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Seduta del 5/10/2005


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Audizione del dottor Giovanni Di Blasi, magistrato militare in quiescenza.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Giovanni Di Blasi, magistrato militare in quiescenza. Invito il dottor Di Blasi ad esporre quanto di propria conoscenza in merito alle tematiche oggetto dell'inchiesta parlamentare.

GIOVANNI DI BLASI, Magistrato militare in quiescenza. Sono al corrente che la Commissione parlamentare d'inchiesta si occupa delle indagini sui crimini commessi dai tedeschi in Italia nel periodo tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Mi sono occupato personalmente degli incartamenti di numerosi casi, nel periodo che intercorre esattamente tra ottobre-novembre del 1958 e gennaio del 1960. Me ne sono occupato e posso anche precisare le date, perché ho dei riferimenti precisi in relazione alla mia carriera. Tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre del 1958, fui trasferito dalla procura militare di Milano, quale sostituto procuratore militare, a quella di Roma, con le stesse funzioni di pubblico ministero.
Il procuratore militare dell'epoca, dottor De Renzis, mi comunicò di avere ricevuto l'incarico dal procuratore generale militare, dottor Enrico Santacroce, di interpellarmi sul punto, per chiedermi se gradissi essere preposto all'ufficio studi della procura generale militare. Aderii a questo invito, con gradimento, in quanto lo ritenevo interessante. D'altra parte, mi sembrava che, essendo stato interpellato, fosse per me lusinghiero prendere servizio presso la procura generale militare, tanto più che all'epoca avevo solo 35 anni.
Naturalmente, non potevo avere le stesse funzioni dei magistrati della procura generale militare. Si trattava, infatti, di funzioni di legittimità, mentre io appartenevo ancora alla categoria dei magistrati con funzioni di merito.
Quando mi recai presso la procura generale militare, il procuratore precisò che sarei rimasto nell'organico della procura militare di Roma, presso la quale avrei continuato saltuariamente ad esplicare le mie funzioni, soprattutto in udienza come pubblico ministero, ma al contempo mi sarei dovuto occupare di quattro specifici temi presso l'ufficio studi. Aggiunse anche che tale ufficio era un'entità informale della procura generale militare, in quanto non esisteva nell'organigramma. Mi riferì, altresì, il motivo per cui aveva costituito l'ufficio: vi erano alcune pratiche - di quattro tipi - che esulavano dalla competenza e dalle funzioni tipiche dei magistrati della procura generale militare.
Innanzitutto bisognava compilare un testo di codice penale militare di pace, ad uso dei candidati al concorso di uditore giudiziario militare. Compilai il testo nell'arco di un paio di mesi, come lavoro suppletivo alle altre incombenze che mi venivano affidate. Il procuratore aggiunse, inoltre, che mi sarei dovuto occupare dei problemi della NATO per una particolare categoria di questioni, che potrei precisare. Infine, mi disse che mi sarei dovuto interessare di questioni riguardanti cittadini jugoslavi e militari tedeschi.
Immagino di dover riferire limitatamente all'argomento riguardante i tedeschi. In pratica, avrei dovuto riordinare, dare una sistemazione organica e razionale...

ENZO RAISI. Scusi se la interrompo, ci interessa anche la questione riguardante i cittadini jugoslavi.

PRESIDENTE. Parliamo di tutti i punti dei quali si è occupato, dottor Di Blasi.


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GIOVANNI DI BLASI, Magistrato militare in quiescenza. Posso anche fornire la relativa documentazione. Il codice penale militare di pace che compilai nel 1959 - è utile che ve ne parli, perché se ne occupò un particolare comitato - non doveva contenere note giurisprudenziali né riferimenti di dottrina, e doveva prevedere poche note normative. Il testo fu esaminato da uno speciale comitato informale, costituito dal procuratore generale militare, dal procuratore militare addetto, dottor Ugo Foscolo, e da me, che riferivo sull'andamento dei lavori. Ho portato con me una delle due copie che il procuratore generale militare mi diede come dotazione personale, in riconoscimento del servizio che avevo prestato. Se necessario, posso depositarla.
In seguito, mi occupai dei problemi della NATO. Preciso che, sebbene l'Italia fosse entrata a far parte della NATO, rimanevano in sospeso ancora molte questioni, una delle quali riguardava le cosiddette installazioni militari o infrastrutture militari. Si trattava di concordare un regolamento fra i paesi membri della NATO, per l'attuazione del cosiddetto statuto di Londra, che derivava dalla convenzione di Londra del 1951.
In pratica, vi erano distaccamenti militari di alcuni paesi della NATO che si trovavano in territori di altri paesi membri. Soprattutto, formazioni militari di varie armi (esercito, marina e aeronautica) degli Stati Uniti d'America erano stanziate nei paesi europei, in Germania, ad esempio, ma anche in Italia. Esistevano, altresì, alcuni comandi in Francia (lo stesso Shape, il comando europeo) e installazioni militari in Grecia, in Turchia e in Italia (ad esempio, presso l'aeroporto di Sigonella, mentre a Gaeta e Napoli vi erano comandi militari navali).
Si trattava di stabilire i rapporti gerarchici, quelli di subordinazione e la sorveglianza. Noi eravamo favoriti avendo l'Arma dei carabinieri che fungeva - e funge tuttora - da arma militare e da polizia giudiziaria, in particolare polizia giudiziaria militare.
Lo statuto di Londra prevede anche il problema della giurisdizione. Esisteva, ed esiste tuttora, la cosiddetta giurisdizione della bandiera, secondo la quale un corpo militare rientra nella giurisdizione del paese a cui appartiene. Si potevano verificare, tuttavia, anche eventuali infrazioni che esulavano da quelle tipicamente militari, in relazione ai compiti della NATO, un incidente stradale ad esempio. In questo caso era necessario stabilire le modalità da seguire per portare a conoscenza, anche dell'autorità giudiziaria ordinaria, queste infrazioni. In Italia, alcune sentenze della Corte di cassazione hanno regolato il problema.
All'epoca facevo parte di un comitato italiano che aveva anche contatti esterni, e si organizzavano riunioni sia in Italia sia all'estero, alle quali partecipavo insieme ad un ufficiale del SIFAR (l'allora Servizio di informazioni).
Mi sono informato se mi sia consentito fare il nome di questo ufficiale, dal momento che costui apparteneva al Servizio di informazioni e mi è stato risposto affermativamente. Si trattava del maggiore dei carabinieri dottor Gianfranco Rossi Mossuti, laureato in giurisprudenza, quindi preparato giuridicamente su questi argomenti. Come ho detto, partecipavamo insieme alle riunioni interne e internazionali. Ricordo, in particolare, una seduta a Londra piuttosto interessante, in cui vennero dibattuti questi argomenti.
Riferivo al procuratore generale militare sull'esito del nostro lavoro, poi il rapporto veniva consegnato dal maggiore Rossi Mossuti al comando dal quale dipendeva. Personalmente non ne conoscevo nemmeno la dislocazione, trattandosi di una sede segreta. Eravamo entrambi forniti del visto di segretezza, che all'epoca veniva detto «Cosmic», grazie al quale potevamo accedere ai segreti riguardanti la difesa militare.
Questo primo compito si svolse in varie sedute, durante l'intero periodo della mia permanenza all'ufficio studi della procura generale militare.
Vi era, poi, un'attività che esulava dai compiti ora descritti riguardanti il codice


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penale militare di pace e le riunioni in ambito NATO, un'attività di studio e di ricerca, che svolgevo su richiesta del procuratore generale militare, relativa ad eventuali pareri che fossero stati richiesti da altri organismi, da enti militari e non, in particolare a proposito della posizione dei corpi militari (come, ad esempio, il Ministero di grazia e giustizia, per il corpo degli agenti di custodia, che all'epoca erano militari, il Ministero dell'interno, per gli agenti di pubblica sicurezza, anch'essi militari, il Ministero delle finanze per la guardia di finanza, che era ed è militare). Tali pareri venivano richiesti anche da altri ministeri, soprattutto degli affari esteri e di grazia e giustizia, in riferimento a problemi giudiziari.
Si poneva inoltre il problema dei cittadini jugoslavi e dei militari tedeschi. Questa fu la parte più importante del lavoro che svolsi durante la mia permanenza in quell'ufficio. Quanto ai cittadini jugoslavi, notammo subito che, non trattandosi di militari, eventuali procedimenti giudiziari nei loro confronti non avrebbero potuto essere di competenza dell'autorità giudiziaria militare. Ad ogni modo, esisteva un elenco di nomi di cittadini slavi, di cui si doveva stabilire l'identità.
Ebbi vari incontri presso lo stato maggiore della difesa, dove si trovava una copia dell'elenco. Si stabilì, alla fine, di interessare il comando generale dell'Arma dei carabinieri affinché svolgesse delle indagini, in quanto noi direttamente non potemmo trovare nessun elemento che consentisse di individuare eventuali responsabilità, né di identificare i soggetti. Questo problema venne risolto abbastanza rapidamente, in quanto non presentava aspetti particolari.
La questione più importante fu quella riguardante i fascicoli. Li definisco così, sebbene all'epoca non si trattasse di fascicoli, ma lo sono diventati in seguito. Si trattava di una notevole quantità di atti sfusi, in gran parte disordinati, che bisognava catalogare, sistemare e unificare razionalmente, in modo da renderli atti utili agli effetti giudiziari.
Espletavo questo lavoro prevalentemente nel pomeriggio; di mattina, infatti, date le altre incombenze, non riuscivo a occuparmene. Specifico che avevo una stanza piuttosto piccola, perché l'ufficio non aveva una ragion d'essere precisa, ma era un'aggiunta rispetto agli uffici già esistenti. Pregai la cancelleria di portarmi gli atti in questo ufficio. Anzi, mi correggo, in un primo tempo pregai la cancelleria di prendere questi atti dal locale in cui si trovavano (locale che andai a visitare e che non era, come qualche volta veniva definito, uno scantinato) e di portarli nell'archivio, che si trovava in fondo al corridoio principale della procura generale militare. La cancelleria, però, mi rispose che nell'archivio non c'era posto. A quel punto, pregai di avere un mobile in cui custodire questi atti e venne portata nel mio ufficio della mobilia in cui i documenti vennero sistemati con molta approssimazione. Impiegai tutto il tempo in cui prestai servizio alla procura generale militare per metterli a posto.
Devo precisare che il comitato a cui ho fatto riferimento si interessò sia del codice militare penale di pace sia del problema dei tedeschi. Della questione, quindi, eravamo al corrente in tre: il procuratore generale militare, Enrico Santacroce, il dottor Ugo Foscolo procuratore militare addetto - diventato, dopo la morte di Santacroce, procuratore generale militare - ed io. Nessun altro magistrato militare sapeva dell'esistenza di questi fascicoli.
D'altra parte, non c'era ragione di parlarne. Li consideravo solo un lavoro che dovevo espletare, senza bisogno di comunicare con altri. Gli atti erano numerosi e furono sistemati all'interno di alcune cartelle di cui, dopo 50 anni, mi è difficile ricordare il colore, ma mi sembra che fossero di colore grigio scuro. La cancelleria le approntò e io vi misi gli atti, ordinati, selezionati, sistemati razionalmente, suddivisi a seconda dei nominativi e dei fatti, per eventuali concorrenti nel medesimo reato, in modo che potessero costituire il presupposto per eventuali azioni giudiziarie.


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Ogni tanto il comitato si riuniva, solitamente nel pomeriggio e nel mio ufficio, in quanto questi atti non potevano essere spostati. Si prendeva in esame il lavoro compiuto, lo si commentava e, quasi sempre, lo si approvava.
Espletai questo lavoro per tutto il periodo che trascorsi in quella sede, dato il gran numero degli atti. Non ricordo esattamente quanti fascicoli furono costituiti, ma erano moltissimi. La questione era stabilire cosa farne. Naturalmente i fascicoli avrebbero dovuto essere trasmessi agli uffici giudiziari competenti, ma sorsero diversi problemi, sui quali riferirò ampiamente (al riguardo, presento la relativa documentazione). Innanzitutto, la maggior parte dei militari non erano identificabili, erano ignoti, quindi riusciva difficile stabilire la connessione tra i fatti e i soggetti che li avevano compiuti. Fu una difficoltà di carattere materiale, che venne superata con un criterio razionale, necessario per dare una sistemazione agli atti.
Ulteriori problemi si presentarono quando il comitato decise, sulla base di una proposta del procuratore generale, di dare una sistemazione provvisoria ai fascicoli, in attesa di un ulteriore sviluppo delle pratiche, dell'iter successivo, per poterli poi esaminare uno ad uno ed inviarli alle procure militari competenti.
Premetto che, laddove si trattava di ignoti, ci chiedevamo addirittura se gli atti dovessero essere mandati alle procure militari o all'autorità giudiziaria ordinaria, trattandosi di nomi e non di soggetti militari identificati.
Discutemmo a lungo su questo argomento, ma alla fine, mettendo in relazione gli eventi e intervenendo la circostanza che tali azioni non avrebbero potuto essere compiute che da militari tedeschi, convenimmo sulla scelta di trattenere i fascicoli nell'ambito della giurisdizione militare, anche se gli autori rimanevano ignoti.
Discutemmo a lungo sulla proposta dell'archiviazione provvisoria avanzata dal procuratore generale militare (ho raccolto del materiale normativo che spiega quanto sto per dire). Sapevamo, dal momento che era il nostro mestiere, che l'archiviazione provvisoria in campo giudiziario non esiste. O si procede all'esercizio dell'azione giudiziaria, oppure all'archiviazione che, fino al 1944, poteva essere adottata dal pubblico ministero, ma successivamente solo dal giudice istruttore e, per quanto riguardava la giurisdizione militare, dal giudice istruttore militare. Quindi, la formula di archiviazione provvisoria non aveva un senso preciso; anzi, possiamo dire che aveva un significato limitato all'attività interna dell'ufficio della procura generale militare, ma nessuna rilevanza giuridica. Questo provvedimento, non avendo rilevanza esterna, non avrebbe potuto costituire un oggetto di impugnazione, e non era neanche un atto amministrativo che potesse essere impugnato davanti al giudice amministrativo.
Di conseguenza, nel momento in cui adottavamo questo provvedimento, eravamo coscienti del fatto che l'atto non era previsto dal diritto: era un atto completamente informale. Nonostante questo, il procuratore generale militare affermò che bisognava sistemare le carte, catalogarle, classificarle, in modo da addivenire in seguito allo sviluppo necessario per l'esercizio dell'azione penale.
Per quanto riguarda la materialità del mio lavoro, questo fu il mio compito. Trattando la questione emersero anche problemi di carattere giuridico, per spiegare i quali devo andare indietro nel tempo. Fin dal 1945 si era posto il problema - più in campo politico che giudiziario, e anche in campo politico internazionale - di come agire quando si fosse trattato di valutare i crimini commessi dai militari tedeschi in Italia, come del resto altrove (in Francia o in Olanda, per esempio).
Si tennero riunioni interne ed internazionali, naturalmente di carattere politico di alto livello - a queste riunioni partecipò, a quanto seppi, il procuratore generale militare dell'epoca, dottor Umberto Borsari - in cui si stabilì che ci dovesse essere uno scambio informativo tra gli uffici giudiziari militari e la Commissione alleata di controllo.


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Vorrei precisare che la Commissione alleata di controllo, fin dalla sua origine (nel 1943, mi pare), fu un organismo delle Nazioni Unite. Tuttavia, quando il Governo militare alleato si stabilì in Italia, ne assorbì le funzioni. In definitiva, dunque, si verificò un passaggio di competenze in ambito alleato, che non riguardava il nostro paese.
La Commissione alleata e il Governo militare alleato svolgevano delle inchieste, secondo le formalità proprie dei riti dei paesi ai quali appartenevano le Forze armate. Devo dire che, per quanto potemmo comprendere, questi riti erano estremamente sommari, in quanto l'inchiesta veniva svolta anche da sottufficiali, da sergenti.
Le inchieste si svilupparono quando, crollato il fronte italiano - la resa dei tedeschi fu proclamata, se ben ricordo, il 29 aprile 1945 a Caserta -, i militari tedeschi furono fatti prigionieri di guerra. Qui sorse un problema ulteriore: secondo il codice penale militare di guerra (articolo 13, mi pare), i militari tedeschi potevano essere processati da noi non in quanto militari, ma in quanto militari nemici. In seguito alla dichiarazione di guerra dell'Italia alla Germania, nell'ottobre del 1943, i militari tedeschi erano nemici nel nostro paese e potevano essere processati solo come tali. Essendo nemici, dunque, se fossero stati consegnati all'Italia, sarebbero diventati automaticamente prigionieri di guerra.
Questa nozione si ricava pacificamente da tutta la legislazione e da tutta la dottrina - scarna, per la verità - in materia. Un manuale del 1930, redatto da Pietro Di Vico, all'epoca procuratore generale, metteva in luce proprio ciò, sostenendo che la condizione di prigioniero di guerra è uno stato di fatto, non di diritto. In altre parole, il militare nemico che cade nelle mani della potenza cosiddetta detentrice, diventa automaticamente, per il solo fatto di trovarsi in cattività, prigioniero di guerra.
La nostra prima riflessione fu che se ci fossero stati consegnati i militari tedeschi, avremmo dovuto considerarli prigionieri di guerra. Tale circostanza è confermata anche da ciò che avvenne: i processi che furono celebrati, in particolare nei confronti di Herbert Kappler e Walter Reder, furono processi contro prigionieri di guerra. Lo stesso avvenne per Wagner, e altri ancora.
L'indirizzo del Governo militare alleato, che in realtà ci aveva sconfitto, era quello di processare i capi militari, ma non i militari di basso rango. Ad ogni modo, questi militari non ci furono consegnati. I comandi militari alleati, dopo aver espletato le indagini, li liberarono; noi, dunque, non sapevamo se questi militari fossero stati già processati dagli alleati. Tutto questo a causa di una normativa adottata in quell'epoca - che allego -, secondo la quale le sentenze dell'autorità militare alleata avevano la stessa efficacia di quelle italiane. Non sapendo, quindi, se questi militari fossero stati processati, e magari liberati in quanto prosciolti dai crimini loro ascritti, saremmo potuti incorrere nel cosiddetto ne bis in idem, ossia nel rischio di ripetere un giudizio già espresso e di andare contro l'ordinamento giudiziario.
Su questo punto, nonostante le indagini, non ottenemmo alcun chiarimento. Per ottenere qualche informazione al riguardo, ci avvalemmo del maggiore Rossi Mossuti, appartenente al SIFAR, che io stesso misi al corrente della situazione attraverso una relazione. Il maggiore mi assicurò che avrebbe interessato il SIFAR, affinché ci fornisse notizie in merito alla posizione dei militari rilasciati a nostra insaputa e, senza che nulla ci venisse comunicato al riguardo, evidentemente prosciolti dagli addebiti sollevati nei loro confronti dagli stessi comandi militari alleati.
Ci trovammo, quindi, di fronte ad un'innumerevole quantità di casi di militari tedeschi denunciati in vario modo, nella maggior parte dei casi ignoti, che erano stati prigionieri di guerra degli anglo-americani e poi rilasciati - evidentemente in quanto prosciolti dagli addebiti che erano stati loro sollevati -, nonostante


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il fatto che i comandi militari alleati avessero detto che saremmo stati noi a doverli processare.
Un ulteriore criterio, che prendemmo in considerazione per valutare la posizione di quei militari, fu l'estradizione. Essendo tutti i militari apparentemente rimpatriati - in realtà, è noto che molti di loro si trasferirono all'estero, come era avvenuto per Erich Priebke -, sapevamo che non sarebbero mai stati estradati, in funzione della convenzione italo-germanica del 1942.
Tale convenzione, decaduta in quanto la Germania era in stato di capitolazione e di conseguenza tutti i suoi atti normativi e i rapporti esterni erano decaduti, era stata rimessa in vigore nel 1953, con uno scambio di note intercorso tra il Ministero degli affari esteri italiano e le autorità diplomatiche della nuova Repubblica federale tedesca. I tedeschi, dunque, non sarebbero mai stati estradati in Italia a causa del divieto, del resto reciproco, dell'estradizione del cittadino. Intervenne anche la convenzione europea di estradizione che, sebbene approvata in Italia nel 1963, era stata stipulata a Parigi nel 1957 ed era in corso di approvazione, anche da parte dell'Italia, la legge di ratifica. Erano numerosi, dunque, i motivi per ritenere che i militari tedeschi non avrebbero potuto mai essere estradati in Italia.
In ultima analisi, ci trovavamo di fronte a militari tedeschi, potenzialmente prigionieri di guerra, in gran parte ignoti, non identificabili, ipoteticamente ritornati in patria e non estradabili in Italia.
Sapevamo, inoltre, che in Germania erano stati avviati procedimenti contro militari tedeschi per fatti di vario genere, anche accaduti in Italia, e ciò rappresentava un ulteriore motivo di perplessità riguardo all'esito di tali pratiche. Ci saremmo trovati, infatti, di fronte ad eventuali pronunzie dell'autorità giudiziaria tedesca, nei confronti di quegli stessi soggetti che avrebbero potuto essere processati da noi. A questo proposito, devo precisare che quelle sentenze non sarebbero state di ostacolo in quanto non efficaci in Italia, diversamente dalle sentenze dei comandi militari alleati.
I comandi militari alleati processarono i principali comandanti in Italia, tra cui il maresciallo Kesserling, il generale Von Mackensen, il generale Meltzer e il generale Simon. Kesserling era il capo delle Forze armate germaniche in Italia; il generale Von Mackensen comandava - non ricordo con quale carica, ma sicuramente molto importante - una parte delle Forze armate germaniche; il generale Meltzer comandava la piazza di Roma; il generale Simon era il comandante della divisione della quale aveva fatto parte Reder come comandante di battaglione per i fatti di Marzabotto (più specificatamente potrebbero essere definiti di Sant'Anna di Stazzema, dal momento che in quella zona avvennero le maggiori perdite).
Gli alti gradi, dunque, furono processati direttamente dai comandi militari alleati. In un primo momento furono condannati alla pena di morte, poi la pena fu convertita e riacquistarono la libertà in breve tempo, all'incirca nel 1952 (ad eccezione del generale Meltzer, per il quale era in corso il provvedimento di liberazione ma morì in carcere per una malattia).
Ho prodotto una documentazione, in cui innanzitutto ho indicato, qualora fosse necessaria, la mia posizione all'epoca dei fatti. Come ho detto, sono in grado di precisare i termini temporali della mia posizione perché...

PRESIDENTE. Dottor Di Blasi, scusi se la interrompo...

GIOVANNI DI BLASI, Magistrato militare in quiescenza. Prego. Lei mi ha detto di riferire quello che sapevo.

PRESIDENTE. Il problema è che, purtroppo, non essendo presente nessuno dei due vicepresidenti che possa sostituirmi ed avendo io un impegno indifferibile, sono costretto a sospendere la seduta.


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GIOVANNI DI BLASI, Magistrato militare in quiescenza. Lascio il materiale.

CARLO CARLI. Propongo di acquisire il materiale che il dottor Di Blasi ha a disposizione.

PRESIDENTE. Acquisiamo il materiale ed aggiorniamo la seduta alla settimana prossima.

GIOVANNI DI BLASI, Magistrato militare in quiescenza. Ho inserito i trattati di estradizione, la normativa del tempo di guerra e quella del codice penale militare di guerra.

PRESIDENTE. Sta bene. Ringrazio il dottor Giovanni Di Blasi e rinvio il seguito dell'audizione ad una successiva seduta.

La seduta termina alle 21,35.

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