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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del procuratore militare della Repubblica presso il tribunale militare di Roma, dottor Antonino Intelisano.
Ricordo che, come convenuto nel corso della riunione dell'ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, del 27 novembre 2003, nella seduta odierna avrà luogo solamente la relazione del dottor Intelisano. I componenti la Commissione potranno porre quesiti al dottor Intelisano nel corso della prossima seduta che avrà luogo giovedì 11 dicembre.
Do la parola al dottor Intelisano per lo svolgimento della relazione, ringraziandolo per la cortesia e la collaborazione.
ANTONINO INTELISANO, Procuratore militare della Repubblica presso il tribunale militare di Roma. Grazie, signor presidente. Nella relazione mi atterrò ad un criterio prevalentemente cronologico, riferendo circa gli atti iniziali della vicenda di cui si occupa la Commissione.
Nella primavera del 1994 stavo svolgendo le indagini preliminari relative al caso Priebke. Nel corso di un servizio giornalistico trasmesso negli Stati Uniti, una televisione privata comunicò di aver rintracciato in Argentina un ex ufficiale delle SS che aveva prestato servizio a Roma ed era rimasto coinvolto nell'eccidio delle Fosse Ardeatine.
Appresa la notizia mi sono attivato per acquisire ulteriori elementi, anche perché per motivi di carattere generazionale sull'episodio non sapevo molto più di quello che conosce un italiano medio. Dalla riapertura del caso, a seguito di questa notizia giornalistica, era scaturita l'indagine nei confronti dell'ex ufficiale tedesco Priebke, la cui posizione era stata stralciata dal procedimento originario - che aveva come protagonista il tenente colonnello delle SS Erbert Kappler - perché non si sapeva se fosse ancora in vita. In effetti il procedimento, originariamente, era stato aperto - sulla base del codice di procedura penale allora vigente, quello cioè del 1930 - nei confronti di Erbert Kappler più altri, tra cui Erich Priebke. Il processo conclusosi con la condanna all'ergastolo era stato celebrato solo nei confronti del Kappler che, a suo tempo, era stato consegnato dalle autorità alleate all'Italia ed era rimasto recluso nel carcere militare di Gaeta.
Avevo necessità di approfondire determinate tematiche, perché nel fascicolo ampiamente utilizzato nell'ambito del procedimento contro il Priebke - applicando le regole dell'utilizzazione degli atti previste anche dal nuovo codice di procedura penale - non avevo trovato alcuni atti, nonostante fossero indicati nell'indice. Prefigurando un'aspra battaglia procedurale ai fini dell'estradizione volevo appurare se copia di questi atti fosse altrove.
Nel codice penale militare di guerra, la perseguibilità di determinati reati è soggetta ad una condizione particolare di procedibilità: l'articolo 248 prevede l'azione penale contro comandanti in guerra o contro colpevoli di reati contro le leggi e gli usi della guerra, stabilendo che l'azione penale contro comandanti per atti commessi nell'esercizio del comando durante lo stato di guerra non può essere iniziata dopo la cessazione dello stato di guerra, se non a richiesta del ministro da cui il comandante dipendeva. Questa regola si può applicare, in analogia, in relazione all'articolo 13 del codice penale militare di guerra in ordine - questa era l'ipotesi da me coltivata - al caso di cui mi occupavo.
Ancora. L'articolo 249 prevede che per i reati contro la legge e gli usi della guerra, per i quali il Priebke era chiamato a rispondere, commessi sul territorio dello Stato italiano a danno di qualunque persona ovvero all'estero a danno delle Forze armate dello Stato italiano o degli appartenenti ad esse, da militari o da altre persone appartenenti alle forze armate nemiche, l'azione penale può promuoversi o proseguirsi ancorché per gli stessi reati sia già intervenuta sentenza di un giudice straniero, salvo quanto dispongono le convenzioni internazionali.
Sapevo che presso la procura generale militare (del tribunale supremo militare prima, e poi, dopo la riforma del 1981, alla procura generale militare presso la Corte di cassazione) doveva esserci un carteggio quanto meno di carattere generale sui crimini di guerra. Lo sapevo perché in quel carteggio era finita la corrispondenza di carattere generale successiva all'evasione del tenente colonnello Kappler nella seconda metà degli anni settanta; in quel carteggio c'era anche la pratica circa i rapporti con l'Austria per la concessione della grazia al maggiore Reder, condannato per l'eccidio di Marzabotto. Non solo, nei giorni in cui si era sviluppato un notevole clamore di stampa sulla riapertura del procedimento per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, avevo ricevuto la visita di una giovane ricercatrice, la quale mi aveva fatto vedere delle carte riguardanti una corrispondenza di carattere generale sui crimini di guerra. Di persona avevo accertato che nell'archivio generale dello Stato, alla voce «crimini di guerra-fondo Presidenza del Consiglio» c'era una corrispondenza abbastanza interessante in materia.
Feci una telefonata ai due uffici che ritenevo competenti al rilascio dell'autorizzazione per accedere all'archivio di cui ho parlato: lo dico perché mentre prima c'era solo una procura generale militare, successivamente alla riforma dell'ordinamento giudiziario militare con la legge n. 180 del 1981, le procure sovraordinate sono diventate due, l'una presso la corte militare d'appello, l'altra presso la procura generale militare. Dopo vari tentativi, ho scritto la lettera formale del 30 giugno 1994 ai due procuratori generali specificando che: «Nell'ambito degli adempimenti curati da questo ufficio in relazione alla richiesta di estradizione dell'ex capitano delle SS germaniche Erich Priebke, attualmente all'esame dell'autorità giudiziaria della Repubblica Argentina, e in relazione alle indagini preliminari relative ad attività precedenti e successive all'eccidio delle Fosse Ardeatine, è emersa la necessità di prendere visione del carteggio già esistente negli archivi della Procura generale militare presso il Tribunale supremo militare relativo a crimini di guerra commessi durante il secondo conflitto mondiale. In ordine a quanto precede si prega di volere autorizzare lo scrivente, per la parte di competenza, a prendere visione degli atti in argomento per quanto di eventuale interesse funzionale».
Passato un po' di tempo, ci fu la notizia della scoperta dell'archivio contenente i fascicoli - che non avevano avuto un seguito giudiziario -, oggetto dei lavori di questa Commissione.
Andando alla ricerca di carte di valenza specifica dal punto di vista processuale, non avrei mai immaginato di trovare una tale quantità di documenti provvisoriamente archiviati nell'armadio secondo modalità che saranno oggetto di ulteriori precisazioni.
Il seguito della vicenda non è di mia competenza, essendo stato oggetto dei lavori di una mini-commissione costituita presso palazzo Cesi - lo stabile in cui hanno sede i due uffici da me interessati -, dalla cui attività è emersa oltre all'esistenza dei fascicoli anche la loro distribuzione successiva, cioè le procure militari competenti per territorio. Ho voluto precisare questo perché per il seguito devo necessariamente rifarmi alla ricostruzione compiuta dal Consiglio della magistratura militare, che è l'organo di autogoverno della magistratura militare, in affinità al Consiglio superiore della magistratura.
La ricostruzione tiene conto volutamente e pedissequamente della deliberazione adottata dal Consiglio della magistratura militare.
La delibera era stata attivata dalla richiesta di due magistrati di sapere se alcune notizie di stampa fossero veritiere e, in caso affermativo, se il Consiglio ritenesse di adottare determinazioni al riguardo. Di questo incipit dà contezza il Consiglio della magistratura militare nella delibera approvata il 23 marzo 1999, allorché con nota in data 19 marzo 1996 il magistrato militare dottor Antonio Sabino, all'epoca componente del Consiglio, segnalava che secondo un servizio de l'Espresso in edicola «una gran quantità di procedimenti penali relativi a gravi reati commessi in Italia dalle truppe germaniche nel corso del secondo conflitto mondiale sarebbero stati trattenuti presso vari uffici giudiziari militari nella posizione di archiviazione provvisoria, o comunque non avrebbero seguito il regolare corso per l'identificazione dei responsabili. In alcuni casi (...) si sarebbe proceduto all'archiviazione nonostante l'identità ed anche la residenza degli attori di siffatti crimini risultasse già dagli atti (...)». Concludeva con la richiesta di approfonditi accertamenti «allo scopo di verificare l'eventuale coinvolgimento nella vicenda di magistrati militari ancora in servizio».
Con nota in data 15 aprile 1996 il magistrato militare dottor Sergio Dini, sostituto procuratore presso il tribunale militare di Padova, denunciava al Consiglio che a partire dal novembre 1994 erano cominciati a giungere alla procura, provenienti dalla Procura generale presso la Corte militare d'appello, dei fascicoli processuali, che nell'aprile 1996 avevano raggiunto il numero di sessanta circa, concernenti episodi verificatisi nel corso della seconda guerra mondiale in Italia, tra i quali «numerosi quelli in cui vi sono indicazioni nominative precise circa i soggetti ritenuti responsabili degli episodi criminosi».
Analogo flusso di incarti processuali si era verificato in direzione di altre procure militari. Il dottor Dini segnalava, inoltre, che nei fascicoli figurava il provvedimento di archiviazione provvisoria del procuratore generale militare presso il tribunale supremo militare. Gli incartamenti, in molti casi, comprendevano verbali di informazioni raccolte da commissioni anglo-americane di inchiesta sui crimini di guerra, atti che non erano nemmeno stati tradotti.
Il magistrato manifestava, infine, disagio e perplessità in ordine al «significato e produttività di notizie giudiziarie concernenti episodi così remoti nel tempo» e chiedeva un'indagine conoscitiva volta a stabilire l'entità del fenomeno e le ragioni e le responsabilità dell'impropria giacenza in archivio per circa mezzo secolo, nonché le modalità della riesumazione e della recente trasmissione dei fascicoli alle procure militari.
In effetti, che cosa si era verificato? Che la mini-commissione alla quale ho fatto poco prima riferimento aveva proceduto ad una disaggregazione dei fascicoli rinvenuti destinandoli alle procure competenti.
Personalmente, come procura di Roma, avevo avuto 129 fascicoli. Altri erano stati distribuiti alle altre procure militari. Più in là, proseguendo nella lettura della ricostruzione che ne ha fatto l'organo di autogoverno, troveremo il numero esatto dei fascicoli destinati alle singole procure.
A seguito di queste denunce, il consiglio, con delibera del 7 maggio 1996, istituiva un'apposita commissione, in base all'articolo 30 del regolamento interno, con il compito di stabilire «le dimensioni, le cause e le modalità del fenomeno». L'indagine, dopo l'insediamento del nuovo consiglio in data 31 luglio 1997, veniva assegnata alla commissione affari generali dello stesso organo di autogoverno. Questa attività si era estrinsecata anche con audizioni dei magistrati che potevano conoscere qualche dettaglio (io stesso ero stato chiamato a riferire in ordine alle prime richieste e ai motivi che le avevano determinate). Il consiglio aveva anche proceduto alla consultazione di atti presso gli archivi del Ministero della difesa nel carteggio e nei faldoni riguardanti la repressione dei crimini di guerra. Lamentava incidentalmente il consiglio che non aveva avuto opportunità di conoscere per tempo molte carte perché si era dato corso ad una defatigante e laboriosa procedura di declassificazione degli atti, poiché essi originariamente erano coperti da classifica di riservatezza.
Fatta questa introduzione di carattere generale, la ricostruzione della vicenda, anche nei profili cronologici più esatti, veniva così riassunta dall'organo di autogoverno.
Nell'estate del 1994, cioè successivamente all'invio della mia richiesta formale della quale ho dato poco fa contezza, in un locale di palazzo Cesi, in via degli Acquasparta 2, in Roma, sede degli uffici giudiziari miliari di appello, veniva rinvenuto un vero e proprio archivio di atti relativi a crimini di guerra del periodo 1943-1945. Il carteggio era suddiviso in fascicoli a loro volta raccolti in faldoni. Nello stesso ambito venivano alla luce anche un registro generale con i dati identificativi dei vari fascicoli e la corrispondente rubrica nominativa.
Presso la sede degli uffici giudiziari di palazzo Cesi, in effetti, c'era, oltre ai carteggi dei quali ci stiamo occupando, l'archivio dei tribunali militari di guerra soppressi. In passato c'era stato anche l'archivio del tribunale speciale per la difesa dello Stato, non perché ci fosse qualche connessione specifica con l'attività della giustizia militare, ma solo perché, con la soppressione del tribunale speciale per la difesa dello Stato, non sapendo dove mandare queste carte, per una scelta che all'epoca fu fatta, venne indicato l'archivio dei tribunali militari di guerra soppressi. Quindi, vi era una gran quantità di carte negli scantinati o comunque nell'edificio di palazzo Cesi.
Prosegue ancora il Consiglio: ad un primo sommario esame, ci si era resi conto che il materiale rinvenuto era piuttosto scottante, in quanto in gran parte costituito da denunce e atti di indagine di organi di polizia italiani e di commissioni d'inchiesta anglo-americane sui crimini di guerra. La documentazione risultava raccolta e trattenuta in un archivio, invece di essere stata a suo tempo inviata ai magistrati competenti per le opportune iniziative e l'esercizio dell'azione penale.
Il locale dell'importante ritrovamento era tra quelli di pertinenza della procura generale presso la corte militare di appello, a seguito della nuova organizzazione che si era venuta a determinare con la legge n. 180 del 7 maggio 1981, perché, come accennavo prima, originariamente la procura generale militare era unica ed era presso il tribunale supremo militare, che poi di fatto venne soppresso in seguito alla riforma dell'ordinamento giudiziario militare nel 1981.
La documentazione che era raccolta presso quell'ufficio, così come ricorda anche il consiglio della magistratura militare, era stata presa in esame per iniziativa congiunta dei procuratori generali militari, da quella mini-commissione più volte da me evocata, formata da esponenti dei due
uffici con il compito di fare una ricognizione del materiale rinvenuto e di individuare i provvedimenti da adottare.
Prosegue il Consiglio della magistratura militare: la scoperta nel 1994 dell'archivio e del suo imbarazzante contenuto non è stata il frutto di pura casualità e tuttavia le modalità dell'evento indicano come non vi sia stata da parte di alcuno una ricerca consapevole di quanto si sarebbe poi trovato, bensì soltanto di un carteggio che più genericamente poteva riguardare i reati di quel periodo. Qui il Consiglio si rifà a quella che è stata l'esposizione introduttiva di chi vi parla e cioè i motivi che mi avevano spinto a consultare un carteggio di carattere generale che sapevo esserci perché alla fine degli anni settanta, giovane magistrato, mi ero occupato della pratica di estradizione di Kappler dalla Germania in Italia dopo la sua fuga dall'ospedale militare Celio. Più esattamente ero stato comandato in missione alla procura della Repubblica di Luneburg, nella Bassa Sassonia, per istruire le prime fasi relative alla richiesta di collaborazione giudiziaria con la Repubblica tedesca; quindi sapevo che un carteggio di carattere generale doveva esserci, perché quantomeno conteneva le relazioni e gli atti riguardanti quella vicenda.
In riscontro alla richiesta di chi vi parla - dice il consiglio - ma anche per un moto di curiosità generato dall'attualità del problema dei crimini di guerra in relazione al procedimento Priebke, il procuratore generale militare presso la corte militare d'appello interpellava il dirigente della cancelleria sull'esistenza nell'ambito dell'ufficio di un carteggio del genere. Ne aveva risposta negativa. Ma il dirigente della cancelleria aggiungeva che circa vent'anni prima, periodo in cui prestava servizio nella cancelleria della procura generale presso il tribunale supremo militare, un carteggio del genere lo aveva notato in un locale adibito ad archivio al piano terra del palazzo Cesi. Si decideva allora di chiedere alla prima occasione più probanti informazioni al dottor Florio Roselli, magistrato militare in pensione sicuro conoscitore degli archivi del palazzo, in quanto aveva riordinato e curato la pubblicazione degli atti del tribunale speciale per la difesa dello Stato, atti che sono stati pubblicati - aggiungo - a cura del Ministero della difesa e che oggi, per una precisa legge che ha disposto al riguardo abbreviando i termini della pubblicazione degli atti giudiziari, si trovano integralmente nell'archivio centrale dello Stato.
In effetti - prosegue il Consiglio - in tal modo si acquisivano le indicazioni che portavano a stabilire l'ubicazione del carteggio che si cercava. Immediatamente, il 24 giugno, veniva interessato al problema anche il procuratore generale presso la corte militare di appello, oltre al procuratore generale militare presso la corte di cassazione. I lavori della mini-commissione iniziavano il 7 novembre 1994 e si concludevano il 26 maggio 1995. Solo a partire da quella data avveniva l'instradamento dei fascicoli alle varie procure competenti.
Prosegue il Consiglio: numerosi incartamenti dell'archivio contenevano corrispondenza di ufficio che non si riferiva specificamente a fatti di reato; altri numerosissimi risultavano invece atti da inviare alle competenti procure militari, in quanto contenenti denunce per crimini di guerra anche di rilevante gravità, risalenti al periodo 1943-1945. Peraltro solamente alcuni tra questi si riferivano a fatti per cui in passato già erano state adottate le opportune iniziative e si era giunti alla sentenza conclusiva del procedimento (ricordo incidentalmente che nel registro generale di quei procedimenti in effetti il primo era quello per le Fosse Ardeatine).
Un terzo circa degli incartamenti da trasmettere risultava piuttosto corposo in quanto la notizia di reato era corredata di accurati atti di indagine di organi di polizia italiana o di commissioni alleate anglo-americane, verbali questi ultimi di cui non esisteva la traduzione in italiano. Un altro terzo era costituito dalla denuncia, con qualche verbale di informazioni testimoniali. I rimanenti atti si componevano infine della sola denuncia di reato nella quasi totalità dei casi ben circostanziata.
In definitiva, i carteggi, i fascicoli che sono stati rinvenuti ammontano a 695: 2 vennero inviati per competenza territoriale alla procura militare di Palermo; 4 a Bari; 32 a Napoli; 129 alla procura di Roma; 214 a La Spezia; 108 a Verona; 119 a Torino; 87 a Padova. Quindi, prevalentemente, come numero, i fascicoli si riferivano ad episodi criminosi commessi nell'Italia centrale e settentrionale, dopo le note vicende dell'8 settembre. Tra questi, 280 circa erano stati rubricati quali procedimenti nei confronti di ignoti militari tedeschi, oppure ignoti fascisti, oppure ignoti della guardia nazionale repubblicana; gli altri 415 carteggi invece nei confronti di militari identificati, perlopiù appartenenti alle forze armate germaniche, oppure alla milizia della Repubblica sociale italiana. In gran parte dei casi, i fatti denunciati sono crimini di guerra, più particolarmente reati anche a danno di persone estranee ai combattimenti - come nel caso dell'eccidio delle Fosse Ardeatine - con prevalenza di maltrattamenti, violenze e omicidi come configurati dall'articolo 185 del codice penale militare di guerra, articolo che richiama i reati contro le convenzioni e gli usi della guerra. Tra questi, eccidi noti alle cronache di quel tragico periodo ed ancora presenti alla memoria dei superstiti e nelle lapidi commemorative erette nelle piazze del nostro paese.
Le denunce, i rapporti di polizia giudiziaria e le inchieste di questi e degli organi delle forze armate alleate vennero compiuti in tempi vicini ai fatti criminosi e quindi nell'immediato dopoguerra, o addirittura nel corso della guerra. Tuttavia - rileva il consiglio - negli incartamenti giunti alle procure esiste un'apparente giustificazione del trattenimento degli atti in un archivio, perché in effetti in ogni fascicolo compare il già citato provvedimento di archiviazione provvisoria della procura generale militare della Repubblica, ufficio procedimenti contro criminali di guerra tedeschi, sottoscritto dal titolare pro-tempore di quell'ufficio, del seguente tenore: «Letti gli atti relativi ai fatti di cui tratta il fascicolo n. ... dell'ufficio sopra indicato, poiché nonostante il lungo tempo trascorso dalla data del fatto anzidetto non si sono avute notizie utili per l'identificazione dei loro autori e per l'accertamento delle responsabilità, ordina la provvisoria archiviazione degli atti. Naturalmente, nel caso in cui l'autore del reato non era senza nome, la motivazione viene opportunamente diversificata con un semplice tratto di penna sul testo ciclostilato. Le archiviazioni a cliché figurano tutte disposte il 14 gennaio 1960».
Rileva ancora il Consiglio: «Dal registro che reca il titolo di ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi ritrovato nello stesso ambito insieme alla corrispondente rubrica nominativa, si desumono i dati riguardanti fascicoli inviati alle procure militari negli anni 1994-1996» (quella massa di fascicoli, per un numero complessivo di 695, poi ripartiti come abbiamo in precedenza indicato) «ma non solamente di questi, in quanto le notizie di reato registrate sono ben 2.274, dall'eccidio delle Fosse Ardeatine, annotato come numero 1, ad un fatto di maltrattamenti attribuito a tal Hagemann Joachim annotato con il numero 2.274. Vi figurano le indicazioni sull'autore del reato, la persona offesa, l'organo pubblico o il privato denunciante, come avveniva con il registro generale di una qualsiasi procura della Repubblica».
Nota ancora l'organo di autogoverno: «Come riportato sullo stesso registro, non tutti questi incartamenti sono stati trattenuti fino al 1994-1996. Innanzitutto i fascicoli riguardanti reati non militari, in numero di circa 260, erano stati trasmessi senza ritardo per competenza all'autorità giudiziaria ordinaria. Nello stesso periodo, cioè nell'immediato dopoguerra, alcuni fascicoli, non più di 20, risultano regolarmente inviati alle competenti procure militari. Alle medesime, poi, con provvedimenti del periodo compreso fra il 1965 e 1968, e quindi successivamente alla provvisoria archiviazione disposta nel 1960, erano stati trasmessi circa 1.250-1.300 fascicoli i quali, nessuno escluso, non comprendono - così rileva il Consiglio -
indicazioni sugli autori del reato e corrispondono pertanto a procedimenti contro ignoti».
Pertanto l'organo di autogoverno argomenta: «Solo i rimanenti fascicoli ancora nei confronti di ignoti, in numero di 280 ma anche riguardanti militari tedeschi identificati, questi ultimi in numero di 415, sono quelli dalla cui trasmissione, nel 1994-1996, ha preso l'avvio l'inchiesta di questo Consiglio. Per circa 15 di questi ultimi è annotata la trasmissione alle procure militari in più periodi» (immediato dopoguerra, anni compresi tra 1965 e 1968, anni compresi tra 1994 e 1996) come già rilevato dalla «minicommissione» mista alla quale abbiamo già in precedenza accennato. «Se non si tratta di errore materiale - rileva il Consiglio nelle annotazioni - il fatto può attribuirsi all'esistenza in archivio di più copie della medesima denuncia, a qualche disguido nella custodia del carteggio, eccetera, ma, particolare più significativo, risultano inviati alle procure militari negli anni compresi tra il 1994 e il 1996, e quindi soltanto a seguito dello scioglimento dell'archivio, anche alcuni fascicoli riguardanti persone o fatti per i quali in precedenza già si era celebrato il dibattimento dinanzi al giudice militare».
Segue un'articolata ricostruzione del contesto ordinativo, organizzativo ed ordinamentale relativo alla vicenda di interesse. Nel periodo sino all'immediato dopoguerra, in cui le denunce ed i rapporti per i crimini di guerra affluivano alla procura generale militare presso il tribunale supremo militare, e negli anni successivi in cui questo carteggio è stato dalla stessa trattenuto invece di essere trasmesso alle procure militari, ed in realtà fino alla riforma del 1981, l'ordinamento della giustizia militare stabiliva la dipendenza dei magistrati requirenti ed anche giudicanti dal procuratore generale militare, che provvedeva su promozioni, conferimenti di funzioni, trasferimenti ed in materia disciplinare. In una parola, la giustizia militare era grosso modo organizzata come qualsiasi altro corpo tecnico di carattere militare, anche se avente status civile.
Il procuratore generale, a sua volta, era nominato dal Consiglio dei ministri, come un qualsiasi alto funzionario dello Stato, che lo poteva scegliere anche da apparati diversi dalla magistratura militare; il che del resto è avvenuto per il dottor Umberto Borsari, procuratore generale militare dal 1944 al 1954, proveniente dalla magistratura ordinaria. A questa struttura di tipo gerarchico non corrispondevano tuttavia speciali norme di procedura penale che al capo del pubblico ministero militare - come testualmente il procuratore generale militare veniva definito dall'articolo 50 del regio decreto 1022 del 1941, che approvò l'ordinamento giudiziario militare - attribuissero particolari poteri in tema di esercizio dell'azione penale. Anzi, rileva il Consiglio, nel procedimento penale militare il procuratore generale militare altro non era che il titolare dell'ufficio requirente presso il giudice di legittimità, che allora era il tribunale supremo militare. Pertanto, anche a prescindere dall'improponibilità di una sua competenza esclusiva in ordine all'esercizio dell'azione penale, non gli erano nemmeno attribuiti i poteri di un procuratore generale presso il giudice di appello, nel codice Rocco più ampi di quelli attuali, quindi non aveva poteri di avocazione delle indagini e dell'esercizio dell'azione penale né, prima che nel settembre 1944 questa competenza fosse attribuita al giudice istruttore, di archiviazione per infondatezza della notizia di reato.
Questa ricostruzione ovviamente serve al Consiglio per inferire conclusioni che vedremo più in dettaglio relativamente all'abnormità di quell'archiviazione provvisoria che aveva rappresentato il timbro di chiusura per il congelamento dei 654 fascicoli rinvenuti negli archivi di palazzo Cesi.
Ecco quindi le prime conclusioni del Consiglio: «Ne deriva che il trattenimento presso la procura generale militare dei rapporti e delle denunce che vi erano arrivate provenienti da tutta Italia» -
fenomeno che quindi ha riguardato circa duemila fascicoli: 1.250-1.300 trasmessi dalle procure militari negli anni compresi tra il 1966 e il 1968 e i rimanenti soltanto nel 1994-1996 - «non è stata semplice conseguenza di decisioni non condivisibili o inopportune, bensì, più particolarmente, il frutto di un insieme di determinazioni radicalmente contrarie alla legge adottate da un organo privo di ogni competenza in materia, che hanno sistematicamente sottratto gli atti al pubblico ministero competente, e perciò impedito qualsiasi iniziativa di indagine e di esercizio dell'azione penale. Dunque, la grave violazione della legalità, sia pure con conseguenze ormai irreparabili e di ampia portata sul funzionamento dell'intera giustizia militare nel secondo dopoguerra, non può essere attribuita agli uffici giudiziari militari o alle procure militari generali bensì solamente alla procura generale presso il tribunale supremo militare, il solo ufficio responsabile, senza possibilità di controllo da parte di altri organi giudiziari, dell'indebito trattenimento dei fascicoli sui crimini di guerra».
Le proposizioni che seguono sono un riepilogo delle varie fasi relative a questa vicenda sin dal momento in cui si ritenne di costituire un ufficio centrale per i crimini di guerra, la cui esistenza, peraltro, anche se non formalmente prevista dal codice, poteva avere qualche utilità in un momento in cui c'erano effettivamente situazioni difficili dal punto di vista delle comunicazioni, da quello dei rapporti con le forze alleate e delle collaborazioni tra le varie autorità giudiziarie. Sotto questo profilo il Consiglio dice che l'illegalità ha avuto inizio negli anni dell'immediato dopoguerra, mentre titolare dell'ufficio era il dottor Umberto Borsari, quando già si sarebbe dovuta adottare per i crimini di guerra la decisione di inviare gli atti alle procure militari secondo i normali criteri di competenza territoriale. L'illegalità è proseguita negli anni successivi in cui già era terminato l'afflusso di denunce ed anche dopo il 1954, anno in cui la titolarità dell'ufficio è passata al dottor Arrigo Mirabella. In questo contesto di pregressa e persistente violazione della legge, perdono autonomo rilievo gli stessi provvedimenti di provvisoria archiviazione adottati il 14 gennaio 1960 dal dottor Enrico Santacroce, subentrato al dottor Mirabella nel 1958. Del resto, per quanto si è già detto, si tratta di decisioni del tutto inidonee a produrre un qualsiasi effetto giuridico nel procedimento e dunque con conseguenze soltanto interne all'organizzazione dell'ufficio. Importa - dice il Consiglio - rilevare invece il dato sostanziale, quello della conferma dell'illegalità anche nel lungo periodo, che si sarebbe concluso nel 1974, di titolarità del dottor Santacroce.
Per rendere più intellegibile la situazione, il Consiglio procede ad alcune considerazioni e rileva: «È naturale innanzitutto chiedersi come mai il dottor Santacroce, a differenza dei suoi predecessori, abbia voluto adottare formali provvedimenti di archiviazione e perché proprio nel gennaio 1960. Ma a questi quesiti non è possibile dare risposte attendibili in quanto dalle audizioni compiute e dallo stesso carteggio di ufficio della procura generale e del Ministero della difesa non si desume alcuna notizia al riguardo. Nondimeno, si può essere certi del fatto che relativamente al periodo compreso dal febbraio 1958, data di assunzione della titolarità dell'ufficio, al gennaio 1960, data nella quale era stata apposta la dizione di provvisoria archiviazione, il dottor Santacroce non può non avere attentamente considerato l'eredità dei fascicoli ancora chiusi dell'armadio, sia per ragioni di carattere generale, sia perché in quegli anni era all'esame della Corte costituzionale la questione di legittimità dell'articolo 6 del decreto legislativo 21 marzo 1946, n. 144, sollevata il 24 settembre 1958 dal tribunale militare di Padova, con il cui accoglimento quei carteggi già imbarazzanti a causa del tempo trascorso dai reati denunciati, sarebbero divenuti di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria.
«Il problema non doveva essere sentito come di modesta importanza almeno se si considera il fatto - probabilmente unico e certamente raro nei procedimenti dinanzi
alla Corte - che l'Avvocatura dello Stato, in data 6 dicembre 1958, con le deduzioni della costituzione in giudizio, ha sostenuto la tesi dell'abrogazione dell'articolo 6 del decreto citato per effetto dell'ultimo comma dell'articolo 103 della Costituzione». Ricordo a me stesso che tale comma prevede che la giurisdizione militare in tempo di pace sia limitata ai reati militari commessi da appartenenti alle forze armate e non può estendersi a soggetti diversi, mentre in tempo di guerra la giurisdizione militare è quella prevista dalla legge perché non ci sono queste delimitazioni così specifiche.
Con successiva memoria in data 3 giugno 1959, re melius perpensa l'Avvocatura dello Stato - ricorda ancora il Consiglio della magistratura militare - proponeva invece la tesi opposta dell'infondatezza della questione sollevata e quindi della competenza del giudice militare. La Corte costituzionale su questa vicenda decideva con la sentenza n. 48 del 9 luglio 1959 nel senso dell'infondatezza della questione e quindi di fatto, sia pure in maniera inconsapevole, favorevole alle determinazioni di quanti avevano messo una pietra sopra quegli incartamenti.
L'altra notazione del Consiglio è che nonostante l'archiviazione del 1960, negli anni compresi fra il 1965 e il 1968 ben 1.250-1.300 fascicoli vennero trasmessi alle procure militari. In definitiva, ci fu una sorta di parziale rientro dall'illegalità, dice il Consiglio, ma questo non può far passare sotto silenzio il fatto che in quell'occasione, nel più vasto ambito degli incartamenti ancora trattenuti in maniera indebita presso la procura generale, si è fatta un'opera di selezione, di modo che sono stati trasmessi soltanto fascicoli che non contenevano notizie utili per l'identificazione degli autori del reato e che non erano dunque idonei a determinare l'avvio di veri e propri procedimenti penali.
Il Consiglio ritiene di dover suffragare questa riflessione con la considerazione che segue: «Del resto, con nota di quello stesso periodo» - cioè del 27 marzo 1965 - «diretta al Ministero della difesa il procuratore generale segnalava un elenco di 20 casi per i quali era stata invece individuata l'esistenza di una documentazione sufficiente. Si trattava di incartamenti che non erano ancora stati inviati alle procure militari, che alle stesse non sarebbero stati trasmessi insieme al gran numero di procedimenti contro ignoti nel periodo compreso tra gli anni 1965 e 1968 e che a queste sarebbero infine pervenuti soltanto nel periodo compreso fra il 1994 ed il 1996, cioè successivamente al rinvenimento del noto armadio».
Il Consiglio conclude sul punto che il sistematico mancato esercizio dell'azione penale è dunque da attribuire all'abusivo trattenimento degli atti da parte della Procura generale militare. Ma non è in alcun modo pensabile che si sia trattato di determinazioni ascrivibili soltanto a personali convincimento del dottor Borsari e dei suoi successori. E sull'argomento interessanti notizie si desumono dal carteggio d'ufficio della Procura generale militare e del Ministero della difesa, cioè il carteggi di carattere generale del quale andavo alla ricerca, senza sapere dell'esistenza dei fascicoli specifici.
Rileva l'organo di autogoverno che un primo aspetto è, anzi, precedente a qualsiasi determinazione del procuratore generale, ed involge pertanto la responsabilità di altri organi e apparati dello Stato.
Dato che non è mai stata modificata la normativa di procedura penale secondo cui i rapporti giudiziari e le denunce debbono essere direttamente inviate al pubblico ministero competente per l'esercizio dell'azione penale, va chiarito innanzitutto come mai vari organi di polizia non si siano attenuti alla norma per gli atti sui crimini di guerra; incartamenti che invece giungevano direttamente alla Procura generale militare, organo estraneo alla titolarità dell'azione penale.
Nel 1945 per iniziativa del Dipartimento di Stato americano il nostro paese veniva ammesso a documentare, presso le Nazioni Unite, ai fini di una repressione penale internazionale, i crimini di guerra perpetrati in Italia dalle forze armate tedesche. Il 20 agosto, pertanto, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri si
svolgeva, con la partecipazione anche del procuratore generale militare dottor Borsari, una riunione che avrebbe assunto un'importanza fondamentale, in quanto vi venivano messi a fuoco vari aspetti del problema ed elaborate le principali direttive. Riguardo alla documentazione dei reati, emergeva che denunce ed atti di indagine già erano stati raccolti presso l'ormai soppresso ministero dell'Italia occupata, che allo scopo si era avvalso, necessariamente nei limiti del territorio via via liberato, di commissioni miste appositamente istituite a livello di prefettura. Il dottor Borsari, da parte sua, metteva in rilievo come la competenza a conoscere di quei reati perpetrati dai militari tedeschi spettasse pur sempre ai tribunali militari a norma degli articoli 13 e 232 del codice penale militare di guerra, ancora vigente.
Da altri veniva prospettato che tra gli alleati stava maturando un accordo incentrato su una distinzione tra reati «localizzabili» e reati «non localizzabili», per lasciare solamente i primi alla cognizione del giudice nazionale del luogo dove erano stati consumati, mentre i secondi sarebbero stati attribuiti alla competenza di un tribunale internazionale. Nasceva nella stessa riunione l'idea - con l'evidente finalità di costituire un unico centro di denuncia dei crimini di guerra all'ONU, senza per ciò essere di ostacolo all'esercizio dell'azione penale da parte dei procuratori militari - di far confluire tutta la documentazione presso la procura generale militare.
A seguito della riunione del 20 agosto, la Presidenza del Consiglio dei ministri emanava infatti in data 2 ottobre 1945 disposizioni secondo cui «il materiale di informazione già raccolto e quello che perverrà in seguito dalle questure, dai comandi dei carabinieri, nonché dai Comitati provinciali di liberazione nazionale, ... dovrà essere accentrato presso la procura generale militare, che provvederà ad esaminarlo per estrarne le denunzie del caso». Nel contempo alla stessa procura generale veniva inviato il modello della scheda per la presentazione delle denunce alla commissione per i crimini di guerra delle Nazioni Unite.
Il successivo 7 novembre 1945 il procuratore generale, con nota diretta alla Presidenza del Consiglio dei ministri e ai ministeri interessati, comunicava di aver dato vita, per la trattazione delle pratiche sui crimini di guerra, ad un apposito ufficio, con cui si sarebbe provveduto: all'istituzione di un archivio generale utile a fini sia di documentazione, sia giudiziari; alla trasmissione della denunce ai procuratori militari competenti per territorio «ai quali saranno date istruzioni per un rapido ed efficace svolgimento delle indagini»; alla segnalazione di quanto necessario in ordine agli atti di assistenza giudiziaria internazionale. Nella stessa nota il procuratore generale dottor Borsari poneva anche l'accento su aspetti più problematici: era urgente e necessaria la fissazione, da parte degli alleati, dei criteri di competenza degli organi di giustizia internazionale, in mancanza dei quali la denuncia dei crimini di guerra all'ONU, impegno cui la procura generale avrebbe senz'altro adempiuto, non avrebbe apportato deroghe alla competenza dei tribunali militari ed innanzitutto delle procure militari preposte allo svolgimento delle preliminari indagini; peraltro, senza l'aiuto della comunità internazionale e degli alleati le procure non avrebbero potuto conseguire risultati apprezzabili, in ordine alla ricerca ed all'acquisizione delle prove ed al fermo degli autori dei reati.
Conclude il Consiglio che risulta dunque bene documentata l'origine dell'archivio sui crimini di guerra presso la procura generale militare, e l'assunzione da parte di questa di competenze extralegali, sulla base di semplici intese con gli organi di Governo. E al tempo stesso l'originario intendimento del procuratore generale dottor Borsari di non discostarsi dalla legalità. Rimane invece non chiarito quali specifici fattori siano successivamente intervenuti a mutare i suoi orientamenti in materia.
Qui si va ad una ricostruzione storica che tiene conto non solo di una serie di
documenti rinvenuti o esaminati dal Consiglio, ma anche di ricerche storiografiche che hanno fatto luce in questa direzione. Secondo il Consiglio, proprio grazie alla buona disposizione ed all'assistenza giudiziaria prestata dalle autorità alleate di occupazione tramite uffici appositamente costituiti, nell'immediato dopoguerra dinanzi ai tribunali militari si sono celebrati alcuni processi, nei quali con la cooperazione si erano superate le difficoltà per la ricerca delle prove dei reati e per il rintraccio e la consegna dei colpevoli al nostro paese (tra questi casi rientrava il primo processo per l'eccidio delle Fosse Ardeatine a carico del tenente colonnello Erbert Kappler). È altrettanto noto, anzi è un fatto fondamentale nella storia del secondo dopoguerra, che la situazione politica si è poi rapidamente evoluta verso la logica dei due blocchi di Stati contrapposti e la guerra fredda, con l'esigenza anche da parte dell'Occidente di attribuire un preciso ruolo difensivo antisovietico alla stessa Germania sconfitta. Sta di fatto, per quanto ci riguarda, che man mano si affievoliva l'assistenza giudiziaria, sino a cessare intorno al 1948, con la soppressione degli uffici a suo tempo istituiti dalle autorità alleate.
Con la successiva costituzione della Repubblica federale di Germania, il problema dell'assistenza giudiziaria ha poi assunto tutte le difficoltà e rigidità tipiche dei rapporti tra Stati. Tra l'Italia e la Germania era allora in vigore il trattato approvato con legge 18 ottobre 1942, n. 1344, per cui l'estradizione verso il nostro Paese non era consentita dalla condizione di cittadino tedesco e dalla natura politica dei reati.
Tutto questo - elementi di ampio rilievo internazionale, o riguardanti la più limitata storia della repressione dei crimini di guerra nel nostro paese - è pacificamente noto e documentato. Rimane in ogni caso problematico a che cosa attribuire la determinazione del procuratore generale, in contraddizione anche con il suo progetto originario, di non attenersi alla norma basilare per cui le notizie di reato militare vanno senza ritardo comunicate alle procure militari, le sole titolate allo svolgimento delle indagini e all'esercizio dell'azione penale.
L'assistenza giudiziaria reciproca era stata intensa, come è documentato nello stesso carteggio, in cui compaiono ricerche in collaborazione e persino il dettagliato elenco dei criminali di guerra richiesti alle autorità alleate. Ma di certo il suo venire meno non può assurgere a specifica ragione per cui il procuratore generale militare ha nel tempo valutato che gli incartamenti non erano da inviare alle procure militari. Queste avrebbero ugualmente potuto fare quanto di dovere, sia pure con risultati più modesti di quelli conseguibili con l'assistenza giudiziaria degli alleati.
Se si ritiene, tuttavia, che nell'illegalità delle determinazioni della procura generale militare non possano che essere confluiti motivi di opportunità politica, in un certo senso una superiore ragione di Stato - per la prima volta viene evocata una ipotesi alla base del congelamento dei fascicoli - dal carteggio acquisito se ne può desumere una puntuale definizione. Verso la fine del 1956 un procuratore militare si era rivolto all'autorità di Governo per un'ennesima istanza di estradizione, da presentare al Governo della Repubblica federale di Germania. L'esito dell'iniziativa non poteva essere diverso da quello adottato per altri casi dal nostro Governo, in considerazione delle disposizioni del trattato italo-tedesco.
Nondimeno, il ministro degli esteri con nota del 10 ottobre 1956 diretta al ministro della difesa riguardante proprio l'estradizione ipotizzata dal procuratore militare, nell'esporre i vari argomenti contrari all'iniziativa, tra l'altro chiaramente si soffermava sui non trascurabili «... interrogativi (che) potrebbero far sorgere da parte del Governo di Bonn una nostra iniziativa che venisse ad alimentare la polemica sul comportamento del soldato tedesco. Proprio in questo momento infatti tale Governo si vede costretto a compiere presso la propria opinione pubblica il massimo sforzo, allo scopo di vincere la resistenza che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle forze armate, di
cui la NATO reclama con impazienza l'allestimento». E pienamente adesiva era poi la nota di risposta del ministro della difesa in data 29 ottobre 1956.
In ogni caso, non sarebbe facilmente confutabile che, trascorsi i primi anni del dopoguerra, al procuratore generale militare non può essere sfuggito come l'invio di migliaia di incartamenti alle procure militari, evento secondo legge e per ciò scontato se compiuto a tempo debito, era con gli anni divenuto ormai inopportuno da molti punti di vista, e tale da dare adito alle più disparate interpretazioni, compreso il significato di un tardivo risveglio di orientamenti contrari alla Repubblica federale tedesca e forse per ciò stesso alla cooperazione atlantica ed europea. Ma, anche senza voler scomodare le implicazioni di carattere internazionale, è certo che lo stesso procuratore generale, una volta lasciato l'ambito della legalità, non può non avere considerato, quali dati di rilievo, che un gran numero di procedimenti sarebbe finito senza esiti apprezzabili con la burocratica sentenza nei confronti di ignoti; che anche le sentenze dibattimentali sarebbero risultate prive di effetti pratici, dato che non era possibile l'estradizione degli imputati dalla Germania; che per il ritardo nella comunicazione della notizia di reato la procura generale militare avrebbe potuto finire sotto inchiesta, eccetera. Pertanto, non sarebbe azzardato ritenere che per l'iniziale violazione della legge il procuratore generale militare sia poi venuto a trovarsi in un vicolo cieco, quasi senza poteri ed iniziative nei confronti di un avvenimento ormai compiuto.
Sta di fatto che nel 1965, a vent'anni circa di distanza dai reati, le sentenze dibattimentali pronunciate dai tribunali militari per crimini di guerra erano appena 13, per un totale di 25 imputati. E non tutti questi procedimenti avevano preso avvio da documentazione proveniente dalla procura generale militare.
Il Consiglio si sofferma su altri dettagli che, pur non riguardando il nucleo centrale della vicenda, aggiungono delle pennellate rispetto alle considerazioni da me espresse. Va sottolineata la circostanza relativa alla prescrizione ventennale. Il Consiglio rileva che con il tempo è sempre più scemato l'interesse per i crimini di guerra, anche se ci sono state significative manifestazioni di segno opposto, di cui è clamoroso esempio il caso Priebke: di conseguenza, occorre approfondire meglio alcuni aspetti della vicenda.
In questo contesto l'organo di autogoverno fa riferimento alla metà degli anni sessanta. Quando già pareva che il problema dei crimini di guerra fosse chiuso, si ebbe un'intensa fermata di interesse tale da fare quasi saltare il coperchio che vi era stato posto sopra. La vicenda, negli aspetti che più riguardano l'indebita archiviazione dei procedimenti, non ebbe però riscontri presso l'opinione pubblica e rimase circoscritta nell'ambito dei rapporti tra uffici e Governi.
Tutto nacque dall'iniziativa presa dal Governo della Repubblica federale di Germania, il quale, all'avvicinarsi dell'8 maggio 1965, data in cui in quel paese si sarebbe applicata ai reati commessi dai nazisti la prescrizione ventennale, il 20 novembre 1964 aveva deciso di chiedere ai Governi stranieri amici, alle organizzazioni e ai privati, tutto il materiale di prova disponibile su quei crimini per metterlo a disposizione dell'autorità giudiziaria germanica entro il 1o marzo 1965.
Nel nostro paese la richiesta veniva passata alla procura generale militare che, come abbiamo più volte detto, era depositaria del noto archivio. Con una lettera di risposta, che reca la data del 16 febbraio 1965, lettera diretta al Ministero della difesa, il procuratore generale dell'epoca non mancava di affermare che l'autorità giudiziaria italiana «conserva il pieno esercizio della propria giurisdizione per i reati e che la legge italiana è più rigorosa in materia di prescrizione dei reati in questione». Quanto alla richiesta della documentazione comunicava che, dal riesame del materiale dell'archivio, emergevano casi, peraltro non numerosi, di crimini tuttora impuniti per i quali vi è una sufficiente documentazione.
Su quest'ultima inaspettata e forse incauta comunicazione, certamente non da
poco in quanto era il procuratore generale militare ad ammettere di avere a sua disposizione una sufficiente documentazione riguardante crimini di guerra ancora impuniti, si appuntava l'attenzione dei Governi italiano e tedesco. Richiesto di voler dare più specifiche informazioni al riguardo, il procuratore generale, il 27 marzo 1965, comunicava al Ministero della difesa un elenco di venti casi per i quali si è in possesso di una documentazione che può ritenersi sufficiente sia in ordine alla prova sui fatti sia in ordine all'identificazione degli autori.
Va ricordato - prosegue il Consiglio - che nel frattempo, in data 25 marzo, il Parlamento tedesco aveva deciso di prorogare la scadenza del termine di prescrizione ventennale facendolo decorrere dal 1o gennaio 1950. Presso la procura generale militare, si lavorava per trasmettere al pubblico ministero soltanto i procedimenti contro ignoti militari tedeschi, che infatti nei due o tre anni successivi puntualmente giungevano alle procure militari in numero di 1.250-1.300.
Con successiva nota in data 10 aprile 1965, il procuratore generale autorizzava l'invio dell'elenco al Ministero degli esteri e all'autorità tedesca. Nel frattempo, in riscontro di una nota verbale del Governo di quel paese, faceva sapere che non v'erano in via di principio motivi ostativi alla trasmissione all'autorità tedesca anche dei corrispondenti fascicoli. Avvertiva peraltro con diligenza che, essendo parte degli atti in lingua inglese ed alcuni in lingua tedesca, sarebbe stato necessario l'intervento degli interpreti del ministero e che per la traduzione e la copia del materiale da inviare si sarebbe andati incontro ad una spesa rilevante.
In effetti, la pratica non si esauriva poi in breve tempo appunto per le ragioni indicate dal procuratore generale. Si giungeva così all'estate 1966 e con nota in data 12 luglio la procura generale militare, non senza che fosse intervenuta una nuova richiesta da parte del Governo tedesco, trasmetteva finalmente i venti fascicoli al ministero per l'invio, tramite il Ministero degli esteri, all'ambasciata della Repubblica federale di Germania. «Il seguito non si conosce» rileva il Consiglio.
Dopo questa vicenda, il problema dell'archivio e dei crimini di guerra non è quasi più considerato nel carteggio d'ufficio della procura generale militare del Ministero della difesa.
Rileva conclusivamente su questo aspetto il consiglio che l'unica nota è del 28 aprile 1967. Il procuratore generale militare, per il tramite del Ministero della difesa e poi di quello degli esteri, in riscontro ad una richiesta del Centro di documentazione ebraico di Vienna, comunicava le notizie ricavate dai fascicoli in archivio sul conto di una dozzina di criminali di guerra segnalati dal centro stesso e che nei loro confronti non erano in corso procedimenti dinanzi al tribunale militare.
L'eco di questa vicenda - come è noto - è stata ampia nella stampa di informazione, soprattutto è stata oggetto di particolare attenzione da parte del giornalismo cosiddetto investigativo, che, attingendo da fonti archivistiche diverse da quelle a cui aveva attinto il consiglio della magistratura militare, ha pubblicato anche documenti in copia, o comunque ha dato notizia ampia del contenuto di documenti che sono stati ritrovati relativamente ai rapporti tra il Ministero della difesa italiano, il Ministero degli esteri e i corrispondenti organi tedeschi. Quindi, si è ingenerata e ha preso quota la tesi - a questo punto storiografica - che per determinare l'affossamento o comunque l'archiviazione di quei carteggi si dovesse risalire al periodo storico particolare che viveva l'Europa: dopo il fallimento della Comunità europea di difesa c'era stato un travaglio per quanto riguarda la posizione della NATO (c'era la costituzione dei blocchi) e non si poteva - accenna il Consiglio della magistratura militare - pregiudicare il buon nome della nuova Germania; non si potevano correre rischi in un momento in cui c'era la contrapposizione dei blocchi militari.
La tesi storiografica più ampia, o comunque un approfondimento storiografico
più ampio in questa direzione è stato compiuto dai consulenti della Commissione permanente difesa della Camera che, alla conclusione della scorsa legislatura, ha condotto un'indagine conoscitiva in questa direzione. Il professor Pezzino dell'università di Pisa, che è stato consulente della Commissione giustizia della Camera, ha dato un ampio contributo alla vicenda, quindi non mi soffermerò sull'indagine conoscitiva compiuta dalla Camera. Devo però dire che negli ultimi tempi, sul piano storiografico, è stata avanzata anche un'ulteriore tesi che non smentisce le acquisizioni storiografiche alle quali ho fatto riferimento, ma probabilmente è complementare rispetto ad esse. Questa tesi si riferisce a polemiche che c'erano state relativamente a richieste da parte iugoslava per la consegna di nostri alti ufficiali in relazione a fatti qualificati come possibili crimini di guerra, o qualificati tout court in questo modo dalle autorità iugoslave. Allora, la richiesta di consegna di militari italiani avrebbe potuto innescare un procedimento che sarebbe stato alimentato inevitabilmente da polemiche qualora da parte italiana ci fosse stata una richiesta di collaborazione alle autorità tedesche.
Per la parte di documentazione che ho potuto vedere nel fondo esistente presso l'archivio centrale dello Stato, per la verità, la tesi della ragion di Stato connessa all'inopportunità al momento della formazione dei blocchi militari di creare problemi di immagine alla parte tedesca è quella che appare più consistente. Si tratta comunque di un accertamento, di un'indagine che io non ho compiuto funditus, perché mi interessava solo a titolo di curiosità personale non essendoci implicazioni di carattere giudiziario. Quindi non sono in condizione di fare una valutazione e una comparazione tra le varie tesi storiografiche che possono essere evocate in questa materia.
PRESIDENTE. La ringrazio, dottor Intelisano per l'esaustiva relazione svolta e rinvio il seguito dell'audizione a giovedì 11 dicembre 2003.
La seduta termina alle 15,50.
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