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Seduta del 25/2/2004


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Audizione del procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona, dottor Giuseppe Rosin.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona, dottor Giuseppe Rosin. Ricordo che nella seduta odierna avrà luogo solamente la relazione del dottor Rosin, mentre i componenti la Commissione potranno porre quesiti e formulare osservazioni nel corso della prossima seduta.
Do la parola al dottor Rosin per lo svolgimento della relazione, ringraziandolo per la cortesia e la collaborazione.

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. Signor presidente, signori commissari, sono magistrato militare e attualmente sono avvocato generale militare presso la Corte militare di appello di Verona. La ragione del mio interesse per la vicenda risiede nel fatto che dal 1997 al


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2001 sono stato membro elettivo del Consiglio della magistratura militare (l'organo di autogoverno della giustizia militare, dei magistrati militari) che si è occupato, tra l'altro, di un'indagine conoscitiva in ordine ai fatti in questione.
Nell'ambito del Consiglio della magistratura militare ho avuto l'incarico di relatore su questa pratica: pertanto, la delibera del 22 marzo 1999, a conclusione dei lavori, è per gran parte opera mia. È stata approvata dal Consiglio della magistratura militare (che si compone di 9 elementi) a maggioranza: 5 favorevoli, 3 contrari e un astenuto. Pertanto, non posso che richiamarmi a quella delibera e a quanto già detto nella precedente legislatura (era il 2001), quando sono stato convocato dalla Commissione giustizia della Camera nel corso di una indagine conoscitiva.
Innanzitutto, vorrei brevemente parlare della vicenda di cui ci occupiamo, sia pur nota. Nell'estate 1994, a Roma, in Palazzo Cesi, sede di uffici giudiziari militari di vertice, è stato scoperto un archivio riferito a reati commessi da militari della Germania negli anni dal 1943 al 1945. Si trattava di circa 700 (per la precisione 695) fascicoli che presentavano un dato comune: erano dossier più o meno ampi di indagini compiute dalle commissioni alleate o da organi di polizia giudiziaria italiana su crimini di guerra commessi dai tedeschi. Circa 280 di questi fascicoli recavano descrizioni dei fatti ma non elementi utili per identificare gli autori; viceversa, i rimanenti 415 fascicoli indicavano nomi e cognomi. Il materiale era custodito abbastanza bene: i fascicoli erano alquanto ordinati, chiusi in faldoni e contenuti in quello che oggi viene chiamato «armadio della vergogna» secondo una terminologia giornalistica, da me descritto come «armadio chiuso con le ante rivolte verso il muro», proprio perché così era; nell'occasione si disse che questa era una potente metafora per indicare il disinteresse verso quell'archivio; in realtà, era proprio così, non si tratta solo di una metafora o di una immagine di fantasia.
Assieme all'archivio vi era un registro generale più o meno come quelli che si trovano - o che si trovavano a quei tempi - negli uffici giudiziari, che recava 2.274 annotazioni: ad esempio, il numero 1 si riferiva alla strage delle Fosse Ardeatine, l'ultimo (il n. 2.274) si riferiva ad un certo Hagemann. Da uno studio del registro generale, si è potuto stabilire che 260 di quei 2.274 fascicoli erano stati trasmessi senza ritardo all'autorità giudiziaria ordinaria negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, mentre 1.250-1.300 (si noti bene: tutti, nessuno escluso, con autore ignoto) erano stati inviati alle procure militari negli anni dal 1965 al 1968; rimanevano i famosi 695 fascicoli di cui ho parlato in premessa. Per ciascuno di questi 695 fascicoli vi è, a mo' di conclusione, un atto di archiviazione del 14 gennaio 1960 a firma del procuratore generale militare presso il tribunale supremo militare, dottor Enrico Santacroce. Quindi, in definitiva, il trattenimento in archivio piuttosto che la diffusione alle procure militari ha riguardato circa 2 mila incartamenti (2.274 meno 260). Di questi fascicoli, 1.250-1.300 (che non davano indicazioni utili per l'individuazione degli autori) furono trasmessi, dal 1965 al 1968, alle procure militari; poi, nel 1994-1995, quando è stato scoperto questo archivio, si stabilì di dissolverlo e di inviare i rimanenti fascicoli alle procure militari competenti. Questo è il dato quantitativo di partenza.
La seconda parte del mio intervento riguarda le modalità della vicenda. Debbo, in premessa, richiamare brevemente alcune nozioni di procedura penale e di ordinamento giudiziario militare vigente a quei tempi. Per quanto riguarda la procedura penale, come voi sapete, l'azione penale era obbligatoria anche negli anni quaranta; tuttavia, mentre il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale oggi è sancito dalla Costituzione, allora era sancito dalla legge ordinaria.
Che cos'è una archiviazione? Debbo dirlo, perché voglio mettere in evidenza la particolarità di quel provvedimento: oggi come in passato, mutatis mutandis (all'epoca


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vi era il giudice istruttore, oggi vi è il GIP), l'archiviazione viene chiesta dal pubblico ministero al GIP (all'epoca, al giudice istruttore); se il GIP è d'accordo con la richiesta del pubblico ministero, archivia; altrimenti assume i provvedimenti necessari per attivare un meccanismo di esercizio dell'azione penale.
Negli anni quaranta l'archiviazione non era di competenza del giudice, bensì del pubblico ministero, il quale provvedeva senza controllo del giudice: il controllo del giudice sulla fase iniziale di un procedimento penale è stata introdotta con una miniriforma negli anni cinquanta. A quei tempi (ma anche in tempi più recenti) esisteva il potere di avocazione ad libitum del procuratore generale: quest'ultimo poteva, in qualsiasi momento, avocare a sé i processi trattati dal procuratore e, se c'era da archiviare, vi provvedeva lui stesso.
Si deve aggiungere che a quei tempi la magistratura militare aveva un ordinamento gerarchico: al vertice vi era il procuratore generale militare presso il tribunale supremo militare, organo non più esistente (anche se è stato riproposto in un disegno di legge governativo approvato dal Consiglio dei ministri nel settembre scorso), che aveva competenze di legittimità ed era paragonabile ad una Corte di cassazione. Come sappiamo, il tribunale supremo militare è stato abolito, in quanto l'articolo 111 della Costituzione afferma che non può non esservi ricorso per cassazione anche contro le sentenze dei tribunali militari; si può derogare a tale norma solo in tempo di guerra. Dunque, il procuratore generale militare si configurava come un organo requirente presso un tribunale (il tribunale supremo militare) con funzioni di legittimità: paragonabile all'attuale procuratore generale presso la Corte di cassazione. Dunque, quel magistrato non era come un procuratore generale presso la corte d'appello che, al limite, potrebbe avere compiti di archiviazione: il procuratore generale militare presso il tribunale supremo militare non aveva né il compito di archiviare né quello di attivare l'azione penale.
A questo punto, il primo quesito che dobbiamo porci è come mai quei fascicoli siano pervenuti ad un organo incompetente ad occuparsene; a tale quesito siamo in grado di dare una risposta con sicurezza. Il 20 agosto 1945, si è tenuta una riunione presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, cui erano invitati alti funzionari di vari ministeri e, tra gli altri, il procuratore generale militare, nella persona del dottor Umberto Borsari, proveniente dalla magistratura ordinaria. Ho dimenticato di dire che il procuratore generale militare era nominato - quale alto funzionario dello Stato - dal Consiglio dei ministri, che lo poteva trarre anche da ambienti estranei alla magistratura militare. Per lo più, il procuratore generale militare proveniva dalla carriera dei magistrati militari; in quel caso, il dottor Umberto Borsari (procuratore militare generale dal 1944 al 1954) proveniva dalla magistratura ordinaria. Ebbene, in quella riunione si pose il problema di come trattare i numerosi fascicoli che si erano creati presso le prefetture per impulso del Ministero dell'Italia occupata (si intende, del territorio occupato dai tedeschi), che non esisteva più dal 1945: man mano che le truppe avanzavano, presso le prefetture venivano istituiti organi a composizione mista per raccogliere informazioni e documentare i crimini che quelle popolazioni avevano sofferto: quei fascicoli, dunque, erano rimasti alle prefetture per conto di un ministero che non esisteva più. Qualche tempo prima, tra la fine della guerra ed il 20 agosto 1945, il dipartimento di Stato americano aveva consentito all'Italia di documentare all'ONU i crimini sofferti ad opera dei tedeschi. Vorrei, per inciso, ricordare che oltre alle audizioni abbiamo acquisito la documentazione esistente presso gli uffici giudiziari militari, nonché la documentazione esistente presso il Ministero della difesa nel faldone - o comunque nella ripartizione - «crimini di guerra».
Torniamo a quella riunione alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Ad un certo punto, si parla dell'esistenza dei fascicoli e della necessità di documentare all'ONU i crimini sofferti. Il procuratore generale militare rivendica, a norma degli


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articoli 13 e seguenti del codice penale militare di guerra, la competenza ad occuparsi dei reati; qualcuno intervenne e ricorda che gli alleati stanno procedendo ad una bipartizione tra delitti localizzabili e delitti non localizzabili: questi ultimi sarebbero soggetti alla cognizione dei tribunali internazionali, mentre i delitti localizzabili spetterebbero alla cognizione dei tribunali dello Stato. È qui che emerge l'idea di far confluire tutti i fascicoli alla procura generale militare presso il tribunale supremo militare. Infatti, il 2 ottobre 1945, la Presidenza del Consiglio dei ministri dà disposizione ai competenti organi di polizia di far affluire i fascicoli alla procura generale militare.
Il 7 novembre 1945, il procuratore generale militare, dottor Borsari, assicura di aver istituito l'archivio: questa è la data ufficiale di quello che sarebbe poi divenuto l'archivio - diciamo così - abusivo. In questa nota, il procuratore ribadisce che la competenza appartiene all'autorità giudiziaria militare e che si rende necessaria, altresì, la collaborazione internazionale per catturare ed assicurare alla giustizia i criminali di guerra.
Questa, signor presidente, è la risposta che può essere data con tutta tranquillità su come è nato l'archivio e sul perché, compiute le varie indagini da parte di organi di polizia giudiziaria, i fascicoli non siano stati inviati alle procure competenti, come avviene normalmente, bensì raccolti dalle varie parti d'Italia e trasmessi alla procura generale militare presso il tribunale supremo militare (organo che non aveva competenza né di esercizio dell'azione penale né di archiviazione).
Il quesito al quale è molto più difficile dare una risposta è come mai, nonostante le intenzioni manifestate in queste decisive occasioni dal dottor Borsari, i fascicoli non siano stati trasmessi, secondo il principio della competenza territoriale, alle procure militari - ad esempio, quella di Padova o quella di Torino - disseminate sul territorio del nostro paese. Sui motivi non vi è alcuna documentazione diretta: è qualcosa che difficilmente può essere desunto con precisione da un documento ma abbiamo alcuni indizi (le cosiddette ragioni). Al riguardo, farei una considerazione preliminare: non è pensabile che il procuratore generale militare Borsari ed i suoi successori abbiano preso una decisione esclusivamente personale al riguardo.
È evidente che c'è una sovrastante ragione politica, quindi ci sono disposizioni di autorità politiche.
Naturalmente, benché l'ordinamento giudiziario militare fosse quello che vi ho illustrato brevemente, il dovere del procuratore generale militare sarebbe stato ugualmente quello di mandare i fascicoli alle autorità competenti per occuparsi delle indagini.

PRESIDENTE. Queste disposizioni di autorità politiche di cui lei parla, dottor Rosin, sono una sua opinione personale o sono suffragate...

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. Sono suffragate.

PRESIDENTE. Perfetto.

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. Vorrei ora illustrare brevemente quanto già risulta evidente da ciò che ho detto, cioè che le archiviazioni del procuratore generale militare non sono archiviazioni di un procedimento penale: sono le archiviazioni di un ufficio amministrativo, che aveva avuto l'incarico extra legale (cosa che oggi non sarebbe più possibile, perché anche gli uffici della pubblica amministrazione devono essere ordinati per legge) di custodire questi fascicoli.
Dicevo, dunque, che non è l'archiviazione di un procedimento penale.

CARLO CARLI. Qualcuno gliel'ha detto.

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. Qualcuno gliel'ha detto, ma l'ha fatto e, soprattutto, quello che ha fatto è un atto amministrativo, poiché si


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tratta di un organo che non aveva alcuna competenza giudiziaria sul punto e l'archiviazione, tutto sommato, non ha alcuna importanza se non una importanza interna. Poi, perché adottata proprio il 14 gennaio 1960? Chissà! L'archiviazione interna è poco più che dire «toglietemi di torno i fascicoli e metteteli in un'altra stanza».
Detto questo, dicevo che le ragioni che puntualizzano l'illegalità compiuta dalla procura generale militare, che è documentata, tendono alla ricerca delle motivazioni politiche e, quindi, delle autorità politiche retrostanti. A questo riguardo vorrei leggere un appunto che ho predisposto, perché è scritto in maniera abbastanza sintetica e, inoltre, contiene numerosi dati: «È noto che grazie alla buona disposizione all'assistenza giudiziaria prestata dalle autorità alleate di occupazione tramite uffici appositamente costituiti, nell'immediato dopoguerra dinanzi ai tribunali militari si sono celebrati alcuni processi nei quali con la cooperazione si erano superate le difficoltà per la ricerca delle prove dei reati e per il rintraccio e la consegna dei colpevoli al nostro paese. È altrettanto noto, anzi è un fatto fondamentale della storia del secondo dopoguerra, che la situazione politica si è poi rapidamente evoluta verso la logica dei due blocchi di Stati contrapposti e la guerra fredda, con l'esigenza, da parte dell'occidente, di attribuire un preciso ruolo antisovietico, nell'ambito della NATO, alla Germania. Sta di fatto che, per quanto abbiamo riscontrato, man mano si affievolisce l'assistenza giudiziaria sino a cessare intorno al 1948, con la soppressione degli uffici a suo tempo istituiti dalle autorità alleate. Con la successiva costituzione della Repubblica Federale di Germania, nel 1950, il problema dell'assistenza giudiziaria ha poi assunto tutte le difficoltà e rigidità tipica dei rapporti tra Stati. Cioè, fin quando si trattava di regime di occupazione, teoricamente era più facile poter mettere le mani su eventuali imputati; ma poi, una volta che è rinata la Germania, tra l'Italia e la Germania era in vigore il trattato approvato con legge 18 ottobre 1942, n. 1344, per cui l'estradizione verso il nostro paese non era consentita dalla condizione di cittadino tedesco e dalla natura politica dei reati. In ogni caso, questo non è che spieghi, perché rimane ancora problematico stabilire che impulso abbia avuto il procuratore militare generale». Inoltre, se la mancanza di assistenza giudiziaria internazionale costituisce effettivamente un ostacolo rispetto alla possibilità di compiere processi, il dovere dei magistrati prescinde da questo: si possono iniziare procedimenti anche nei confronti di persone che non ci sono, che poi saranno contumaci; si possono raccogliere prove, documentazioni. Ma tutto questo non è stato fatto.
A proposito di questi motivi di opportunità politica è risultato un documento. Verso la fine del 1956 il procuratore militare di Roma si è rivolto all'autorità di Governo per una ennesima istanza di estradizione da presentare al governo della Repubblica Federale di Germania. L'esito dell'iniziativa non poteva essere diverso da quello adottato per altri casi dal nostro Governo, in considerazione delle disposizioni del trattato italo-tedesco. Nondimeno, il ministro degli esteri, onorevole Gaetano Martino, con nota del 10 ottobre 1956, diretta al ministro della difesa, onorevole Taviani, riguardante proprio l'estradizione ipotizzata dal procuratore militare, nell'esporre i vari argomenti contrari all'iniziativa si soffermata, tra l'altro, sui «non trascurabili (qui cito) interrogativi che potrebbe far sorgere da parte del Governo di Bonn una nostra iniziativa che venisse ad alimentare la polemica sul comportamento del soldato tedesco. Proprio in questo momento, infatti, tale Governo si vede costretto a compiere presso la propria opinione pubblica il massimo sforzo allo scopo di vincere la resistenza che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle forze armate di cui la NATO reclama con impazienza l'allestimento». E pienamente adesiva era, poi, la nota di risposta del ministro della difesa in data 29 ottobre 1956.
Voglio aggiungere che questa richiesta di estradizione riguardava gli alti ufficiali responsabili dell'eccidio di Cefalonia.


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Quindi, direi che, poiché non si trattava dell'organizzazione delle SS bensì della Wehrmacht, c'era una ragione in più; avuto riguardo all'immagine del soldato tedesco che, secondo questa nota, si doveva preservare, c'era motivo in più perché quel processo non si dovesse celebrare. Lo ricordo perché ogni tanto si dice che il silenzio intorno ai fatti di Cefalonia è determinato dall'interesse dei partigiani, in particolare quelli di sinistra, di mantenere nel maggior silenzio possibile il fatto che la Resistenza fosse iniziata con la stessa resistenza dell'esercito italiano. In realtà, le ragioni sono di questo tipo, cioè che non si potevano, o comunque non era opportuno, impiantare processi impegnativi nei confronti di soldati tedeschi e tanto meno di esponenti di spicco della Wehrmacht, cioè dell'esercito regolare.

PRESIDENTE. Ci può chiarire meglio questo passaggio?

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. Ho citato la nota che si sono scambiati il ministro Martino e il ministro Taviani; quello che non è scritto nel documento, ma che io posso riferire, è che la richiesta di estradizione che il procuratore militare voleva inoltrare tramite il ministro degli esteri riguardava gli alti ufficiali presunti responsabile dell'eccidio di Cefalonia. Allora, il mio personale commento è che, dal momento che si trattava di alti ufficiali non delle SS, cioè della milizia nazista, ma delle forze armate regolari e siccome, evidentemente, c'era il problema di assicurare una protezione all'immagine del soldato tedesco, in quanto c'era bisogno della Germania in funzione antisovietica, non era possibile estradare o fare processi nei confronti di ex esponenti della Wehrmacht. Cioè, c'era una difficoltà in più.

CARLO CARLI. È chiarissimo.

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. C'era una difficoltà in più. E poi ho aggiunto: con buona pace delle tesi secondo le quali, invece, sarebbe stata la sinistra, sarebbero stati i partigiani, perché non volevano far risultare questo episodio di resistenza iniziale, già intorno all'8 settembre, ad opera delle truppe regolari. In ogni caso, anche a prescindere da tutto questo, è abbastanza evidente che quel che viene fatto alla spicciolata e secondo il proprio dovere, di giorno in giorno, può diventare veramente esplosivo nel giorno in cui una persona qualsiasi decide di mandare in giro 2.000 inchieste che, senz'altro, in quegli anni, tutte insieme sarebbero apparse come un atto di ostilità nei confronti della Germania e nei confronti della NATO. Questa, insomma, è una difficoltà, come si dice, in eundo. Se questo lavoro fosse stato fatto di volta in volta, singulatim, dossier per dossier, sarebbe stato molto più facile che non doverlo poi fare per migliaia di processi tutti insieme.
Sta di fatto che nel 1965, a vent'anni di distanza dai reati, le sentenze dibattimentali pronunciate dai tribunali militari per crimini di guerra erano appena 13, per un totale di 25 imputati.
Poi, per mostrare anche una vicenda che è indizio, o rappresentazione diretta di quanto vado dicendo, faccio riferimento ad un altro passo di questa relazione, laddove si vede che negli anni '60 è nato, a livello di procura generale militare, un certo interesse per questi procedimenti che erano «archiviati» e si spiega anche quanto vi dicevo all'inizio, cioè che 1.250-1.300 di questi procedimenti con imputati non identificabili negli anni 1965-1968 sono stati inviati alle procure militari. Dunque: il Governo della Repubblica Federale di Germania all'avvicinarsi della data dell'8 maggio 1965, da cui in quel paese si sarebbe applicata ai reati commessi dai nazisti la prescrizione ventennale, il 20 novembre 1964 aveva assunto l'iniziativa di chiedere ai governi stranieri amici, alle organizzazioni ed ai privati (progetto faraonico) tutto il materiale di prova disponibile su quei crimini, per metterlo entro il 1o marzo 1965 a disposizione dell'autorità giudiziaria germanica.


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Per il nostro paese, la richiesta veniva passata alla procura generale militare, depositaria del noto archivio: quindi si sapeva che c'era questa archivio presso la procura generale militare! Con nota di risposta, in data 16 febbraio 1965, diretta al ministero della difesa il procuratore generale non mancava di affermare che «l'autorità giudiziaria italiana conserva il pieno esercizio della propria giurisdizione per i reati e che la legge italiana è più rigorosa in materia di prescrizione dei reati in questione». Quanto alla richiesta della documentazione, comunicava che «dal riesame del materiale dell'archivio emergevano casi, peraltro non numerosi, di crimini tuttora impuniti per i quali vi è una sufficiente documentazione». Quindi, diciamo che nella gran massa sono stati enucleati quelli per cui c'era possibilità di uno sviluppo investigativo.
Su quest'ultima inaspettata e, forse, incauta comunicazione, certamente non da poco, in quanto era il procuratore generale militare ad ammettere di avere a sua disposizione una sufficiente documentazione riguardante crimini di guerra ancora impuniti, si appuntava l'attenzione dei Governi italiano e tedesco. Richiesto di voler dare più specifiche informazioni al riguardo, il procuratore generale, in data 27 marzo 1965, comunicava al ministero della difesa un elenco di 20 casi per cui «si è in possesso di una documentazione che può ritenersi sufficiente sia in ordine alla prova sui fatti, sia in ordine alla identificazione degli autori». Va ricordato che nel frattempo, in data 25 marzo, il Parlamento tedesco aveva deciso di prorogare la scadenza del termine di prescrizione ventennale, facendolo decorrere dal 1o gennaio 1950, data di costituzione della Repubblica Federale di Germania, e presso la procura militare si lavorava per trasmettere al pubblico ministero in Italia soltanto procedimenti contro ignoti militari tedeschi, che si è detto essere stati in numero di 1.250-1.300. Con successiva nota in data 10 aprile 1965, il procuratore generale autorizzava l'invio dell'elenco al ministero degli esteri e all'autorità tedesca. Nel contempo, in riscontro ad una nota verbale del governo di quel paese, faceva sapere che non vi erano in via di principio motivi ostativi alla trasmissione all'autorità tedesca anche dei corrispondenti fascicoli; peraltro, con diligenza, avvertiva che essendo parte degli atti in lingua inglese ed alcuni in lingua tedesca, sarebbero stati necessari degli interpreti del ministero e che per la traduzione e la copia del materiale da inviare si sarebbe andati incontro ad una spesa rilevante. In effetti, la pratica non si esauriva in breve tempo appunto per le ragioni indicate in dal procuratore generale. Si giungeva così all'estate 1966: con nota in data 12 luglio la procura generale militare, non senza che fosse intervenuta una nuova richiesta da parte del Governo tedesco, trasmetteva finalmente i 20 fascicoli al ministero per l'invio, tramite il ministero degli esteri, all'ambasciata della Repubblica Federale di Germania. Non è dato sapere se quei fascicoli siano, infine, realmente pervenuti all'autorità giudiziaria germanica. È invece sicuro che all'autorità giudiziaria militare italiana sono stati trasmessi soltanto nel 1994-96, cioè 20 anni dopo. In quello stesso periodo, evidentemente, si faceva una selezione che ha portato ad enucleare quei 1.250-1.300 fascicoli che si poteva benissimo rinviare alle procure militari italiane, perché non c'era alcun elemento per poter identificare gli autori.
Inoltre, nel caso possa essere utile alla vostra indagine, vorrei leggere una cosa di rilevanza molto più modesta. Avrei, poi, altre due piccole considerazioni da fare e poi finisco.

CARLO CARLI. Faccia pure, il tempo c'è.

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. La ringrazio, mi preoccupo di non abusare della vostra pazienza.
C'è da dire che, finita la guerra, il decreto legislativo 21 marzo 1946, n. 1044, aveva stabilito che la giurisdizione di guerra si protraeva anche nello stato di pace, mentre il 1o gennaio 1948 è entrata in vigore la Costituzione, che stabilisce che in tempo di pace (nel 1948, ovviamente,


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eravamo in tempo di pace) i tribunali militari possono conoscere soltanto di reati militari commessi da appartenenti a forze armate. Perciò, il 24 settembre 1958 il tribunale militare di Padova ha sollevato questione di costituzionalità: c'era allora il pericolo, dico io, che con sentenza della Corte venisse stabilito che questo tipo di processi erano di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria. Ricorderete che, all'inizio, ho detto che tra i 2274 processi quelli che sono risultati di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria, cioè circa 250, sono stati a questa trasmessi tempestivamente, cioè negli anni 1945-46. Quindi, c'era il rischio che la procura generale militare si trovasse depositaria di un archivio abusivo, con reati non di competenza dell'autorità giudiziaria militare ma che, per sentenza della Corte costituzionale, diventavano di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria.
Allora la Corte costituzionale, con sentenza n. 48 del 1959, ha deciso nel senso della infondatezza della questione. L'Avvocatura dello Stato, che si è costituita in giudizio davanti alla Corte costituzionale, in data 6 dicembre 1958, con le deduzioni della costituzione in giudizio ha sostenuto la tesi dell'abrogazione dell'articolo 6 del decreto legislativo 21 marzo 1946, n. 144, per effetto dell'ultimo comma dell'articolo 103 della Costituzione, e si è quindi pronunciata a favore della competenza del giudice ordinario. Con successiva memoria, in data 3 giugno 1959, re melius perpensa, ha propugnato la tesi opposta, dell'infondatezza della questione sollevata e quindi della competenza del giudice militare.
Signor presidente, non è che si verifichi tante volte nei giudizi dinanzi alla Corte costituzionale un cambiamento di opinioni dell'Avvocatura dello Stato! Sarebbe interessante esaminare quel fascicolo per conoscere le ragioni sostenute in un primo momento e quelle addotte successivamente e, qualora esistano atti presso l'Avvocatura dello Stato, verificare se vi siano contenute indicazioni su specifici indirizzi, data la rilevanza della questione.
A questo punto, ho concluso la mia relazione con riferimento agli elementi a conoscenza del Consiglio della magistratura militare. Successivamente, come cittadino, ho appreso alcune informazioni che vorrei comunicarvi. Si tratta di notizie per nulla riservate, tratte da riviste di storia o ritagli di giornale: mi riferisco, tra gli altri, all'articolo La questione dei criminali di guerra italiani e una Commissione d'inchiesta dimenticata di Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer. Da documenti tratti dall'archivio del Ministero degli affari esteri risulta che, in quegli stessi anni, l'Italia aveva il problema delle richieste di consegna dei criminali di guerra italiani ad altri Stati. Ho con me alcuni dati numerici: la Iugoslavia reclamava 729 più 27 imputati, la Grecia 111 più 74, la Francia 9 più 4, gli alleati 833, l'Unione sovietica 12 e l'Albania 3. La Iugoslavia lamentava crimini contro la popolazione, rappresaglie e così via. Gli alleati, invece, lamentavano prevalentemente maltrattamenti o uccisioni di prigionieri di guerra. Ricordo che, nell'autunno del 1945, fu celebrato dai tribunali alleati un famoso processo, che si concluse con la fucilazione del generale Bellomo.
Dunque, esaminando nel complesso alcuni documenti che oggi ho portato con me, si scopre che il problema di cui vi state occupando (e di cui ci siamo occupati, ad altri fini, anche noi) era strettamente collegato alla situazione dell'Italia in quel momento: ho qui diversi atti di alti funzionari dello Stato, di uomini politici, dello stesso De Gasperi, all'epoca Presidente del Consiglio, che fanno intendere come l'insistere da parte dell'Italia per processare o per ottenere, addirittura, la consegna di militari tedeschi avrebbe indebolito la nostra pretesa di non consegnare i criminali di guerra italiani.

PRESIDENTE. Dottor Rosin, questi documenti sono agli atti?

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. Signor Presidente, sono documenti che posso lasciare agli atti. Addirittura, si parla di un possibile boomerang: lo dice, da Mosca, l'ambasciatore


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Quaroni il 7 gennaio 1946. Quaroni, naturalmente, aveva la sua importanza: all'epoca non si era ancora arrivati alla vera e propria guerra fredda e alla rottura tra Iugoslavia e Unione sovietica. Il più grosso richiedente, nell'interesse della Iugoslavia, era proprio l'Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche. Successivamente, vi sarebbe stata la rottura tra Stalin e Tito; in quel momento, però, la Iugoslavia di Tito acquisiva l'importante funzione di Stato cuscinetto: dunque, un'altra importante ragione militava a favore del mettere una pietra su tutte queste vicende.
Signor presidente, occorre altresì rilevare che la giustizia militare italiana avrebbe dovuto occuparsi anche dei criminali di guerra italiani. È evidente che, in base alle leggi vigenti in Iugoslavia, in Francia o nell'Unione sovietica, quei reati rientrassero nella giurisdizione dei singoli paesi; ma essi rientravano, altresì, nella nostra giurisdizione, in base alla legge vigente in Italia: noi ci occupiamo anche di reati commessi da militari italiani a danno dei prigionieri o, comunque, dei reati - in qualsiasi ambito territoriale commessi - a danno delle popolazioni dei paesi nemici. Quindi, ecco, ben documentata, un'altra difficoltà alla ricerca delle famose ragioni che hanno favorito gli insabbiamenti, il mancato inizio di indagini e il trattenimento degli atti nell'archivio abusivo della procura generale militare.
L'argomentazione della competenza della giustizia militare italiana ad occuparsi di questi reati venne usata qualche volta allo scopo - diciamo così - di traccheggiare, di resistere alle richieste. Fu istituita una Commissione di studio, presieduta da Casati (era un politico autorevole), per individuare i criminali di guerra italiani; si intuisce, per guadagnare tempo.
Tra l'altro, vi è una lettera in cui De Gasperi comunica all'ammiraglio Stone (ritengo fosse il comandante delle forze di occupazione) che era stata istituita una Commissione, con il compito di riferire: provvederemo, egli dice, quando la Commissione avrà finito i suoi lavori. Poi, però, non si è fatto niente, probabilmente per le stesse ragioni che ho cercato di mettere in rilievo con riferimento all'altro aspetto dello stesso problema, ovvero la pretesa del nostro paese di fare processi contro i criminali tedeschi che avevano commesso crimini in Italia.
Infine, va detto che il 14 gennaio 1960 - è la data dell'archiviazione extralegale di cui vi ho parlato - era ministro della difesa il senatore Andreotti. Naturalmente, non per questo ci deve essere stato un impulso del senatore Andreotti: come magistrato, sono pronto a confermarvi la scarsissima importanza di quella archiviazione, tant'è vero che tutti i fascicoli furono tirati fuori qualche anno dopo, quando la Repubblica Federale di Germania voleva tutti gli incartamenti: allora, 20 fascicoli furono trasmessi all'ambasciata di quel paese (non so se poi siano pervenuti all'autorità giudiziaria) e 1.250-1.300 fascicoli (quelli innocui) furono trasmessi alle procure militari italiane. Un giornalista ha cercato di coinvolgere il senatore Andreotti, in quanto egli è, sulla carta, a conoscenza delle decisioni di alta politica e potrebbe esserlo anche di queste. Abbiamo cercato di convocare il senatore Andreotti, il quale ci ha fatto sapere che non sarebbe venuto e che, comunque, non sapeva nulla della questione.
Vorrei leggervi, al riguardo, una decina di righe di Giustolisi, giornalista de L'Espresso che, tra l'altro, ha coniato l'appellativo «armadio della vergogna»: «Nella vicenda dei criminali nazifascisti, culminata nel sotterramento dei loro reati nell'armadio della vergogna, compare per la prima volta il nome dell'allora giovanissimo Giulio Andreotti. È lui a firmare una lettera, sia pure per conto del Presidente Alcide De Gasperi, con la quale si concorda con le conclusioni raggiunte dalla commissione interministeriale riunitasi presso il Ministero degli affari esteri il 3 gennaio 1948» (non so a quale commissione interministeriale si riferisca, perché non l'abbiamo tra le carte). «Eppure» - continua il giornalista - «poco più di due anni fa, esattamente il 14 maggio 1999, rispondendo ad una richiesta di intervista sull'armadio della vergogna, Andreotti sosteneva di non saperne nulla. Ecco il testo:


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caro Giustolisi, ho letto il documento del Consiglio della magistratura militare che mi hai inviato. In quel documento si conferma l'insabbiamento dei crimini commessi dai nazifascisti durante l'occupazione; è una materia di cui non ho avuto mai occasione di occuparmi e riterrei poco corretto verso l'attuale ministro se interloquissi, a parte l'approfondimento che sarebbe comunque necessario; d'altra parte, il rapporto tra potere politico, ministro e magistratura militare è complesso». Queste sono le testuali parole del senatore Giulio Andreotti. A parte la vis polemica del giornalista, c'è in qualche modo un'affermazione che potrebbe meritare un approfondimento. Comunque, noi non siamo riusciti a convocare il senatore Giulio Andreotti.
Signor presidente, credo di aver concluso. Su responsabilità politiche più di tanto non posso dire, anche se ho la ferma convinzione che ci fosse la communis opinio - sia per l'interesse internazionale sia al fine di pacificazione del paese - di sopire il più possibile queste questioni; la stessa cosa vale anche per le foibe. Si possono facilmente immaginare le difficoltà del nostro Governo, che del resto trovano anche riscontro. Per quello che ho visto alla televisione, per quello che ho letto, anche in note ufficiali dei nostri massimi responsabili (mi sembra del Presidente De Gasperi, ma non vorrei sbagliare), si può intuire con quale forza, con quale animo potesse protestare il nostro Governo per la ritorsione nei confronti degli italiani, quando sul tavolo aveva le richieste di estradizione di 2 mila criminali di guerra e tra questi un migliaio circa da consegnare alle autorità iugoslave! Alla fine, probabilmente tutto è riconducibile ad un problema grave, ad un problema unico.
Comunque, a parte le responsabilità politiche, non posso non dire - in quanto sono un magistrato - che, sia pure in una situazione in cui il procuratore generale viene nominato dal Consiglio dei ministri, è dovere del magistrato di prescindere da questi aspetti e di inviare i procedimenti agli organi che devono fare le indagini. E questo, purtroppo, non è stato fatto.
Voglio aggiungere che le leggi in merito all'obbligatorietà dell'azione penale erano, all'epoca, paragonabili a quelle attualmente vigenti, anche se l'ordinamento era diverso. Chi ritiene che il pubblico ministero debba o possa dipendere dall'esecutivo può anche studiare questa vicenda sotto un altro aspetto: cioè, vedere cosa accade quando un pubblico ministero dipende dall'esecutivo.
Con questo, presidente, ritengo di aver concluso la mia relazione.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Giuseppe Rosin per la relazione svolta e rinvio il seguito dell'audizione alla prossima seduta.

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. Che, mi è stato detto, dovrebbe essere il prossimo 9 marzo...

PRESIDENTE. Le verrà comunicato, dottor Rosin.

GIUSEPPE ROSIN, Procuratore militare della Repubblica presso la Corte militare di appello di Verona. Comunque, mi vanno bene sia l'8 sia il 9 marzo. Spero di essere in grado di rispondere alle vostre domande.

PRESIDENTE. Abbiamo constatato che lei è informatissimo: sicuramente saprà rispondere. La ringrazio nuovamente; il seguito dell'audizione è rinviato alla prossima seduta.

La seduta termina alle 15.

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