi penalmente rilevante, al pari del comportamento tenuto dal procuratore generale Scandurra, il quale, informandone per ben tre volte il Consiglio della magistratura militare, aveva anche avviato un'indagine storico-giudiziaria sull'esito di fascicoli che erano stati trasmessi nel lontano 1946.
Va aggiunto, invece, che non sono state affatto convincenti le conclusioni alle quali è pervenuto l'organo di autogoverno della magistratura militare con la relazione finale del marzo 1999, approvata a quasi cinque anni di distanza dal rinvenimento del giugno 1994. A tale riguardo, anzitutto giova ricordare che il Primo Presidente della Corte di cassazione, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, aveva dubitato della competenza del CMM a espletare quell'inchiesta, come risulta nel verbale della seduta del 23 marzo 1999. Ma è anche necessario evidenziare, al di là delle perplessità espresse anche dal consigliere, dottor Salvatore Messina, che risultano numerose le divergenze tra i risultati di allora e quelli raggiunti dall'esito della presente inchiesta.
Al di là delle molteplici differenze sui singoli aspetti, ciò che emerge dai risultati di quell'indagine è la netta presa di distanza da comportamenti definiti, sì, come illegali, ma addebitati a personaggi scomparsi, come il dottor Santacroce; non soltanto, ma comportamenti giustificati anche dal condizionamento politico, trascurando che condotte analoghe erano state poste in essere, come si è dimostrato, ben oltre il 1974, anno della scomparsa di Santacroce, e da persone non solo ancora in vita, ma addirittura ascoltate nel corso dell'indagine del CMM. Soluzione agevole e per certi versi funzionale, anche perché allontanava nel tempo le responsabilità che, in ultima analisi, finivano per essere imputate al potere politico. Si avrà agio di soffermarsi al termine dell'intervento sulle effettive responsabilità della politica, capace di autocritiche e di riappropriarsi della pienezza del proprio ruolo, attribuitole dai sistemi democratici: per fare chiarezza, si tratta di occultamento colposo, non doloso.
Va evidenziato che gli elementi emersi e indicati come comprovanti un'ingerenza politica nella mancata celebrazione dei processi per crimini di guerra a carico dei tedeschi, in realtà offrono una lettura diversa sia intrinsecamente, attraverso una completa conoscenza dell'elemento, sia e soprattutto sul piano della contestualizzazione di quell'elemento e del suo collegamento con gli altri che caratterizzano un determinato momento storico. Sia ben chiaro che non si intende assolutamente sostenere che la politica si sia disinteressata a una tematica tanto delicata, della


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quale anzi aveva il preciso dovere di occuparsi. Ma deve essere fermamente escluso che il naturale, inevitabile e doveroso interesse politico si sia poi tradotto in condizionamenti, pressioni o addirittura ordini impartiti dai titolari dei dicasteri interessati ai procuratori generali militari per evitare la celebrazione di processi per crimini di guerra.
D'altra parte, va rilevato il più completo silenzio delle forze politiche dell'opposizione, che mai chiesero la celebrazione dei processi. Non mi soffermo sulle fuorvianti questioni riguardanti i rapporti con la Grecia o con la Jugoslavia, piuttosto che sulla vicenda del gruppo di Rodi o sull'assoldamento di ex nazisti o fascisti da parte della CIA, perché mi ritrovo completamente nelle brillanti considerazioni del collega Eufemi.
Tornando più da vicino alla gestione dei fascicoli per crimini di guerra, non può non rilevarsi come essa sia stata caratterizzata quasi costantemente da comportamenti negligenti, proseguiti persino dopo il 1994, quando sarebbe stato lecito attendersi una particolare attenzione, niente affatto dimostrata, in alcuni casi neppure dalla magistratura militare di merito territorialmente competente e destinata alle trasmissioni di fascicoli avvenuti dopo il 1994. Certamente le responsabilità colpose sono da ascrivere a singoli magistrati: non rientra nelle intenzioni della Commissione operare delle generalizzazioni tanto indiscriminate quanto ingenerose nei confronti della magistratura militare, intesa nel suo complesso e come istituzione, così come non rientra affatto nelle mie intenzioni aderire, neanche lontanamente, alle proposte che vorrebbero trasformare la magistratura militare in una sorta di sezione specializzata della magistratura ordinaria, come risulterebbe dall'intervento del pluricitato collega Vitali.
Si avrà agio più avanti di soffermarsi sulle proposte che possono essere apprezzate nell'ottica di evitare il ripetersi di situazioni anomale quale quella esaminata. È sufficiente osservare come tali proposte siano comunque differenti. Tuttavia, non è possibile esimersi dal censurare il modo insolitamente disinvolto con il quale è stata affrontata una tematica come quella dei crimini di guerra, che avrebbe invece richiesto particolare diligenza e attenzione. Né può farsi a meno di constatare una sorta di uniformità nei vari comportamenti colposi tenuti nel tempo da alcuni magistrati militari, talvolta riscontrabile perfino nelle più recenti definizioni giudiziarie dei fascicoli rinvenuti nel 1994.
Nel contesto di una diffusa responsabilità, però, è da osservare che l'operato del procuratore generale, Enrico Santacroce, risulta per alcuni versi inquadrabile anche in un'ottica diversa rispetto al giudizio concordemente e pesantemente negativo espresso nei sui confronti - anche nel corso di alcuni degli interventi ascoltati in questi giorni - evitando di soffermarsi su casi specifici verificatisi dopo il 1994 e rinviando in proposito alla trattazione contenuta negli emendamenti allegati. Fra i casi emblematici di una superficialità protratta nel tempo è sufficiente segnalare di fascicolo sull'eccidio di Fornelli che, come gli altri, rimase inevaso fino a 1994 a palazzo Cesi, ma più degli altri risulta emblematico della denegata giustizia nei confronti delle vittime.
L'eccidio di Fornelli, fortunatamente, fu uno soltanto; eppure, nei carteggi rinvenuti nel 1994 figurava contenuto in ben tre distinti fascicoli processuali. Dopo il 1994, i tre fascicoli sull'eccidio di Fornelli giunsero a tre diverse procure militari, La Spezia, Torino e Napoli. In un caso, il procedimento venne addirittura definito da un'autorità giudiziaria territorialmente incompetente. Il fascicolo sull'eccidio di Fornelli risulta ancora pendente.
Spero non vi sia nessuno, né oggi e nemmeno fra qualche anno, che voglia ipotizzare che quanto accaduto nel 1994 sia addebitabile alla politica, così come mi auguro che nessuno voglia ipotizzare ulteriori interferenze politiche sulla magistratura militare per evitare ancora oggi la definizione di procedimenti per crimini di guerra. È evidente che qualcosa non ha funzionato e forse in alcuni casi continua a non funzionare del tutto; ma non si può


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assolutamente trascurare che in molti casi la magistratura militare è riuscita ad assicurare il pieno esercizio della giurisdizione in un settore particolarmente delicato, quale quello militare, come peraltro dimostrato nella recente sentenza sulla strage di Sant'Anna di Stazzema.
Colleghi, il rimedio non può consistere nella totale eliminazione dell'ordine giudiziario militare per affidare peculiare funzione alla giurisdizione ordinaria - teoria peraltro udita recentemente in Senato e in Commissione, quando si discuteva del rifacimento dei codici militari - perché ciò significherebbe non tenere conto dei risultati faticosamente raggiunti dall'intera magistratura militare, spesso sprovvista dei necessari supporti strutturali. La soluzione deve essere ricercata nell'individuazione delle singole disfunzioni e nell'elaborazione di meccanismi capaci di eliminarle, affidandone i compiti, nel pieno rispetto dei valori di autonomia e indipendenza, a rinnovati organi di autogoverno, eventualmente ridisegnati tenendo a mente la composizione prevista per il Consiglio superiore della magistratura ordinaria.
Volendo tirare le fila di quanto sin qui riportato, si può certamente affermare che negli anni successivi al secondo conflitto mondiale era fortemente avvertita l'esigenza di superamento del passato. Nella popolazione, molti dei crimini commessi contro i civili venivano considerati come una conseguenza della guerra e si respirava, forse, un clima di fatalismo o quasi di rassegnazione e al contempo di rimozione dei tragici avvenimenti.
Mi ha ispirato a questa riflessione, forse da punti di vista diversi, una delle primissime righe dell'intervento del collega Carli, il quale diceva - credo quasi testualmente - che il dolore delle vittime, la volontà di verità di sindaci e popolazione si arresero scontrandosi contro l'ottusità della burocrazia e della magistratura militare. Allora, a colleghi tanto esperti e navigati, chiedo: vi sembra mai possibile, se veramente ci fosse stata una forte volontà di andare fino in fondo, che sarebbe bastata l'ottusità di qualche apparato burocratico o giudiziario per bloccare tutto? Oggi, se si ferma un treno, scendono in piazza sindaci e popolazione e seguono decine di interpellanze. Credo si debba valutare a fondo quel che è successo in quel periodo: quando ricordo che neanche l'attuale opposizione fece interpellanze o prese posizione sulla celebrazione dei processi, non lo faccio mai in chiave strumentale, ma perché credo che questi fatti debbano portarci ad una riflessione. Probabilmente, dopo batoste così pesanti e tragiche, anche l'opinione pubblica, in qualche modo, aveva la necessità di alleggerire un po' la tensione.
Comunque, a livello politico, interno e internazionale, si era man mano consolidata la necessità di ricorrere a provvedimenti di clemenza, capaci di alimentare e accelerare un percorso diretto al ritorno della normale convivenza civile. Soprattutto, le posizioni di vertice della magistratura militare, vale a dire i procuratori generali del Tribunale supremo militare, prima della Cassazione e poi della Corte militare d'appello, anziché trasmettere i fascicoli alle procure territoriali, alle quali soltanto competeva ogni valutazione sull'esercizio dell'azione penale, li trattennero presso gli uffici e gli archivi di palazzo Cesi, sede della procura generale militare, con poche ma significative eccezioni.
Per evitare fraintendimenti, sempre possibili - non vorrei lasciare spazio a strumentalizzazioni - è necessario ribadire quanto già affermato, vale a dire che non può essere compito della Commissione parlamentare operare delle generalizzazioni sulla scorta di singole responsabilità individuali, pur se riscontrabili nelle posizioni di vertice di una magistratura militare che nel suo insieme non deve assolutamente essere accomunata in valutazioni nei confronti di singoli magistrati, dalle quali sul piano istituzionale non ci si può sempre esimere. Un comportamento indubbiamente colpevole, addebitabile a singoli magistrati militari per un lungo periodo, iniziato alla fine degli anni quaranta e continuato anche dopo aver ottenuto la piena autonomia e indipendenza con la riforma ordinamentale degli anni


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ottanta, e proseguito perfino dopo il rinvenimento dell'archivio nel giugno 1994.
Risulterebbe davvero arduo ravvisare una responsabilità diversa da quella colposa perché ciò equivarrebbe a ipotizzare accordi tra soggetti che forse neppure si incontrarono mai e, tuttavia, per mezzo secolo avrebbero rispettato scrupolosamente le intese volte ad evitare ad ogni costo la celebrazione di processi per crimini di guerra. Del resto, se non si fosse trattato di responsabilità colpose, ma di natura dolosa, sarebbe evidente che l'intesa tra i singoli magistrati militari sarebbe stata necessariamente estesa ai rappresentanti del potere politico governativo, cioè - secondo la tesi che io contrasto - ai soggetti portatori di quell'interesse politico che avrebbe rappresentato la causa del comportamento tenuto dalla magistratura militare. Ma anche in tal caso dovrebbe essere ipotizzato un concorso di persone nell'occultamento durato per mezzo secolo, questa volta sì, tra uomini appartenenti ai più diversi orientamenti politici, in disaccordo praticamente su ogni cosa e, tuttavia, tutti accomunati dalla volontà di evitare la celebrazione di processi per crimini nazifascisti.
Non risulta affatto condivisibile la tesi sostenuta dall'Associazione nazionale dei magistrati militari, che ha definito la magistratura militare dei primi anni sessanta la colpevole esecutrice dei massicci occultamenti di fascicoli processuali anche a causa della sua dipendenza dal potere politico. Tale tesi non considera, infatti, che anche quando quella dipendenza dal potere politico cessò, il comportamento dei singoli magistrati militari, ormai autonomi e indipendenti, fu perfettamente analogo a quello tenuto prima della riforma ordinamentale del 1981. Anzi, si è avuto modo di evidenziare come il riferimento operato dalla magistratura militare agli anni sessanta, facile e per certi versi anche comodo, risulti completamente errato, atteso che il comportamento del procuratore generale Enrico Santacroce merita, per taluni aspetti, di essere riconsiderato, essendosi discostato da un'uniforme e ripetuta condotta, connotata soprattutto da omissioni, ma anche da superficialità.
In estrema sintesi, emerge una diffusa e continua negligenza dei singoli magistrati militari, iniziata alla fine degli anni quaranta e proseguita, salvo rare eccezioni, fino al 1994 e finanche alla successiva fase di gestione dei fascicoli e di definizione dei relativi procedimenti. Che un simile comportamento sia stato il prodotto di pressioni e ordini provenienti dal settore politico-governativo per un intero cinquantennio era e rimane una mera e suggestiva ipotesi, sfornita di adeguati supporti logici e probatori. Certamente la politica si interessò alla problematica generale di indubbia valenza sociale, ma non sono emersi elementi tali da far ritenere che per mezzo secolo uomini di Governo di diversa estrazione politica, e spesso tra loro estranei, sia pure soltanto per ragioni anagrafiche, abbiano raggiunto e cementato un accordo tanto intenso e duraturo. L'autonomia conquistata con la riforma del 1981, poi, avrebbe senz'altro dovuto interrompere una dipendenza dal potere politico finora concordemente considerata come la chiave di lettura del comportamento tenuto nel suo complesso dalla magistratura militare. Invece, sono stati riscontrati e documentati comportamenti identici, precedenti e successivi alla citata riforma, quasi tutti caratterizzati da una superficialità per certi versi davvero preoccupante, proseguita anche a seguito del rinvenimento dei fascicoli nel giugno del 1994 e, addirittura, riscontrata in alcuni casi nella successiva fase di definizione dei procedimenti affidati alle singole procure territoriali
La politica, certamente, ha avuto proprie responsabilità, ma non soltanto ed esclusivamente di natura politica. Le responsabilità della politica, cioè, non sono consistite in pressioni, condizionamenti oppure nell'aver preteso e ottenuto comportamenti omissivi da una parte della magistratura militare. Le responsabilità politiche sono consistite per un verso, ed avuto riguardo alle forze di volta in volta al Governo, nel non essersi resi conto delle


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disfunzioni dell'operato della magistratura militare e nel non essere intervenuti per porvi rimedio; per altro verso, con riferimento alle forze di opposizione, nel non avere adeguatamente controllato il funzionamento del servizio giustizia nel delicato settore dei crimini di guerra e nell'aver omesso di richiedere i necessari interventi normalizzatori di una situazione, per svariati aspetti singolarmente anomala. In altri termini, le diverse forze politiche, sia di Governo sia di opposizione, nell'arco di un intero cinquantennio vennero meno, avuto riguardo alla tematica dei processi sui crimini di guerra, alle loro rispettive funzioni istituzionali di indirizzo e controllo.
Viene, quindi, a delinearsi un contesto politico connotato da molteplici livelli e gradi di responsabilità, di intensità e coloriture diverse, a seconda sia della capacità di intervento sia dei differenti momenti storici. Un comportamento che ha comunque contribuito a far calare per lungo tempo l'oblio sulle vittime di quei crimini e che, proprio per questo, oggi rende ancor più necessario che venga tenuto vivo il valore della memoria, tanto più alto quanto più condiviso, anche promuovendo iniziative come quella dell'elenco delle vittime, descritta nel testo della relazione depositata dal collega Raisi, rispetto alla quale mi sembra che anche il senatore Vitali abbia manifestato consenso.
A tale iniziativa - che condivido pienamente - può essere affiancata la realizzazione di una banca dati informatizzata, alla quale ciascun cittadino possa accedere per conoscere i fatti, consultare i documenti e leggere testimonianze su ognuno degli eccidi del dopoguerra, suddivisi per province e regioni per facilitare le ricerche dei nominativi delle vittime, raccolte in elenchi alfabetici per ogni singolo eccidio. Un modo come tanti altri per rendere il sentito, prima ancora che dovuto, omaggio a tanti concittadini caduti come veri e propri martiri della vita quotidiana, ma dei quali qualcuno si dimentica e altri ignorano persino il nome. Un modo come altri per tentare di rimediare a carenze istituzionali protrattesi troppo a lungo. Esigenza vivissima oggi per le istituzioni, infatti, è quella di diffondere la conoscenza di quanto accadde nel nostro paese in quel periodo. Soltanto così facendo, da un canto, sarà possibile restituire se non giustizia almeno dignità alle vittime di quei crimini e, dall'altro, vincolando gli elementi di conoscenza, si riuscirà ad alimentare un valore, la memoria, fra quelli fondanti del concetto stesso di nazione.
Inoltre, come già accennato, è necessario individuare correttivi che consentano di evitare le disfunzioni del passato. Molto è già stato fatto, dotando la magistratura dei valori di autonomia e indipendenza che devono essere necessariamente salvaguardati, tanto più in un contesto di particolare delicatezza, quale quello militare. Tanto, però, rimane ancora da fare per eliminare le asimmetrie ancora esistenti fra la magistratura militare e quella ordinaria, in termini di partecipazione delle componenti istituzionali alle fasi di controllo e di verifica di una delle più alte funzioni esercitata in una società democratica, quella giurisdizionale, i cui atti vengono pronunciati in nome del popolo italiano.
Arrivati alla conclusione, nel contesto di un'inchiesta finalizzata a individuare le cause di occultamento di fascicoli, è importante constatare come la politica, dopo aver concluso il proprio compito specifico individuando le responsabilità dell'occultamento, non abbia esitato ad ammettere le proprie: la mancata verifica, protrattasi addirittura per mezzo secolo, delle responsabilità per i crimini di guerra commessi nei confronti della popolazione civile, in un contesto giudiziario peraltro improntato alla obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale.
La capacità di riconoscere i propri errori, sia pure a livello di responsabilità omissive, sul piano degli interventi correttivi e dei controlli, deve condurre la politica a riappropriarsi del suo ruolo più autentico e a dettare le condizioni per un generale e definitivo superamento del passato. Vale rilevare come il processo di


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riappropriazione del proprio ruolo da parte della politica sia già iniziato proprio attraverso l'istituzione, pressoché all'unanimità, della nostra Commissione, capace di non lasciare ombre sul passato del proprio paese, per consentire di far luce sulla strada comune da percorrere, tenendosi però lontano da pericolosi percorsi che soltanto la piena consapevolezza di ciò che è stato è capace di evitare.
Nel corso di un processo già avviato, che non tollera soste e ripensamenti, la politica non deve e non intende esitare un istante a riconoscere le proprie responsabilità in una delle pagine più tristi della storia repubblicana, che tuttavia deve essere riscritta, assegnando al potere politico il ruolo che realmente venne interpretato che, come si è visto, non fu affatto quello di protagonista, peraltro al negativo. In particolare, mi piace ricordare l'interlocuzione del senatore Guerzoni, allorquando si è soffermato sul rilievo che anche le forze di opposizione per quasi quarant'anni non sollevarono mai la questione della mancata celebrazione di processi per crimini di guerra.
Sarebbe auspicabile poter affermare che vi sono problematiche capaci di eliminare le distanze fra posizioni politiche, così come pare corretto ritenere che talvolta la politica potrebbe annullare le differenze tra le posizioni dei partiti.
Vi ringrazio, colleghi, e chiedo scusa per la lunghezza dell'intervento.

PRESIDENTE. Do la parola al senatore Zancan.

GIAMPAOLO ZANCAN. Signor presidente, mi sono ritagliato, in questo intervento, uno spazio, non so se grande o piccolo. Dico subito il titolo del mio intervento: la magistratura militare e i processi per crimini nazifascisti nel periodo tra il 1960 e il 1996. Per la verità si tratta di un tema non tanto piccolo, perché copre almeno 36 anni.
Questa Commissione - lo posso dire e testimoniare, in quanto (come membro di un gruppo piccolo) sono stato partecipe di quattro Commissioni d'inchiesta in questa legislatura: quella sull'affare Telekom-Serbia, quella sul dossier Mitrokhin e l'antimafia, oltre questa - ha ottenuto dei risultati straordinari che sul mio tema, gentilissimi colleghi, senatore Zorzoli, consentono di trarre delle conclusioni documentalmente certe. Poi parleremo delle connivenze dei politici e di eventuali debolezze dell'opposizione, ma prima deve essere fissato questo punto: la magistratura militare non ha voluto celebrare i processi per crimini nazifascisti. E non lo ha voluto con un pervicace dolo: mi scusi la battutaccia, senatore Zorzoli, ma l'occultamento colposo è più difficile dello stupro colposo di cui parla Woody Allen in un suo memorabile film. L'occultamento colposo è almeno altrettanto difficile, ma qui non vi è stata nessuna colpa; vi è stata, invece, una pervicace, insistita, voluta e consapevole responsabilità nei superiori organi della magistratura militare, come negli inferiori, di non fare i processi.
Questo significa che qualsiasi discorso facciamo in materia, alla luce della documentazione che finalmente, in modo organico, questa Commissione ha a disposizione, non possiamo fare altro che concludere che la responsabilità della magistratura militare è enorme e che il suo comportamento è una vergogna della storia repubblicana. Poi valuteremo le connivenze e le altre cose, ma prima dobbiamo segnare questo, altrimenti non c'è possibilità di alcun punto di incontro. Tutto questo emerge da dati certi documentali e cronologici, che sono ineludibili, senza difesa alcuna.
Partirei dalla tesi sostenuta nella relazione dell'onorevole Raisi, che dice: «Se per occultamento intendiamo una dolosa e pertinace azione diretta a celare o insabbiare qualcosa, nella specie fascicoli, per sottrarli alla vista o alla considerazione altrui, mai, dalla ingente documentazione in possesso di questa eccellentissima Commissione, è emerso che taluno si sia reso responsabile di una simile azione [...] Si può affermare che non si è trattato di occultamento». Purtroppo, onorevole Raisi, così non è. I dati non sono ipotesi di parte, ma sono affidati ai documenti


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che - finalmente - questa Commissione ha a disposizione, ordinati e precisi, e che consentono a questa Commissione di dare delle certezze al paese su questa materia.
Perché? Cominciamo dalla famosissima archiviazione del 14 gennaio. Il professor Maggiore dice che questo provvedimento di archiviazione provvisoria è una quintessenza di illegalità, che è «abnormissimo» (audizione del 27 ottobre 2004); ma queste, gentilissimo professor Maggiore, sono bubbole e pinzillacchere rispetto a qualcosa di molto più importante. Queste oltre 2.000 archiviazioni si basano sul fatto che il defunto generale Santacroce è un falsario: scrive 2.000 provvedimenti falsi; e non c'è più luogo a discutere se qualcuno commette un falso. Non manco di rispetto al generale Santacroce, che è morto, ma i documenti da lui firmati sono falsi. Recitano le archiviazioni: «Poiché nonostante il lungo tempo trascorso dalla data del fatto anzidetto non si sono avute notizie utili per le identificazioni dei loro autori e per l'accertamento della responsabilità [...]». Questi sono falsi, colleghi: non si può dire che questo è vero, non si può scrivere una motivazione di questo genere! È una motivazione ideologicamente falsa! Se avesse disposto le indagini, indagini che daranno frutti addirittura a distanza di 36 anni, come può immaginarsi che non ne dessero nel 1960? Chi scrive una cosa del genere è un falsario per 2.000 provvedimenti; e con l'autore sono complici - non conniventi - il dottor Di Blasi e tutti quelli che diventeranno poi procuratori generali, i cui nomi sono stati ricordati dal senatore Zorzoli.
Lasciando da parte l'abnormità del provvedimento, la storia parte con un provvedimento ontologicamente, radicalmente, internamente falso. Quando studiavo la storia italiana, mi rimaneva sempre in testa la fellonia dell'ammiraglio Persano che a Lissa si coprì di viltà. Ma questo è peggio: infatti, l'ammiraglio Persano non sarà stato coraggioso, ma questo generale è un falsario. Tutti sapevano che Santacroce era un falsario: non si può dire di non aver ricevuto notizie utili se non si è svolta l'indagine, e che non si fosse fatto niente lo sapevano tutti. Questa è la partenza, caro Zorzoli, nel reato penale, non nella colpa!
Voi siete troppo giovani, colleghi, e coloro che avrebbero l'età non hanno la professione per aver conosciuto i tribunali militari degli anni sessanta e settanta. Ma io ho conosciuto i tribunali militari: c'era un sovrano, un monarca assoluto, il procuratore generale, che aveva potere disciplinare sui giudici. Se il presidente assolveva un imputato dopo che il procuratore generale ne aveva chiesto la condanna, il procuratore generale poteva avviare il procedimento disciplinare. Ciò per dirvi che i risultati di questa Commissione sono un enorme segnale per il paese e, quindi, che nessun corpo può essere separato, che in ogni corpo deve circolare aria pulita, l'aria del controllo. Vi domandate come sia stato possibile, ma non avete idea di cosa fossero questi tribunali militari, del recinto che li chiudeva all'osservazione del pubblico, della gerarchia assoluta che esisteva rispetto al procuratore generale.
Ma cosa accade? Un imprevisto che non può essere ignorato neppure da coloro che lo avevano preventivato: la Germania si sveglia. E prendere lezioni di diritto dalla Germania dell'epoca, nel dopoguerra, è un'altra delle cose vergognose del nostro paese. I nostri alleati tedeschi chiedono di sapere quali procedimenti sono ancora pendenti; nel frattempo, infatti, in Germania i termini di prescrizione stanno per scadere e quindi - altra lezione di diritto che ci danno i tedeschi nel dopoguerra - vengono prolungati. Cosa risponde il generale Santacroce? Il falsario li prende per la gola: la prudenza con cui risponde è straordinaria nel dire che vi era ancora qualche fascicoletto, qualche ammennicolo, utile per svolgere le indagini.
Ebbene, abbiamo consultato l'elenco dei crimini impuniti, dal quale risulta quanto segue: i crimini nazisti tuttora impuniti (nota verbale in data 9 marzo 1965) sono: provincia di Cuneo, strage di Boves... A tale riguardo, caro onorevole Raisi, le rammento che andavo a scuola dai gesuiti, i quali, essendo stati ed essendo


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tuttora persone perbene, mi hanno fatto imparare a memoria la lapide che Calamandrei ha scritto per l'eccidio di Boves, allorquando invita il generale Kesselring a ritornare e dice che li troverà uniti intorno a quel macigno che si chiama «ora e sempre resistenza». Io ho studiato questa lapide 55 anni fa, va bene? E secondo Santacroce si trattava di ammennicoli.
Il generale Santacroce parla di qualche fascicoletto ancora, dice che si vedrà... E poi? Scusatemi, sto parlando di un defunto, ma non riesco a descrivere altrimenti un tentativo disperato, fatto con le unghie, per cercare di nascondere questi fascicoli. Si mandano 1.200 fascicoli: chissà poi perché ne manda 1.200 invece di 2.400! Dovete spiegarmelo il perché: le cifre e la cronologia non si discutono mai. Perché ne manda 1.200? Leggete, vi prego, le motivazioni sincroniche e parallele, identiche, dei giudici militari, che archiviano, esattamente come fa il procuratore generale: questo significa che "per li rami" la volontà di non celebrare i processi discende dalle procure generali territoriali. Come possiamo non capire ciò? Ormai è documentalmente certo. Dal 1965 al 1971, su due fascicoli si tenta un inizio di azione penale, ma vengono archiviati tutti!
Poi, cala il grande silenzio. Prima di discutere di connivenze o di debolezze dell'opposizione, il silenzio cala ad opera di quei signori che nel 1960 collaboravano con Santacroce, e sono procuratori generali; ecco perché dico che l'amministrazione militare è marcia! È vergognoso! E il silenzio cala dal 1971: riflettiamo sulle cronologie, per favore. Si tratta di 23 anni di silenzio, dal 1971 al 1994. Ma come facciamo a dire che un silenzio di 23 anni è colposo? Lo è se si ritarda di un giorno nello scrivere una lettera, ma se si ritarda di 23 anni, vuol dire che quella lettera non si vuole scriverla!
Scampato il pericolo tedesco - la cosa è anche divertente: corriamo dei rischi da parte dei tedeschi in questa materia giuridica e giudiziaria - succede che nel 1994 si apre il verbale. Abbiamo discettato di armadi, armadietti, ante girate o meno, di occultamenti in una stanza piuttosto che in un'altra: ma per piacere, signori colleghi! Nel verbale è scritto che sono stati ritrovati dei documenti, cioè i fascicoli. Ma «ritrovati» significa che non si sapeva più dove fossero. Possiamo dire che 2.400 fascicoli scompaiano colposamente, senatore Zorzoli? Possiamo dirlo non solo per 2.400 fascicoli, ma per un'intera materia, ovverosia i crimini nazifascisti? Posso capire che un fascicolo si perda o che se ne perdano due, tre, quattro o cinque; ma non posso capire che si perda una materia dei tribunali militari, che sono andati avanti per decenni condannando i militari che ritornavano con due ore di ritardo perché avevano abbracciato la morosa sotto la caserma! Questi erano i processi che si discutevano, e si discutono, al tribunale militare.
Nel 1994, dunque, si ritrovano questi fascicoli. Possiamo dire che la reazione dell'amministrazione militare sia stata idonea, adeguata? Non so... Se c'è un rinvenimento, qualsiasi persona - siccome non si tratta di un ritrovamento da parte di contadini analfabeti in un campo, ma ad opera di illustri giuristi - farebbe un inventario di ciò che è stato ritrovato. Si risponde che non è stato fatto perché vi era il registro; ma, ahimè, il registro ha 2.400 numeri, mentre i fascicoli ritrovati ne contengono molti meno (circa 900).
Signor presidente, sto procedendo in modo grossolano per dire che non è discutibile la conclusione di questa Commissione: c'è una tale evidenza che dovremmo essere tutti d'accordo su questi punti, non possiamo essere in disaccordo (Commenti). Se prendessi il registro, insieme al presidente della Corte d'appello e al procuratore generale, stilerei l'inventario; ma dopodiché manderei gli atti alla procura della Repubblica competente. Non stiamo parlando a degli zappatori... (Commenti). Va bene, rispettiamo gli zappatori, ma dopo 23 anni sono emersi questi fascicoli: ci si dovrà pur porre il problema di dire al procuratore che, per cortesia, dopo 23 anni è necessario aggiungere un occhio terzo!


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Le cautele e i ritardi che si susseguono dal 1994 al 1996 - mi assumo tutta la responsabilità di dirlo - sono altrettanto vergognosi. Si comincia a guardare, si fanno dei lunghi inventari che durano 7-8 mesi. Ma insomma...! Faccio appello al collega avvocato di Biella: se ritrovassimo 2.400 fascicoli nel nostro studio, che reazione avrebbe? A parte buttare la segretaria dal balcone o prendere a schiaffi il praticante e mettersi le mani nei capelli per il numero di prescrizioni maturate... cosa farebbe? Il giorno dopo partirebbe e sporgerebbe denunzie, querele e quant'altro! Ma qui passano due anni: come facciamo a dire che non vi è connivenza tra questi signori dal 1994 al 1996?
Poi, presidente, c'è la storia dei 202 fascicoli. Questa è davvero una bellezza finale, caro onorevole Raisi: si decide che i fascicoli processuali sono utili dal punto di vista storico, solo che chi lo decide è un pubblico ministero. Un po' come se io, in qualità di pubblico ministero, dicessi che in un fascicolo c'è una bella storia d'amore e la volessi utilizzare per un romanzo, in modo da non mandare avanti la pratica: siccome sono un cultore letterario e mi piace scrivere romanzi, trattengo quattro o cinque fascicoli perché vi sono delle belle storie! Il procuratore prende i fascicoli, decide che sono utili dal punto di vista storico e poi per 74 fascicoli - udite udite -, dopo la riforma del 1981 che non consentiva al procuratore di provvedere ad archiviare da solo, ma soprattutto non lo consentiva mai al procuratore generale, è proprio quest'ultimo a scrivere su questi fascicoli «non luogo a provvedere».
Alcuni colleghi della maggioranza si interrogano: perché sono così sciocchi? Perché fanno queste stupidaggini? Perché firmano questa archiviazione abnorme, «abnormissima»? Perché appongono la loro firma a questi provvedimenti? Perché c'è l'arroganza delle situazioni chiuse! Perché solo chi conosce direttamente questa arroganza può dire che essa sia l'unica spiegazione valida, perché hanno la consapevolezza che nessuno si permetterà mai di mettere il naso in cotanti comportamenti! Giustamente il provvedimento dice: non si capisce come abbia potuto adottare provvedimenti di natura oggettivamente giurisdizionale. Non lo si capisce proprio, ma siamo nel 1996: non mi interessano le persone e i nomi, ma si tratta di persone e nomi al vertice dell'amministrazione militare attuale. Ma una Commissione di inchiesta non può dire queste cose? Sono tesi oggettive o di parte? Dopodiché possiamo discutere sulla debolezza dell'opposizione, possiamo dire che il tempo e la lunghezza di questi comportamenti suggeriscono che, se non c'era la connivenza dei politici, tutto ciò non poteva avvenire. Anche qui, non è che abbiamo bisogno di prove specifiche: ricaviamo tutto questo dalla storia, lo ricaviamo dal fatto che nel 1965 il nostro ministero sa che vi sono dei fascicoli e, attraverso le interrogazioni ricordate, sa che c'è qualcosa, e deve chiederne conto.

ENZO RAISI, Relatore. Nel 1966, le date sono importanti.

GIAMPAOLO ZANCAN. Sì, nel 1966, ma il ritardo è talmente enorme che ti concedo quanti anni vuoi, collega Raisi. Il punto è che, anche volendo concedere tutti gli anni che si vuole, c'è un ritardo di 30 anni! Un ritardo di queste dimensioni non è discutibile. Ti concedo tutto quel che vuoi: che lo abbiano saputo nel 1966, ma senza connivenza tutto questo non poteva avvenire.
In conclusione, colleghi, non ho nessun atteggiamento persecutorio nei confronti di persone: i nomi non li ho fatti, tranne quello di Santacroce, che era inevitabile. I nomi non mi interessano: a me interessa dire che l'amministrazione della giustizia militare ha fallito in modo gravissimo per il paese. Valuteremo gli strumenti politici da adottare affinché ciò non debba più verificarsi. Dobbiamo presentarci al paese e alle famiglie di coloro che sono morti a Boves, e in ogni altra parte d'Italia - parto da Boves perché vengo da quella regione -, e dire loro che lo Stato chiede scusa: questa Commissione vi chiede scusa e documenta che un'istituzione dello Stato ha fallito, con una serie di connivenze e


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complicità. Vi chiede scusa e siamo qui per mettere in atto le archiviazioni, le diffusioni, le pubblicizzazioni e il soccorso all'attività processuale, tuttora in corso, che una Commissione fa perché comunque deve credere che qualsiasi sbaglio avvenuto consente un recupero nel futuro.
Queste, secondo me, sono le uniche conclusioni. Il senatore Zorzoli ha rivolto un appello per trovare un accordo: io credo che sarebbe non giusto, ma sacrosanto trovarsi d'accordo. Ma su questi punti o siamo d'accordo su quanto ho detto io, non perché l'ho detto io, beninteso... (Commenti). Ma è documentale....

ALBERTO ZORZOLI. Ma se affermi che dobbiamo essere d'accordo su ciò che dici tu, collega Zancan, capisci che diventa difficile...

GIAMPAOLO ZANCAN. Era una battuta, ma la mia battuta è voluta, perché ciò che ho detto io risulta dalle carte. Quindi, mi rincresce tanto, ma su questo non ci possono essere mediazioni: potrebbero essercene se stessimo parlando di un ritardo di sei mesi, dovuto a un'influenza, a una malattia, a un lutto di famiglia o a impegni diversi; ma quando si parla di un ritardo di 36 anni o si comincia a scrivere che chi ha ritardato lo ha voluto fare, oppure non sono possibili mediazioni.

PRESIDENTE. Nel ringraziare i colleghi per il loro contributo, rinvio il seguito dell'esame della relazione conclusiva ad altra seduta.

La seduta termina alle 23,25.

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