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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'esame della relazione conclusiva. Do pertanto la parola al relatore, onorevole Raisi, per l'illustrazione della proposta di relazione.
ENZO RAISI, Relatore. Signor presidente, colleghi, innanzitutto deposito agli atti la relazione - vi è anche un supporto informatico - alla quale vanno aggiunte le conclusioni che mi accingo invece ad illustrare.
Premetto che non è casuale il fatto che ho voluto dividere la relazione dalle conclusioni, che ovviamente rimangono aperte al contributo di tutti i commissari, come peraltro ho detto in un confronto che
abbiamo avuto in ufficio di presidenza. Ritengo infatti che il lavoro svolto in quella relazione sia un tentativo di andare oltre il binomio delle due relazioni che sono state presentate in Commissione. Si è cercato indubbiamente di lavorare in modo particolare su una relazione, prendendo spunto però dai contenuti di entrambe le relazioni - vorrei rassicurarvi, al riguardo - anche sulla base del confronto in ufficio di presidenza.
Vorrei dunque illustrare le conclusioni, che cercherò ovviamente di contenere nel tempo dovuto, considerato l'orario e la volontà da parte del collega Carli, giustamente, di intervenire questa sera per dare un contributo ai lavori della nostra Commissione.
È doveroso segnalare che sull'oggetto dell'inchiesta parlamentare erano già state svolte due distinte indagini: la prima, da parte del Consiglio della magistratura militare (di seguito, CMM), conclusasi con la relazione del 23 marzo 1999 (seguita da un'ulteriore indagine conclusasi nel 2005) e la seconda, condotta dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati e terminata con l'approvazione del documento conclusivo del 6 marzo 2001.
Sulla scorta delle dichiarazioni raccolte e della documentazione acquisita, il CMM aveva accertato una «grave violazione della legalità» da parte della procura generale presso il Tribunale supremo militare a partire dall'immediato dopoguerra e fino al 1974 precisando che nell'illegalità «non possono che essere confluiti motivi di opportunità politica» .
Ad analoghe conclusioni era poi pervenuta la Commissione giustizia della Camera, secondo cui «alla base della inspiegabile inerzia della magistratura militare vi fu, infatti, la ragion di Stato, le cui radici in massima parte devono essere rintracciate nelle linee di politiche internazionali che hanno guidato i paesi del blocco occidentale durante la guerra fredda».
È sufficiente, qui, rilevare come molteplici affermazioni contenute nella relazione del Consiglio della magistratura militare risultino nettamente smentite dai risultati raggiunti in questa sede, soprattutto in ragione del maggiore distacco della Commissione parlamentare - forse non soltanto temporale - dalla ricostruzione dei fatti.
Permettetemi di sottolineare meglio questo passaggio, posto che quella di cui facciamo parte è una Commissione parlamentare d'inchiesta. Questo stesso fatto ha rappresentato, senz'altro, un passo in avanti rispetto ad altre Commissioni costituite. In secondo luogo, ho trovato - con tutto il rispetto per chi l'ha scritta - un po' contraddittorio che una delle due relazioni presentate dai consulenti termini con la relazione di una Commissione che ci ha preceduto, come a dire che questa Commissione nulla ha fatto. Ritengo, invece, che la nostra Commissione abbia fatto molto e colgo l'occasione per ringraziare tutti quanti, dal presidente, ai colleghi, ai collaboratori per avere compiuto un importante lavoro che, a prescindere dalle valutazioni che ognuno di noi esprimerà sulle due relazioni, darà un grande contributo conoscitivo alla storia di questo paese, e non solo.
Non deve, inoltre, trascurarsi che le risultanze emerse dall'accertamento compiuto dal CMM hanno senz'altro finito per condizionare ed orientare le conclusioni raggiunte dall'indagine conoscitiva della Commissione giustizia della Camera dei deputati, le cui potenzialità istruttorie non possono certamente essere paragonate a quelle di cui dispone una Commissione parlamentare d'inchiesta.
Nell'espletamento dell'inchiesta è stata seguita una metodologia consistente nell'individuare preliminarmente i dati certi e nel ricercare altri punti fermi, temporalmente vicini, in modo da poterli unire fra loro tracciando dapprima dei segmenti e, man mano, una linea continua tale da collegare l'immediato dopoguerra al rinvenimento del 1994, fino ad arrivare, con alcune appendici, ai nostri giorni.
È appena il caso di segnalare le difficoltà oggettive incontrate nel tentare di ricostruire compiutamente un periodo di oltre mezzo secolo, ad una simile distanza temporale dall'inizio della vicenda esaminata, mentre è opportuno sin d'ora evidenziare
che circostanze emerse nel corso dei lavori hanno inevitabilmente ampliato l'ambito cronologico degli accertamenti.
Procederò ora nella trattazione secondo un ordine anzitutto storico.
Il 20 ottobre 1943 viene costituita la United Nations War Crimes Commission (UNWCC) che vede la partecipazione di 17 paesi alleati, ma registra la significativa assenza dell'Unione Sovietica, sebbene il 30 ottobre 1943 Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica annuncino congiuntamente, a Mosca, che i criminali di guerra sarebbero stati sottratti alle giurisdizioni nazionali e sottoposti a una punizione decisa di comune accordo dai governi alleati.
Tuttavia, ancora nel 1945, gli alleati - prossimi alla vittoria - non hanno raggiunto un accordo sul trattamento complessivo da riservarsi ai criminali di guerra delle forze dell'asse.
Gli inglesi, che più degli statunitensi si erano impegnati a investigare su episodi di stragi di civili, avevano concluso le loro indagini con il rapporto generale Report on German Reprisals for Partisan Activity in Italy, nel quale - già il titolo stesso lo rileva - si mettevano in relazione le rappresaglie tedesche con l'attività partigiana.
La conclusione del rapporto era che le «rappresaglie non erano eseguite su ordine dei comandanti di singole formazioni ed unità tedesche, ma erano esempi di una campagna organizzata, diretta dal quartier generale del feldmaresciallo Kesserling».
Questo dato non è di poco conto perché, come vedremo meglio più avanti nella illustrazione, gli alleati si riserveranno di giudicare e quindi di condannare loro gli ideatori di quella che viene ritenuta una pianificazione delle rappresaglie ordinate in Italia.
In Italia, invece, subito dopo la proclamazione dell'armistizio (8 settembre 1943) e la dichiarazione di guerra alla Germania nazista (13 ottobre 1943), il Regio Governo italiano, retto dal Primo ministro Pietro Badoglio, si era trovato in una situazione complessa, in quanto, se da un lato era diventato cobelligerante a fianco delle forze alleate, dall'altro rappresentava una nazione sconfitta che attraverso il lungo armistizio del 29 settembre 1943 aveva sottoscritto una resa incondizionata ed accettato sul proprio territorio la presenza politico-militare alleata, una presenza chiaramente incidente sull'attività complessiva dell'autorità politica italiana in base all'articolo n. 20 dell'armistizio lungo, ed in particolare anche sulla linea d'azione relativa ai crimini di guerra secondo l'articolo n. 29.
Quest'ultimo articolo infatti prevedeva, preliminarmente ad ogni definizione di tipo giudiziario, l'arresto e la consegna immediata di tutti i sospettati di aver commesso crimini di guerra, anche italiani, alle Forze delle Nazioni Unite.
D'altra parte, la già citata dichiarazione di Mosca (30 ottobre 1943) mutava, nella sostanza, la rigidità della prescrizione armistiziale sui crimini di guerra, differenziando la posizione e le prerogative italiane rispetto a quelle tedesche in materia, in virtù del nostro status di cobelligeranti. Si parlava infatti, per gli imputati di crimini di guerra, esclusivamente di «consegna alla giustizia».
Più in generale del resto, riguardo ai sospettati, il Governo Bonomi, con decreto ministeriale del 26 febbraio 1945, aveva già istituito una «Commissione centrale per l'accertamento delle atrocità commesse dai tedeschi e dai fascisti dopo il 25 luglio 1943», che certificava l'impegno italiano nel compiere le verifiche necessarie. Del resto, la lettera del ministro dell'Italia occupata, il comunista Mauro Scoccimarro, confermava agli americani tale piena responsabilità della Commissione.
L'Italia assumeva, pertanto, piena responsabilità delle investigazioni, pur rimanendo impregiudicata, a livello generale, la potestà delle autorità alleate riguardo alle persone detenute in stato di arresto e rimanendo in capo a quest'ultima la stessa autorizzazione alla consegna delle persone tenute in custodia, che dovevano essere ogni volta autorizzate.
L'idea di allora degli alleati, quindi, era tesa a favorire la celebrazione dei processi a carico dei criminali tedeschi e italiani in Italia, e che, accanto ad una serie di
procedimenti nei confronti di singoli criminali di guerra, dovesse tenersi un processo unico a carico di tutti i responsabili dell'ideazione, della pianificazione del programma e della pratica delle rappresaglie compiute in Italia. Detto processo avrebbe dovuto svolgersi secondo criteri che vennero poi utilizzati davanti il Tribunale militare internazionale di Norimberga.
Il predetto rapporto alleato, già citato, si concludeva con la proposta di celebrare due processi principali. Il primo relativo al caso delle Fosse Ardeatine, per il quale sarebbero dovuti salire sul banco degli imputati il feldmaresciallo Kesserling (venne poi deciso di processarlo separatamente), il generale Eberhard Von Mackensen, il generale Kurt Maltzer, il generale SS Harter, il generale Karl Wolff e Kappler, quest'ultimo quale responsabile materiale della rappresaglia. Il secondo avrebbe dovuto portare sul banco degli imputati i comandanti di armata, di corpo di armata e di divisione «per aver partecipato all'organizzazione su grande scala delle rappresaglie fra la metà di giugno e la fine di settembre 1944».
Per effetto poi delle pressioni italiane, accanto a questi processi si sarebbero dovuti svolgere altri dibattimenti, relativamente ai gradi inferiori, la cui competenza veniva conferita all'Italia.
L'Italia avrebbe pertanto potuto effettuare processi nei confronti dei responsabili di crimini di guerra in Italia, esclusivamente per i militari di grado inferiore.
A questo punto, permettetemi di fare un breve inciso, anche sulla base della relazione del professor Pezzino ed altri su un aspetto che, giustamente, è stato rilevato in quella relazione. Infatti, paradossalmente, in quegli anni, a fronte di un giudizio sui processi in merito alle responsabilità, così come si evince da quanto dichiarato, agli americani spettava il giudizio per i massimi vertici che avevano pianificato quelle operazioni mentre agli italiani spettava quello sui militari di grado inferiore. Tuttavia, secondo la giurisprudenza militare dell'epoca, militari di grado inferiore erano considerati quegli stessi ufficiali che avevano comandato ed eseguito le rappresaglie, tant'è che, giustamente, come si dice nella relazione, solamente con il processo di Stazzema fatto nel 1994, si è mutata una tale giurisprudenza militare.
Probabilmente quindi, per paradosso, il processo di Priebke, se fosse stato realizzato all'epoca di Reder, non avrebbe portato ad alcuna condanna del primo perché all'epoca i militari di grado inferiore - mi riferisco ovviamente ai sottufficiali e ai soldati - purtroppo (a mio parere, infatti, quello fu un grande errore di interpretazione giuridica militare dell'epoca), non furono processati. In parte, ciò si evince anche dai verbali del PM nel processo di Marzabotto a Reder dove si parla effettivamente del concorso con altri nel procedimento contro Reder, ma si accenna all'ipotesi che tali persone non possano essere perseguite essendo, comunque, militari di grado inferiore.
Ritengo che questo fatto rappresentò un grave errore che fu commesso all'epoca, tuttavia è chiaro che parliamo di una giurisprudenza dell'epoca. Resta però il fatto che quei militari dovevano essere processati all'epoca, mentre invece, purtroppo, la giurisprudenza di allora non ci ha confortato in tal senso.
Per quanto riguarda la determinazione interna a processare criminali di guerra responsabili di eccidi in Italia, in data 20 agosto 1945 si tenne una riunione della Presidenza del Consiglio dei ministri, nel corso della quale si disponeva che i carteggi relativi ai crimini di guerra perpetrati in Italia dagli appartenenti alle Forze armate tedesche (che nel frattempo stavano pervenendo alle varie autorità) fossero da accentrare presso la procura generale militare, la quale avrebbe dato inizio alle indagini atte ad identificare gli autori del reato.
Tale riunione, nel corso dell'indagine, è risultata essere uno dei momenti decisivi - vorrei sottolinearlo - dell'intera vicenda, poiché suggellava una suddivisione dei compiti tra l'Italia e gli alleati.
La decisione di radunare, presso la procura generale del Tribunale supremo militare, tutti i fascicoli, le istruttorie e le
notizie sui crimini commessi durante la guerra viene dettata, dunque, dall'esigenza di accentrare tutto il materiale relativo alle stragi nazifasciste, per poi smistarlo agli organi giurisdizionali competenti secondo quanto concordato con gli alleati.
Questo è un passaggio condiviso da tutte le forze politiche dell'epoca presenti nel Governo del CLN perché è evidente - credo che sia anche palesemente emerso dagli atti - che vi era una difficoltà oggettiva. Infatti, molti erano i soggetti che indagavano sui crimini nazifascisti: vi erano tribunali ordinari, del CLN, carabinieri, istituzioni alleate e così via. Quindi, è evidente come fosse necessario un coordinamento unico in cui venissero accentrate comunque tutte queste informazioni (anche perché gli alleati, per consegnare i criminali, chiedevano una corretta istruttoria e ciò poteva essere fatto soltanto se vi era unicità nel soggetto che doveva seguire l'istruttoria).
Nel frattempo, il lavoro di investigazione da parte delle forze anglo-americane, in special modo della Special Investigation Branch, prosegue per tutto il 1945, incentrandosi sempre più sulla individuazione e la cattura dei responsabili.
Il lavoro investigativo alleato si traduce nello svolgimento di alcuni importanti processi a carico di alti ufficiali tedeschi, che, secondo la distinzione tra reati localizzabili e non, vengono processati direttamente dagli alleati per le responsabilità assunte nella programmazione e nella pianificazione delle uccisioni di ostaggi civili nel quadro della politica di repressione della guerra partigiana.
Verso la fine del 1945 inizia quindi, presso la procura generale militare, la raccolta di informative concernenti i reati contro la legge e gli usi della guerra che erano stati commessi in Italia durante l'occupazione tedesca ai fini della giustizia penale.
Durante i primi anni di indagini preliminari, conformemente alle direttive stabilite nella riunione del 20 agosto 1945, la procura generale militare provvide inoltre ad inviare alle procure territorialmente competenti i fascicoli per i quali dalla documentazione raccolta si poteva iniziare un procedimento penale a carico degli indiziati (procure militari nel caso di militari tedeschi e ordinarie nel caso di italiani).
È bene sottolineare che per questi ultimi fascicoli, trattandosi di presunti reati compiuti da militari italiani appartenenti alle milizie della Repubblica sociale italiana, sulla base del mancato riconoscimento internazionale del governo di Salò e, soprattutto, della limitata autonomia ed effettività di quest'ultimo rispetto all'alleato occupante germanico, tali militari non potevano considerarsi appartenenti alle forze militari di un esercito regolare. Per questa ragione, la procura generale militare provvide giustamente ad inoltrare tali fascicoli alle competenti autorità giudiziarie ordinarie.
L'estrema difficoltà di reperire le prove per iniziare la vera e propria azione penale viene del resto confermata dal procuratore generale militare, dottor Borsari, in una missiva del 7 giugno 1946, inviata al Ministero degli affari esteri e per conoscenza al Ministero della guerra, nella quale si sottolineava che le denuncie che pervenivano, nella quasi totalità, mancavano degli essenziali requisiti, in primo luogo della identificazione dei responsabili.
Né agevole risulta il lavoro delle procure territoriali competenti atteso che le indagini giudiziarie nei confronti di criminali di guerra tedeschi potevano non avere risultato concreto o che si potesse arrivare al loro proscioglimento per mancanza assoluta o insufficienza di indizi.
Dopo il 1948 per l'Italia le cose si complicano ulteriormente, atteso che la Gran Bretagna, dopo il 5 maggio 1949, comunicava che, qualora l'estradizione del militare tedesco non fosse stata già richiesta entro il 1o settembre 1948, sarebbero stati estradati solo i militari responsabili del reato di omicidio se vi fosse una prova dello stesso prima facie e ciò fosse accompagnato da soddisfacenti giustificazioni, mentre per gli Stati Uniti tale termine sarebbe stato fissato al 1o novembre 1948.
Anche a questo riguardo, vorrei soffermarmi per esprimere un pensiero. Tra il
1948, il 1949 e il 1950, si chiudono sostanzialmente quegli organismi che avevano garantito, tra Italia ed alleati, una forte collaborazione nella ricerca dei criminali o delle prove criminali. Si chiude sostanzialmente in Europa la fase emergenziale che aveva portato, ovunque, ai grandi processi contro i criminali nazisti o i loro collaboratori. Lascio alla riflessione della Commissione questo dato.
Infatti, dal 1950 in poi, in Europa, i grandi processi fatti ai nazisti si possono sostanzialmente individuare in quelli per coloro che vengono scoperti grazie all'opera nobile e coraggiosa di istituti come quello di Simon Wiesenthal, tuttavia specificamente legati allo sterminio degli ebrei. Di altri casi di criminali nazisti e loro collaboratori nella realtà europea, dopo la chiusura di questi organismi, troviamo ben poca traccia o quasi nessun esempio, sia ad est, sia ad ovest. Ciò si deve al fatto che finisce la fase emergenziale. Vengono cioè a mancare gli organismi che, di fatto, avevano collaborato alla ricerca e all'aiuto sostanziale per la consegna di questi criminali e per tutte le fasi istruttorie dei processi verso questi ultimi. Questo offre in parte un quadro del clima che in Europa, al di là del tema della guerra fredda, che sicuramente ha influito sulla situazione in generale, ha pesato anche sul lavoro dei nostri magistrati militari in Italia, perché ad essi sono venuti a mancare gli aiuti che gli alleati avevano comunque garantito fino a quel momento anche nella ricerca e nella consegna dei criminali. Questo non è un fatto di poco conto.
Pertanto, le ricerche dei presunti criminali di guerra tedeschi, nella maggior parte dei casi, non avevano avuto - ancor prima delle predette comunicazioni - alcun esito, anche perché i vari uffici di collegamento e le stesse autorità alleate, soggetti a frequenti spostamenti delle loro sedi, non furono più in condizioni di dare una pronta e proficua collaborazione come era stato invece negli anni precedenti, anzi, nel 1948 c'è una totale interruzione di comunicazione. Di conseguenza, si affievolisce l'assistenza giudiziaria che provocherà l'impossibilità pratica di giungere alla sicura identificazione dei colpevoli.
Tale situazione costrinse l'allora procuratore generale militare, dottor Ugo Borsari, ad inviare due lettere al Ministero degli affari esteri, nelle quali il procuratore generale, ritenendo che l'ufficio di collegamento alleato in Italia non avrebbe comportato alcun carattere di forza armata né tanto meno di occupazione o di controllo ed avrebbe potuto pertanto rimanere nel territorio italiano anche dopo la data del 28 febbraio 1948 (si deve rammentare che, ex articolo 73 del Trattato di pace, entro 90 giorni dalla data di ratifica si sarebbero dovuti sopprimere gli uffici alleati in Italia ad eccezione di quelli di carattere amministrativo), rilevava che il trasferimento «parrebbe serio ostacolo alla possibilità di definizione dei procedimenti per crimini di guerra commessi da militari tedeschi in Italia, che già tante difficoltà incontrano nel loro svolgimento per il rintraccio degli imputati e dei testimoni».
Inoltre, successivamente alla chiusura dell'ufficio di collegamento alleato in Italia, Borsari dichiarava che «l'ufficio crimini di guerra di questa procura generale militare, nell'espletamento del suo compito, ha potuto ottenere un apprezzabile aiuto da parte dell'ufficio di collegamento, ora disciolto, fino al febbraio di quest'anno. Successivamente per gli atti di assistenza giudiziaria si è rivolto al War Crimes Group (Germania) e al D.J.A.G. di Klagenfurt (Austria), che, secondo quanto dichiarò il maggiore Tighe prima di lasciare Roma, avrebbero continuato a collaborare per la punizione dei crimini di guerra commessi dai tedeschi in Italia. Questa procura deve constatare che finora nessuna delle richieste già in corso al momento in cui venne disciolto l'ufficio di collegamento, né di quelle successivamente inoltrate, ha avuto esito; anzi, finora non è stato possibile stabilire, attraverso la corrispondenza, alcun contatto con gli uffici alleati sopraindicati, i quali fino ad oggi non hanno mai dato risposta alle numerose note loro trasmesse per posta».
Ritengo che nessuno possa nutrire dei dubbi sulla volontà di quest'ultimo di perseguire i criminali nazifascisti, ma questo era il clima nel quale il dottor Borsari operava nel 1949.
Pertanto la volontà dell'Italia e dello stesso procuratore generale militare, dottor Borsari, di perseguire con forza i criminali di guerra tedeschi risulta ben chiara laddove lo stesso lamenta la mancanza di comunicazione con le autorità alleate competenti e rileva che «data l'importanza dei procedimenti già in corso e di quelli da instaurarsi e dato che, per ovvie ragioni, per detti processi l'autorità giudiziaria italiana nulla di concreto può raggiungere senza una continua ed effettiva opera di collaborazione da parte delle autorità che occupano la Germania», richiedendo così al ministero di accertare quale «sia l'orientamento delle autorità alleate - in particolare del War Crimes Group - in relazione all'attività che l'autorità giudiziaria italiana sta svolgendo e cerca di continuare a svolgere per la punizione dei crimini di guerra commessi dai tedeschi e per ottenere eventualmente la consegna di altri imputati e testimoni».
Ne discende all'evidenza che verso la fine del 1947 la procura generale militare sarà impossibilitata a dare corso agli accertamenti dei responsabili e non potrà fare altro che trattenere i fascicoli inevasi.
Inoltre, con la successiva costituzione della Repubblica federale di Germania, il problema dell'assistenza giudiziaria assumerà poi tutte le difficoltà e rigidità tipiche dei rapporti tra Stati. Cioè, fin quando si trattava di un regime di occupazione, teoricamente era più facile poter richiedere l'«estradizione» di eventuali imputati ma poi, una volta rinata la Repubblica di Germania, tra l'Italia e la Germania tornò ad applicarsi il trattato approvato con legge 18 ottobre 1942, n. 1344, per cui l'estradizione verso il nostro paese non era consentita dalla condizione di cittadino tedesco e dalla natura politica dei reati.
Costituitasi quindi la Repubblica federale tedesca, fu sperimentata la procedura dell'estradizione per ottenere la consegna per il giudizio di militari tedeschi imputati di reati in ordine ai quali vi era una sufficiente base di prove e documentazione per processarli.
Ciò avvenne per l'eccidio di Fossoli, addebitato al tenente Karl Friederick Titho, ma il Ministero di grazia e giustizia non ritenne di inoltrare la richiesta di estradizione, ostandovi la condizione di cittadino tedesco dell'estradando e l'indole politica dei reati attribuitigli, ai sensi degli articoli 2 e 4 (quest'ultimo modificato, Gazzetta Ufficiale 9 aprile 1953, n. 82) del Trattato di estradizione giudiziaria tra l'Italia e la Germania, approvato con legge n. 1344 del 18 ottobre 1942.
Tale convenzione, decaduta in quanto la Germania era in stato di capitolazione e di conseguenza tutti i suoi atti normativi e i rapporti esterni erano decaduti, era stata rimessa in vigore nel 1953, con uno scambio di note intercorso tra il Ministero degli affari esteri italiano e le autorità diplomatiche della nuova Repubblica federale tedesca. I tedeschi, dunque, non avrebbero mai potuto essere estradati in Italia a causa del divieto, del resto reciproco, dell'estradizione del cittadino. Inoltre, il divieto di estradare cittadini tedeschi risultava inequivocabilmente sancito già nella Costituzione di Bonn, quindi nel 1949, all'articolo 16.
Dalla data appena menzionata - la fine degli anni quaranta - consegue un altro problema di non poco conto, cioè il fatto che da quel momento i processi sarebbero stati, per la stragrande maggioranza, in contumacia: la non estradizione dei soldati tedeschi portava ai processi in contumacia. Peraltro, quest'ultima peculiarità è tutta italiana, perché siamo uno dei pochi paesi in Europa che ancora attualmente condanna in contumacia gli imputati, ciò costituendo uno dei problemi annosi del nostro sistema giudiziario nonché il motivo per il quale non riusciamo a far estradare i terroristi dalla Francia, posto che per i condannati in contumacia non è prevista l'estradizione.
Per quanto riguarda invece i delitti compiuti dagli italiani, oltre alle decisioni del 20 agosto ed ai provvedimenti normativi relativi alla costituzione delle corti
d'assise straordinarie, naturalmente centrale è l'opera svolta dall'Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, costantemente presidiato in questo periodo dal Partito comunista, nella persona di Scoccimarro prima, e poi, alla costituzione del Ministero per l'Italia occupata, da Ruggero Grieco.
Proprio a segnare un'ulteriore discontinuità con il ventennio, a partire dal Governo Parri e fino al maggio 1947, il Dicastero di grazia e giustizia viene anch'esso affidato a componenti del Partito comunista del calibro di Palmiro Togliatti e Fausto Gullo. Appare quindi estremamente saldo questo circuito di epurazione costituito dal Dicastero di grazia e giustizia che coordina il Commissariato per le sanzioni contro il fascismo e le corti speciali.
È estremamente indicativo che proprio Togliatti, appena divenuto guardasigilli, aderisca alla decisione del 20 agosto del neocostituito Governo Parri di concentrare i fascicoli dei crimini nazifascisti nella procura generale militare. Trasparente appare la concordia delle forze politiche antifasciste - sottolineo questo aspetto perché in tutta la vicenda c'è concordia da parte di tutte le forze politiche, ciò costituendo un tema interessante da sviluppare nel ragionamento complessivo - e ferma la volontà di perseguire tanto i criminali nazisti quanto quelli italiani, pur nell'ambito di una condivisa finalità di riaggregazione e di riappacificazione del paese, fortemente lacerato dagli avvenimenti del ventennio e della guerra. In questa chiave va inquadrata anche l'amnistia che porta il nome di Palmiro Togliatti in veste di guardasigilli.
Sulla base di questi elementi, dalla linea dei partiti politici all'azione svolta da Borsari fino alla ricostituzione della Germania, risulta difficilmente sostenibile anche la spiegazione dei mancati processi ai tedeschi con l'intenzione di evitare il giudizio relativo ai presunti criminali italiani, con particolare riguardo ai delitti compiuti nel periodo 1941-1943 in Jugoslavia dall'Italia fascista, come supportato dalle considerazioni svolte dall'ambasciatore italiano a Mosca, Pietro Quaroni, in un dispaccio del 7 gennaio 1946.
In questa Commissione è stato sollevato in generale il problema dei processi militari italiani richiesti contro i criminali di guerra da una serie di nazioni. Anche su questo punto bisognerebbe fare chiarezza e spiegare ciò che è accaduto. Infatti, le nazioni in causa sono sostanzialmente l'Inghilterra, la Francia e l'America, soprattutto per quanto riguarda il trattamento riservato da militari italiani nei confronti dei militari prigionieri di quei paesi. Questi processi procedono da soli, tant'è che alcuni militari italiani vengono anche fucilati per avere commesso violenze nei confronti di soldati alleati.
Poi c'è il caso della Grecia, che si chiude nel 1946-1947, quando essa rinuncia alla richiesta dei presunti criminali (tali in quanto stiamo parlando di persone che non hanno avuto alcun processo ma sono stati semplicemente reclamati come presunti criminali di guerra) italiani. La Grecia, comunque, chiude questo capitolo con una lettera nella quale conclude che bisogna guardare avanti: ha così fine ogni richiesta avanzata sui militari di guerra italiani.
L'Albania ad un certo punto si isola e non chiede più nulla. Rimane il caso dell'Etiopia, che però costituisce una vicenda a sé ed emblematica perché fin dall'inizio viene sottolineato a questo paese che difficilmente il conflitto etiope del 1936 può essere inquadrato nell'ambito del conflitto mondiale del 1939-1945, anche perché rimane, effettivamente, l'ultima guerra coloniale. Comunque, in ultima analisi, come risulta anche dai documenti contenuti nella relazione, la richiesta degli etiopi si concentra su tre soggetti: uno è Benito Mussolini, che viene fucilato a Dongo, l'altro è Graziani e l'ultimo è Badoglio. Mentre Graziani è sotto processo, per Badoglio sarebbe stato un po' difficile chiedere il processo.
Infine, per quanto attiene alla Jugoslavia, questo paese aveva richiesto oltre 700 presunti criminali di guerra. A parte la gratuità del parere personale espresso da
Quaroni in proposito, esplicitamente ammessa dal medesimo nella missiva in questione, i criminali della vicenda jugoslava e delle denunce all'ONU si svolgevano, in quel periodo, secondo linee ben più complesse ed articolate. Come ha dichiarato di fronte alla Commissione il senatore a vita Giulio Andreotti rilevando che «vi era una certa sfiducia nei confronti del sistema di Tito. Si trattava non di dare qualcuno alla magistratura anglosassone ma di dare qualcuno ad un sistema da prendersi con le molle. Non c'era certamente il desiderio di coprire qualcosa, però ricordo che persone assolutamente non sospettabili, persone che avevano fatto la guerra in quell'area, consigliavano di avere una grandissima prudenza. Era un momento in cui la lotta politica forse prevaleva sui desideri di giustizia, però, nel caso specifico, era indicato Marazza, persona di una mitezza tale che vederlo tra i responsabili di atti di violenza e sterminio sembrava assurdo» (era infatti un esponente del Governo nonché un alto esponente del CLN, ma era tuttavia inserito nella lista dei presunti criminali di guerra da parte della Jugoslavia e non a caso Andreotti cita questo esempio). Si chiedevano, quindi, adeguate documentazioni a base delle richieste, che erano estremamente generiche.
La Jugoslavia, in ultima analisi, usava strumentalmente la commissione dell'UNWCC come una sorta di grancassa, agendo poi in modo sostanzialmente autonomo e svincolato da ogni tipo di garanzia e certezza del diritto che essa voleva salvaguardare.
Questa ambivalenza appare emblematicamente percepibile proprio nel maggio 1945. Infatti, mentre in quel momento la rappresentanza jugoslava insisteva con forza in seno all'UNWCC, sostenuta dal delegato cecoslovacco, per la creazione di un'agenzia specifica per il caso italiano, con l'obiettivo di indagare e avviare la punizione di quegli italiani che si fossero macchiati di crimini di guerra nel 1941-1943, le truppe titine avanzavano in Venezia Giulia fino ad occupare Trieste (1o maggio-12 giugno 1945) dando piena giustificazione ai timori italiani richiamati dal senatore Andreotti.
Se da un lato, infatti, la Jugoslavia usurpava terre che non erano state occupate dal fascismo con l'attacco del 1941, ma che appartenevano allo Stato italiano secondo precisi legami prima spirituali e culturali che politici e comunque territorialmente definiti ben prima del 1939, dall'altro, i sistemi titini si rivelavano in tutta la loro disumanità nella politica di sistematica soppressione di migliaia di italiani attuata con metodo durante questa avanzata, secondo una chiara volontà di snazionalizzazione di queste terre italiane.
Dunque le generiche accuse, probabilmente, vanno inquadrate nel tentativo di legittimare questa politica altamente ostile nei confronti del nostro paese e di acquisire nuovi meriti e prerogative rispetto agli italiani, non soltanto sconfitti ma criminali di guerra, così da ottenere ulteriori concessioni al tavolo della pace.
Difatti, il trattato del 10 febbraio 1947 dall'Italia viene subito firmato senza alcuna possibilità di negoziazione e se Trieste dopo quaranta giorni viene liberata dai titini e fortunatamente, attraverso la costituzione di uno Stato cuscinetto tra Italia e Jugoslavia, definito TLT (Territorio libero di Trieste), affidato alla tutela dell'ONU, viene risparmiata, con il territorio ad essa immediatamente limitrofo ed una piccola parte dell'Istria, dall'annessione a Belgrado, Zara, Fiume e gran parte dell'Istria vengono definitivamente perse. L'opinione pubblica e la classe dirigente antifascista presero infatti consapevolezza dei rischi che incombevano sull'Italia sconfitta. Nelle forze politiche, finanche nei partiti della sinistra antifascista, come il partito d'azione e quello socialista, si produsse un naturale istinto di autodifesa nazionale, che determinò allarme per il destino del paese e mobilitazione a difesa degli interessi nazionali minacciati.
Ora, sebbene il destino di Trieste verrà deciso in seguito ed in maniera definitiva con il trattato di Osimo, certamente non può sottovalutarsi che, tra le motivazioni che hanno indotto Alcide De Gasperi a
rifiutare l'estradizione di imputati indicati con estrema genericità, vi sia anche e soprattutto la questione delle foibe - che dovrebbe essere oggetto di una Commissione d'inchiesta ad hoc, almeno auspicabilmente, quale pagina dolorosa ed allo stesso tempo ineludibile per la riappropriazione di una memoria condivisa della storia del nostro paese - specialmente nel momento in cui, in una lettera del 9 aprile 1946, proprio il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, in relazione agli eccidi jugoslavi ed all'assoluta mancanza di elementi di garanzia e di civiltà giuridica offerti da Tito, manifestava agli alleati l'assoluta contrarietà italiana a concedere l'estradizione dei presunti criminali italiani alla Jugoslavia.
Del resto, diversamente dalle profonde contraddizioni e dalle inquietanti ambivalenze jugoslave, l'Italia non voleva salvare dei criminali ma quantomeno garantire che fossero svolti degli accertamenti reali, non politicizzati ed in una cornice di civiltà giuridica che nella Jugoslavia titina erano impensabili.
La posizione espressa da De Gasperi contro l'estradizione ma non per l'impunibilità era del resto supportata da tutto lo schieramento partitico antifascista, da Nenni ed i socialisti agli stessi comunisti, pure vicini, a livello di affinità ideologiche, alla Jugoslavia comunista, ma fedeli innanzitutto ai valori democratici e garantistici di rispetto dei diritti umani che animavano l'Italia dell'immediato dopoguerra.
Del resto il nostro paese non aveva atteso la firma del trattato di pace per affrontare concretamente il problema dell'accertamento di eventuali responsabilità italiane in Jugoslavia attraverso l'istituzione, su proposta a De Gasperi del ministro della Guerra, Manlio Brosio, all'inizio del 1946, presso il suddetto ministero di una commissione di inchiesta che procedesse ad investigare sui presunti criminali di guerra italiani, per «salvaguardare l'onore e la dignità di quelli che possono ritenersi immuni dalle accuse loro lanciate» e con il fine di «poter giudicare, con i propri normali organi giudiziari e secondo le proprie leggi, quelli che risultassero fondatamente accusati da altri Stati richiedenti».
Questa commissione di inchiesta nacque il 6 maggio 1946 e fu inizialmente presieduta dall'ex ministro della guerra, il senatore liberale Alessandro Casati, per poi essere affidata - subito dopo la prima riunione tenutasi l'8 maggio 1946 - all'ex ministro dell'aeronautica Luigi Gasparotto (futuro ministro della difesa).
La commissione avrebbe concluso il suo lavoro istruttorio con la relazione finale del 30 giugno 1951 secondo la quale si stabiliva, non senza rimarcare le esagerazioni e le iperboliche prese di posizione assunte in precedenza dalla Jugoslavia e risultate poi del tutto infondate alla prova documentale delle vicende, il deferimento di 34 persone (sulle circa 700 chieste dalla Jugoslavia) al giudizio delle competenti autorità italiane, dichiarando solo per 34 di essi la opportunità di sottoporli al giudizio delle competenti magistrature italiane. Quindi, non c'è stata nessuna copertura nei confronti dei presunti criminali militari italiani operanti in Jugoslavia, bensì la volontà da parte del Governo di allora e di tutte le forze politiche di arrivare ad un chiarimento.
Come detto sopra, nel 1946 venne presentata dal ministro Togliatti un'amnistia, cui fece seguito nel 1959 un'ulteriore amnistia che dispose l'estinzione dei delitti cosiddetti politici commessi successivamente all'armistizio dell'8 settembre 1943. Solo per completezza citiamo anche il decreto del Presidente della Repubblica 4 giugno 1966, n. 332, diretto ad amnistiare solo i delitti a fini politici commessi dai cittadini italiani dal 25 luglio 1943 al 2 giugno 1946, il quale, però, essendo successivo al provvedimento di archiviazione provvisoria di Santacroce non è rilevante ai fini della nostra trattazione.
Ora, non appare azzardato sostenere che taluni dei presunti reati commessi dagli italiani - sottolineo: da costoro - seppur particolarmente gravi, presentavano una natura squisitamente politica, in quanto legati indissolubilmente alla lotta politica che si accese dopo l'armistizio del
1943. In altre parole, crimini commessi non col fine di mantenere o rafforzare la supremazia militare di un esercito sull'altro, bensì al solo scopo di contrastare ed offendere le idee e le tendenze politiche e sociali delle vittime di matrice anti-fascista o incidere negativamente sull'esistenza, costituzione e fondamento delle loro organizzazioni stesse, tese all'instaurazione di una forma di Stato e di Governo diversa da quella presente allora in Italia.
Pertanto, si può ritenere che diversi delitti a cui i fascicoli ritrovati si riferiscono, sussistendo le condizioni su esposte, erano e sono tuttora potenzialmente riconducibili nell'ambito di applicazione dei provvedimenti n. 4 del 1946 e n. 460 del 1959, trattandosi di reati avente natura politica (solo riferendosi ai militari della Repubblica sociale italiana).
Sotto il profilo squisitamente procedurale tutti i reati oggetto dei provvedimenti di clemenza citati necessitavano comunque (voglio sottolineare questo passaggio al di là di ogni equivoco, perché per me è stato un atto grave di negligenza) di un atto formale del giudice che disponesse l'archiviazione o il non luogo a procedere (certamente, nessuna giustificazione di altro tipo).
A tal fine era strumentale che la procura territorialmente competente si attivasse, cosa che non ha potuto fare per il mancato invio dei fascicoli da parte della procura generale militare presso il tribunale supremo. Ne consegue che sotto questo aspetto è indubbio che i procuratori militari che si sono succeduti nella vicenda sono responsabili, in quanto non hanno trasmesso i fascicoli in questione alle procure competenti. Ma se in rito deve essere censurata la loro condotta omissiva, non altrettanto può farsi nella sostanza, atteso che diversi reati avrebbero potuto considerarsi a tutti gli effetti politici e quindi passibili di essere estinti per amnistia.
Riteniamo che questi aspetti della questione, in qualche modo, pur non eliminando responsabilità di alcuni elementi della magistratura militare, comunque le attenuino.
Questi provvedimenti normativi si aggiungono, infatti, alle condizioni di non certo facile perseguibilità dei tedeschi determinata da motivazioni ampiamente analizzate in precedenza, fra le quali merita di essere sottolineata ancora una volta la questione dell'estradabilità del cittadino tedesco, che forse conducono a meglio inquadrare documenti che si riferiscono ad altre questioni oggettivamente lontane per problematiche ed urgenze.
Il Consiglio della magistratura militare, così come la stessa Commissione giustizia della XIII legislatura, attraverso riferimenti a richieste di estradizione ed ai rapporti tra l'Italia e la Germania, utilizzando il frammento di una corrispondenza del 1956 tra gli allora ministri degli esteri e della difesa, Martino e Taviani (dalla quale emerge un parere contrario sulla richiesta di estradizione di un soldato tedesco in merito ad un caso che il procuratore militare di Roma aveva presentato agli organi di governo), ha sostenuto che alla base del fenomeno in esame ci sarebbero stati motivi di opportunità politica, o meglio una ragion di Stato legato al periodo della «guerra fredda», all'interno della quale si colloca il carteggio intercorso tra il ministro degli esteri, Gaetano Martino, e quello della difesa, Paolo Emilio Taviani, circa una richiesta di estradizione dalla Repubblica federale di Germania, che era stata indirizzata al ministro degli esteri.
Il ministro Martino, con nota del 10 ottobre 1956, spiega al collega Taviani i motivi della sua contrarietà all'estradizione ipotizzata dal procuratore militare. Il ministro Martino, in particolare, sottolinea gli «interrogativi che potrebbe far sorgere da parte del Governo di Bonn una nostra iniziativa che venisse ad alimentare la polemica sul comportamento del soldato tedesco. Proprio in questo momento, infatti, tale Governo si vede costretto a compiere presso la propria opinione pubblica il massimo sforzo allo scopo di vincere la resistenza che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle Forze armate, di cui la NATO reclama con impazienza l'allestimento».
La nota di risposta del ministro della difesa, in data 29 ottobre 1956, risulta pienamente adesiva.
Per la costituzione dell'alleanza atlantica si riteneva politicamente inopportuno iniziare un procedimento per crimini di guerra che avrebbe messo in crisi l'immagine della Germania e soprattutto la ricostituzione di una forza armata in quel paese.
Questo carteggio pertanto è diventato, nella relazione conclusiva dell'indagine condotta dal CMM nel 1999 e nelle successive conclusioni della Commissione giustizia della Camera, l'inconfutabile prova dell'input politico all'occultamento dei 695 fascicoli da parte della giustizia militare italiana provocato dal clima internazionale di guerra fredda.
Ora, a parte il fatto che oggetto del carteggio è un caso singolo e non tutti i 695 fascicoli, del mancato invio da parte della procura generale militare alle procure territoriali competenti sembra che nessun membro del Parlamento fosse a conoscenza (soltanto Umberto Terracini presenterà nel 1962 un'interrogazione su un criminale tedesco, peraltro senza alcun legame con l'archivio costituito da ben 17 anni a palazzo Cesi). Abbiamo già analizzato fattori di inerzia ben precedenti al 1955-1956. Sottolineo questo aspetto perché si tratta di un altro elemento importante riguardante il fatto che, rispetto alla questione sollevata della mancata realizzazione dei processi, in questo paese è calato un grave silenzio a trecentosessanta gradi e l'unica eccezione a livello politico - e non solo politico - è data dall'autonomo intervento del senatore Terracini, che peraltro presenta un'interrogazione su un caso che non è contenuto nei famosi fascicoli che troviamo a palazzo Cesi.
Con questo non vorrei dire che siamo tutti responsabili o tutti innocenti, bensì spiegare che esisteva un clima in quegli anni quasi teso ad accettare, ormai, di voltare pagina rispetto al dopoguerra, e sicuramente poco attento alle questioni contestate che, così come rilevato dalla Commissione, erano invece molto importanti soprattutto per quei cittadini che, a tutt'oggi, giustamente chiedono ancora giustizia (oggi forse solo gli eredi dei protagonisti).
Inoltre, riguardo a questo carteggio vanno tenuti ben presenti alcuni elementi.
Da un lato, queste affermazioni vengono formulate sotto l'impatto della forte onda emotiva provocata dall'ingresso delle truppe sovietiche in Ungheria. Dall'altro, ogni valutazione sull'eventuale opportunità di una richiesta di estradizione si scontrava comunque contro gli ostacoli tutt'altro che aggirabili della Convenzione italo-tedesca sull'estradizione del 1942, rinnovata nel 1953.
Inoltre, elemento forse più importante sottolineato dal senatore a vita Giulio Andreotti, testimone d'eccellenza all'epoca quale segretario alla Presidenza del Consiglio, tale problematica su cui Martino e Taviani si intrattengono non viene mai - sottolineo mai - sollevata o affrontata in sede di Consiglio dei ministri. Questo scambio di vedute tra Martino e Taviani rimane limitato esclusivamente ad essi e non trova appunto alcuna conferma in posizioni assunte da organi come il Consiglio dei ministri. Tanto più che successivamente allo scambio di lettere Martino-Taviani (questo è importante), l'ambasciata italiana a Washington, con lettera del 30 novembre 1956 - quindi successiva al famoso carteggio -, ringraziava il Dipartimento di Stato americano per l'aiuto prestato in relazione alla consegna della documentazione riguardante il processo a carico dei generali Lanz e Speidel (avvenuto nel novembre 1947 a Norimberga), che sarebbe stata utile ai fini dell'identificazione dei tedeschi responsabili dell'eccidio di Cefalonia e Corfù.
Oltre a dire come lo scambio di vedute di cui sopra sia rimasto un caso limitato tra i due soggetti - e non influenzò minimamente il procedimento -, occorre rilevare che successivamente il ministro Martino metteva al corrente il collega di Governo Taviani del prosieguo di corrispondenza con la procura militare di Roma sopra citata, informandolo che il procedimento penale era stato avviato
avanti all'autorità giudiziaria ordinaria, che li aveva rinviati a quella militare, essendo quest'ultima competente.
Questa parte della vicenda, che potrebbe essere inizialmente la più attendibile, da accertare e storicamente in parte condivisibile, anche se con una certa larghezza è stata definita «ragion di Stato», deve però necessariamente essere «demitizzata» da tutti gli elementi che non le appartengono, onde evitare che la si impugni come motivo di incriminazione di alcuni e di discolpa per altri. Bisogna allora accertare da quali fonti possano emergere dati comprovanti le ipotesi sollevate dalle due precedenti indagini e definire in termini più attendibili, attraverso l'esame di tutti i documenti, le fasi della vicenda. Si può dire che fino ad oggi, tranne pochissime eccezioni, essa è stata collocata in un'ottica che non la fa appartenere né la restituisce alla storia e agli storici di mestiere e perciò al diritto che ogni cittadino ha di sapere e di capire.
Da queste affermazioni si passa - come detto - all'ipotesi di una «ragion di Stato» che avrebbe favorito il silenzio sui fascicoli e sulle richieste di estradizione in vista della formazione dei due blocchi contrapposti e della conseguente «guerra fredda». In questo contesto, dunque, la Germania avrebbe assunto insieme agli Stati Uniti d'America e all'Inghilterra un ruolo antisovietico. Ne consegue la tesi della sovrastante ragione politica cui era vincolato il procuratore generale militare precedentemente alla riforma del 1981.
Dalla testimonianza del dottor Di Blasi (l'unico testimone vivente presente all'archiviazione del 1960) si è rilevato che i fascicoli erano all'epoca «una notevole quantità di atti sfusi, in gran parte disordinati, che bisognava catalogare, sistemare e unificare razionalmente, in modo da renderli atti utili agli effetti giudiziari». Naturalmente, i fascicoli avrebbero dovuto essere trasmessi agli uffici giudiziari competenti, ma sorsero diversi problemi, primo fra tutti il fatto che la maggior parte dei militari non erano identificabili, erano ignoti, quindi riusciva difficile stabilire la connessione tra i fatti e i soggetti che li avevano compiuti. Venne così a configurarsi, stando a quanto affermato dal dottor Di Blasi, l'idea di una provvisoria archiviazione degli atti, facendo riferimento ad un istituto che non trova riscontro nell'ordinamento giuridico (e sinceramente inaccettabile, da questo punto di vista).
Seguì poi nel 1965 la richiesta della Germania di avere notizie circa i crimini di guerra compiuti dai suoi soldati. Questa richiesta di raccogliere notizie, informazioni, dati su possibili procedimenti per crimini di guerra ricevette risposta da parte del procuratore generale che - tramite il Ministero degli esteri - inoltrò più di 20 fascicoli, per l'esattezza 24. Le indagini attuate dalla magistratura ordinaria tedesca (non essendo prevista nell'ordinamento di Bonn l'esistenza della magistratura militare) hanno portato praticamente nella totalità dei casi a provvedimenti di archiviazione. Quindi, anche i casi che in qualche modo il capo della procura di allora pensava fossero i più evidenti e col maggior contenuto, sulla base dell'istruttoria, in realtà furono archiviati dai suoi colleghi tedeschi.
Peraltro, proprio in stretta contiguità con l'invio in Germania, la Procura generale militare inviava negli anni 1965-1968 ben 1.265 fascicoli contro ignoti alle procure territoriali competenti. Molti hanno teorizzato possibili se non probabili condizionamenti sugli organi della giustizia militare da parte delle istituzioni politiche visto, su tutti gli altri, l'istituto della nomina governativa dal procuratore generale militare, ma nell'assenza di documenti probanti (nonostante le tante verifiche condotte in archivi italiani e stranieri dalla Commissione) non hanno rilevato alcuna specifica volontà politica occultatrice delle decisioni della giustizia militare.
In sostanza, manca una qualsivoglia comunicazione, anche informale, a firma di un esponente dell'Esecutivo, in cui, preso atto della situazione, si diano disposizioni ai vertici della magistratura militare attinenti ai fascicoli ritrovati nella direzione dell'occultamento.
Anche qui voglio fare una digressione. Siamo negli anni tra il 1965 e il 1968, sostanzialmente gli ultimi nei quali si maneggiano (passatemi questo termine) i famosi fascicoli (i 2.271 e i 709 ritrovati successivamente a palazzo Cesi). Cosa accade, in quegli anni, gli ultimi anni, diciamo così, rilevanti? Da una parte, il tentativo - in accordo col Ministero della difesa - di inviare 24 fascicoli per vedere di avviare in Germania i procedimenti, e in questi casi vi è il proscioglimento; dall'altra vi erano i 1.265 fascicoli, che però erano contro ignoti: quindi, era praticamente prevedibile l'archiviazione, e infatti, vengono archiviati.
Ora, la domanda che pongo - e che lascio ai commissari - è la seguente: se effettivamente vi fossero state una programmazione ed una volontà pianificata di occultare in qualche modo i fascicoli nei quali vi fossero elementi per avviare i processi e se vi fosse stata da parte del dottor Santacroce la volontà di sbarazzarsi, unitamente a questi, dei fascicoli contro ignoti, allora perché ci troviamo di fronte a questi numeri? Mi riferisco al fatto che, tra i 709 fascicoli che rimangono a palazzo Cesi (sui quali, ovviamente, si è discusso tanto), 353 risultano contro ignoti, quindi avrebbero potuto essere benissimo spediti in quell'occasione; 59 risultano relativi a parti lese ignote (e anche questi avrebbero potuto essere spediti con gli altri 1.265); 24 erano stati già inviati in Germania; 7 erano stati già inviati nel periodo 1965-1968; 5 erano stati inviati all'autorità giudiziaria ordinaria; 67 erano stati già inviati nel 1946; 18 erano stati inviati all'ONU; 56 riguardavano sicuramente reati minori rispetto all'omicidio; vi erano stati, poi, due decessi di imputati. Insomma, 591 su 709 potevano essere - se vi era una pianificazione in questo senso - tranquillamente mandati insieme ai 1.265. Sinceramente, non mi sono dato una risposta perché, in effetti, è una incongruenza; una incongruenza, però, in un senso e nell'altro. Si sostiene che nel 1965 il dottor Santacroce si è sbarazzato solamente dei fascicoli nei quali effettivamente non vi era nulla (volendo in qualche modo far ordine di quel che non aveva sostanza), ma nella realtà ha trattenuto anche molto del materiale che non aveva sostanza. Infatti - lo ribadisco - su 709 fascicoli 591 sono del tipo che ho qui dichiarato.
Analogo discorso può essere fatto, sul medesimo argomento, per le audizioni, in cui si è assistito ad un fiorire di ipotesi, congetture, opinioni personali, formulate nella quasi totalità da persone che, nel periodo «caldo» che va dal 1946 al 1968, non erano presenti.
A questo punto, lo stesso cosiddetto carteggio Martino-Taviani del 1956, citato a più riprese, risulta soltanto un frammento di corrispondenza privo di una veste formale ed ufficiale e contenente soltanto valutazioni del tutto personali, il cui contenuto non è mai stato consacrato in una delibera del Consiglio dei ministri.
È possibile, invece, che in quegli anni sia nato, più che una ragion di Stato - e questa è la tesi che mi convince di più -, un «comune sentire» diffuso in tutta Europa, scaturito dalla stessa società civile, desiderosa di chiudere un passato tragico e doloroso come è stato il secondo conflitto mondiale con l'eccezione, ripeto, dei processi per la Shoah. Ma in quel caso, oltre ad esservi una motivazione molto sentita, vi erano anche degli strumenti ancora attivi e molto forti. Lo ricordiamo: sono stati strumenti straordinari che, grazie a Dio, hanno funzionato nel migliore dei modi.
Da ciò consegue la tesi della sovrastante ragione politica cui era vincolato il procuratore generale militare precedentemente alla riforma del 1981, sebbene - occorre rilevarlo, e questo è un altro aspetto importante - anche dopo il varo della riforma che operò il completo sganciamento della Procura generale militare da ogni influsso reale o eventuale del potere politico, non è stato comunque mai registrato (fino al ritrovamento del 1994) alcun mutamento di indirizzo circa la gestione dei fascicoli ritrovati. Quindi, anche nel 1981, quando si scinde il rapporto tra il mondo della politica e la magistratura
militare, non si registra alcun elemento di novità e dobbiamo arrivare al 1994.
Questo farebbe ulteriormente pensare che nessun condizionamento politico, pur teoricamente ipotizzabile prima del 1981, abbia influito sull'operato dei procuratori generali militari che si sono succeduti nella vicenda. Infatti, ammettendo per un attimo che questo condizionamento ci sia stato, i procuratori generali militari, una volta venuto meno a livello normativo ogni possibile contatto o coinvolgimento del potere politico, avrebbero potuto benissimo attivarsi, cosa che invece non si è verificata. I fascicoli infatti rimasero, anche dopo il 1981, ancora pendenti presso la Procura generale militare per molto tempo.
Tanti sono stati sicuramente i dubbi che l'ordinamento giudiziario militare ha suscitato dalla sua istituzione fino alle modifiche apportate nel 1981. Tali valutazioni, sebbene astrattamente riconducibili al clima politico di quegli anni, non sono (ad un 'attenta analisi della documentazione in possesso della Commissione parlamentare) suffragate né sorrette da alcuna prova. Semmai è più probabile ipotizzare - come già detto - che in quegli anni nacque, più che una ragion di Stato, un comune sentire che scaturiva dalla volontà di chiudere con un passato tragico e doloroso. Comune sentire a cui, probabilmente, qualcuno ha voluto - impropriamente e non certamente con rispetto delle norme giuridiche dell'epoca - dare un'interpretazione.
Ma, accanto a tale ipotesi, non può e non deve trascurarsi che quei fascicoli rimasero, per oltre cinquant'anni, negli uffici della Procura generale militare, che, come abbiamo visto, era incompetente alla relativa trattazione. In altri termini, anziché essere trasmessi alle procure territoriali - cui competevano le valutazioni - i fascicoli sui crimini di guerra vennero illegittimamente trattenuti: dapprima negli uffici del procuratore generale militare presso il Tribunale supremo militare e poi, dal 1981, negli archivi della Procura generale presso la Corte di cassazione e, infine, dal 1991 presso la Procura generale della Corte militare d'appello.
La mancata trasmissione dei fascicoli è dunque addebitabile ad un comportamento negligente (mi permetto di sottolineare, gravemente negligente), che si è protratto fino al giugno 1994, imputabile - in particolare - ai titolari degli uffici, e cioè ai procuratori generali militari che ebbero (per l'intero periodo esaminato) la responsabilità di quegli atti e dei locali ove furono custoditi.
Tanto rilevato, è del tutto evidente come - quantomeno allo stato e dagli atti consultati - non siano emersi elementi a riprova della tesi sin qui sostenuta secondo cui la mancata trasmissione dei fascicoli e la mancata celebrazione dei processi fossero addebitabili a pressioni, ingerenze o interventi del potere politico, in particolare dell'Esecutivo. Occorre peraltro rilevare che il mancato intervento politico nell'occultamento dei fascicoli risulta avvalorato dalle considerazioni di seguito riportate.
Come detto, dopo il 1981, anno della riforma ordinamentale, il comportamento della magistratura militare fu identico a quello precedentemente tenuto.
In secondo luogo, le forze di opposizione, per un intero cinquantennio, non furono affatto prodighe di sollecitazioni rivolte alla maggioranza, attraverso interpellanze, interrogazioni o altro, ma si comportarono in modo perfettamente assimilabile a quello delle forze di maggioranza.
In definitiva, se per occultamento intendiamo una dolosa e preordinata azione diretta a celare o insabbiare qualcosa, nella specie fascicoli, per sottrarla alla vista o alla considerazione altrui (perché questa è l'accezione molto spesso data al termine), allora, alla luce delle lunghe indagini svolte ed in particolare a seguito di un attento esame dei resoconti delle audizioni e dei documenti acquisiti, si può affermare che non si è trattato di occultamento. Infatti mai, dall'ingente documentazione in possesso di questa eccellentissima
Commissione, è emerso che taluno si sia reso responsabile di una simile azione.
Ripercorrendo la vicenda storica dell'archivio e del luogo ove esso si trovava, si deve precisare quanto segue. Verosimilmente, l'archivio si trovava negli uffici della Procura generale militare di palazzo Cesi, all'inizio in forma di atti, probabilmente su degli scaffali, poi, con il dottor Enrico Santacroce, con il dottor Ugo Foscolo e con il dottor Giovanni Di Blasi, in forma di fascicoli dentro un armadio, ed ivi è rimasto fino al giorno in cui si è proceduto al versamento del carteggio del Tribunale speciale per la difesa dello Stato presso gli archivi della procura generale (1991). Dopo quell'episodio tutti gli auditi non ne rilevano più la presenza, molto probabilmente perché, liberatisi gli scaffali durante il versamento, si ritenne più comodo sistemarli sugli stessi. Risulta quindi una mera montatura giornalistica la descrizione riportata sulla stampa nel 1996, perché in realtà l'armadio non esisteva.
Occorre peraltro sottolineare che la Commissione parlamentare, nel corso di un sopralluogo effettuato durante i lavori, ha potuto constatare che il locale del rinvenimento non si trovava affatto in un seminterrato, bensì su un piano rialzato di palazzo Cesi, perfettamente accessibile da coloro i quali lavoravano alla Procura generale. Nel 1994 venne anche rinvenuto, unitamente ai detti atti, un registro dal titolo «Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi», in cui era possibile desumere, oltre ad altri dati, anche quelli riguardanti tali due gruppi di incartamenti, e cioè sia gli atti già inviati all'AGO sia quelli che non avevano alcuna relazione con tale invio. Sia per le une che per le altre registrazioni, erano comunque riportate in tale registro generale le indicazioni dell'autore del reato, della persona offesa e dell'organo denunciante.
Da uno studio del registro generale, si è potuto stabilire che dei 2.274 fascicoli (2.275 se teniamo conto del fascicolo 2020-bis) una parte era stata trasmessa senza ritardo alle procure ordinarie della Repubblica (i 273, quelli afferenti agli italiani) negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, poiché si trattava di reati comuni. I casi effettivamente validi devono quindi considerarsi ridotti rispetto al numero di 2.275 e di questi ben 1.848 risultavano intestati a responsabili ignoti.
Per 1.906 fascicoli venne poi adottato il provvedimento di archiviazione provvisoria del 1960 cui aveva fatto seguito, nel periodo 1965-1968, la trasmissione di 1.265 fascicoli (di cui alcuni abbinati) all'autorità giudiziaria militare (i famosi «contro ignoti») oltre ad una ventina (per l'esattezza 24) fascicoli inviati - per il tramite del Ministero degli esteri - all'ambasciata di Germania. Seguì quindi, dal 16 novembre 1994 al 25 maggio 1996, la trasmissione dei rimanenti fascicoli ritrovati alle varie procure militari competenti, in base al criterio del locus commissi delicti. Tra questi alcune centinaia sono stati rubricati quali procedimenti nei confronti di ignoti: nella maggior parte militari tedeschi, ed in alcuni casi militi della guardia nazionale repubblicana; i rimanenti, invece, relativamente a militari identificati per lo più appartenenti alle Forze armate tedesche, ed in misura marginale alle milizie della Repubblica Sociale Italiana.
In base alle audizioni e alla stessa visione dei documenti e dei fascicoli si indicherà in un prospetto analitico complessivo del contenuto dei fascicoli ritrovati nel 1994 a palazzo Cesi quanto segue: 67 sembrerebbero già inviati alle procure competenti negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale; 7 erano già stati inviati alle procure competenti negli anni 1965-1966; 2 fascicoli facevano riferimento a soggetti già processati da tribunali alleati; 3 fascicoli erano pervenuti direttamente all'autorità giudiziaria; 5 fascicoli, ove il carteggio era relativo ai responsabili italiani, erano stati inviati all'autorità giudiziaria.
All'interno dei fascicoli ritrovati vi sono poi i 24 fascicoli che erano stati inviati in data 12 luglio 1966 - per il tramite del Ministero degli esteri - all'ambasciata della Repubblica Federale di Germania ed i 18 inviati - sempre tramite il Ministero degli affari esteri - alle Nazioni Unite.
Inoltre, rispetto ai predetti fascicoli ritrovati, in 353 di essi risultano ignoti gli autori del reato (all'interno di questi, poi, un numero notevole ha le stesse parti lese ignote). Vi sono inoltre ulteriori 59 fascicoli contenenti gli estremi del reato e dell'autore di siffatto crimine, risultando invece ignote le parti lese. Da una ricerca condotta sui rimanenti fascicoli si è rilevato che ulteriori 56 di questi sono aperti nei confronti di soggetti resisi responsabili di reati (seppur gravi) che non hanno cagionato la morte di soldati e civili.
In conclusione, con grande lucidità e serenità (troppo spesso offuscati dall'ideologia politica), possiamo invece sostenere l'esistenza di una serie di fattori che, operanti congiuntamente, hanno portato alla mancata celebrazione dei processi per un cinquantennio, senza però mai gridare al complotto politico o affermare la sussistenza di un'autonoma quanto subdola manovra della magistratura militare. Solo alcune di queste ragioni sono poi legate o dipese da valutazioni, scelte, comportamenti di individui e solo per queste possiamo parlare di una responsabilità, che è e rimane esclusivamente individuale.
La maggior parte di questi fattori risulta invece indissolubilmente legata a circostanze di fatto anomale e ad una determinata realtà storica che, senza ombra di dubbio, hanno condizionato l'operato dei magistrati che si sono succeduti negli anni e che, quanto meno in parte, attenuano, dove presente, la loro responsabilità. In quest'ottica le persone, più che essere state artefici degli eventi, sono state in balia degli stessi.
Così la decisione del 1945, concordata con gli Alleati, di radunare presso la Procura generale militare presso il TSM tutti i fascicoli, le istruttorie e le notizie sui crimini commessi durante la guerra (da considerarsi una scelta obbligata, in quanto dettata non tanto da valutazioni politiche personali quanto dalla situazione oggettiva di allora) ha influito profondamente nel corso degli eventi successivi. Tra l'altro, è un fatto da tutti quanti condiviso, un fatto voluto dagli Alleati e da tutte le forze politiche dell'epoca.
Dai fascicoli ritrovati a palazzo Cesi risulta che Borsari, durante le indagini, richiese, pressoché per tutti, informazioni sul conto dei militari tedeschi. Quasi non si contano le richieste di informazioni rivolte al D.J.A.G. o al War Crimes Branch, molte delle quali sfortunatamente risultarono vane, a titolo esemplificativo, o perché l'indagato era deceduto o perché era fuggito o ancora in quanto il nominativo non risultava nelle liste dei criminali di guerra.
Sostengo pertanto che la mancata istruzione di numerosi fascicoli e il conseguente mancato loro invio sia dipeso non da una decisione di Borsari bensì dall'impossibilità concreta di procedere nelle indagini, a cui non si poteva porre rimedio. Ritengo, oggettivamente parlando, che tra le figure dei magistrati militari il dottor Borsari sia certamente quello con minori responsabilità in assoluto (anzi, senza alcuna responsabilità, se mi è consentito). Non a caso tutti i fascicoli correttamente istruiti furono ritualmente inviati alle procure territoriali da parte del procuratore generale militare dottor Borsari.
Discorso in parte diverso sostengo vada fatto per il periodo successivo, quello relativo agli anni sessanta. Qui, a circostanze fattuali si aggiungono scelte operate dalla magistratura militare dell'epoca sicuramente condizionate, in ogni caso, dalle circostanze predette. Se era già difficile reperire informazioni utili relative ai crimini commessi durante la guerra nella seconda metà degli anni quaranta, figuriamoci a distanza di quindici anni!
Ma accanto a questo dato di fatto non possiamo trascurare un elemento umano: il provvedimento di archiviazione provvisoria del dottor Santacroce; provvedimento, questo, che ha destato dubbi e perplessità solo fino a quando il dottor Di Blasi, unico testimone oculare della vicenda, ha spiegato in audizione quale fosse il senso di quelle parole e, soprattutto, quale fosse la reale intenzione del procuratore generale Santacroce. In assenza di prove contrarie, ancora mancanti, è da ritenere attendibile tale deposizione anche alla luce del principio della presunzione di
innocenza operante a favore dell'accusato, rilevando però l'assurdità - sottolineo, l'assurdità - giuridica di tale atto. Risulterebbe quindi che Santacroce non volesse occultare ma cercasse in qualche modo di ordinare i fascicoli, dando incarico di provvedere al loro riordino e alla loro sistemazione razionale. Certo, quel provvedimento di archiviazione provvisoria rimane comunque un atto inaccettabile sul piano giuridico e, debbo dirlo sinceramente, un atto di grave negligenza.
Ragionando diversamente, possiamo comunque spiegare il motivo per il quale Santacroce, persona considerata da tutti integerrima, di condotta specchiatissima e profondo conoscitore del diritto, avrebbe compiuto scientemente quest'azione. Ma vi è di più. Ammesso per un attimo che questi abbia voluto veramente occultare i fascicoli (ribadisco il dubbio che ho già espresso in precedenza), per quale ragione non ha allora provveduto alla loro distruzione materiale, anziché disporre per la catalogazione apponendo poi su ogni fascicolo riordinato la dicitura «archiviazione provvisoria», corredata per di più della propria firma autografa in modo da mettere ancora più in evidenza gli atti? Questa è una domanda alla quale qualcuno, prima o poi, dovrà rispondere. Queste domande non trovano risposte precise bensì semmai solo valutazioni personali o congetture (tutte legittime, per carità, ma tali rimangono).
Risulta, a questo punto, più convincente la tesi secondo la quale l'atto di Santacroce, sebbene discutibile giuridicamente, sarebbe privo di una natura giuridica e quindi inidoneo a produrre effetti. La Procura generale militare, in sostanza, con tale atto non volle occultare alcunché, ma solo provvedere a custodire quei fascicoli, che legittimamente erano ivi depositati fin dal 1945.
Si ritiene allora più corretto contestare il provvedimento in esame sotto il profilo dell'opportunità, ma di certo non si può essere categorici nel sostenere che si è trattato di un atto da cui trapela un'inequivocabile volontà occultatrice.
Possiamo certamente imputare al dottor Santacroce di aver commesso una grave forzatura (una gravissima forzatura), seppure in condizioni particolarmente difficili, ma non possiamo accusarlo di un crimine. Di una responsabilità vera e propria, comunque non dolosa, si può, a mio modesto avviso, parlare solo con riferimento a quanto avvenuto dopo, all'oblio successivo, denotando una negligenza ed una superficialità di fondo nella gestione dei fascicoli consistita in particolare nel ritardo con cui gli atti, una volta scoperti, furono trasmessi alle autorità competenti. Ma sicuramente, come ha avuto modo di rilevare il tribunale di Roma con riferimento alle accuse mosse contro alcuni magistrati militari, non si è trattato di una responsabilità penale, bensì solo morale, ed in ogni modo solo marginale, atteso che la loro solerzia non avrebbe comunque potuto mutare uno status che da troppi anni si protraeva.
Per concludere, nonostante l'esito di questa inchiesta possa deludere le aspettative di qualcuno, dobbiamo sentirci tutti orgogliosi dell'operato svolto, giacché finalmente abbiamo fatto luce sui fatti sopra esposti. Ed è questo l'aspetto più importante. Speriamo così di aver contribuito a lenire il malessere diffuso prodotto dalla vicenda, che per troppo tempo nessuno era riuscito quantomeno ad attenuare.
Infine, vorrei dire che lascio agli atti queste conclusioni che sono - lo ribadisco - aperte al contributo di tutti i commissari.
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Raisi. La parola all'onorevole Carli.
CARLO CARLI. Presidente, preannuncio, a nome dei gruppi di opposizione, la presentazione di una relazione di minoranza, che vorrei illustrare.
EMIDDIO NOVI. Presidente, chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Prego, senatore Novi.
EMIDDIO NOVI. Vista l'ora tarda e visto che alcuni di noi, domani mattina, dovranno partecipare ai lavori delle Commissioni - come nel mio caso, alle 8,30 - le chiedo se sia possibile programmare i nostri lavori in modo che si possano ascoltare i colleghi relatori in orari possibili, considerato appunto che alcuni di noi dovranno allontanarsi.
PRESIDENTE. Per fare questo dobbiamo essere tutti d'accordo.
CARLO CARLI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Prego, onorevole Carli.
CARLO CARLI. Presidente, credo che stasera abbiamo compiuto tutti un atto di grande disponibilità, considerato che da parte dei colleghi senatori ci era stato chiesto di spostare alle 22 l'orario di convocazione della seduta.
ALBERTO ZORZOLI. Non si tratta di un atto di disponibilità. Erano in corso i lavori dell'Assemblea, quindi non si poteva riunire la Commissione.
CARLO CARLI. No, questo non è vero.
PRESIDENTE. La Commissione si può riunire anche quando sono in corso i lavori dell'Assemblea; tuttavia, avendo i senatori segnalato alla presidenza che si sarebbe votato nell'Aula del Senato fino alle 22, ho spostato la convocazione della Commissione.
ALBERTO ZORZOLI. Abbiamo apprezzato, presidente, ma non vogliamo sentir parlare di disponibilità. Essendo questa una Commissione bicamerale, si deve tener conto dell'andamento dei lavori delle due Assemblee, come il presidente bene ha fatto.
PRESIDENTE. La ringrazio, senatore Zorzoli. Possiamo sospendere brevemente la seduta, poi riprenderemo con la relazione dell'onorevole Carli.
ALBERTO ZORZOLI. Presidente, credo che il senatore Novi abbia comunque posto una questione che vorrei sviluppare. Ritengo anch'io legittimo che l'onorevole Carli svolga la sua relazione. Tuttavia, mi pongo un problema. Il materiale che ci è stato consegnato dal collega Raisi e quello che ci verrà consegnato dal collega Carli dovranno pur essere valutati ed esaminati. Pertanto, non credo sia facile, per i membri della Commissione, esprimersi nella seduta fissata per domani sera.
A questo punto, signor presidente, poiché il relatore Raisi ha già fatto presente che per giovedì la sua disponibilità sarà molto limitata, considerato che il Parlamento probabilmente lavorerà ancora quindici giorni - almeno, noi abbiamo calendarizzato i nostri lavori fino al 9 febbraio -, la prego di valutare l'opportunità di configurare le prossime sedute tenendo conto di queste novità. Vorrei che a tutti i colleghi fosse data la possibilità di disporre dei testi su cui riflettere, prima dei loro doverosi interventi.
PRESIDENTE. Certamente. Sospendo brevemente la seduta.
La seduta, sospesa alle 23.30, è ripresa alle 23.40.
PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori. La Commissione prende atto del deposito della proposta di relazione, che verrà pubblicata in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna. Colgo l'occasione per preannunciare che, una volta esaminato il documento testé depositato - e ciò vale ovviamente anche per eventuali relazioni di minoranza -, l'ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, si farà carico di proporre alla Commissione gli opportuni provvedimenti in tema di modifica del regime di classificazione degli atti, ovviamente non solo di quelli eventualmente citati ma anche di tutti i documenti acquisiti dalla Commissione stessa.
Do la parola all'onorevole Carli.
CARLO CARLI. Grazie, signor presidente, grazie anche per la pazienza a tutti
voi - colleghi, funzionari e consulenti - presenti a questa seduta, che ritengo molto importante, a conclusione del lavoro molto intenso e serio svolto da tutti noi, dai consulenti e dagli stessi funzionari e collaboratori della Commissione.
In prima battuta, credo di dover respingere radicalmente - lo sento dal profondo della ragione ed anche del cuore - la relazione fatta dal collega Raisi; altri, alla luce di un'ulteriore lettura, interverranno nel contestare i singoli punti, ma già sin d'ora si può evidenziare in maniera chiara la tesi per la quale, secondo il relatore Raisi, non vi è stato occultamento, non vi sono state responsabilità della magistratura e dei politici, ma vi è stata semmai una negligenza - forse grave (questo aggettivo è stato introdotto in seconda battuta) - e che, dunque, le cose sono andate in quel modo perché vi era un clima per cui si voleva che andassero così.
No, questo non è assolutamente vero! Mi permetto di dire - nel rispetto, naturalmente, della persona del collega Raisi - che questa è una relazione vergogna. Pertanto, annuncio, a nome dell'Unione, la presentazione di una relazione alternativa, di minoranza, auspicando poi che essa divenga relazione di maggioranza perché, come tutti noi sappiamo, alla fine a decidere sarà il voto della Commissione in seduta plenaria. Dunque, auspichiamo che vi sia un'ampia convergenza sulle nostre valutazioni, sul lavoro serio svolto dai consulenti, sulla ricerca puntuale compiuta nei diversi archivi e grazie all'elaborazione ottenuta con il collegamento e l'analisi di quanto, dal punto di vista dei documenti, è stato per noi importante assumere come riferimento, al fine di costruire questa nostra posizione.
Signor presidente, onorevoli colleghi, ci accingiamo in questi giorni a concludere il lavoro di questa Commissione d'inchiesta che ha preso avvio oltre due anni fa - nell'ottobre del 2003 - e che, senza alcun dubbio, rappresenta la più completa e organica trattazione mai svolta da parte del Parlamento su una pagina importante della storia del nostro paese, ovvero quella delle stragi nazifasciste e, più precisamente, della negata giustizia per le vittime di quelle atrocità. Ricordo che dalla constatazione di quell'orrore nacque la categoria dei reati contro l'umanità.
Non si possono concludere i lavori di questa Commissione senza ricordare l'entità di quella che un'autorevole corrente storiografica ha definito «guerra ai civili», condotta da coloro che hanno eseguito l'ordine del maresciallo Kesselring di fare terra bruciata attorno alle bande partigiane: un ordine che nazisti e fascisti (il cui ruolo troppo spesso è stato sottodimensionato) eseguirono in maniera puntuale, spietata e direi con disumana solerzia. Da qui le stragi, gli eccidi, le esecuzioni sommarie a scopo dimostrativo, le violenze, i saccheggi, gli incendi, i furti. Pagarono i più deboli, le donne fuggite coi figli dagli orrori della guerra, i bambini, i ragazzi, i vecchi. Questa guerra ai civili, pianificata per terrorizzare e rompere i legami naturali tra il territorio e le formazioni resistenti, fece registrare oltre 400 stragi (se ci si limita a quelle con almeno 8 morti) e circa 15 mila vittime. Ma in realtà si tratta di numeri approssimativi per difetto, perché nessuno è mai stato in grado di quantificare con precisione gli episodi di violenza come le uccisioni singole.
Uccidere, anche persone inermi, diventava una prova di coraggio e non un crimine. Quale valore avesse la vita umana per chi aderiva a quelle aberranti ideologie, nazismo e fascismo, lo si può dedurre dalla lettura di un passo di uno dei 2.274 dei fascicoli del registro generale, quello relativo alla strage di Massaciuccoli, in Toscana, del 1o settembre 1944.
Ritengo utile riportare alcuni passi dell'interrogatorio di un SS catturato alcuni giorni dopo la strage. Ecco il racconto di un ragazzo di soli 17 anni appartenente alle SS: «Domanda. Ditemi con parole vostre e in ordine cronologico cosa è successo esattamente a Massaciuccoli, il 1o settembre 1944. Risposta. Arrivammo a mezzanotte a Massaciuccoli. Sul ponte ci attendeva una compagnia guastatori della nostra divisione. Quest'ultima aveva impiccato parecchi uomini su quel ponte e aveva dato fuoco a diverse case nella zona. Questo paese è proprio quello in cui si
sono verificati diversi avvenimenti e di cui descriverò quanto è a mia conoscenza. Si trovava vicino a un lago. Insieme con detta compagnia, i nostri due plotoni entrarono nel paese, prelevando tutte le donne e i bambini dalle loro case. Le donne e i bambini, riuniti in un bosco vicino furono fucilati da un soldato della nostra compagnia. Domanda. Avete sentito dire che erano stati uccisi? Risposta. Il soldato Drexler del 1o plotone, 2a Compagnia del 16o Battaglione SS ci disse più tardi di essere stato lui. Domanda. Il soldato Drexler disse che gli era stato ordinato di uccidere donne e bambini? Risposta. Drexler fu prima interrogato dal tenente Siyska se se la sentiva di uccidere a sangue freddo donne e bambini. Egli rispose "No". Il tenente gli rispose "Se non lo potete fare, non siete un soldato". Drexler, come per provare di essere un soldato, accettò la sfida. Domanda. Drexler ha detto quante persone in tutte uccise? Risposta. Drexler disse che tutte le persone riunite da noi nel bosco erano state uccise. Poi soggiunse: 'Da questo momento, non potrò più uccidere un essere umano'. Domanda. E il soldato Drexler, dichiarò di essere stato lui a ucciderle? Risposta. Drexler disse di averlo fatto e aggiunse che dopo aver sparato a tre o cinque donne si rivolse al comandante e disse: 'Non posso più continuare'. A queste parole, il comandante rispose: 'Se non puoi uccidere donne e bambini, non sei un vero soldato'. Drexler continuò a uccidere». Questa è una testimonianza agghiacciante, che ci dice lo spirito e il clima in cui operavano queste truppe.
Non c'era follia in chi ordinava ed eseguiva questi atroci massacri. Furono uomini quelli che si resero colpevoli di quelle stragi: tante volte si discute sul fatto se essi potevano o meno disobbedire agli ordini che venivano loro impartiti. La risposta è sì! Avrebbero potuto disubbidire ed alcuni, va detto, lo fecero. E l'adesione degli italiani alle brigate nere, all'esercito di Salò, alle SS italiane fu un'adesione che portò giovani italiani ad avere un ruolo nelle stragi: non furono solo delatori o portatori di munizioni, come una certa letteratura vorrebbe far credere. Presero parte convintamente alle azioni di distruzione, uccisione, saccheggio, stupro, violenza, furto. Centinaia di fascicoli che sono giunti alla nostra Commissione vedono tra gli imputati fascisti di Salò. Come a Vinca, in provincia di Massa Carrara, dove la brigata nera di Carrara, agli ordini di Walter Reder, l'aguzzino di Marzabotto, partecipò a una delle azioni più feroci dell'intero periodo 1943-1945.
Di questa adesione convinta e spontanea una testimonianza è nel fascicolo rinvenuto nel 1994, relativo ai fatti di Introbio, riguardante la fucilazione di sei partigiani da parte delle SS italiane. In una testimonianza del 1997 la signora Fulvia Rupani, ex staffetta partigiana, testimone dell'accaduto e che aveva ella stessa subito violenze da parte di un capitano delle SS italiane, ricostruisce nel dettaglio la fucilazione di sei giovani patrioti. La sua testimonianza dettagliata è la prova ulteriore che i processi potevano essere celebrati e si poteva giungere alla verità. Il ricordo della signora si conclude: «Fui arrestata subito dopo il rastrellamento di Biandino, in quanto avevano fatto il mio nome come spia e ho dovuto subire violenze e nerbate da parte del capitano Comelli, in villa Ghiringhelli di Introbio. Preferisco non ricordare quegli eventi, anche perché sono tristi ricordi e la mia fede dice di perdonare. Viva l'Italia, viva la libertà».
Un mito da sfatare dunque, come un'altra falsità è che dopo la guerra si sia creata una sorta di oblio sulle stragi nazifasciste. Le comunità locali, i sindaci dei paesi colpiti chiesero a gran voce che fossero processati i responsabili di questi atroci eccidi, ma dopo una iniziale fase di solerzia si dovettero scontrare con le resistenze dell'apparato politico e della magistratura. Di questo bisogno non sopito di verità è testimonianza il clamore che seguì la notizia del rinvenimento del cosiddetto «armadio della vergogna», che nel 2000 ha portato amministrazioni comunali di diverso indirizzo politico, nel cui territorio si sono consumate stragi nazifasciste, a riunirsi in associazione per chiedere un
pronunciamento del Parlamento sulla vicenda dell'occultamento dei fascicoli relativi alle stragi nazifasciste e per chiedere che, dove possibile, fossero riaperte le indagini della magistratura per accertare le responsabilità delle stragi.
Un primo risultato fu lo svolgimento da parte della Commissione giustizia della Camera dei deputati - al termine della scorsa legislatura - di un'indagine conoscitiva sulla vicenda dell'occultamento dei fascicoli che, nella relazione finale approvata all'unanimità, disegnò il contesto internazionale e storico in cui avvenne l'occultamento. Stabilì come, ad una iniziale volontà di svolgere i processi, seguì una volontà precisa di interrompere la ricerca della verità. Fissò tre date che potevano essere considerate i momenti fondamentali della vicenda al nostro esame: il 20 agosto 1945, quando in una riunione alla Presidenza del Consiglio si decise l'accentramento a Roma di tutte le denunce sui crimini di guerra raccolte con minuzia di particolari da alleati e carabinieri regi; il 10 ottobre 1956, con la corrispondenza tra i ministri Martino e Taviani con cui la politica stoppava di fatto la richiesta di criminali di guerra dalla Germania; ed il 14 gennaio 1960, quando il procuratore Santacroce archiviò provvisoriamente, ed illegalmente, tutti i fascicoli.
L'indagine conoscitiva demandava ad una Commissione d'inchiesta con maggiori poteri, così come previsto dalla nostra Costituzione all'articolo 82, il chiarimento ulteriore delle circostanze dell'occultamento. Ma giungere all'istituzione di questa Commissione non fu facile e fu necessario anche il sostegno delle comunità locali, di diversi consigli regionali, che si batterono strenuamente con appelli alle massime cariche dello Stato.
Se questa Commissione ha preso avvio è senz'altro anche grazie all'impegno del Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, attraverso la sua opera in difesa della memoria e per non aver fatto mai mancare il suo sostegno a quanti si battono ogni giorno per non dimenticare l'orrore delle stragi nazifasciste: le sue visite a Caiazzo, Sant'Anna di Stazzema, Padule di Fucecchio, Cefalonia, Boves, Marzabotto costituiscono la testimonianza di una personalità fortemente sensibile alla verità e alla giustizia. Desidero ricordare il suo incontro a Marzabotto con il Presidente della Repubblica federale tedesca, Johannes Rau, che il 17 aprile 2002 chiese perdono per le stragi compiute dai tedeschi in Italia. Così come desidero ricordare la visita del ministro dell'interno tedesco Otto Schilly il 12 agosto 2004 a Sant'Anna di Stazzema, che, accompagnato dal nostro ministro dell'interno Giuseppe Pisanu, definì il 12 agosto un giorno di vergogna per l'intero popolo tedesco.
Questa Commissione, una volta istituita, ha perseguito con determinazione e volontà costruttiva gli obiettivi che la legge le assegnava e grazie anche al lavoro di consulenti preparati, e direi anche animati da una passione per la verità e la giustizia, liberi da dogmi o ideologie da difendere, si è giunti ad una serie di elaborati che ci consentono di predisporre un documento ampio e approfondito da consegnare al Parlamento e al paese, in cui ciascuna parte è un segmento di un ragionamento complessivo e non la somma di nozioni sparse ed incoerenti; una relazione che risponde pienamente alle complesse domande poste dalla legge istitutiva e dalla quale non è possibile estrapolare o espungere singole parti senza snaturarne il carattere e l'organicità.
La Commissione - recita la legge istitutiva - ha il compito di indagare sulle cause delle archiviazioni «provvisorie», visto il contenuto dei fascicoli e le ragioni per cui essi sono stati ritrovati a palazzo Cesi; indagare inoltre sulle cause che avrebbero portato all'occultamento dei fascicoli e sulle eventuali responsabilità e sulle cause della eventuale mancata individuazione o del mancato perseguimento dei responsabili di atti e di comportamenti contrari al diritto nazionale e internazionale.
L'attività istruttoria compiuta dalla Commissione, in oltre due anni, è stata sostanzialmente e prevalentemente costituita dallo svolgimento delle audizioni di soggetti direttamente ed indirettamente coinvolti nella vicenda, nonché dall'acquisizione
di documentazione presso vari enti ed organismi, sia in Italia che all'estero. Sui risultati di dette missioni rimando al documento che allego e che fa parte integrante e sostanziale della presente relazione.
Per quanto riguarda invece l'attività istruttoria di natura eminentemente dichiarativa, la Commissione ha effettuato molteplici audizioni, riguardanti soggetti a vario titolo coinvolti, in maniera diretta o indiretta, nella vicenda oggetto dell'indagine parlamentare andando ben oltre, e in parte smentendo, il patrimonio informativo acquisito dal Consiglio della magistratura militare nell'indagine conclusasi nel 1999.
Un primo risultato importante raggiunto dalla Commissione è quello di aver concentrato in un unico luogo, l'archivio della Commissione, una mole di materiale relativo alle stragi nazifasciste e all'occultamento dei fascicoli che non ha pari. Un risultato certo cui si può giungere dalla lettura di questo materiale è che giustizia poteva essere fatta: perché i documenti dimostrano che vi erano tutti gli elementi per giungere alla verità e che essa fu deliberatamente negata. Vi fu dunque occultamento dei fascicoli e non trascuratezza burocratica da parte degli uffici.
La Commissione ha chiarito gli antefatti ed il contesto del concentramento a Roma dei fascicoli e la successiva decisione di non procedere alla ricerca della verità attraverso l'invio dei fascicoli agli organi competenti per l'avvio dell'azione penale. Ha ricostruito passaggio per passaggio i momenti chiave, a partire dalle iniziali resistenze da parte degli alleati ad accogliere l'Italia tra i paesi che potevano processare i criminali delle nazioni sconfitte: il 20 ottobre 1943, in una riunione presso il Foreign Office a Londra, era stata istituita la Commissione per i crimini di guerra delle Nazioni Unite, dai rappresentanti di 17 fra le nazioni alleate, che iniziò i suoi lavori a Londra l'11 gennaio 1944, con il compito di raccogliere documentazione sui crimini di guerra proveniente dai vari uffici nazionali, vagliarla per verificare che vi fossero elementi per una incriminazione, creare una lista di criminali di guerra da diramare alle autorità militari per la ricerca, l'arresto e la consegna ai vari Governi nazionali per il processo, fornire pareri legali.
Il caso dell'Italia presentava problemi particolari: paese nemico, le cui truppe si erano macchiate, negli anni di guerra combattuta a fianco della Germania, di gravi crimini, arresosi senza condizioni, stava subendo, dopo l'8 settembre 1943, una brutale occupazione da parte della Germania, con numerose vittime fra la popolazione civile. Molti presunti criminali italiani erano richiesti da paesi che appartenevano alle Nazioni Unite. Dunque, emerge da subito che il problema dei criminali di guerra italiani era strettamente collegato a quello dei criminali di guerra tedeschi che il Governo italiano, cobelligerante con gli alleati, chiedeva per processarli.
Una prima significativa manifestazione, da parte delle autorità italiane, di una decisa volontà politica a perseguire i criminali di guerra tedeschi fu l'istituzione di una commissione centrale per l'accertamento delle atrocità commesse dai tedeschi e dai fascisti, istituita con decreto ministeriale il 26 febbraio 1945 presso il Ministero dell'Italia occupata, e costituita il 26 aprile dello stesso anno. Se da una parte l'Italia aveva mosso un passo verso la sua ammissione tra le nazioni che potevano processare i criminali di guerra, dall'altra crescevano le notizie sui crimini compiuti dai militari italiani e le resistenze dei paesi aggrediti dall'Italia, Jugoslavia e Grecia in special modo, nell'ammetterla a presentare le proprie denunce presso la Commissione per i crimini di guerra.
L'11 maggio 1945, un lungo rapporto dell'ambasciatore italiano a Mosca, Quaroni, sul problema dei prigionieri di guerra italiani in URSS, aveva sottolineato quanto in quel paese si fosse poco sensibili per la sorte di cittadini di quello che era stato uno Stato occupante, ed aveva proposto, per ammorbidire la posizione dell'URSS, che fossero le autorità italiane a procedere in modo esemplare contro i responsabili di crimini commessi in URSS.
In Italia, invece, stava emergendo in maniera sempre più netta l'orientamento di non consegnare i propri militari agli Stati che ne facevano richiesta, e questo influenzava anche la determinazione con la quale si persisteva nella richiesta di consegna dei criminali tedeschi.
Nell'agosto del 1945, anche a seguito della favorevole evoluzione della situazione internazionale in merito alle richieste dell'Italia sul tema dei procedimenti per crimini di guerra commessi nel nostro paese, fu risolta la questione, più volte sollevata dal Ministero degli affari esteri, dell'organo competente a compiere le istruttorie e ad inviare alla Commissione crimini di guerra delle Nazioni Unite le richieste. La Presidenza del Consiglio dei ministri convocò a tal proposito presso il proprio gabinetto una riunione per il 20 agosto, specificamente dedicata a tale tema. Si fece presente che il Governo italiano era stato autorizzato a produrre alla Commissione delle Nazioni Unite per i criminali di guerra di Londra «denunce specifiche e documentate contro militari o civili stranieri che nel corso del conflitto testé concluso si siano resi responsabili di crimini di guerra». Le denunce avrebbero dovuto essere compilate utilizzando i moduli della Commissione delle Nazioni Unite ed inoltrate attraverso l'ambasciata italiana di Londra.
Si decise quindi di accentrare tutto il materiale d'informazione raccolto fino ad allora dalle varie autorità presso la Procura generale militare per esaminarlo e ad estrarne le denunzie del caso: tale decisione è all'origine della formazione dell'archivio di cui si occupa la Commissione parlamentare d'inchiesta. L'accentramento era funzionale alla compilazione dei moduli delle Nazioni Unite per i crimini di guerra che il Ministero degli esteri avrebbe poi inviato alla Commissione a Londra. Durante la riunione del 3 ottobre 1945, sempre presso la Presidenza del Consiglio, il compito della Procura generale militare fu limitato alla promozione dell'istruttoria delle denunzie, mentre sarebbe stato il Ministero degli affari esteri a disporre l'invio alla Commissione delle Nazioni Unite. In coerenza con questo indirizzo, in data 7 novembre 1945 il procuratore generale militare dottor Borsari comunicava alla Presidenza del Consiglio, al Ministero degli affari esteri, al Ministero della guerra e al Ministero di grazia e giustizia di aver costituito l'ufficio per la trattazione delle pratiche relative alla punizione dei crimini di guerra commessi dai tedeschi in Italia, confermando che avrebbe provveduto a riunire tutte le denunzie e le segnalazioni di delitti che provenivano dai comandi dei carabinieri e da qualsiasi altra fonte e a istituire un archivio generale di memoria, per poi trasmettere le denunce ai tribunali militari competenti per territorio, ai quali sarebbero state date istruzioni per un rapido svolgimento delle indagini. Si trattava di un compito che in realtà mai verrà messo in atto.
In contemporanea si poneva con sempre maggiore urgenza il tema degli italiani richiesti da altri Stati: era il Ministero della guerra a sottolinearlo, dopo che la Commissione alleata aveva consegnato alle autorità italiane un primo elenco di presunti criminali italiani, per la maggior parte ufficiali dell'esercito, con l'invito a ricercarli e consegnarli. Dai vertici italiani dell'epoca la questione del giudizio dei criminali di guerra tedeschi e quella dei presunti criminali di guerra italiani furono considerate strettamente legate. Dalla documentazione si può infatti dedurre che la diplomazia e il Governo italiani decisero di limitare le rivendicazioni nei confronti dei criminali di guerra tedeschi anche per paura che un'azione energica contro i tedeschi si ritorcesse a danno dell'Italia, impegnata a proteggere i propri cittadini reclamati per crimini di guerra da Stati esteri.
Quel nesso - e questa è una prima conclusione che possiamo trarre dalle carte - è precedente alle ragioni della «guerra fredda» e agli accordi segreti intervenuti dopo il 1950 fra la Germania di Adenauer e il Governo italiano, che avrebbero bloccato l'azione giudiziaria contro i criminali tedeschi per non compromettere gli sforzi di Bonn, impegnata nella campagna per il riarmo germanico.
La mancanza di processi contro i presunti responsabili italiani di crimini di guerra ha impedito una valutazione delle accuse, anche gravissime, mosse nei loro confronti. L'Italia non ha subito alcun giudizio per i propri crimini di guerra, come invece hanno subito i suoi alleati del Patto tripartito, la Germania e il Giappone, e questo ha notevolmente contribuito a fissare una rappresentazione parziale e distorta della guerra e della dittatura fascista.
Il processo a Kesselring rappresentò una svolta nella politica giudiziaria alleata. Il processo si tenne a Venezia, davanti ad una corte militare britannica, dal febbraio 1947 al 6 maggio 1947: il 6 maggio 1947 Kesselring venne giudicato colpevole e condannato a morte. L'esito del processo a Kesselring, come già si evinceva dalla relazione finale dell'indagine conoscitiva della Commissione giustizia della Camera, si collocò infatti in un contesto internazionale già segnato dalle prime avvisaglie della «guerra fredda»: erano passati pochi mesi da quando il Presidente statunitense Harry Truman (marzo 1947) aveva formulato la dottrina che porta il suo nome per cui la politica degli Stati Uniti doveva essere quella di appoggiare i popoli liberi che resistono ai tentativi di assoggettarli, compiuti da minoranze armate o da pressioni esterne, in funzione antisovietica.
La politica si precisò ulteriormente nel giugno 1947, quando il segretario di Stato George Marshall annunciò il programma di aiuti all'Europa occidentale meglio conosciuto come «Piano Marshall». Nel quadriennio 1948-1952, i paesi europei ricevettero ben 13 miliardi di dollari, suddivisi in aiuti finanziari, derrate alimentari e macchinari industriali. La possibilità di godere degli aiuti passava da un'adesione anche ideologica alla politica degli USA. Pertanto, il giorno successivo alla condanna a morte del generale tedesco Kesselring, sia Churchill che il generale americano Alexander si impegnarono per la commutazione della sentenza in ergastolo. La mobilitazione a favore di Kesselring ottenne il risultato voluto: il 29 giugno 1947, il generale Harding, conformemente al nuovo orientamento politico delle autorità britanniche, commutò in ergastolo la sentenza di morte per i tre alti ufficiali tedeschi.
Il ribaltamento di prospettiva rispetto alle linee generali di politica giudiziaria enunciate fino a pochi mesi prima non potrebbe essere più netto, ed interessa qui sottolineare non tanto la ragion di Stato che spinse a sospendere le condanne a morte, quanto le argomentazioni giuridiche per l'applicazione delle attenuanti: le stragi erano quasi giustificate col diritto di Kesselring a difendere i propri soldati: non più crimini, ma «legittima» difesa.
L'Italia aveva nel frattempo ottenuto di poter processare presunti criminali di guerra tedeschi, ed in previsione dei primi processi da parte dei tribunali militari appare chiaro che la maggiore preoccupazione era sempre l'eventuale richiesta di consegna di italiani imputati di crimini di guerra da parte di altri paesi. Per tale motivo, si decise di adottare una linea prudenziale, che minimizzasse la portata politico-giudiziaria dei processi ad imputati tedeschi che stavano per iniziare, facendo intendere che si trattava solo di un'opera di supplenza rispetto alla situazione della Germania: la linea principale dall'Italia era che ciascuno Stato dovesse giudicare della colpevolezza o meno dei propri cittadini accusati di crimini di guerra da altri Stati. Una linea, va rilevato, che andava contro non solo alla dichiarazione di Mosca del 31 ottobre-1o novembre 1943 (con cui gli alleati stabilirono che le persone accusate di crimini di guerra sarebbero stati riportate nei luoghi dove tali crimini erano stati commessi e giudicate da tribunali dei paesi i cui cittadini erano stati vittime dei crimini), alla quale in passato la stessa Italia si era appellata per rivendicare a sé il diritto di giudicare i presunti criminali di guerra tedeschi, ma a tutta l'elaborazione e all'operato della Commissione crimini di guerra delle Nazioni Unite. L'Italia non voleva più processare i tedeschi.
Conseguentemente, e fino alla ripresa di un'attività giudiziaria negli anni novanta, i procedimenti arrivati a sentenza furono solo 13, quasi tutti tra la fine degli
anni quaranta e l'inizio degli anni cinquanta. Anche considerando i 18 procedimenti penali conclusi in fase istruttoria (molti negli anni cinquanta), il numero complessivo dei procedimenti penali per crimini di guerra resta incredibilmente basso, in relazione al numero e alla gravità degli episodi di stragi ed eccidi che avevano interessato i territori italiani occupati dalle truppe tedesche e dai loro alleati fascisti repubblicani. È poi da sottolineare l'utilizzazione delle circostanze attenuanti, fra le quali la più comune è quella di avere obbedito ad ordini ricevuti, per arrivare ad assoluzioni di imputati o a pene risibili rispetto alla gravità dei fatti di cui gli imputati si erano resi colpevoli.
Se consideriamo assoluzioni, circostanze attenuanti per avere obbedito agli ordini superiori, sconti di pena, condoni e grazie (significativa la vicenda del cosiddetto «gruppo di Rodi»), verifichiamo che all'inizio degli anni cinquanta due soli condannati tedeschi rimanevano in carcere a scontare l'ergastolo: Herbert Kappler e Walter Reder.
Veniamo agli anni cinquanta. Sulla linea della ragion di Stato e in un mondo sempre più diviso in blocchi, negli anni cinquanta si verificano due episodi molto significativi per quanto riguarda l'individuazione delle ragioni per le quali i fascicoli sui crimini nazifascisti vennero occultati. Dall'esame della documentazione acquisita agli atti della Commissione emerge che due iniziative giudiziarie messe in atto dalla magistratura militare requirente nei confronti di criminali nazisti furono bloccate dall'azione congiunta della Procura generale militare e dall'autorità politica. I due procedimenti riguardavano l'eccidio di Fossoli e quello della divisione militare «Acqui» a Cefalonia. In questo contesto si inserisce il già noto carteggio tra i ministri degli affari Esteri, Gaetano Martino, e della difesa, Paolo Emilio Taviani, composto di due scambi di corrispondenza scritta tra l'ottobre 1956 e il febbraio 1957, dalla lettura del quale emerge un collegamento esplicito tra l'occultamento dei fascicoli sui crimini nazifascisti e la volontà di non compromettere l'immagine dell'esercito tedesco nel momento della sua ricostituzione, che avvenne tra contrarietà avanzate in campo internazionale da più parti.
In questa fase emerge fortemente la figura del nuovo procuratore generale militare Enrico Santacroce, che dopo il pronunciamento dell'Avvocatura che sancì, ribaltando un primo pronunciamento, di lasciare la competenza di giudizio su crimini nazifascisti ai magistrati militari, ordinò un riordino delle carte. Il dottor Di Blasi, unico testimone vivente di questo periodo e inspiegabilmente mai ascoltato prima della nostra inchiesta, era stato chiamato a far parte di un gruppo di lavoro formato, oltre che da lui, dallo stesso procuratore generale dottor Santacroce e dal procuratore addetto dottor Ugo Foscolo, con il compito di decidere le sorti proprio dell'enorme quantità di fascicoli presenti presso la Procura generale militare riguardanti i crimini di guerra. Il dottor Di Blasi si era personalmente occupato di catalogare e sistemare gli atti che erano in gran parte sfusi e disordinati e di dare ad essi la veste di veri e propri fascicoli giudiziari, con ogni probabilità la forma con cui sono poi stati ritrovati nel 1994.
Il gruppo di lavoro si pose dunque il problema, di ben diverso spessore, di cosa fare di quei fascicoli che all'evidenza, essendo venute meno le ragioni per le quali erano stati accentrati presso la Procura generale, non avrebbero dovuto più trovarsi presso quegli uffici bensì da molto tempo smistati alle procure territoriali. La situazione di difficoltà e di imbarazzo descritta alla Commissione di inchiesta dal dottor Di Blasi è evidente ed evidente è la consapevolezza che la formula dell'«archiviazione provvisoria» proposta dal dottor Santacroce, e a cui lo stesso dottor Foscolo si era cautamente opposto, non aveva un senso, non essendo prevista da alcuna norma ed essendo l'archiviazione vera e propria, intesa come decisione comunque formale di non esercitare l'azione penale, di competenza già dal 1944 del giudice istruttore, rispetto a fascicoli nella disponibilità
delle procure territorialmente competenti e certo non della Procura generale.
Per queste ragioni, la definizione di «provvedimento di natura ricognitiva» proposta dal dottor Di Blasi rappresenta un postumo e implausibile tentativo di difendere una decisione giuridicamente abnorme e profondamente dannosa per il paese: un provvedimento senza fondamento giuridico, adottato da un organo non competente ad archiviare o meno quei fascicoli, in palese violazione della obbligatorietà dell'azione penale.
L'archivio sepolto con il provvedimento di Santacroce del 14 gennaio del 1960 rimase tuttavia in vita. È evidente che anche nel corso degli anni sessanta i fascicoli furono vivi e gestiti dalla magistratura militare: lo furono nel caso dell'interrogazione parlamentare dell'onorevole Umberto Terracini del 12 ottobre 1962 a proposito del professor Kurt Leibbrand. Quest'ultimo fu processato e assolto a Stoccarda nel 1962 per l'uccisione di ventisei operai italiani in Francia. Su quali iniziative prendere e se eventualmente richiedere l'estradizione in Italia di Leibbrand per processarlo si svolse una corrispondenza tra il ministro della difesa Giulio Andreotti e la Direzione generale degli affari politici del Ministero degli affari esteri.
Dalla documentazione acquisita agli atti della Commissione emerge che il ministro, in data 27 dicembre 1962, chiese se si poteva procedere alla richiesta di estradizione, ma il direttore degli Affari politici del Ministero degli esteri dottor Aldo Pierantoni in data 5 gennaio 1963 rispose: «Dopo averne intrattenuto il segretario generale ho parlato dell'argomento con l'ammiraglio Tagliamento, capo di gabinetto di Andreotti, spiegandogli le nostre perplessità (evitare di far ripartire polemiche italo-tedesche); mi ha pregato considerare la lettera come non ricevuta. Quindi non rispondiamo (informare a voce il Contenzioso diplomatico perché non dia seguito)». Anche questi atti riscontrano in maniera piena quanto avvenuto nel 1956 e confermano con grande evidenza la volontà politica di non celebrare i processi e quindi mantenere l'occultamento dei fascicoli.
Voglio qui anche precisare - e smentire l'affermazione del collega Raisi, il quale ha detto che nessuno si è interessato dei fascicoli occultati - che sono state diverse le interrogazioni parlamentari presentate, a partire dal 1946 per iniziativa degli allora parlamentari Bibolotti e Amadei; seguono le interrogazioni Polano del 1ogiugno 1960, Berlinguer, Basso, Luzzatto e Pinna dell'11 aprile 1961; ricordo, inoltre, l'interrogazione del 25 luglio 1963, primo firmatario Pertini e cofirmatari Carocci, Berlinguer Mario, e così via.
ENZO RAISI. Queste interrogazioni sono agli atti?
ENZO RAISI. Può lasciarle agli atti?
CARLO CARLI. Sì, posso lasciarle. Al di là se siano già agli atti oppure no, le posso allegare alla relazione. Non è questo il punto.
ALBERTO ZORZOLI. Non è una questione procedurale, è sostanziale.
CARLO CARLI. Certo, è sostanziale. Seguono, poi, le interrogazioni del 16 dicembre 1961, firmatari Bosoni, Zanoni, Picchiotti Emilio, e del 1o aprile 1966, firmatari gli onorevoli Polano, Alvarello, Schiavetti e Caruso. Sono tutte consultabili, in quanto sono agli atti. Le lascio a disposizione di chi voglia leggerle e fare delle valutazioni al riguardo.
Il 1964 fu l'anno in cui fu fatta un'opera di sistemazione e catalogazione dell'archivio per fare fronte alla richiesta di documentazione proveniente dalla Repubblica federale tedesca all'approssimarsi del termine di prescrizione e per l'invio alle procure territorialmente competenti dei fascicoli nei confronti di ignoti. Il 1965 è un momento di grande attività sulle carte dell'archivio. La Direzione generale affari politici del Ministero degli affari
esteri apre una posizione di archivio sulla prescrizione dei crimini nazisti ed una posizione intitolata «Criminali di guerra rimasti impuniti». Dalla Procura generale militare nel dicembre del 1965 comincia l'opera di invio ai tribunali militari degli oltre 1.200 fascicoli contro ignoti che occuperà il cancelliere Puliti sicuramente fino al maggio del 1971.
L'indagine della Commissione di inchiesta ha permesso anche di chiarire i termini esatti nei quali si è svolto questo invio con modalità dettate perentoriamente dal procuratore Santacroce e molto più vicine ad una diversa forma di occultamento che al ritrovato corretto percorso della giustizia. È anche l'anno del carteggio tra il generale Santacroce e il ministro Andreotti, che viene informato esplicitamente della presenza di un archivio sui crimini nazifascisti presso la Procura generale militare all'atto di riscontrare la richiesta tedesca.
Dal 1971 in poi non vi è più traccia - agli atti della Commissione - di un uso dell'archivio fino al suo ritrovamento nel 1994. Dunque, non si trattò (come si riteneva prima dei lavori di questa Commissione) di un archivio rimasto sepolto ed ignoto a tutti dopo il 1960 e la provvisoria archiviazione, ma di archivio che subì riordini, opere di consultazione, passaggi di consegna documentati.
In tale contesto è emersa una problematica di non secondario rilievo, finora mai affrontata in questa sede, ovvero la contiguità fra la magistratura militare, che quei crimini doveva giudicare, ed i militari che li avevano commessi. Detta contiguità, come nel caso di Santacroce, si esplicava nella vicinanza delle strutture mentali e culturali, fortemente condizionate dal tabù dell'obbedienza agli ordini, che troppo spesso traspare dalle sentenze, anche solo attraverso la concessione di attenuanti, che contribuivano ad addivenire alla prescrizione del reato.
Al fine di una compiuta comprensione della disciplina dell'ordinamento giudiziario militare, anche se approvata sotto l'incudine del referendum abrogativo dell'intera magistratura militare, è necessario evidenziare come la riforma del 1981 rappresenti una vera e propria rivoluzione copernicana nella materia in questione. Coerente con questa impostazione era la normativa del regio decreto 9 settembre 1941, n. 1022, in virtù della quale i magistrati militari erano ufficiali di carriera e come tali venivano identificati. La nomina del presidente e dei giudici militari avveniva mediante decreto reale, mentre il procuratore generale militare veniva nominato, come un alto funzionario dello Stato, dal Consiglio dei ministri. Tutti i magistrati militari, compresi coloro i quali erano destinati a funzioni di giudice nell'ambito dei tribunali militari, dipendevano dal procuratore generale per la nomina, per il conferimento di incarichi e di funzioni e per la progressione di carriera.
Tuttavia, va sottolineato un particolare che assume rilievo significativo ai fini della vicenda in oggetto, ovvero che, nonostante questa ampiezza di prerogative, il regio decreto n. 1022 del 1941 non attribuiva al procuratore generale particolari poteri in tema di esercizio dell'azione penale. Anzi, nel procedimento penale militare il procuratore generale militare altro non era che il titolare dell'ufficio requirente presso il giudice di legittimità, che allora era il Tribunale supremo militare. È del tutto evidente come una struttura così fortemente gerarchizzata e verticistica non fosse in grado di garantire piena autonomia di giudizio, come del resto ha rilevato il dottor Giuseppe Rosin, magistrato militare, già componete del CMM, nel corso dell'audizione innanzi alla Commissione, affermando che «Quelli erano tempi - a differenza di oggi - in cui non c'erano garanzie di indipendenza ma forse non c'era neanche (o c'era solo in parte) la mentalità dell'indipendenza».
Altro aspetto da tenere in considerazione riguarda il dato, oggettivamente emerso, che alcuni personaggi di punta, appartenenti alle amministrazioni maggiormente coinvolte nella gestione dell'archivio, Mirabella e Santacroce per quanto riguarda la Procura generale militare, abbiano ricoperto incarichi di rilievo nel corso del ventennio fascista. Il primo giurò
addirittura fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana, mentre molti posti cardine del Ministero degli esteri erano ricoperti da diplomatici scampati all'epurazione. In questo contesto, la dipendenza gerarchica dall'esercito e dalla politica non è di per se stessa assolutoria rispetto alle responsabilità della magistratura militare nell'occultamento dei fascicoli relativi ai crimini nazifascismi, che permangono in tutta la loro gravità. Si può dire che vi fu una convinta e volenterosa adesione della magistratura alle ragioni che portarono gli organi politici a non procedere contro i criminali di guerra tedeschi e fascisti.
Veniamo adesso alle altre ragioni dell'occultamento. Sulle cause dell'occultamento dei fascicoli e sui mancati processi ai criminali tedeschi pesano altri fattori che meritano di essere accennati: dagli archivi riservati del Ministero degli affari esteri emergono i rapporti commerciali tra il nostro paese e la Germania, con particolare riferimento alla seconda metà degli anni cinquanta fino al 1960, anno nuovamente decisivo. Emerge così un motivo anche di carattere economico: celebrare i processi poteva interferire negativamente sulla questione dei crediti di guerra e sulla possibilità di imprese italiane di accaparrarsi commesse in Germania.
Un ultimo accenno sulle cause dell'occultamento merita infine la questione del reclutamento, al termine della seconda guerra mondiale, da parte dei servizi di informazione statunitensi civili e militari, di ufficiali tedeschi di grado elevato e di ex-funzionari dei servizi di sicurezza e di polizia nazisti: tale reclutamento è ormai un fatto storicamente accertato ed ammesso dagli stessi interessati, imposto, secondo i suoi ideatori ed organizzatori, dalla nuova e pressante necessità di contenere l'infiltrazione dell'apparato sovietico soprattutto nei paesi dell'Europa occidentale, prossimi ad essere protetti sul piano militare dall'ombrello della NATO, ma anche in altre aree quali il Medio Oriente. Ai reclutati in funzione antisovietica la NATO fornì un sistema di coperture tale da evitare a queste persone noie processuali. Quello del reclutamento degli uomini dell'ex apparato nazista fu un fenomeno non occasionale ma quasi organico, dispiegatosi con una notevole profusione di intelligenze e di mezzi ed iniziato anche prima del momento - l'anno 1947 - indicato come quello della nascita ufficiale della «guerra fredda», tanto da aver avuto origine quantomeno nell'ultimo anno di guerra, a ridosso dell'ormai certo crollo del sistema nazista e soprattutto in contemporanea con le trattative, più o meno sotterranee e più o meno concrete, di resa delle principali armate tedesche e le suggestioni di cambio di campo che tale situazione conclusiva sempre storicamente comporta.
Parliamo, ora, del ritrovamento dei fascicoli. Con il rinvenimento dei fascicoli in questione presso gli uffici di vertice della magistratura militare prende avvio l'ultima fase della vicenda oggetto dell'indagine, se si eccettuano ulteriori sviluppi verificatisi nel corso dei lavori di questa Commissione. La Commissione ha iniziato i suoi lavori con l'audizione del dottor Antonino Intelisano in quanto sarebbe stato in seguito ad una sua iniziativa che furono attivate le ricerche, in conseguenza delle quali venne poi scoperto il carteggio in questione. Non ci si può nascondere, tuttavia, come permanga qualche riserva in ordine al fatto che, tanto i magistrati quanto il personale di segreteria, che da anni operavano all'interno degli uffici, dove erano stati custoditi i fascicoli per così tanto tempo, fossero completamente all'oscuro della loro esistenza, soprattutto se si considera la quantità della documentazione, che, come si è già visto, afferiva ad alcuni tra gli episodi criminosi più cruenti e drammatici verificatisi nel corso del secondo conflitto mondiale. Nei locali in cui fu trovato il carteggio erano allocate delle carte dei tribunali militari di guerra soppressi e del Tribunale per la difesa dello Stato. L'accesso a detti archivi avveniva, quindi, quando vi era la necessità di rinvenire qualche documento, ad esempio per definire una posizione ai fini pensionistici, trattandosi quindi non di materiale archiviato e sepolto ma di materia viva sulla quale si lavorava.
Dopo il rinvenimento fu nominata una commissione interna, composta da un sostituto procuratore generale presso la corte militare di appello e da un sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione, assistiti da un funzionario di cancelleria, che hanno proceduto all'esame dei fascicoli: quelli che apparivano rilevanti sono stati inviati alle autorità giudiziarie militari competenti che hanno promosso l'esercizio dell'azione penale.
Non vi fu nel 1994 la redazione di un verbale contenente un elenco dettagliato del carteggio ritrovato, nonché l'invio di apposita comunicazione alla procura ordinaria territorialmente competente per l'eventuale adozione di un provvedimento di sequestro: sul punto il procuratore generale Scandurra afferma che in quel momento parve prioritario l'invio dei fascicoli alle procure militari territoriali competenti per la trattazione, e, invece, dal rinvenimento all'invio di tutti i fascicoli passò oltre un anno, dal rinvenimento all'insediamento della «commissione mista» cinque mesi, e otto mesi furono necessari alla commissione per vagliare tutti i fascicoli.
Gli auditi hanno giustificato la mancata redazione di un inventario col fatto che l'elenco completo dei fascicoli si evinceva dal registro generale rinvenuto insieme al carteggio, e compilarono uno scarno verbale privo di dati analitici, come se si fosse trattato di una vicenda ordinaria. Si tratta all'evidenza di un argomento che non convince, poiché il registro in questione conteneva l'elenco di un numero di procedimenti molto più ampio (per la precisione risultano annotati 2.274 procedimenti) rispetto a quelli rinvenuti nel 1994, in quanto molti di essi erano stati definiti, come noto, nella seconda metà degli anni sessanta; inoltre, nel registro non vi era certo l'indicazione del carteggio di carattere non giudiziario che si trovava insieme ai fascicoli e di cui tuttora non si ha compiuta conoscenza.
La commissione che ha esaminato e vagliato i fascicoli era con tutta evidenza sia priva di legittimità nella sua istituzione, sia priva dell'autorità di scegliere se inviare o meno i fascicoli, nonostante la seconda difensiva versione del dottor Scandurra, secondo cui non poteva trattarsi di una commissione perché non c'era alcuna normativa di legge che la prevedesse. A sostegno di tale tesi è stata fornita una relazione di minoranza nell'inchiesta del CMM, a firma del dottor Scandurra, che è difforme, occorre ricordarlo, da quella depositata agli atti nel 1999.
Altre irregolarità seguirono il ritrovamento. Ci si riferisce al fatto che non tutti i fascicoli rinvenuti nel noto archivio di palazzo Cesi nel 1994 siano stati puntualmente trasmessi ai titolari dell'azione penale: taluni di essi sono stati ulteriormente trattenuti presso quella sede e, in tal modo, si è impedito che la totalità delle denunce per crimini di guerra pervenisse negli uffici competenti per la trattazione dei procedimenti. In particolare, tale omissione ha riguardato, da un lato, 202 fascicoli relativi a fatti criminosi commessi fra il 1943 ed il 1945 ad opera, per lo più, di appartenenti a formazioni della Repubblica sociale di Salò; dall'altro, 71 fascicoli sempre relativi a crimini di guerra, rispetto ai quali i due magistrati militari incaricati dell'esame degli atti (dottor Nicolosi e dottor Bonagura) decretarono un «non luogo a provvedere». E ancora la cosiddetta «indagine storico-giudiziaria» condotta irritualmente dal dottor Scandurra in relazione ai 202 fascicoli più sopra citati, consistita, in sostanza, nell'invio di un corposo numero di richieste di acquisizione di informazioni alle locali stazioni dei carabinieri e alle cancellerie delle corti di assise. Talora sono state inoltre ascoltate persone informate sui fatti che hanno, in alcuni casi, aggiunto elementi utili alle indagini, anche rispetto agli autori del fatto delittuoso. All'atto del suo trasferimento presso la Procura generale di Cassazione, il dottor Scandurra ha materialmente portato con sé queste carte, senza peraltro che risulti alcun provvedimento formale in tal senso.
La Commissione di inchiesta ha provveduto a dare un contenuto a quelle cartelline e ha potuto accertare che in alcuni di quei casi si trattava di crimini
orrendi (in tutto 68 episodi di omicidio volontario aggravato di circa 150 persone). Di ciò la Commissione ha informato la magistratura ordinaria, cosa che ha portato all'invio dei fascicoli alle procure territorialmente competenti da parte del CMM.
Inoltre, in sede di audizione si sono susseguite le contraddizioni su chi trovò il materiale - il cancelliere Bianchi o il cancelliere Conte - e su dove esso si trovasse. Anche l'armadio divenuto celeberrimo narrato nella relazione del CMM era una scaffalatura. Anche la sorte del registro generale delle denunce ha avuto un percorso che neppure il confronto in audizione tra i due cancellieri militari Bianchi e Conte ha chiarito.
La vicenda dei 202 e dei 71 fascicoli, mai indagata prima dei lavori della Commissione, rappresenta, con ogni probabilità, uno degli snodi principali della presente inchiesta parlamentare, in quanto non solo rappresenta un'ulteriore anomalia grave nell'operato dei magistrati militari, coevo e successivo al rinvenimento dell'archivio di che trattasi, ma contestualizza con maggiore chiarezza l'intera vicenda all'interno della magistratura militare e quindi traccia importanti linee di caratterizzazione di detta istituzione.
Va infine sottolineato il dato inquietante del ritardo di ben due anni dal rinvenimento dei fascicoli con il quale l'organo di autogoverno della magistratura militare ritenne di approfondire il fenomeno, su sollecitazione dei magistrati militari Antonio Sabino (componente del CMM) e Sergio Dini, sostituto procuratore militare a Padova, ed in considerazione della diffusione che la vicenda aveva ormai avuto per mezzo degli organi di stampa. Si è anche detto come questa inerzia iniziale risulti ancor più strana se si pone mente al fatto che il Consiglio aveva ed ha la propria sede proprio a palazzo Cesi e pertanto è verosimile ritenere che fosse a conoscenza dell'accaduto.
Dopo avere ripercorso nella presente relazione le tappe principali dell'attività istruttoria compiuta dalla Commissione e protrattasi per oltre due anni, appare opportuno tracciare un quadro d'insieme delle responsabilità, che a diversi livelli istituzionali si sono potute dedurre con ragionevole certezza, così come le stesse sono venute enucleandosi nel corso della trattazione che precede.
Le risultanze del grande lavoro svolto permettono di evidenziare come l'obiettivo assegnato dal legislatore a questo organismo parlamentare sia stato puntualmente perseguito, con esiti peraltro proficui che, se da un lato si innestano su una linea di continuità rispetto alle inchieste precedentemente svoltesi sulla vicenda, dall'altro evidenziano significativi elementi di novità, in relazione ad aspetti di notevole rilievo, sia sul piano storico sia su quello politico. Ci si riferisce in particolare all'indagine condotta dal Consiglio della magistratura militare e conclusasi con delibera del 23 marzo 1999, nonché all'indagine conoscitiva della Commissione giustizia della Camera dei deputati a conclusione della XIII legislatura, il cui documento finale fu votato all'unanimità in data 6 marzo 2001.
Innanzitutto, in linea generale, appare opportuno sottolineare come si sia cercato - con esiti almeno in parte positivi - di dare senso compiuto e storicamente fondato a termini del tutto generici, quali «guerra fredda», «ragion di Stato», «situazione internazionale». In tale contesto è emersa una problematica di non secondario rilievo, finora mai affrontata in questa sede, ovvero l'ambiguità del diritto internazionale in merito alla punizione dei crimini di guerra e la contiguità fra la magistratura militare, che quei crimini doveva giudicare, ed i militari che li avevano commessi. Detta contiguità - che peraltro è stata puntualmente evidenziata nella trattazione relativa alla normativa che disciplinava all'epoca l'ordinamento giudiziario militare - si esplicava nella vicinanza delle strutture mentali e culturali, fortemente condizionate dal tabù dell'obbedienza agli ordini, che troppo spesso traspare dalle sentenze, anche solo attraverso la concessione di attenuanti, che contribuivano ad addivenire alla prescrizione del reato. Si tratta, in sostanza, di una serie di cause per cui possiamo dire
che hanno portato la magistratura militare italiana a rispondere con grande e convinta «volontarietà» agli impulsi politici, poiché questi andavano nella direzione dei suoi più radicati convincimenti.
Venendo ora più specificamente alla vicenda di che trattasi, va detto che le valutazioni tratte dalle prime indagini del Consiglio della magistratura militare e della Camera dei deputati individuano genericamente nella «ragione di Stato», ovvero nella necessità di evitare problemi alla Germania, che in quel periodo stava ricostituendo il proprio esercito e si sarebbe dovuta inserire in maniera forte nell'Alleanza Atlantica, le cause che portarono all'occultamento dei fascicoli.
Il lavoro della Commissione d'inchiesta ha evidenziato contestualmente anche altre fondate motivazioni, sia sul piano interno sia su quello internazionale. Innanzitutto, vi era la problematica afferente al rifiuto del Governo italiano di dare corso alla richiesta di estradizione da parte di altri paesi (ad esempio, Jugoslavia e Grecia, ma non solo) di militari italiani, quali presunti criminali di guerra, per celebrare i processi a carico di costoro. In tal senso è particolarmente significativo il carteggio rinvenuto nell'archivio delle Nazioni Unite a New York. Ed infatti il Governo italiano si trovava nell'imbarazzante situazione, da un lato, di negare l'estradizione di presunti criminali italiani, richiesta da altri paesi, e, dall'altro, di procedere alla richiesta, proveniente dalla magistratura militare italiana, per l'estradizione di militari e criminali di guerra tedeschi. In tale ambito si inserisce anche la discussione a livello internazionale afferente alla ricerca di uno strumento di tutela giuridica rispetto al problema della prescrizione dei reati, con riferimento ai paesi che prevedevano tale causa di estinzione, anche in relazione a tali gravissimi delitti. È del tutto evidente come si tratti di un aspetto che non può non aver influito sulla decisione di occultare le carte; significativa a tal proposito è la coincidenza temporale tra l'insorgere della problematica e la fase conclusiva di utilizzazione delle carte dell'archivio.
Altro aspetto da tenere in considerazione riguarda il dato, oggettivamente emerso, che alcuni personaggi di punta, appartenenti alle amministrazioni maggiormente coinvolte nella gestione dell'archivio - Magistrati e Zoppi, per quanto riguarda il Ministero degli affari esteri; Mirabella e Santacroce, per quanto riguarda la Procura generale militare - abbiano ricoperto incarichi di rilievo nel corso del ventennio fascista. Ed infatti, Magistrati era a capo della Direzione affari politici, all'epoca dell'ormai noto carteggio Martino-Taviani, mentre a Zoppi è riconosciuta la paternità del promemoria riguardante i processi ai criminali di guerra italiani chiosato da Giulio Andreotti per conto del Presidente De Gasperi.
Riprendendo, invece, il riferimento all'Alleanza atlantica, non si può non ripercorrere il progressivo accentuarsi della «guerra fredda» e la creazione, quindi, di due blocchi di influenza contrapposti, occidentale e sovietico, che in Europa si fronteggiavano particolarmente. In tale contesto non era ben vista la celebrazione dei processi a carico di militari tedeschi, ma anche di cittadini e militari italiani macchiatisi di gravi reati. In alcuni casi i Servizi segreti statunitensi e italiani intervennero a favore di questi criminali, garantendo loro l'impunità, per poterli reclutare. Non vi è dubbio, inoltre, che i Governi italiani dell'immediato dopoguerra erano fortemente impegnati nella ricostruzione del paese devastato dal conflitto e quindi, legittimamente e comprensibilmente, protesi alla ricerca di sostegni economici, in particolare dagli Stati Uniti, e di commesse militari all'industria italiana da parte della nuova Germania dell'ovest.
In merito agli elementi da cui si può dedurre il coinvolgimento e la specifica responsabilità politica sulla vicenda, oltre alle già citate missive tra Taviani e Martino del 1956, vi è un ulteriore e corposo carteggio, tra cui si può annoverare la corrispondenza di Andreotti, degli anni
1962-1963, relativa alla vicenda Leibbrand e quella del 1965 con Santacroce, relativa ai casi di crimini rimasti impuniti.
Va inoltre rilevato un dato di non secondario rilievo, ovvero il fatto che più Governi, di diversa composizione, hanno affrontato in maniera assolutamente conforme la questione, almeno fino al 22 gennaio 1971, data dell'ultima comunicazione agli atti della Commissione di inchiesta, giacché tutte le compagini governative susseguitesi si sono scrupolosamente attenute alla consegna del silenzio, nonostante la conoscenza delle carte.
Del resto è evidente, così come è stato dichiarato da autorevoli esponenti politici dell'epoca, nonché da alcuni magistrati militari, nel corso delle audizioni, che non è verosimile attribuire la mancata celebrazione dei processi alla esclusiva responsabilità dei magistrati militari, tanto più in considerazione del fatto che, prima della riforma dell'ordinamento giudiziario militare del 1981, la giustizia militare non godeva della stessa indipendenza di quella ordinaria, priva come era anche, sino al 1988, di un organo di autogoverno e di controllo quale in seguito è stato il CMM, la cui mancanza era stata fortemente stigmatizzata dalla Corte costituzionale.
L'archiviazione provvisoria del 14 gennaio 1960, pur configurandosi come un provvedimento abnorme e palesemente contrario alla legge, rappresenta solo un passaggio nella politica dell'occultamento e della volontà politica e della magistratura militare di non celebrare i processi. Si è peraltro già detto di questa sorta di contiguità tra il mondo politico e la giurisdizione militare, che appare ancor più netta sulla scorta di alcuni documenti particolarmente significativi, quali la lettera del procuratore Mirabella, con la quale egli esterna, in maniera del tutto inopportuna, il suo plauso alla decisione di Taviani e Martino (si ricordi che Mirabella aveva giurato fedeltà alla RSI) di non dare corso ad una richiesta del proprio ufficio; o ancora il documento, emblematico della posizione di Santacroce, nel quale egli dà conto del fatto di conoscere la giurisprudenza che escludeva dal novero dei reati politici quelli contro gli usi di guerra; o infine l'ordine di servizio e l'attività successiva riguardanti le cosiddette «archiviazioni in blocco» dei procedimenti nei confronti di ignoti, negli anni 1965-1968, dal quale si evince in maniera netta la subalternità dei sostituti e la determinazione del procuratore generale.
Per quanto riguarda il periodo successivo alla riforma dell'ordinamento giudiziario militare, è evidente che, se da un lato non può ritenersi che la magistratura militare possa andare esente da attribuzione di responsabilità per aver mantenuto occultati i fascicoli e non aver proceduto alla celebrazione dei processi, dall'altro detto atteggiamento di chiusura ed autoreferenzialità va ricondotto ad una sorta di autotutela contro le conseguenze negative che, su vari piani, la riesumazione dei fascicoli dopo tanto tempo avrebbero certamente provocato.
Per quanto riguarda la vicenda relativamente al periodo successivo al rinvenimento dei fascicoli nel 1994, è emerso indubitabilmente che nella gestione di detta attività, compiuta in assenza della necessaria attenzione e trasparenza, vi è stata una sottovalutazione burocratica, sia con riferimento alla mancata redazione di verbali di ricognizione dei luoghi e di rinvenimento del materiale, nonché alla mancata catalogazione, non solo dei fascicoli, ma anche del carteggio sparso, che la delicatezza del caso avrebbe imposto; sia per non aver avvertito la necessità di informare tempestivamente del ritrovamento il CMM, il Ministero della difesa e le Camere; sia ancora per non essersi posti il problema della ricerca delle responsabilità dell'omesso invio dei fascicoli alle competenti autorità giudiziarie.
Inoltre, non può essere sottaciuto che nella stessa attività di disamina dei fascicoli si registrano ritardi e lentezze non facilmente giustificabili. Ed infatti non vi è dubbio che essa avrebbe richiesto la massima tempestività per evitare che altro tempo venisse perduto: basti pensare che alcuni fascicoli ritrovati nel giugno 1994 sono pervenuti alle competenti procure territoriali anche dopo un anno e mezzo,
senza che la Procura generale e la procura presso la corte d'appello informassero tali uffici di sicura destinazione dei procedimenti dell'emergenza cui potevano andare incontro, e organizzassero incontri e riunioni tra i capi degli uffici, finalizzate anche a predisporre un'adeguata richiesta al ministero di mezzi e uomini (quali ufficiali di polizia giudiziaria ed interpreti), che avrebbe consentito di affrontare l'imprevisto afflusso dei fascicoli ed evitare ulteriori ritardi nella trattazione.
In ultima analisi, signor presidente, onorevoli colleghi, si può concludere affermando che al lavoro della Commissione ed ai risultati conseguiti è possibile e doveroso attribuire non solo una valenza ricostruttiva - che ha consentito di fare piena luce su una vicenda tanto complessa e dolorosa - ma anche un più profondo significato di monito, finalizzato all'instancabile perseguimento nella ricerca della giustizia e della verità.
Presidente, colleghi, ho concluso questa mia relazione introduttiva: deposito agli atti anche la relazione allegata, che fa parte integrante e sostanziale della presente relazione.
PRESIDENTE. La ringrazio, onorevole Carli.
ALBERTO ZORZOLI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Prego, senatore Zorzoli.
ALBERTO ZORZOLI. Vorrei chiedere al collega Carli alcuni chiarimenti su due passaggi specifici, di cui forse ho perso il filo. Mi riferisco, innanzitutto, al passaggio in cui l'onorevole Carli ha fatto riferimento ad accordi segreti con Bonn. Si possono rintracciare o si tratta di una sua novazione? Lo chiedo per capire come valutarli.
In secondo luogo, l'onorevole Carli ha affermato che l'Italia aveva ottenuto di processare i tedeschi ma non li ha più processati. Certamente, leggerò la relazione e ricostruirò questo passaggio, tuttavia mi chiedo: come ha fatto ad ottenere di processare i tedeschi, dato che valeva la Convenzione del 1942, rinnovata nel 1953?
Mi basta un accenno di risposta, onorevole Carli; se vuole, può anche rispondermi nel prosieguo dell'esame della relazione.
PRESIDENTE. Avverto che la proposta di relazione illustrata dall'onorevole Raisi e quella di minoranza illustrata dall'onorevole Carli sono pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Avverto, altresì, che l'ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, si farà carico di proporre alla Commissione gli opportuni provvedimenti in tema di modifica del regime di classificazione dei documenti acquisiti dalla Commissione stessa. Dichiaro conclusa la seduta.
La seduta termina alle 0.55 di mercoledì 25 gennaio 2006.
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