![]() |
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'audizione del senatore a vita Giulio Andreotti in merito alle tematiche oggetto dell'inchiesta parlamentare. Do la parola ai colleghi che desiderano rivolgere domande, cominciando dal senatore Vitali.
WALTER VITALI. Presidente Andreotti, devo innanzitutto ringraziare i colleghi che mi hanno consentito di anticipare l'intervento per altri impegni che ho a Bologna oggi, purtroppo legati ad una circostanza luttuosa che ha colpito la nostra città, la morte dell'ex sindaco Renzo Imbeni.
Intervengo nuovamente per rivolgerle alcune domande, in particolare su alcuni fatti nuovi che sono emersi e sui quali, cogliendo ancora una volta la sua disponibilità, vorrei chiedere quale opinione si sia formato.
La prima questione riguarda un periodo nel quale lei era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, nel momento in cui Alcide De Gasperi era anche ministro degli esteri. Mi riferisco, cioè, all'aprile 1953. Lei ricorderà che, nel corso delle precedenti audizioni, abbiamo fatto riferimento all'accordo tra Italia e Germania sull'estradizione, datato 12 giugno 1942, che poi sarà modificato soltanto negli anni ottanta. Il 1o aprile 1953 il Ministero degli esteri, con uno scambio di note con l'ambasciata italiana in Germania, provvedeva a dare nuova vigenza al trattato sull'estradizione tra i due paesi firmato, come ho ricordato, il 12 giugno 1942. Nel fare questo, i due paesi provvedevano ad approvare una clausola che poneva un limite insormontabile all'estradizione di cittadini tedeschi in Italia: infatti, veniva abrogato il paragrafo 2 dell'articolo 4, che escludeva che si potesse rifiutare l'estradizione di un cittadino che avesse commesso un reato, anche di natura politica, qualora fosse un reato doloso contro la vita.
Poiché questa modifica apportata nel 1953 del trattato del 1942 rese successivamente più difficili le richieste di estradizione di tedeschi presunti criminali di guerra da parte dei tribunali italiani, le chiedo se ricordi che tipo di discussione si verificò a proposito di questo punto specifico e, se la discussione vi fu, se si prese in esame anche il tema dei tedeschi presunti criminali di guerra in Italia.
GIULIO ANDREOTTI. No, non ricordo affatto questo provvedimento. Posso però controllare nei verbali del Consiglio dei ministri se se ne è parlato in quella sede. Questo posso farlo senz'altro. Ma si tratta di un provvedimento che non ricordo affatto, di cui non mi sono occupato direttamente.
WALTER VITALI. La ringrazio, presidente. Credo sia opportuno che la Commissione proceda a fare la verifica da lei citata, perché penso sia importante verificare se, su questo punto, all'epoca vi fu una discussione in sede di Governo.
L'altro elemento nuovo sul quale vorrei chiederle di esprimere un parere riguarda un prezioso lavoro svolto dal dottor Guido Salvini, consulente della nostra Commissione, a proposito di un fascicolo che si riferisce all'eccidio di piazzale Loreto, quello molto noto dell'agosto del 1944, che fu deciso dalle autorità tedesche di stanza a Milano e svolto secondo le consuetudini della rappresaglia, perché quindici prigionieri politici furono fucilati. Il dottor Salvini, nella sua ricerca, ha ritrovato un carteggio che si riferisce al marzo 1963, periodo nel quale lei era ministro della difesa. È un carteggio che si svolge tra il Ministero della difesa e la procura generale militare, cioè il dottor Santacroce. A proposito di questo fascicolo, il dottor Santacroce diede un'informativa ad un suo sostituto, il dottor Tringali. Questa informativa è molto precisa è indica già nel 1963 le responsabilità contenute nel fascicolo costruito nell'immediato dopoguerra. Il procuratore Santacroce, però, non ritiene di darvi seguito, e quindi vi è una risposta non positiva allo scambio di informative che il Ministero della difesa chiedeva.
Ma gli aspetti importanti sono due. In primo luogo, su questo episodio, proprio grazie al fascicolo che poi, dopo il 1994, fu inviato alla procura competente, fu celebrato il processo e l'autore fu condannato all'ergastolo. Quindi, si tratta di uno dei tipici casi di fascicoli ritrovati dopo l'occultamento nel 1994 che, inviati alla procura competente, ha dato luogo ad un processo con l'individuazione certa del responsabile. In secondo luogo, un altro elemento importate è la conferma che in quel periodo vi fu uno scambio di rapporti, una richiesta di informative, tra il Ministero della difesa e la procura generale. Lei, rispondendo ad una precedente questione che ho posto a proposito del 1965, ci disse che non aveva presente il fatto. Le chiedo se questo fatto riguardante piazzale Loreto le porti alla memoria qualcosa di diverso, se ricorda vi fosse stato anche prima del 1965, nel periodo in cui lei era ministro della difesa, un qualche scambio di questo genere, una qualche richiesta di chiarimenti su aspetti di questo tipo.
GIULIO ANDREOTTI. No, non ricordo e penso che, se fosse passato per le mie mani, cioè se si fosse trattato di qualcosa che avesse comportato una firma o una decretazione da parte mia, lo ricorderei. Quindi posso escluderlo. Però il Ministero della difesa le carte le ha, quindi si possono recuperare.
WALTER VITALI. Purtroppo si tratta di un problema, e colgo l'occasione per sottolinearlo anche a lei, che il presidente ha costantemente sollecitato: i nostri consulenti, e quindi, di conseguenza, la Commissione, si trovano in una qualche difficoltà ad accedere agli archivi, soprattutto quelli del SISMI e del Ministero della difesa. Credo, quindi, che anche questa audizione debba aiutarci a superare ogni tipo di ostacolo perché, come lei dice giustamente, è difficile basarsi su ricordi personali su materie così complesse, ed è opportuno avere accesso pieno agli archivi.
A questo proposito, un altro nostro consulente, il professor Klinkhammer, ci ha segnalato un fatto di qualche significato. Lei ricorda che già nella prima audizione parlammo del 1965, cioè il momento in cui la Germania si apprestava a fissare la prescrizione a vent'anni per i criminali di guerra nazisti e quindi chiese all'Italia se esistevano documenti in nostro possesso che potevano consentire di perseguire determinate situazioni.
Non voglio ritornare sul tema dello scambio di lettere che lei ha ricordato essersi svolto tra il suo gabinetto e la procura militare ma, basandomi su questo aspetto indicatoci dal professor Klinkhammer, le ricordo che si trattò di un fatto che fece clamore: se ne occupò la televisione italiana e anche i giornali - ho qui, per esempio, una copia del Messaggero del 26 maggio 1965 con un articolo intitolato «Le vecchie generazioni naziste a giudizio davanti ai giovani tedeschi in Germania dopo il differimento della prescrizione» - diedero risalto all'argomento, perché la cosa fece scandalo, essendo percepita come il tentativo, da parte della Germania, di fissare un termine di prescrizione troppo ravvicinato e quindi, sostanzialmente, di non perseguire gli autori di quegli eventi.
Pertanto, quello scambio di informative tra il suo gabinetto e il procuratore Santacroce cui abbiamo fatto riferimento nella precedente audizione avvenne in questo contesto. Le chiedo se questo le rammenti qualcosa o se, come immagino, lei giustamente ci chiede di accedere ai documenti.
GIULIO ANDREOTTI. Non rammento qualcosa di specifico, però vorrei ripetere che in tutta la mia esperienza di allora, nei contatti con i due ministri della difesa tedeschi e con altri personaggi sia del Governo sia dell'Interparlamentare tedeschi, ho sempre registrato non solo che non esisteva, da parte loro, un desiderio di mettere lo spolverino, ma anche che vi era una forte presa di distanza politica su quello che era stato il passato. Questa è la mia esperienza che ho fatto in moltissimi anni. Quindi, non conosco iniziative, né sono passate per le mie mani iniziative di questo genere, perché un problema di questo tipo, cioè la modifica dei termini di prescrizione, mi sarebbe rimasto impresso. Certamente no.
WALTER VITALI. Grazie, presidente. Non voglio abusare della sua pazienza e di quella dei colleghi e quindi mi occupo di un'ultima questione.
Torno su un argomento già discusso ampiamente, quello dei presunti criminali di guerra italiani in Jugoslavia. Nel corso delle due audizioni precedenti si è molto insistito sul tema dell'estradizione, ma in effetti, guardando meglio le carte, e in particolare il memoriale che porta il nome di Zotti del 1947 e al quale più volte ci siamo riferiti, in realtà la questione era già in qualche modo superata, nel senso che in quel memoriale - che poi lei vistò per il Presidente del Consiglio De Gasperi - non si parlava tanto della questione dell'estradizione, quanto piuttosto dei processi da celebrare in Italia nei confronti di questi presunti responsabili. Nel testo del memoriale, a proposito del famoso termine «temporeggiare», vi è in realtà un'indicazione che le leggo, per chiederle un'eventuale conferma: «I processi contro i presunti criminali di guerra italiani» - parliamo quindi dei processi da svolgere in Italia nei confronti di costoro - «si svolgerebbero, se fatti ora, contemporaneamente a quelli contro i presunti criminali tedeschi, che stanno per iniziarsi da parte dei tribunali militari italiani, e poiché le accuse che noi facciamo ai tedeschi sono analoghe a quelle che gli jugoslavi muovono contro gli imputati italiani, si creerebbe una situazione alquanto imbarazzante sia per i nostri tribunali sia per i riflessi internazionali che l'andamento dei vari processi potrebbe comportare. Il dar corso ai processi suindicati, quindi, mentre in un primo tempo almeno può dare a noi e agli alleati che volessero sostenerci un'arma per resistere alle richieste jugoslave, presenta tuttavia gli inconvenienti suaccennati quasi tutti, indubbiamente, gravi». Anche perché nel contesto del memoriale, si dice che si era preso contatto con i vari procuratori militari e ci si era resi conto che la predisposizione era a sentenze largamente assolutorie.
Le chiedo, quindi, se lei non ritiene, in relazione a questo punto specifico, quindi al di là della estradizione, che vi fosse anche una certa idea di non voler procedere nei confronti di costoro anche in tribunali italiani, sempre per quel problema del legame possibile con i tedeschi.
GIULIO ANDREOTTI. No, la tesi, essendo molto semplice, è tale che, se io l'avessi condivisa, lo ricorderei: è una cosa di cui non mi sono occupato.
Aggiungo che, per quello che io posso fare (non ho, ovviamente, i poteri della Commissione), ho cercato di vedere, poiché l'altro giorno è stata contestata l'onorificenza data a Santacroce, facendomela dare dalla cancelleria dell'Ordine, la documentazione contenente l'elenco di tutti coloro che l'hanno ricevuta. Per quanto riguarda i grandi ufficiali, si dice che, in occasione del collocamento a riposo... e c'è il nome di Santacroce, in questo contesto. Consegno senz'altro questo documento, che non ho ragione di conservare tra le mie carte.
PRESIDENTE. Prego, onorevole Banti.
EGIDIO BANTI. Presidente, vorrei tornare ancora una volta - mi scuso - a quell'atto del procuratore Santacroce del gennaio 1960, perché costituisce un po' l'atto fondamentale intorno al quale ruota tutta la nostra indagine. Lei ha già escluso con molta chiarezza che quell'atto diciamo inopinato e molto attardato dal punto di vista giuridico fosse stato messo a parte del Governo, in particolare del Ministero della difesa, anzi, addirittura che il Governo ne fosse stato in qualche modo informato.
Potrebbe essere immaginabile un ruolo, in questo contesto, della Presidenza della Repubblica di allora? Per essere più preciso, strutturo questa domanda generale in due sottodomande. Prima domanda: per quanto ricorda lei, era prassi, e comunque era possibile che vi fossero contatti, magari informali, tra la Presidenza della Repubblica - le strutture della Presidenza della Repubblica, se non direttamente il Presidente - e organi dello Stato senza che ne fossero informati i ministri competenti, qualora questi contatti si fossero avuti? Seconda domanda: impregiudicato il giudizio sulla scelta tecnico-giuridica del procuratore Santacroce, che potrebbe essere posta in capo esclusivamente alla sua responsabilità, il fatto di arrivare ad una forma di archiviazione provvisoria, e quindi diciamo di «insabbiamento» di quelle pratiche, potrebbe essere collocato in un contesto politico-istituzionale in qualche modo non dico gradito, ma di cui la Presidenza della Repubblica potesse essere parte, anche come moral suasion, come si usa dire oggi? Mi riferisco, in particolare, al clima politico-istituzionale di quei giorni. Nel gennaio 1960, come lei ricorderà, il Governo Segni è ormai al capolinea, nel senso che sono imminenti le dimissioni di un Governo che si poggiava, anche se in maniera non determinante, perché c'erano anche i voti dei liberali, anche sui voti dell'estrema destra, mentre non era immaginabile, in quel momento, il Governo Tambroni. Anzi, sui giornali del tempo si discuteva a lungo della cosiddetta apertura a sinistra, e infatti vi furono diversi tentativi di costituire governi con l'appoggio del Partito socialista.
Ricordo che vi fu la famosa e discussa visita in Unione Sovietica del Presidente Gronchi di lì a pochi giorni e, subito dopo, l'apertura della crisi per la decisione dei liberali di uscire dalla maggioranza. La storia ci dice che persone vicine al Presidente Gronchi consideravano i voti dell'estrema destra come si utilizza un taxi, nel senso che lo si prende e alla fine si paga la corsa. In questo senso, si potrebbe ipotizzare che, magari sulla base di contatti riservati e informali, un atteggiamento della procura militare di questo genere potesse essere considerato - naturalmente non in maniera ufficiale - come un modo per risolvere il problema del «fine corsa» rispetto ad un Governo che si era retto anche con i voti dell'estrema destra. Comunque, lo stile istituzionale della Presidenza della Repubblica con il Presidente Gronchi, con il potenziamento di uffici giuridici - penso all'ufficio grazia - e di intervento in attività dirette della giurisdizione, potrebbe fare immaginare un qualche contatto, quasi sicuramente informale, con il procuratore Santacroce?
GIULIO ANDREOTTI. Lei sa che i poteri dei Presidenti della Repubblica sono abbastanza elastici nella nostra Costituzione,
tant'è vero che sono interpretati diversamente di settennato in settennato. Ma per quello che riguarda specificamente la sua domanda, posso dare due atti della Presidenza della Repubblica di cui ho conservato copia, datati rispettivamente 12 settembre e 15 dicembre del 1970. Al Ministero ricevettero, e furono date a me, una serie di petizioni dalla Germania per chiedere la grazia a Kappler. Devo dire che ricevevano queste richieste di grazia, che mandavano al Ministero, ma queste poi non hanno avuto alcun seguito, nonostante risulti agli atti - come ho già detto l'altra volta, e voi dovreste averla - una proposta della procura generale militare di dare la grazia tramutando l'ergastolo negli anni che già erano stati scontati. Questo lo ricordo bene e l'ho riguardato nei giorni passati.
Da questa, che è una trasmissione di atti, per avere un parere sulla concessione di grazie diverse... Devo dirvi, anzi, che probabilmente accentuavano i rapporti diretti, perché mandando queste carte al Ministero della difesa, Ufficio centrale per gli studi giuridici e la legislazione, si mandavano copie di queste domande, rivolte da cardinali, da pastori protestanti, molta gente dalla Germania. Mentre, come ho detto l'altra volta, l'unica richiesta che ebbi nei confronti di un altro era stata del Cancelliere Kreisky, direttamente non ne ho avute; però dicevo: si prega di darne comunicazione direttamente agli interessati, quindi non rispondevo nemmeno direttamente da parte del Quirinale. Quindi, non mi risulta assolutamente che possa essere...
Per il resto, direi che fa parte della cronistoria la questione dei voti, degli appoggi. Non so se dobbiamo parlarne qui, forse c'entra poco, ma ci sarebbe da scrivere un libro sulle anomalie di quei giorni. La verità è che il Governo Tambroni nacque - questa è storia patria - perché Gronchi aveva ritenuto - uso un'espressione un po' curiale - di riuscire a far dare il voto di Nenni al Governo di Tambroni. C'è un documento molto importante su questo: la bozza delle dichiarazioni di Governo di Tambroni corretta dall'onorevole Nenni, il quale poi, però, andò al suo gruppo parlamentare, parlò di questo e ricevette questa risposta: non ci pensare neanche lontanamente... E così, tutto questo non ha avuto alcun seguito. Questo lo dico a titolo di contributo cronistorico, ma sono fatti sui quali «non ci piove», li ho vissuti personalmente. Per il resto, non ho altre cose da dire su ciò che lei mi domanda. Presidente, se interessano alla Commissione i documenti su chi faceva gli interventi di cui ho parlato, ve li posso dare, perché non è che a me interessi moltissimo conservare queste carte.
EGIDIO BANTI. Mi scusi, presidente, lei ha ragione, io ho fatto una domanda più di carattere storico; però una sottodomanda era più precisa. Vorrei sapere se lei ha ricordo, magari per averlo saputo dopo, di contatti della Presidenza della Repubblica, in quel periodo, con organismi relativi al Ministero della difesa, comunque al sistema della difesa, di cui non fosse informato il ministro competente.
GIULIO ANDREOTTI. Nel Ministero come tale direi di no, perché vi era una specie di prassi anche gerarchica nel senso che non si aggiravano i ministri; per quel che riguarda i servizi, direi di sì, nel senso che c'era una prassi, che poi creò anche qualche difficoltà, che i Presidenti della Repubblica avevano rapporti diretti con i capi dei servizi.
PRESIDENTE. La parola al senatore Pellicini.
PIERO PELLICINI. Presidente Andreotti, torno un po' indietro rivolgendo una domanda che è anche un po' una valutazione storica. Mi spiego meglio. La nostra indagine parte da un dato di fatto, che è storico ed esiste, e cioè dalla famosa missiva fra Taviani e Martino nella quale si diceva essere non utile, direi sconsigliabile, adottare una procedura di estradizione nei confronti di un comandante nazista imputato di crimini perché la Germania, a quell'epoca, era diventata un alleato, non era più il nemico.
In questi termini si possono comprendere sia la missiva di Taviani e Martino, sia il clima che si era venuto a creare, essendo notorio che lo stalinismo costituiva ormai un pericolo per tutta l'Europa libera e quindi la Germania, il nemico di ieri, stava diventando l'alleato di domani, se non di oggi.
Questo è il quadro, e da questo quadro muove poi tutta la serie di contestazioni a queste archiviazioni, a questi «imboscamenti» e a chi li ha voluti. Ma a questo punto vorrei tornare a parlare del confine orientale, aspetto che considero molto importante.
Nella ricostruzione storica di questo periodo, si parla soprattutto del fatto che non si sarebbe dato corso alle imputazioni degli italiani (mi riferisco all'esercito italiano dal 1941 al 1943, perché la Repubblica Sociale opera in Italia, sul fronte slavo, dal 1943 al 1945) connesse a crimini, affermati e mai dimostrati, che sarebbero stati commessi dall'esercito italiano nel periodo di occupazione 1941-1943. Se ne parla e abbiamo sentito pochi giorni fa, per la giornata del ricordo, che in definitiva le foibe, fenomeno a quei tempi rimasto occultato, sarebbero state una risposta eccessiva e deprecabile a queste atrocità commesse dall'esercito italiano in Jugoslavia in quegli anni. Questo è quanto è stato detto da esponenti della sinistra.
La domanda che le pongo, presidente, è se le risulta che ci fu mai qualcosa di concreto a carico dell'esercito italiano. Lei l'altro giorno ha detto che noi non abbiamo fatto le cose che hanno fatto i tedeschi, che noi italiani non eravamo imputati o imputabili di stragi. Quindi, vorrei sapere se le risulta che, al di là della propaganda di guerra (la Jugoslavia fu stalinista fino al 1948 e, con l'appoggio dei comunisti italiani, sosteneva certe atrocità, certi fatti), questi fatti siano accaduti, perché non si è proceduto e, in particolare, se, come sembrerebbe di capire vogliono affermare alcuni, il silenzio sulle foibe sarebbe stato in qualche modo concordato tra il Governo italiano e gli jugoslavi, e Tito, e non già una potenziale astensione per non metterci sul piano dei tedeschi.
È molto importante stabilire questo, perché sappiamo che le foibe sono state un fatto ignorato, taciuto anche perché il Partito comunista di allora aveva interesse a non dire nulla, essendo alleato con Tito (nell'occupazione delle terre dalmate eccetera). In altre parole, vorrei sapere se la leggenda delle atrocità italiane che sarebbero state il movente delle foibe ha un fondamento e se vi fu un'intesa governativa - ma non credo, perché so che De Gasperi fece il possibile con alcuni antifascisti famosi come Leo Valiani, che protestarono per la questione del confine ad Est - con l'allora Governo di Tito, ovviamente con l'avallo dei comunisti italiani.
GIULIO ANDREOTTI. Sono tre argomenti cui rispondo separatamente.
Ne avevo sentito parlare, ma l'altro giorno ho avuto dalla presidenza copia della lettera di Martino e della lettera di Taviani, che continuano ad impressionarmi negativamente. A parte che non corrispondeva a quello che era un indirizzo globale di Governo, anche dal punto di vista procedurale, se la conseguenza fosse stata addirittura l'atto per cui voi state facendo la ricerca, sarebbe ancora più inquietante, trattandosi di qualcosa di estremamente grave: mi riferisco all'atto di impedire di fare dei processi. Ripeto ancora che l'impressione precisa, non vaga, che avevo, era che i governanti tedeschi non avessero affatto questa tendenza a mettere lo spolverino, anzi, molte volte li ho trovati di una durezza - Strauss in particolare - molto accentuata.
Il secondo problema è quello che riguarda le foibe. Per quello che so, non penso assolutamente che ci sia stato un collegamento tra le presunte atrocità commesse dai nostri e il fatto gravissimo delle foibe. Questo, per tutti i libri che sono stati scritti, per la storia, fa parte di una storia difficilissima interna della Jugoslavia di quel momento: non solo le cose tradizionali tra croati e sloveni, ma tutta l'involuzione, o l'evoluzione (a seconda del
punto di vista), che si è avuta nel corso stesso della guerra. Presso di noi - dico noi in generale, come classe politica, di Governo - quando vennero fuori queste cose, che sono emerse molto dopo, non vi fu assolutamente un patteggiamento per dire «va bene, voi coprite una cosa, noi ne copriamo un'altra». La polemica non si è accentuata per due motivi, in primo luogo perché cercavamo di avere con il vicino (i problemi del Trattato di pace ormai erano stati quelli che erano) rapporti possibilmente non conflittuali, tenendo conto che la Jugoslavia svolse, in un certo senso, anche un certo ruolo, quello di sganciarsi dall'Unione Sovietica, essendo parte attiva del movimento dei non allineati. Questo, nell'economia generale di un contrasto molto forte Est-Ovest - peraltro, in alcune cose erano non allineati per modo di dire, perché per alcune cose erano allineati ad Est - era un indirizzo che andava caldeggiato (anche se è venuto fuori negli anni successivi, non nei primi anni del dopoguerra). In secondo luogo, farne un motivo di polemica politica contro i comunisti italiani sarebbe stato ingiusto, perché questi ultimi non c'entravano niente con le foibe. Inoltre, noi cercammo di non fare polemica su questi argomenti perché c'erano stati dei fatti gravissimi da parte degli occupanti fascisti, degli occupanti nazifascisti (fatti molto gravi, ricordo per tutti la risiera di San Saba).
Allora, certo, se uno guardava alla politica spicciola, la propaganda, il mettere ombre da una parte e dall'altra, qualcuno avrebbe potuto dire che ci giovava, ma a mio avviso sarebbe stato molto irresponsabile. Quindi, le polemiche che durano anche in questi giorni, in queste settimane, in cui si dice quasi che vi sia stato un disegno voluto, mi inducono a dire che non è così.
Per quanto riguarda, invece le responsabilità dei nostri - l'ho detto anche l'altra volta con chiarezza, perché è così - direi che se noi avessimo avuto dei sospetti sulla tendenziosità di alcune di quelle imputazioni, vedendo i primi nomi, il nome di Achille Marazza e degli altri, vedemmo che questo era assolutamente non fondato. Sono andato allora a guardare nel dibattito che si svolse nell'Assemblea costituente sull'articolo del Trattato di pace che obbligava a queste consegne, vedendo se qualcuno disse qualcosa per spingere a farlo o per spingere a non farlo. Ebbene, l'unico accenno che c'è è un passo, indirettamente citato l'altra volta qui, di un intervento di Gasparotto, che ha pronunziato questa frase: «Rinuncio a parlare di altre clausole che offendono il diritto e la stessa dignità umana, come l'amnistia ai soldati traditori e la consegna allo straniero dei criminali di guerra». Questo è l'unico accenno vero, perché poi c'è un accenno indiretto fatto da Sforza, ma è assolutamente indiretto e non influente agli effetti dell'approfondimento di questo tema.
PRESIDENTE. Prego, onorevole Stramaccioni.
ALBERTO STRAMACCIONI. Vorrei tornare sulla domanda del collega Guerzoni a proposito del rapporto, prima della fine della guerra e appena dopo, diciamo tra il 1944 e il 1946, tra gli angloamericani e i Governi di unità nazionale, i Governi ciellenisti.
In particolare, all'interno di questo rapporto, vorrei chiederle se, naturalmente nell'ambito dei suoi incarichi di governo, che immagino iniziati nel 1945...
GIULIO ANDREOTTI. No, nel 1947. Non mi retrodati (Si ride)!
ALBERTO STRAMACCIONI. Comunque, se, nell'ambito degli incarichi che ha avuto in quegli anni, ha saputo di interventi diretti, di sollecitazioni di vario genere, che gli angloamericani, e in particolare forse gli inglesi, militari o personalità, abbiano esercitato sul Governo per recuperare o impegnare in qualche modo nella nuova amministrazione dello Stato che si andava ricostituendo funzionari o esponenti, anche non di primo piano, della Repubblica sociale italiana. In particolare, le vorrei chiedere se era venuto a conoscenza di un eventuale reclutamento o
impegno di esponenti della Repubblica sociale italiana nell'opera di ricostituzione dei servizi di intelligence, dei servizi segreti.
Naturalmente, operazioni di questo genere potevano essere più comprensibili dopo il 1947, la rottura dei governi di unità nazionale, dopo la cortina di ferro, la dichiarazione di Fulton, eccetera, però credo che, se questi interventi ci fossero stati precedentemente, avrebbero avuto un significato politico non indifferente, anche per i lavori della nostra Commissione. Peraltro, non sfugge a nessuno che c'era una diffidenza degli inglesi e degli americani verso la presenza delle sinistre nel Governo e verso l'azione dei partigiani nella resistenza, e il proclama di Alexander in questo senso credo sia un elemento abbastanza chiaro. Vorrei quindi sapere da lei se sia venuto a conoscenza, diretta o indiretta, di sollecitazioni di questo genere per riorganizzare i servizi segreti italiani.
GIULIO ANDREOTTI. Io di mia scienza diretta, come Governo, posso far tempo dal 31 maggio 1947, perché allora divenni sottosegretario alla Presidenza, quindi potevo sapere molte cose; in particolare, le cose che passavano attraverso il Consiglio dei ministri le sapevo tutte, perché le dovevo verbalizzare. In precedenza, certamente ho avuto dei rapporti con il governo militare alleato, ma sempre per motivi di altro genere: motivi di ricostruzione, di sistemazione di pendenze o altro, ma mai di questo genere. Questo no. Per quello che riguarda i partigiani, poi, devo dire che gli Alleati avevano collaborato molto con loro, quindi non è che li considerassero dei nemici. Certamente c'erano poi state delle difficoltà di carattere piuttosto accentuato per un ritorno all'amministrazione ordinaria; per esempio, le prefetture, che immediatamente dopo la liberazione erano state guidate da persone estratte dai partiti, furono restituite all'amministrazione. Il caso più clamoroso fu quello della prefettura di Milano, dove c'era Ettore Troito, il capo della Brigata Maiella; ma per una ragione di principio furono rimessi nella struttura tutti i personaggi che non avevano delle responsabilità, perché le epurazioni ci furono e furono notevoli.
Poiché lei mi fa una domanda specifica con riferimento alla ricostituzione dei servizi segreti, vorrei dire, tra parentesi, per la valutazione del passato, che uno dei processi importanti che si celebrarono lo fece, se non sbaglio, proprio Santacroce ai conti Roatta, cosa che, poi, provocò anche disordini; infatti, quando Roatta scappò dal carcere provvisorio del liceo Virgilio ci fu una grossa manifestazione in piazza del Quirinale, con un evento che ha del romanzesco (io c'ero, quindi lo ricordo bene): scoppiò una bomba e ci furono il trasporto di questo morto al Viminale e il discorso dal balcone di Velio Spano, direttore de L'Unità; poi, però, la sera stessa, poiché un cineoperatore americano dalla loggia del palazzo della Consulta aveva ripreso tutto, si vide che quell'uomo voleva tirare lui la bomba a mano, perché si diceva che Roatta fosse nascosto al Quirinale - cosa che non era vera-, la folla strinse e, praticamente, il poveretto fu un suicida senza volerlo. Questo lo dico perché di quei giorni ho memoria.
Ma assolutamente no, che ci fossero spinte per poter utilizzare persone della Repubblica sociale direi di no. Anzi, c'era una notevole intransigenza su questo, sia da parte alleata, sia da parte italiana. Dibattiti forse anche recenti portano a distinguere bene quelle che sono state, anche successivamente, tutta una serie di norme. Certamente si era esagerato nel numero di epurati e, come ho detto prima, di denunce e, alla fine si salvarono con l'amnistia; si era esagerato e persone di calibro minore furono reintegrate. Ma per impulso politico italiano, o per eventuali suggerimenti da parte degli Alleati, non mi risulta assolutamente che ci fosse nei confronti della Repubblica sociale... Ci fu, invece, tutta una serie di indirizzi umanitari. Si pose un problema importante, che fu risolto, a mio avviso, giustamente, per esempio per gli appartenenti alla milizia.
La milizia era un corpo di per sé politico, però molti l'avevano considerata una professione, come altri avevano fatto
i poliziotti o i carabinieri, per cui, forse con una visione un po' larga, dato che poi c'erano la milizia della strada, la milizia forestale, la milizia ferroviaria, si stabilì che anche questi avevano diritto ad andare in pensione, se avevano i requisiti, o ad essere reintegrati, a meno che avessero delle responsabilità individuali. Però non mi risulta assolutamente che ci fosse un senso di larghezza, in particolare nei servizi. Certo, successivamente ci fu nei servizi una certa involuzione di destra, tanto è vero che due capi dei servizi diventarono deputati della destra, ma in questo non c'entra l'immediato dopoguerra; c'entrano, forse, aspirazioni al collocamento personale e non mi pare che c'entrassero niente gli Alleati.
ALBERTO STRAMACCIONI. Una brevissima precisazione ed un'ulteriore domanda. Naturalmente distinguo i due Governi Bonomi nei rapporti con gli anglo-americani, che era un rapporto estremamente positivo, di collaborazione...
GIULIO ANDREOTTI. Contavano solo loro, per la verità.
ALBERTO STRAMACCIONI. Però vedevano in Bonomi un punto di riferimento moderato, un antagonista rispetto alla presenza della sinistra, diciamo.
ALBERTO STRAMACCIONI. Quindi, con Bonomi i rapporti erano migliori. Naturalmente, con Parri furono non buoni, o non buonissimi; poi migliorarono nel corso dei governi successivi. C'è da dire - e lei lo sa meglio di noi tutti, per averlo vissuto direttamente, come responsabile di Governo - che in quel periodo le epurazioni, a seconda di chi era al Governo, avevano una intensità ed un grado diversi; per cui i primi Governi insistevano di più nell'accentuare le condanne, poi progressivamente sulle epurazioni si sono avute decisioni diverse e la cosa si è in qualche modo interrotta. In quella fase delicata della seconda metà del 1947 e poi del 1948, e poi anche negli anni successivi, ci sono elementi di cui lei, come responsabile di Governo, può essere venuto a conoscenza?
GIULIO ANDREOTTI. No, io conosco bene proprio l'indirizzo e una serie di delibere prese dal Governo Parri, che avevano quasi in massa epurato i gradi quarto e quinto, oltre il grado terzo. Questo naturalmente comportò - per analogia a quello che ho detto prima per i reati - una revisione, perché gli interessati avevano diritto a ricorrere al Consiglio dei ministri.
Certamente il rapporto di Parri con gli Alleati era un rapporto buono. Il difetto di Parri, però, fu quello di vedere fascisti dappertutto; non si fidava di nessuno, al Viminale aveva fatto praticamente terra bruciata. Era una degnissima persona, però in una conferenza stampa fece addirittura un accenno al fatto che in Italia stava per risorgere il fascismo, accusando anche noi democristiani. Infatti, la fine del Governo di Parri e la formazione del Governo De Gasperi fu proprio per uno di questi interventi.
Allora cosa successe? Avevano diritto a ricorrere ed era il Consiglio dei ministri che doveva decidere. Io conosco benissimo tutte le pratiche perché De Gasperi, per evitare che il Consiglio dei ministri si dovesse occupare solo di questo, fece un comitato di tre persone - il ministro della giustizia, il Vicepresidente del Consiglio ed io - che doveva esaminare quelle pratiche; se c'era unanimità, il Consiglio dei ministri poi le recepiva, se non c'era unanimità, il comitato le sottoponeva al Consiglio dei ministri. Per alcuni, che erano vicini al collocamento a riposo, abbiamo potuto attendere che passassero quei cinque o sei mesi, per cui andavano a riposo ed il problema si risolveva in questo modo. Ma non ci fu affatto un indirizzo di benevolenza o di reintegrazione di coloro che avevano avuto delle posizioni marcate, tanto è vero che non c'era contestazione, anche da parte dell'opposizione, nei confronti di queste persone, perché molte erano di professionalità spiccata e non
solo non avevano colpe di violenze, ma neanche di integrazione troppo forte nel sistema di carattere politico.
Per quello che riguarda gli Alleati, certamente per molto tempo il governo militare alleato era quello che faceva tutto, nel senso che non si poteva fare niente se non c'era la sua approvazione. E misero anche il veto ad alcune cose a mio avviso sbagliando, parlo dei primi governi; per esempio, la proposta del ministro Scoccimarro sul cambio della lira, che era una proposta molto saggia, perché era fatta per mettere via non certo quelli che erano stati i borsari neri di piccolo calibro, fu bocciata dagli Alleati, ma erano loro che comandavano. Per essere specifici, salvataggi nei confronti di persone che avessero delle responsabilità fasciste, in quegli anni lì - parlo per gli anni che conosco - non ce ne sono stati.
PRESIDENTE. Do la parola al senatore Marino.
LUIGI MARINO. Presidente Andreotti, lei ha già risposto, in parte, a questioni poste dal senatore Pellicini. Nella precedente audizione lei disse una cosa della quale anch'io sono convinto, cioè che noi italiani non abbiamo commesso eccidi come quelli commessi dai nazisti - potrei ricordare l'armata Sagapò in Grecia, potrei ricordare anche il film Italiani brava gente -; però a questo riguardo vorrei fare qualche precisazione. Noi tutti siano reduci da una discussione avvenuta di recente in Senato ed anche la mia parte politica ha partecipato con commozione alla Giornata del ricordo, però dovremmo contestualizzare un po' meglio il tutto. Cioè: la Jugoslavia allora faceva parte della coalizione anti-fascista, quindi, praticamente, quella aggredita, rispetto all'aggressore; l'Italia aveva aggredito, e non solo le province di Lubiana e della Dalmazia erano state annesse, c'era stato anche un re di stirpe Savoia in Croazia, e nello Stato indipendente di Croazia si consumò, ad opera dei nazifascisti, una pagina terribile della seconda guerra mondiale. Gli ustascia di Ante Pavelic furono sostenuti da Hitler e da Mussolini, ma anche dalla Repubblica sociale di Salò dopo l'8 settembre 1943. Ricordo queste cose, presidente, perché mi riconosco nel messaggio del Presidente Ciampi, cioè occorre che tutti abbandonino i rancori esasperati e tutti quanti si vada ad un ricordo ragionato, perché questi orrori non abbiano a ripetersi; però gli eccidi sono stati commessi anche da parte italiana.
Ecco perché, presidente, mi permetto una parziale rettifica di quanto lei ha detto l'altra volta, e che mi trova anche d'accordo. Nei territori italiani furono migliaia le vittime civili e decine di migliaia di sloveni e di croati furono inviati in 130 campi di concentramento. Lei ha ricordato San Saba, ma io voglio ricordare anche i campi di Renicci San Sepolcro in Toscana, di Gonas in Friuli, di Isola di Arbe. Insomma, le atrocità le abbiamo commesse eccome. Tra l'altro, i reparti italiani furono costretti a giurare fedeltà al Führer e alla Germania e nella stessa risiera di San Saba dai seimila agli ottomila partigiani antifascisti sloveni e croati ebbero a morire (gli ebrei, invece, venivano mandati in Germania). Voglio anche ricordare che molti dei nostri, poi, aderirono all'esercito partigiano di Tito e molti furono aiutati a ritornare in patria, fra cui Benigno Zaccagnini, se ricordo bene.
A parziale rettifica di quanto lei ha detto, presidente, io voglio ricordare, affinché restino a verbale, le disposizioni del generale Robotti, ma soprattutto poche parole contenute nella circolare di Roatta del 1942, in cui si diceva espressamente che bisognava «incendiare, demolire case, villaggi, uccidere ostaggi, internare massicciamente la popolazione» e lo slogan non era «dente per dente», ma addirittura «testa per dente». È vero che noi non abbiamo commesso le Fosse Ardeatine, come hanno fatto i tedeschi, ma a Lubiana c'è una «fossa ardeatina» dove cento ostaggi furono fucilati dall'esercito italiano, si chiama Gramozna Jama. Converrà con me, presidente, che certamente gli italiani si sono comportati in maniera diversa rispetto ai tedeschi, ma, purtroppo, atrocità ne sono state commesse tante in
quei luoghi. Voglio solamente citare, per i colleghi, il libro di Marco Aurelio Rivelli, uscito in francese nel 1998 e poi tradotto in italiano, Il genocidio nascosto, cioè quello slavo, che parla di tutte le atrocità commesse dagli italiani.
Ecco, presidente, a parziale rettifica di quanto ella ha detto la volta precedente, le chiedo se convenga con me su queste poche cose che ho ricordato (ma ve ne potrebbero essere tante altre). Non è che valgano a giustificazione delle foibe, sia chiaro, perché è una cosa completamente diversa, fatto esecrabile senza discussione, però gli eccidi li abbiamo commessi anche noi: è storia documentata. Le chiedo se convenga su questo.
GIULIO ANDREOTTI. La dichiarazione che io ho fatto risponde ad una lunga esperienza che ho avuto di visite, di viaggi in zone in cui l'indirizzo è stato contrario a quello che adesso lei evoca, come ad esempio a Cefalonia. In Grecia come in Albania, ho sempre sentito proprio dalla gente, nella tradizione, nei confronti dei nostri soldati, forse anche in comparazione con i soldati tedeschi, un ricordo che non era di atrocità. Lei adesso ha fatto riferimento ad una circolare che io non conosco - anzi, chiedo se sia possibile averne una copia -, ma che riguarda i periodi precedenti. Il libro di Rivelli non lo conosco: me lo procurerò e certamente lo leggerò, perché mi interessa essere documentato. Però stiamo attenti che molte delle vicende che accaddero in quelle zone riguardavano lotte tra serbi e croati; certo, uno degli errori politici gravi che ha commesso il fascismo è stato di andarsi a mescolare in questo tipo di lotta, anche con la creazione di una finta monarchia (peraltro, quel re non è mai neanche andato a prendere possesso del trono). Ma, senza voler negare quello che è storicamente provato, dico che è fuori discussione che nella tradizione di questi popoli non c'è affatto nei confronti dell'Italia l'idea di un popolo di torturatori, di massacratori. Che ci siano stati degli episodi come quelli che lei ha citato, sarà certo vero, ma casi come Marzabotto, come Sant'Anna di Stazzema, come le Fosse Ardeatine non ci sono stati e, se si fosse trattato di individuare responsabili, verso questi non ci sarebbe stata nessuna condiscendenza. Certo, che sia stata emanata una circolare come quella citata è grave; io non la conosco, non so se sia mai stata pubblicata.
GIULIO ANDREOTTI. Io non la conoscevo, però insisto nel dire - questo non riguarda né una forza politica, né un Governo piuttosto che un altro, riguarda proprio una tradizione di rapporti - che odio non ne abbiamo seminato. Storicamente è così. Poi, le valutazioni politiche sono diverse e anche opinabili.
LUIGI MARINO. Quello che ho ricordato prima era strettamente connesso con circa un migliaio (780 dovrebbe essere il numero) di richieste di estradizione fatte dalla Jugoslavia. Al di là di efferatezze commesse da singoli individui - ho ricordato Gramozna Jama, che rappresenta le loro Fosse Ardeatine, crimine commesso dall'esercito italiano - la mia domanda, lo ripeto, era strettamente connessa a quel migliaio di richieste di estradizione. Comunque, la ringrazio per la risposta, signor presidente.
PIERO PELLICINI. Vorrei ricordare al collega Marino e agli altri che in Jugoslavia, in Croazia, in Slovenia e in Serbia l'esercito italiano ha salvato decine e decine di migliaia di ebrei, di mussulmani e altri. Non si può buttar tutto; sono d'accordo con il presidente Andreotti: episodi, non regola. Ma ricordo a tutti quello che abbiamo fatto come forza intermedia in una situazione difficilissima, salvando centinaia di migliaia di persone, lo ripeto.
PRESIDENTE. Prego, senatore Eufemi.
MAURIZIO EUFEMI. Desidero segnalare soltanto due questioni, che meritano di essere chiarite, presidente. La prima, a fronte di tante deviazioni storiche, che mi
sembrano un po' inopportune e che possono mandarci fuori strada rispetto alle finalità della nostra Commissione, è questa: come valuta il nostro ordinamento precedentemente alla riforma della magistratura militare del 1998? Inoltre: offriva, a suo giudizio, strumenti di tutela e garanzia della sostanziale autonomia dei suoi componenti rispetto all'esecutivo? Le faccio queste domande proprio per chiarire l'aspetto centrale rappresentato dai rapporti tra giustizia militare e potere politico.
GIULIO ANDREOTTI. Come ho detto, parlo qui per una lunga esperienza personale al Ministero della difesa. Esistevano - come si desume anche dalla documentazione - rapporti tra uffici (ufficio giuridico, ufficio legislativo del Ministero della difesa) e rapporti con il Gabinetto, poi esisteva una situazione su cui, forse, bisognerebbe porre un po' l'accento, nel senso che (ora vado a memoria, ma mi sembra proprio che sia così) mentre il procuratore generale era della giustizia militare, i presidenti - allora c'era il tribunale supremo militare - erano, così come per i Carabinieri o per la Guardia di finanza, dei generali. Quindi, sotto questo aspetto c'era un rapporto; ma un rapporto con il ministro e con la struttura politica del ministero non esisteva proprio; tanto è vero che questo non c'era nemmeno nelle tabelle delle udienze con il procuratore generale militare. Di questo sono sicuro.
L'altro giorno qualcuno di loro ha accennato se potessero esserci degli ufficiali che non volevano che si approfondisse. Questo io non lo so. Certamente potevano esserci rapporti... però era una struttura molto autonoma. Ed era una struttura abbastanza in sospensione, perché la Costituzione aveva previsto, nelle Disposizioni transitorie, che si facesse il riordinamento, ma questo è stato fatto moltissimi anni dopo e poi, praticamente svuotandosi, in tempo di pace i tribunali militari avevano da fare ben poco, avevano compiti poco più che disciplinari.
Però, siccome noi ci occupiamo di questo in occasione di un fatto serio, in quel momento lì, né prima né dopo, vi era nel rapporto tra il ministro, o i sottosegretari da lui delegati, e la giustizia militare una notevolissima autonomia; vorrei dire che si consideravano più giudici che non appartenenti alla struttura del Ministero della difesa.
MAURIZIO EUFEMI. Venendo al Trattato di pace, presidente, sembra utile sottolineare che in relazione alla stipulazione del trattato stesso, all'interno del Governo, nel 1946, quindi prima della sua assunzione di responsabilità, c'era piena sintonia tra il Presidente del Consiglio De Gasperi e il ministro della giustizia Fausto Gullo, esponente del Partito comunista, sul problema dell'articolo 38, che poi divenne, nella stesura definitiva del trattato, l'articolo 45. Noi abbiamo recuperato nel nostro archivio il documento 15/1: una lettera di Gullo a De Gasperi in data 5 agosto 1946, in cui si critica fortemente l'articolo in questione e si condivide la volontà di modificarlo, così come gli Alleati volevano fare. Come valuta lei questa questione e il fatto che, laddove fosse mancato l'accordo, non si sarebbe violato l'articolo 45, mentre nelle audizioni dei giorni scorsi era stata paventata questa presunta violazione dell'accordo?
GIULIO ANDREOTTI. Nei giorni scorsi io ho fatto fare una verifica: su questi articoli in particolare, durante la discussione all'Assemblea costituente per la ratifica del Trattato di pace, salvo gli accenni che prima ho detto, molto marginali e, in un certo senso, generici, non si è portata l'attenzione.
Per quello che riguarda il periodo precedente, cioè l'elaborazione del trattato, non conosco la lettera che lei ha citato, però, con riferimento ad un eventuale, ma probabile, inserimento di questo tema in uno dei dibattiti del Consiglio del ministri, anche questa è una verifica facile da compiere, perché i verbali del Governo De Gasperi sono stati pubblicati. Dal maggio 1947, ripeto, li conosco di scienza mia, ma per il periodo precedente si può controllare. Certamente, vi era la preoccupazione
- non so se esista una qualche pubblicazione al riguardo, altrimenti si può ricostruire - anche di vedere tutti gli elenchi di coloro che erano richiesti; potrebbe essere utile. Immagino che sia stato fatto, perché sono passati molti anni. Non perché era un nome che faceva impressione, ma quasi a screditare un po' questa richiesta - a parte le altre diffidenze che ci potevano essere nei confronti di alcuni di questi Stati - veniva fuori il nome di Marazza. A parte che era sulla cresta dell'onda, perché era del CNL Alta Italia, ma poi lo si conosceva: quasi ci si metteva a ridere a pensare che potesse essere un torturatore o uno che avesse fatto atti di violenza. Ma forse può essere utile - si può provocare anche qualcuno giornalisticamente - esaminare gli elenchi di quelli che sono stai richiesti, in modo da vedere di che richieste si trattasse.
MAURIZIO EUFEMI. Presidente, un'ultima questione, proprio ricollegandomi alla sua ultima affermazione. Certamente noi rischiamo una lettura parziale se tutto il mosaico non viene completato; allora, proprio rispetto ai documenti della Presidenza del Consiglio va sottolineato come, per esempio, la documentazione diplomatica sui crimini nazifascisti e relative procedure di estradizione non la si è mai voluta pubblicare, nonostante sia passato un certo numero di anni, nella raccolta ufficiale dei documenti diplomatici italiani, la serie X, del 1943-48, edita a partire dal 1992, quindi in un periodo successivo, della seconda Repubblica potremo definirlo, che non fa certamente riferimento a lei. Come valuta che non si sia voluta pubblicare questa documentazione diplomatica, che aggiungerebbe certamente elementi di conoscenza rispetto al quadro che lei prima ha definito?
GIULIO ANDREOTTI. Non so, questo si può domandare all'ufficio storico del Ministero degli esteri. Sono parecchio in arretrato nel pubblicare volumi che, fra l'altro, sono sempre di enorme interesse, perché vi si trovano spunti che uno non immagina; ad esempio, io ho trovato uno spunto del 1909: cioè, due anni prima della campagna di Cirenaica si facevano in Egitto delle riunioni di islamici, ai quali l'Italia diceva «tranquillizzatevi, perché quando arriveremo vi rispetteremo assolutamente». Con questo non voglio dire che siano fermi al 1909, ce ne sono anche di più recenti; escono un paio di volumi l'anno e adesso sono più complessi, perché gli Stati sono diventati più numerosi; prima, pubblicare i dispacci delle ambasciate presso cui avevamo l'accredito comportava un numero relativamente piccolo di pubblicazioni. Voi questa ricerca potete farla ufficialmente, ma io stesso la farò, anche per mia curiosità di verificare a che punto sono queste cose.
PRESIDENTE. La parola all'onorevole Raisi.
ENZO RAISI. Io vorrei tornare al tema oggetto della nostra Commissione, presidente, perché il rischio che corriamo è quello della divagazione storica, magari anche con degli strafalcioni. Ho sentito poc'anzi alcune interpretazioni storiche sui fatti della Jugoslavia che non tenevano conto, primo, che dal 1943 al 1945, quando sono accaduti quegli eccidi, in quelle zone c'era un protettorato tedesco; secondo, che l'esercito italiano era in grande conflittualità con la milizia nazionalista croata di Ante Pavelic. Ci sono stati dei conflitti armati tra gli italiani e Ante Pavelic e i miliziani croati sono stati gli unici, oltre ai gerarchi nazisti, ad usufruire della rete Odessa per fuggire all'estero. Ma, precisato che questa è storia che non compete a questa Commissione, perché noi di altro ci dobbiamo occupare, in questo contesto mi permetta di fare una precisazione. Lei ha dichiarato che agli eccidi delle foibe non parteciparono comunisti italiani: faccio presente che a tutt'oggi sono sotto processo, o comunque sotto indagine, alcuni italiani, o comunque persone che all'epoca erano italiane, tant'è che ricevono la pensione INPS - uno è attualmente sotto processo alla procura di Bologna - perché accusati di essere colpevoli delle foibe: quello di Bologna ha
ucciso un migliaio di italiani, quindi sono comunisti italiani, oggi residenti in Croazia.
Ora torniamo a noi. Come dicevo, la competenza di questa Commissione è un'altra: quella di valutare se c'è stata la volontà politica, perché di questo si tratta, da parte di chi ci governava allora e da parte dei giudici militari dell'epoca, di occultare questi fascicoli sui crimini nazisti. Io ho fatto un po' di confusione sui tanti anni in cui lei è stato ministro della difesa, ma, se non vado errato, nel febbraio-marzo 1965 lei era ministro della difesa. Giusto?
ENZO RAISI. Ora io qui ho una carta, indirizzata al Ministero della difesa-Gabinetto del ministro, del procuratore generale Santacroce, che è uno dei grandi imputati (tra virgolette) in questa Commissione, il quale, in primo luogo, tranquillizza il ministero, dicendo che rispetto alla volontà di prescrizione dei crimini nazisti da parte della Germania non c'è problema, in quanto comunque tali crimini possono essere perseguiti in Italia, e manifesta la possibilità, laddove emergano dei dati importanti, sui quali si possa basare un processo, che l'Italia continui a perseguire questi criminali, dunque la volontà chiara di andare avanti. Inoltre, chiudendo la lettera del 16 febbraio 1965, egli afferma: «Per quanto si riferisce specificatamente alla richiesta contenuta nel terzo capoverso del telespresso numero 1135, data 8 gennaio scorso, Ministero degli affari esteri, questa procura generale, a conclusione dell'esame del materiale di informazione concernente i crimini di guerra commessi in Italia, è in grado di affermare che vi sono casi, peraltro non numerosi, di crimini tuttora impuniti, per i quali vi è una sufficiente documentazione».
Questa «per i quali vi è una sufficiente documentazione» è una frase importante, perché - cosa che non è stata detta nel confronto che abbiamo avuto con lei - uno dei motivi di grande conflitto interno alla Commissione è che molte di quelle cartelle erano prive di ogni documentazione, e diventa difficile per un procuratore avviare dei processi quando non c'è materiale, se non semplici denunzie generiche.
Ci sono poi altre lettere, sempre indirizzate al Ministero della difesa, che confermano: primo, che la procura militare stava continuando le indagini, per cui il famoso discorso dell'archiviazione provvisoria viene, in realtà, contraddetto dal fatto che comunque le indagini, laddove vi erano segnalazioni documentate, continuavano; secondo, la manifesta volontà della procura di collaborare, visto che non solo ha inviato il materiale ai giudici tedeschi, ma ha continuato ad indagare e verificare se nei documenti in proprio possesso vi fossero gli estremi per andare avanti nei processi.
Io vorrei sapere se lei ricorda questo carteggio e se è d'accordo sul fatto che questo dimostra che, comunque, c'era da parte della procura la volontà di andare avanti laddove, ovviamente, vi fossero documenti fondanti e sufficienti, perché un processo non si porta avanti con semplici indicazioni, ma con documenti e prove.
GIULIO ANDREOTTI. Sono due temi diversi. Il primo è quello per cui lei afferma che c'erano anche dei comunisti italiani. Io ho detto una cosa molto precisa: che a me sarebbe sembrato meschino - e non l'abbiamo fatto - utilizzare per fini propagandistici, a destra o a sinistra, il problema «foibe» o il problema «risiera San Saba». Noi abbiamo sempre cercato di fare la lotta politica in una maniera diversa e, fra l'altro, tenendo conto della complessità del problema, perché anche fra i comunisti c'era stata una diversificazione. Perfino a Trieste città c'erano queste diversificazioni, che riguardavano gli sloveni e così via.
ENZO RAISI. Alcuni comunisti italiani finirono nelle foibe!
GIULIO ANDREOTTI. Voglio dire questo: per quello che conto, lo rifarei oggi.
Cioè, non ho mai concepito queste cose come una possibilità di fare speculazioni di carattere politico; quindi non c'erano assolutamente né volontà assolutorie, né volontà di acquisirsi benemerenze. Per il resto, non ho presente né, probabilmente, ho avuto notizia diretta di quella lettera, perché se l'avessi avuta ci sarebbero state quelle che si chiamavamo le decretazioni, e ce ne sono centinaia su atti del ministero; però il punto non mi è chiaro, perché le indagini vanno fatte dalle procure territoriali, non dalla procura generale. Nemmeno il fumus... Oggi c'è in Cassazione una sezione che deliba se...
LUCIANO GUERZONI. La settima, Presidente.
GIULIO ANDREOTTI. Sì, questo è un fatto noto, ma lo dico per analogia. A me pare, se non sbaglio....
ENZO RAISI. Mi scusi, posso rettificarla? In questa documentazione, infatti, alcuni sono indirizzati ai procuratori militari della Repubblica, loro sedi. Cioè, in realtà, lui non fa altro che da raccoglitore delle informazioni delle procure nelle loro sedi.
GIULIO ANDREOTTI. Va bene. Però il fatto è che a un certo momento sono stati bloccati questi fascicoli. Io devo dire che lo reputo non solo illegittimo, ma anche irrituale, per essere esatti. Così dicendo non voglio dare addosso né ad una persona né ad un'altra, perché questo spetta poi a voi, spetta ad altre sedi; però penso che bisogna guardare anche - può darsi che lo abbiate già fatto - nel complesso della persona, perché qui si tratta anche della persona Santacroce, e guardare i processi che egli ha promosso e che ha fatto, grossi processi, relativi a fatti anche molto gravi del dopoguerra; se non vado errato, mi pare che anche il processo Graziani sia stato fatto da Santacroce. Questo credo che vada fatto nella ricerca di come possa essere accaduto, perché che si occulti è un fatto che va oltre tutte le procedure possibili. Si può avere una interpretazione o un'altra, rallentare i tempi, magari, ma all'atto di mettere in quello che chiamate l'armadio queste cose certo è difficile dare una spiegazione. Non la so dare. Non solo non ne sapevo niente, ma ritengo che, se è stata una interpretazione esagerata delle preoccupazioni esposte singolarmente da due ministri, questo non toglie l'irritualità della cosa.
PRESIDENTE. La parola al senatore Guerzoni.
LUCIANO GUERZONI. Un tentativo di chiarimento, presidente, che introduce due quesiti connessi. Lei ha insistito anche oggi - e mi ha colpito - su fatto che i governanti tedeschi non avrebbero mai manifestato la volontà, o il desiderio, di «mettere lo spolverino» sui reati di ex militari tedeschi commessi nel 1944-45. Io confermo - è un fatto acquisito - che questa questione non viene mai fuori né nella risoluzione della Camera del 2001, né nel documento della magistratura militare, né in documenti e atti in nostro possesso. Mai è delineata l'ipotesi che i governanti tedeschi premessero sull'Italia: questo per darle ragione. Ma il punto non è questo, presidente, e non vorrei non avere neanche io contribuito a chiarirlo. Il problema vero è se i governanti italiani fossero determinati a fare i processi. Non perché il rappresentante di Eisenhower, subito dopo l'armistizio, afferma - abbiamo la carta - «chissà se gli italiani vorranno davvero con determinazione fare questi processi» (avrà avuto le sue ragioni). Né è questione dell'estradizione che la Germania non concede; perché gli Alleati non hanno ancora riconosciuto questa prerogativa allo Stato tedesco, siamo ancora prima.
Veniamo, allora, alla sua nota a De Gasperi del 1947: temporeggiare. Temporeggiare vuol dire azione complessa, molteplice, su vari fronti (Alleati, contatti, gli stessi statisti di Belgrado); e a un certo punto, in questo temporeggiare tra le varie azioni, c'è anche l'ipotesi di fare processi. Però - si capisce leggendo il documento al quale la sua lettera si riferisce - fatta
questa valutazione complessiva, in cui c'è questo prendere tempo ed anche una esemplificazione di come si potrebbe agire in varie direzioni per questo temporeggiare - ad un certo punto della lettera lei isola la questione. Lei estrapola la questione dei processi dall'azione complessiva del temporeggiare. Lei dice che questo è per quanto riguarda come resistere nel tempo - per così dire - , però, in ogni caso, bisogna sapere che tali processi avrebbero conseguenze molto negative. Come dire: questo è quanto, però... Il punto, presidente, è che non v'è dubbio che tra le incongruenze che lei non dice c'è anche quella che è difficile processare i tedeschi e, contemporaneamente, dire di no alle estradizioni chieste non solo dalla Jugoslavia, ma anche dall'Albania, dalla Libia o dalla Grecia. Si può avere un giudizio su come la giustizia avrebbe funzionato in questi paesi, ne convengo anche, ma il problema è più complesso.
E quando lei paventa quei costi, quei rischi in termini così evidenti - anche per il precedente che ho citato - non può... Lei, presidente, in un'aula universitaria, di fronte a studenti, non a politici quali siamo noi, ad un ragazzo che le dicesse «a me sembra che questa affermazione possa essere anche interpretata come punto di partenza di una volontà politica», se la sentirebbe, in coscienza, di rispondere che quella riflessione non ha alcun fondamento, pur naturalmente contestandola e documentando che non è così? Perché l'altra ipotesi è questa.
La memoria che il Santacroce le manda nel 1965, e che io ho riletto in queste ore, è molto interessante, perché il Santacroce si trova di fronte un ministro - lei - energico, che a un certo punto dice «non vi illudete, entro il 1o marzo sul mio tavolo ci devono essere delle cose». Per la prima volta, il Santacroce si trova di fronte al fatto che il problema dei processi diventa centrale, diventa oggetto dell'attenzione del Governo. Ecco perché non scrive che li ha archiviati provvisoriamente, cinque anni prima; è strano: in quella lettera non parla dello status giuridico di questi documenti. Le nasconde lo stato delle cose. Ma non solo: ritenendo che esiste il pericolo che si possa riaprire la questione e fare i processi, propone ai politici di assumersi la responsabilità; infatti, in quella relazione dice che i processi si possono fare e ci possono anche essere delle condanne, perché gli incriminati sono stati individuati, cose che nelle carte, da anni, non si dicono più, dato che l'ultima notizia che abbiamo è che i giudici italiani avrebbero potuto in gran parte assolvere.
La prima domanda, presidente, gliel'ho fatta. La seconda è questa: noi non abbiamo prove ancora che il Governo abbia deciso che i processi non si facessero, ma questa attitudine del Governo, questa preoccupazione per i processi non può essere stata assunta dall'alta burocrazia arbitrariamente per operare affinché i processi, nei fatti, non venissero svolti, ritenendo quella una copertura politica sufficiente? E, naturalmente, qui si apre il libro delle responsabilità operative, perché lei potrebbe dirmi che, allo stato delle cose, se hanno fatto quello, ne dovranno rispondere - lei ha perfettamente ragione -, oltre che dover trovare la prova. La mia domanda è volta a sapere se lei convenga che si possa ragionare in questo senso.
GIULIO ANDREOTTI. Se non vado errato, il mio documento che lei ha citato sarebbe di trasmissione dei risultati di una commissione.
LUCIANO GUERZONI. Sì, una commissione ministeriale, non si sa da chi...
GIULIO ANDREOTTI. Di cui, veramente, io non ho fatto parte.
LUCIANO GUERZONI. Però lo legge, perché fa una nota per il Presidente De Gasperi.
GIULIO ANDREOTTI. Avrei bisogno di leggerlo, per vedere da chi era composta questa commissione e quali sono i ragionamenti che hanno fatto; perché che sia stata portata la mia attenzione su questo problema specifico non lo ricordo affatto,
mentre ho memoria di tante altre cose della Presidenza, anche se non riguardavano direttamente l'ambito specifico della Presidenza stessa. Certamente, il mio orientamento è completamente opposto, nel senso che io ritengo che non ci fosse il diritto; poteva esserci una gradualità di procedure - questo è diverso -, ma non c'era il diritto di bloccare queste cose, non solo giuridicamente ma anche politicamente, perché se ancora adesso, dopo tanti anni, è viva l'emozione che noi abbiamo, figurarsi in quel periodo! Tanto è vero che sui fatti più gravi, più clamorosi i processi ci sono stati. Il processo di Kappler, il processo di Reder ....
LUCIANO GUERZONI. Sono stati istruiti, ma non celebrati.
GIULIO ANDREOTTI. Kappler è stato condannato, come non sono stati celebrati!
LUCIANO GUERZONI. Per Kappler ha ragione.
GIULIO ANDREOTTI. Per quello che è possibile, cercherò di vedere se per questa commissione ho modo di rintracciare qualche carta, per capire come venisse fuori. Io reputo per me quella carta solo una carta di trasmissione, di passaggio, perché non solo non ho fatto parte della commissione, ma non ho nemmeno approfondito di persona, altrimenti lo ricorderei, perché è un fatto importante, non marginale.
LUCIANO GUERZONI. C'era un certo dottor Perassi, non so in rappresentanza di chi.
GIULIO ANDREOTTI. Perassi era un importante professore di diritto internazionale.
LUCIANO GUERZONI. Fu nominato da Nenni o da De Gasperi.
GIULIO ANDREOTTI. Perbacco, era deputato del Partito repubblicano all'Assemblea costituente, è stato anche mio professore all'università. Ed era, se non sbaglio, il capo dell'ufficio legislativo o dell'ufficio giuridico del Ministero degli affari esteri.
LUCIANO GUERZONI. Ne conoscevo l'esistenza, ma non sapevo che avesse svolto funzioni di questa natura.
GIULIO ANDREOTTI. Ancora adesso i suoi testi sono studiati ed era membro dell'Assemblea costituente.
LUCIANO GUERZONI. La ringrazio.
PRESIDENTE. Se non ci sono altri interventi, ringrazio il senatore Andreotti, i colleghi intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 16,10.
![]() |