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Seduta del 28/7/2004


ALLEGATO


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RELAZIONE ALLE CAMERE SULL'ATTIVITÀ SVOLTA

I N D I C E

1. - Premessa.
1.1. - Attività della Commissione.
1.2. - Commissariamenti per l'emergenza rifiuti.
1.3. - Indagine sui rifiuti speciali pericolosi.

2. - Analisi delle realtà regionali esaminate.
2.1. - Calabria.
2.2. - Campania.
2.3. - Friuli Venezia Giulia.
2.4. - Lazio.
2.5. - Liguria.
2.6. - Lombardia.
2.7. - Puglia.
2.8. - Sardegna.
2.9. - Sicilia.
2.10. - Toscana.

3. - Il quadro normativo in evoluzione: la spinta riformatrice del diritto comunitario.
3.1. - Premessa.
3.2. - Gestione delle discariche.
3.3. - Gestione dei veicoli fuori uso.
3.4. - La definizione giuridica del termine «rifiuto».
3.5. - Gestione dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche.
3.6. - Bonifiche dei siti inquinati.

4. - Criminalità ambientale.
4.1. - Premessa.
4.2. - Le indagini seguite dalla Commissione.
4.3. - L'emergenza diossina nella provincia di Caserta.
4.4. - I traffici illeciti.
4.5. - Le strategie di contrasto e di repressione.
4.6. - La protezione penale dell'ambiente negli atti dell'Unione Europea.
4.7. - Prospettive di riforma.

5. - Criminalità ambientale transnazionale.
5.1. - Quadro d'insieme.
5.2. - Il caso Somalia e la vicenda Ilaria Alpi.


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1. Premessa

1.1 Attività della Commissione.

Il Parlamento ha dimostrato, con l'approvazione a larga maggioranza della legge no 399 del 31 ottobre 2001, istitutiva della Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, una particolare sensibilità per le tematiche ambientali. La consapevolezza delle difficoltà che la Commissione istituita nella XIV legislatura avrebbe dovuto affrontare si riflette nella formulazione iniziale del testo della legge laddove si stabilisce che la durata della stessa Commissione si estende all'intera legislatura. Le problematiche e le criticità afferenti al complesso sistema del ciclo dei rifiuti nel territorio nazionale, che avevano portato nella XII legislatura all'istituzione di una Commissione d'inchiesta monocamerale e nella scorsa legislatura all'approvazione della legge n. 97 del 10 aprile 1997, istitutiva di una Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle connesse attività illecite, furono ritenute meritevoli di approfondimento e di analisi dall'intero Parlamento anche all'inizio della presente legislatura, soprattutto in relazione a taluni profili di vera e propria emergenza ambientale nello smaltimento dei rifiuti, tali da produrre ancor oggi, in relazione a specifiche aree regionali, incombenti rischi di gravi pregiudizi all'ambiente ed alla salute dei cittadini.
Se da un lato appaiono apprezzabili l'attenzione e l'impegno mostrati dalle Camere nel promuovere inchieste parlamentari in ordine alle tematiche collegate al ciclo dei rifiuti, tende tuttavia a profilarsi, dato allarmante, la non incoraggiante considerazione che l'istituzione, in tre legislature consecutive, di tre omologhe Commissioni d'inchiesta su tale materia, dimostri l'assoluta difficoltà del tentativo di superare le gravi situazioni di criticità, che spesso assumono caratteristiche macroscopiche ed emergenziali ed alimentano pericolose tensioni sociali, che afferiscono alla gestione del ciclo dei rifiuti solidi urbani, speciali pericolosi, radioattivi e che trovano causa in una pluralità di problematiche quali le perduranti carenze normative; le inadempienze dei competenti enti e soggetti pubblici o privati; le distorsioni dei sistemi che presiedono alle diverse fasi della raccolta, del trasporto, del trattamento, del recupero, dello smaltimento delle diverse tipologie di rifiuti; l'infiltrazione della criminalità organizzata.
Al fine di affrontare adeguatamente la sfida alla comprensione ed alla conseguente risoluzione delle molteplici questioni esaminate nel corso dei lavori la Commissione ha ritenuto opportuno avvalersi, ai sensi dell'articolo 6 della legge istitutiva, del supporto e delle competenze tecniche di consulenti e collaboratori che hanno fornito un prezioso contributo all'attività d'indagine della Commissione. Nello svolgimento della propria attività istituzionale la Commissione ha proceduto all'audizione in sede di oltre 250 persone; complessivamente sono state effettuate 22 missioni, di cui due all'estero, durante le quali sono state sentite 800 persone e svolti numerosi sopralluoghi presso siti d'interesse della Commissione; sono stati altresì organizzati tre Convegni: il 22 ottobre 2002 a Roma un Convegno sul tema


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«Indagine conoscitiva sulle discariche abusive», in collaborazione con il Corpo Forestale dello Stato; il 1o aprile 2004 a Salerno un Convegno sul tema della qualificazione giuridica del termine «rifiuto», in collaborazione con l'Università degli Studi di Salerno; il 16 luglio 2004 a Venezia un Convegno sulle bonifiche dei siti inquinati, in collaborazione con l'Università Ca' Foscari di Venezia. L'esercizio delle funzioni d'indagine si è calibrato sempre su modalità collaborative nei confronti degli interlocutori; non si è mai ravvisata la necessità di attivare il ricorso ai poteri dell'inchiesta giudiziaria garantiti dalla legge istitutiva. In particolare, allo scopo di conseguire un'esperienza diretta della realtà nelle varie regioni italiane, si è proceduto ad assumere informazioni mediante apposite missioni regionali nel corso delle quali sono stati visitati impianti di diversa tipologia al fine di poter confrontare nel complessivo panorama nazionale i sistemi di gestione del ciclo dei rifiuti che presentano aspetti di eccellenza e quelli caratterizzati invece da profili di criticità. Altrettanto utili sono risultate le audizioni svolte nel corso delle missioni e che hanno consentito di ottenere una adeguata e sintomatica rappresentazione delle concrete difficoltà presenti in ambito locale, delle metodiche con cui gli enti locali, le amministrazioni competenti, gli imprenditori e i diversi operatori interessati affrontano nei singoli territori, ed in presenza di mutevoli condizioni di impiantistica e di condizionamenti della criminalità organizzata, le problematiche comuni all'intero territorio nazionale; dello sforzo dell'autorità giudiziaria e delle forze investigative nel contrastare i comportamenti criminosi in campo ambientale; particolare attenzione è stata altresì dedicata ai contributi forniti dal ricco panorama dell'associazionismo ambientalista, che costituisce senza dubbio un osservatorio privilegiato delle condizioni ambientali di ogni specifica realtà del territorio nazionale. Allo stato dei lavori la Commissione ha approvato cinque documenti, compreso il presente: nella seduta del 18 dicembre 2002 il documento sui commissariamenti per l'emergenza rifiuti, nella seduta del 16 aprile 2003 il documento sull'attuazione della direttiva 2000/53/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai veicoli fuori uso, nella seduta del 4 novembre 2003 la Relazione territoriale sulla Calabria, nella seduta del 18 dicembre 2003 il secondo documento sui commissariamenti per l'emergenza rifiuti e nella seduta del 1o luglio 2004, il documento sulla nozione giuridica del termine «rifiuto». Tali documenti, approvati dalla Commissione, sono stati trasmessi ai Presidenti delle Camere, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge istitutiva.

1.2 Commissariamento per l'emergenza rifiuti.

La Commissione ha svolto attività conoscitive volte ad approfondire e a verificare la situazione relativa ai commissariamenti per la gestione dell'emergenza rifiuti, attualmente in corso nelle regioni della Calabria, della Campania, del Lazio, della Puglia, e della Sicilia, in riferimento alla scadenza, fissata per il prossimo 31 dicembre 2004, della dichiarazione dello stato di emergenza per le suddette Regioni; stato di emergenza già prorogato ripetutamente nel corso degli ultimi anni.


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Sono stati approfonditi nel corso dei lavori anche aspetti relativi alla legittimità di taluni provvedimenti emanati nel corso della gestione commissariale, alla luce di alcune pronunce della giurisprudenza amministrativa. La delega di poteri straordinari ad un commissario richiede il verificarsi di eventi straordinari per la loro natura e qualità, nonché la presenza di condizioni essenziali quali la delimitazione temporale della deroga al regime ordinario, la specificità dei poteri conferiti al Commissario straordinario, l'esistenza di un nesso di strumentalità tra la situazione di emergenza e le norme alle quali è consentito derogare, in virtù dei poteri straordinari conferiti al Commissario. Il Consiglio di Stato ha valutato la sussistenza di tali requisiti in occasione dell'esame di alcune controversie ed ha annullato, con efficacia erga omnes, l'ordinanza del Ministro dell'Interno nella parte in cui aveva attribuito al Commissario straordinario, in via generale, «l'esercizio delle funzioni amministrative relative alla gestione dei rifiuti». Nella suddetta decisione (Cons. Stato, sez. V, n. 6809/02 depositata il 13 dicembre 2002) si è infatti ritenuto «eccessivo» qualificare in termini emergenziali un intervento svoltosi in un periodo di tempo di più anni. Il regime commissariale prolungato è stato valutato come una «sovrapposizione di un sistema amministrativo e di gestione alternativo a quello ordinario». La Commissione ritiene che la complessiva vicenda dei commissariamenti per l'emergenza rifiuti dimostri che i confini di legittimità dell'utilizzo dell'istituto del Commissario straordinario debbano essere tenuti ben presenti e che sia necessario porre fine quanto prima alla gestione commissariale del sistema dei rifiuti.
Peraltro il rientro nel regime ordinario dovrebbe avvenire senza soluzione di continuità attraverso un «passaggio controllato» alle competenze ordinarie, con la consapevolezza che il percorso intrapreso verso un ciclo integrato di raccolta e di smaltimento debba essere in grado di fronteggiare le difficoltà della gestione ordinaria, in completa autonomia dal punto di vista delle competenze locali.
In tale ottica un piano di rientro potrebbe essere collegato a specifici interventi di completamento dell'attività attualmente in corso, con la chiara prescrizione di modalità e limiti temporali delle proroghe eventualmente conferite. È infatti nel corso del regime ordinario della gestione del ciclo dei rifiuti che devono essere misurate le performance qualitative del meccanismo della raccolta differenziata, dell'efficienza dell'impiantistica e della funzionalità del complessivo sistema integrato, dovendo invece le strutture commissariali limitarsi a disegnare l'architettura di tali elementi, capisaldi di una buona gestione del ciclo dei rifiuti.

1.3 Indagine sui rifiuti speciali pericolosi.

A seguito della grave vicenda che nel gennaio 2003 coinvolse lo stabilimento Enichem di Priolo la Commissione ha attivato specifiche iniziative d'indagine sulla gestione e sulle modalità di smaltimento dei rifiuti speciali pericolosi, in relazione ai maggiori poli industriali che producono tale tipologia di rifiuti nel territorio nazionale. Tutti i gruppi parlamentari hanno prospettato l'opportunità di procedere ad


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un approfondimento, anche mediante apposite missioni della Commissione, delle problematiche inerenti la gestione del ciclo dei rifiuti speciali pericolosi e il sistema delle bonifiche dei siti inquinati d'interesse nazionale. La Commissione ha quindi svolto una attenta ricognizione ed un monitoraggio ad ampio spettro di tutti i dati e i profili di conoscenza più significativi e sintomatici della situazione presente nell'intero territorio nazionale, anche mediante il confronto ed il contributo degli enti ed organismi competenti, quali regioni, province, agenzie dell'ambiente (Arpa), forze di polizia e magistratura, nonché la dirigenza amministrativa e tecnica che presiede alla gestione degli impianti medesimi. L'obiettivo dell'indagine consiste nell'individuazione, partendo dalla verifica dei sistemi esistenti per la gestione dei fenomeni considerati, delle forme di gestione integrata delle singole competenze per verificare il determinarsi di positivi effetti sinergici per un'azione coordinata ed efficace, al fine di individuare possibili lacune o distorsioni che potrebbero agevolare, anche indirettamente, condizioni di irregolarità ed illiceità nella gestione del ciclo dei rifiuti speciali. Si è proceduto quindi alla verifica dei profili di criticità e delle eventuali carenze normative che connotano l'attuale sistema di gestione e smaltimento dei rifiuti speciali pericolosi. L'indagine, sulle cui risultanze è già possibile fornire elementi di valutazione in altra parte della relazione, ha riguardato siti ed impianti produttivi particolarmente significativi in ragione della loro collocazione geografica e della tipologia di rifiuti ad essi connessa. In particolare la Commissione ha svolto appositi sopralluoghi presso impianti dell'industria chimico-siderurgica, tra cui quelli presenti nei siti di Taranto, Manfredonia e Brindisi; Sarroch, Portovesme e Porto Torres; Gela, Priolo, Augusta; saranno quanto prima esaminate le problematiche afferenti agli impianti di Ravenna, Ferrara e Mantova. Sono state altresì approfondite le questioni afferenti i siti a rischio amianto, quali quelli presso Biancavilla e Bagnoli, nonché i siti di rifiuti radioattivi, quale la Cemerad. In ordine al sito di porto Marghera un pool di consulenti istituzionali, esponenti delle forze investigative, sta svolgendo un approfondito esame al fine di far luce sulle problematiche che riguardano le specifiche modalità di trattamento, smaltimento e riutilizzo di tale tipologia di rifiuti, con particolare riferimento allo studio integrato dei flussi.

2. Analisi delle realtà regionali esaminate

2.1 Calabria.

Il 4 dicembre 2004 la Commissione ha approvato all'unanimità la relazione sul ciclo dei rifiuti in Calabria (doc. XXIII n. 4). L'indagine ha fornito un quadro completo sui livelli di attuazione della legislazione inerente alla gestione del ciclo dei rifiuti nella regione. Particolare attenzione è stata dedicata alle problematiche relative a specifici siti inquinanti, alla consistenza ed utilizzazione delle discariche, alla realizzazione e al funzionamento degli impianti di trattamento dei rifiuti solidi urbani, ai provvedimenti adottati per la concreta riduzione dello smaltimento in discarica dei rifiuti attraverso


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il reimpiego e il riciclaggio, nonché all'accertamento di eventuali interessi e coinvolgimenti della criminalità organizzata nella gestione del ciclo integrato dei rifiuti. Si è proceduto quindi ad acquisire elementi di valutazione sullo stato di attuazione del piano di gestione approvato dal Commissario delegato. La struttura commissariale per l'emergenza rifiuti ha evidenziato forte determinazione nell'intento di imprimere una svolta ed una accelerazione nel programmare e realizzare le più idonee iniziative volte a consentire al territorio della Calabria di superare lo stato di precarietà e di emergenza nello smaltimento dei rifiuti. Dalle relazioni acquisite dalla Commissione si registra, per quanto concerne la presenza in Calabria della criminalità organizzata nel settore dei rifiuti, un decremento dei reati rispetto agli anni precedenti. Si segnalano infatti meno reati specifici connessi al traffico di rifiuti tossici e pericolosi provenienti da altre regioni e dall'estero, sversati in discariche abusive. I poteri delegati al Commissario straordinario hanno consentito peraltro di poter interdire l'ingresso nella regione di carichi di rifiuti provenienti da altre regioni o dall'estero e di ridurre i centri decisionali per l'impegno e l'erogazione di risorse finanziarie pubbliche, che hanno sempre rappresentato occasione di infiltrazione della criminalità. Sono stati altresì adottati criteri e modalità operative per la gestione integrata dei rifiuti che offrono maggiori garanzie di legalità. Tutti gli impianti tecnologici sono stati programmati con il sistema del project financing. Sono tuttora in corso indagini tese a far luce sull'andamento di alcune gare d'appalto per lo smaltimento dei rifiuti. Purtuttavia dal complesso dei dati e degli elementi informativi acquisiti nel corso dell'indagine emerge una situazione di forte pervasività della criminalità organizzata nelle diverse fasi del ciclo integrato dei rifiuti, con la presenza di condizionamenti illeciti non certo marginali sul complessivo circuito della gestione e dello smaltimento dei rifiuti. Per l'intera regione è stata elaborata una mappa delle discariche, che costituisce un rilevante strumento per le azioni di recupero ambientale e di tutela. La tutela dell'ambiente, coinvolgendo i più intimi diritti sociali, richiede un'azione dei pubblici poteri forte, responsabile e capace di tutelare con carattere di priorità gli interessi generali. La complessità dei procedimenti per contrastare i reati ambientali, che richiedono accurate indagini investigative ed analisi anche di esperti esterni all'amministrazione giudiziaria, con costi e tempi tecnici notevoli, non sempre compatibili con i termini di prescrizione dei reati contestati, induce ad immaginare nuovi strumenti legislativi. Strumenti che siano in grado di assicurare in tempi rapidi, come auspicato sia dall'autorità giudiziaria sia da quella investigativa, una più efficace tutela giuridica a difesa dei reati dell'ambiente per consentire adeguate azioni investigative, idonee a bloccare tempestivamente traffici illegali di rifiuti tossici, evitando, con appropriate azioni di prevenzione, la realizzazione di impegnativi progetti di bonifica, che richiedono peraltro cospicue risorse finanziarie.
Alla luce dei passi avanti compiuti nella complessiva gestione del ciclo dei rifiuti appare opportuno ricondurre quanto prima la regione ad una condizione di ordinarietà, non ritenendosi ulteriormente sussistente quella situazione di emergenza nel settore dei rifiuti che aveva determinato il commissariamento della regione.


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2.2 Campania.

1) Premessa.

L'8 luglio 1998 la Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e le attività illecite ad esso connesse istituita nella XIII legislatura presentava ai Presidenti delle Camere la relazione sulle indagini effettuate nella regione Campania. Le conclusioni alle quali la precedente Commissione giungeva, al termine di un vasto lavoro di indagine, hanno rappresentato il punto di partenza delle attività della Commissione d'inchiesta istituita in questa legislatura che, nell'ambito delle attività cui è stata preposta, ha effettuato ulteriori approfondimenti su tutto il territorio regionale. In particolare, in quella relazione, veniva sostanzialmente confermato il giudizio «molto preoccupato», espresso anche dalla prima indagine parlamentare (XII legislatura), dello stato in cui versa la politica dei rifiuti nella Regione Campania sotto tutti i profili presi in esame: programmatorio, gestionale, sanitario e criminale. Le criticità evidenziate nelle precedenti relazioni sono state particolarmente considerate nella definizione delle linee guida attraverso cui l'attuale Commissione ha affrontato il compito che gli è stato demandato dal Parlamento e, svolgendo le missioni e le numerose audizioni, «in loco» e in sede, di rappresentanti delle istituzioni nazionali e locali, delle imprese, delle associazioni di categoria degli operatori del settore, dei lavoratori e dei cittadini. La dichiarazione dello stato d'emergenza e le numerose ordinanze commissariali che si sono susseguite a far data dal 1994, hanno attribuito, al Prefetto di Napoli ed al Presidente della Regione, poteri extra-ordinem, determinati dall'esigenza di realizzare, anche in Campania, un sistema di gestione dei rifiuti non più incentrato sulla discarica, ma articolato nelle diverse e distinte fasi: della raccolta differenziata, della produzione ed utilizzo del combustibile da rifiuto e dello smaltimento dei rifiuti residui ricorrendo ad impianti a tecnologia complessa e limitando il più possibile il ricorso alla discarica. Il sistema così generato ha attribuito ai Commissari delegati un ruolo centrale per la realizzazione di tale sistema. Tra le molteplici attività di loro competenza ricordiamo:
a) la realizzazione e l'attivazione di discariche atte a far fronte all'emergenza;
b) la definitiva chiusura di discariche abusive e incontrollate;
c) l'attivazione della raccolta differenziata;
d) la realizzazione di attività necessarie ad adeguare, ovvero realizzare, gli impianti per la produzione di compost, per il trattamento dei rifiuti ingombranti, per la selezione e la preparazione delle frazioni nobili;
e) l'organizzazione di un adeguato sistema di trasporto dei rifiuti urbani realizzando, ove necessario, piazzole per lo stoccaggio;
f) la facoltà di stipulare, a seguito di procedure di gara comunitaria, contratti con operatori industriali per la realizzazione di


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impianti per la produzione e l'utilizzo del combustibile ricavato da rifiuti (CDR) e per l'affidamento in gestione del servizio dei rifiuti urbani che residuano dalla raccolta differenziata.

2) L'attività della Commissione d'inchiesta.

Sia le audizioni svolte in sede che le missioni effettuate hanno consentito ai Commissari di prendere atto di una situazione ancora lontana dalla prospettiva di un rapido ritorno alla gestione efficiente dell'intero ciclo dei rifiuti che, in questi dieci anni di gestione commissariale, si è tentato di perseguire. Le missioni svolte, ed in particolare quella del mese di febbraio 2004, durante uno dei più gravi periodi di emergenza, hanno consentito ai membri della Commissione che vi hanno partecipato, di verificare «de visu» le gravi condizioni in cui versa, se si escludono alcune, invero poche, «isole felici», l'intero territorio regionale. Durante le missioni sono stati effettuati sopralluoghi in alcuni dei siti che presentano maggiori elementi di criticità in ordine sia all'abbandono dei rifiuti (intere aree del territorio sono letteralmente ricoperte da rifiuti abbandonati) sia ai potenziali rischi per la salute umana e per l'ambiente e sono state visitate, inoltre, le aree in cui sorgono i pochi impianti esistenti di gestione dei rifiuti (discariche controllate, impianti di produzione di CDR) e quelle dove è previsto vengano realizzati i nuovi impianti previsti dal Piano Regionale (in particolare: stazioni di trasferenza e impianti di termovalorizzazione).
Attraverso le numerose audizioni si è cercato, in particolare, di approfondire la conoscenza delle attività svolte o avviate dai Commissari delegati; di verificare l'infiltrazione della criminalità organizzata nel settore, favorita peraltro dalla situazione di crisi che vive la Regione e, nel contempo, dando voce alle molteplici realtà civili e sociali presenti sul territorio, di comprendere le ragioni, ascoltandone le critiche e, non da ultimo, testimoniando l'attenzione che il Parlamento dedica loro.

3) Gli interessi della criminalità organizzata.

È stata confermata, dalle informazioni fornite dai magistrati inquirenti auditi, la grande attenzione di esponenti della criminalità organizzata nei confronti del sistema ciclo integrato dei rifiuti. Tali preoccupanti fenomeni, in particolare, sono stati registrati dalla Commissione, in relazione alla gestione quotidiana della raccolta e del trasporto dei rifiuti solidi urbani per quanto riguarda il territorio del Comune e della provincia di Napoli. Molti autorevoli esponenti delle istituzioni locali, delle imprese, delle forze dell'ordine e della magistratura, hanno denunciato situazioni fortemente preoccupanti per l'ordine e la sicurezza pubblici, tra i quali episodi di vera e propria aggressione fisica ai danni di strutture e operatori delle società di gestione del servizio.
Significativo è il recente diniego della prefettura di Napoli a numerose aziende private del settore della prevista certificazione antimafia. In linea generale si può affermare che la gestione illecita dei rifiuti in Campania, così come nella maggior parte delle regioni


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del sud, è orientata secondo due direttive principali. La prima, in dispregio di ogni regolare procedimento, comporta il realizzarsi di forme di inquinamento, per così dire, «tout court»; si tratta, cioè, di attività per le quali il soggetto che le realizza non si pone la necessità di trovare l'usbergo della norma, ma smaltisce illecitamente i rifiuti in assenza di qualsiasi autorizzazione. Si tratta, cioè, di un comportamento volto semplicemente a fare del territorio un luogo di abbandono dei rifiuti. Dall'altra parte, invece, vi è la «simulazione» del rispetto della normativa, e di una conseguente illecita gestione che, sebbene «coperta» da autorizzazioni valide, utilizza false certificazioni attestanti la non pericolosità dei rifiuti. I soggetti che utilizzano tali meccanismi sono professionisti dei rifiuti che pongono in essere attività illegali.
Sebbene, quindi, la criminalità organizzata in Campania abbia abbandonato l'originario business della costruzione di maxi discariche a vita breve (massimo 6 mesi, un anno), dove venivano sversati rifiuti di ogni genere (questo grazie anche alle attività di monitoraggio e controllo poste in essere dalle Forze dell'ordine), alcune delle indicazioni emerse durante il lavoro svolto dalla Commissione di inchiesta, dimostra quanto ancora siano pericolose le attenzioni che i clan camorristici riservano nei confronti dei gestori degli impianti autorizzati. Una delle informazioni che la Commissione ha acquisito agli atti e relativa ad uno dei filoni dell'indagine nota con il nome di «Re Mida» conferma tale preoccupazione. L'attività investigativa posta in essere dalla DDA di Napoli, infatti, ha portato al fermo di sette persone per associazione camorristica finalizzata all'estorsione e alla tentata estorsione nei confronti dei responsabili legali di un impianto di compostaggio di San Cipriano d'Aversa (CE). I gestori dell'impianto, sebbene fossero vittime del reato estorsivo ed in possesso di regolari autorizzazioni, compivano essi stessi atti illeciti realizzando fertilizzanti per terreni agricoli contenenti altissime percentuali di sostanze tossiche e nocive. Tuttavia, la fase del ciclo dei rifiuti che oggi appare essere la più permeabile ad infiltrazioni camorristiche è quella legata alla individuazione e gestione dei siti di stoccaggio di CDR. In attesa della realizzazione degli impianti di termo-valorizzazione, infatti, è necessario provvedere allo stoccaggio «provvisorio» della grande quantità di CDR prodotta giornalmente; in questa fase l'individuazione dei siti di stoccaggio risulta essere una necessità prioritaria al fine di evitare l'accumulo delle c.d. eco-balle nei luoghi di produzione. In questo contesto si insinuano gli interessi della criminalità organizzata diretti a gestire le operazioni di compravendita o di locazione dei terreni idonei a tale scopo. Dai riscontri effettuati nell'ambito delle indagini, sempre promosse dalla DDA di Napoli, si è reso evidente il fenomeno della cosiddetta «lievitazione dei prezzi» delle aree individuate per lo stoccaggio del CDR; queste, una volta acquisite dalle organizzazioni criminali attraverso l'utilizzo di prestanome e a prezzi assolutamente contenuti, vengono successivamente locate a canoni particolarmente elevati. A tal proposito, nel corso delle audizioni effettuate dalla Commissione sono stati rappresentati casi emblematici che hanno evidenziato una significativa lievitazione dei costi di affitto rispetto ai costi di acquisizione delle aree interessate. Il principale fattore che ha consentito alle organizzazioni criminali di acquisire il


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controllo sulle attività connesse allo smaltimento dei rifiuti è, senza dubbio, l'egemonia che i sodalizi di stampo mafioso esercitano sul territorio. Pertanto, assume rilievo prioritario, nella persecuzione delle attività illecite gestite dai clan camorristici, l'intensificazione della presenza degli organi istituzionali in quelle aree maggiormente sottoposte al controllo delle compagini criminali.
Implementare gli strumenti di controllo, oltre a rispondere a finalità di prevenzione e repressione, consente di attribuire agli stessi maggiore visibilità, contribuendo in tal modo a recuperare quel rapporto di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, indispensabile punto di partenza di ogni efficace azione di contrasto alla criminalità organizzata. In particolare, nell'ambito del territorio della regione Campania, i dati acquisiti dalla Commissione indicano le aree del casertano, del nolano e dell'hinterland settentrionale della provincia di Napoli, come quelle in cui, da un lato, più profondo è il radicamento delle organizzazioni criminali e, dall'altro, più ampia è la frattura fra cittadini e istituzioni, sovente addirittura sfociata in momenti di violento contrasto.
In tali contesti territoriali, pertanto, è indispensabile, a parere unanime della Commissione, pervenire a soluzioni operative che mirino, pur nella loro eccezionalità, a destabilizzare l'egemonia camorristica con il definitivo recupero del territorio alla piena legalità. A tal fine, la Commissione prospetta l'opportunità di predisporre un'operazione, articolata sul territorio e temporalmente limitata, modulata strutturalmente secondo la già sperimentata «Operazione Primavera», che veda l'impegno delle forze di polizia, coordinate dall'autorità prefettizia ed eventualmente supportate dall'ausilio di presidi di forze armate, ove ciò fosse richiesto dalla straordinarietà delle situazioni o ritenuto necessario per garantire efficacia all'azione.

4) Il piano regionale di gestione dei rifiuti.

La verifica dello stato di attuazione del Piano Regionale per lo Smaltimento dei Rifiuti emanato il 14 luglio 1997 e dei successivi aggiornamenti è stato un altro profilo di grande interesse della Commissione e i contributi che tutti i soggetti ascoltati hanno fornito in tale direzione sono stati molto utili.
I contenuti delle prime ordinanze emergenziali che puntavano ad un immediato e incisivo incremento della raccolta differenziata e al coinvolgimento delle attività economiche, sono state modificate - con l'accordo delle istituzioni centrali (si vedano, ad esempio, i passaggi tra l'ordinanza ministeriale 2560 del 2 maggio 1997 e la ordinanza n. 2774) - fino a che i provvedimenti ministeriali venivano modificati nel senso dei contenuti del Piano regionale, più volte modificato, che invece prevedeva la realizzazione di un numero definito di impianti di termovalorizzazione, di stazioni di trasferenza e di impianti di produzione di CDR. Tali indicazioni hanno subìto, negli anni, revisioni e modifiche in relazione alle scelte di politica ambientale effettuate dalle diverse amministrazioni che si sono succedute alla guida delle istituzioni locali ed anche in funzione delle ricordate difficoltà incontrate tra le popolazioni dei territori nel cui ambito dovevano essere insediati gli impianti. L'attenzione della Commissione, inoltre, si è concentrata anche su altri elementi e, in particolare:


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sono stati acquisiti dati e informazioni circa lo stato di attuazione del cosiddetto «Piano stralcio» di bonifica dei siti inquinati, delle possibilità di un rapido ripristino delle condizioni di vivibilità e di utilizzazione dei numerosi siti in cui erano state costruite discariche «autorizzate» giunte a fine vita e in quelli in cui erano state individuate le più pericolose discariche abusive;
sono state registrate e saranno oggetto di ulteriore verifica della Commissione, attraverso l'audizione di altre autorità in materia, alcune indicazioni emerse durante le audizioni circa possibili connessioni esistenti, in alcuni territori della Regione, tra l'aumento di patologie sanitarie dei cittadini residenti e la presenza di impianti di smaltimento dei rifiuti.

5) La gestione dell'emergenza.

Quello che nella prima fase dell'emergenza era stato definito «l'unico lavoro possibile» e cioè, la razionalizzazione dello smaltimento in discarica attraverso il controllo di quelle esistenti e l'individuazione di siti per realizzarne delle nuove, avrebbe dovuto trovare una sua conclusione grazie anche alla rivisitazione del piano regionale dei rifiuti con il quale è stata definita una nuova strategia di gestione che mira, sostanzialmente, alla piena realizzazione del ciclo integrato così come definito dal decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22. Sebbene oggi non si parta da zero e si debba prendere atto degli sforzi fatti dai Commissari delegati che si sono succeduti in questi dieci anni, non può non destare forti preoccupazioni, ad esempio, il persistere di una situazione che ha imposto la riapertura (seppur per un periodo limitato) di una delle discariche pubbliche che, «definitivamente» chiusa proprio dalla gestione commissariale, presenta ancora dei gravi elementi di rischio sia per l'ambiente che per la salute dei cittadini di quel territorio: la discarica di Parapoti (SA).
La Commissione auspica che tale situazione sia l'ultima alla quale dover far fronte attraverso provvedimenti emergenziali di siffatto tenore che, lungi dal consentire l'auspicato ritorno alla ordinarietà, rischiano di vanificare il lavoro fatto fino ad oggi in direzione di una programmazione organica e razionale nella gestione dei rifiuti dell'intero territorio regionale, nonché di un maggior coinvolgimento degli amministratori locali nelle scelte dei Commissari delegati. La medesima considerazione può essere espressa anche in relazione ad un altro elemento critico legato alla gestione commissariale e di cui la Commissione è venuta a conoscenza nel corso delle indagini effettuate: quello relativo al personale attualmente in carico alle risorse del Commissario di Governo. Nei dieci anni di gestione commissariale, infatti, oltre 2.400 lavoratori, provenienti dalle liste L.S.U., sono stati assunti con contratti a tempo indeterminato, con oneri a carico del Commissario di Governo. Se nelle intenzioni iniziali le attività di questi lavoratori dovevano essere indirizzate verso l'implementazione della raccolta differenziata, appare oggi evidente che questa impostazione non ha ottenuto alcun risultato significativo e il suo perdurare, oltretutto, può dar luogo, anche in tale contesto, all'inserimento di interessi e di influenze della criminalità organizzata.


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È pertanto parere unanime della Commissione che questa situazione venga rivista anche alla luce del forte impatto economico che assume nella gestione commissariale.

6) La raccolta differenziata.

Alla luce di tali considerazioni appare quanto mai necessario il completamento di tutte le attività che compongono il ciclo della gestione dei rifiuti, a partire dalla raccolta differenziata fino allo smaltimento finale che, pur dovendo prevedere una parte residuale in discarica (si pensi, ad es., alle discariche di supporto agli impianti di produzione C.D.R., ovvero a discariche per le frazioni secche) è necessario che si attui attraverso una valorizzazione energetica dei rifiuti raccolti in maniera selettiva al fine di ottenere un prodotto di alta qualità. Ad oggi è possibile riscontrare solo un tentativo di avvio in questa direzione nelle attività svolte in regime di gestione Commissariale. Alla necessità di avviare e completare in fretta la realizzazione degli impianti di termovalorizzazione previsti dal piano, deve assolutamente affiancarsi un progetto di ampio respiro che dia nuova spinta propulsiva agli altri elementi che compongono l'intero ciclo dei rifiuti e, in particolare alle attività di raccolta differenziata; sebbene questa, infatti, abbia raggiunto negli ultimi due anni traguardi da non sottovalutare (si è passati dal 2-3 per cento del 2000 a poco più del 10 per cento del complesso degli R.S.U. trattati nella Regione nel 2002), stenta ancora a raggiungere i livelli imposti dalla legge e, soprattutto, quelle performances di eccellenza che sole sarebbero necessarie a far decollare definitivamente il piano di gestione approvato e l'intero sistema impiantistico previsto.
Occorre peraltro segnalare che sono soprattutto i comuni capoluogo di provincia che avvertono le maggiori difficoltà nel promuovere ed attivare un sistema compiuto di raccolta differenziata.

7) Gli impianti di termovalorizzazione.

La Commissione auspica a che si consegua il tempestivo recepimento della direttiva europea che utilizza, in luogo dei termini «termovalorizzatore» e «termovalorizzazione», l'impiego dei termini: «impianto di incenerimento» e «incenerimento». Al fine di rendere il Piano Regionale approvato nel 1997, organico agli obiettivi prefissati, nel corso degli anni sono state più volte rimodulate alcune delle indicazioni che conteneva originariamente ed, in particolare, quelle relative alle soluzioni impiantistiche da adottare; è in tale contesto, che sono state portate a termine le gare europee per la costruzione dei due impianti di termovalorizzazione. Una scelta questa che, sebbene per essere compresa debba essere inquadrata storicamente in un momento assolutamente difficile della gestione dell'emergenza, durante il quale le attività di smaltimento in discarica subivano un improvviso arresto dovuto all'intervento della magistratura che imponeva la chiusura delle due discariche più grandi a servizio dell'intero territorio regionale (Napoli e Salerno) e nel momento in cui altre discariche concludevano il loro ciclo vitale, lascia aperti non pochi dubbi sulla sua opportunità. Da un lato, infatti, sebbene debba


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essere pienamente considerata la grave situazione di «emergenza nell'emergenza» che vedeva una enorme quantità di rifiuti solidi urbani, (c/a 3.500 tonnellate al giorno) accatastarsi nelle strade, dall'altro non possono essere sottaciuti tutti gli elementi di criticità che hanno condizionato e resa impraticabile fino ad oggi la decisione di realizzare i due impianti di termovalorizzazione nei siti di «S. Maria la Fossa» (CE) e «Acerra» (NA). Uno di questi elementi è rappresentato dall'impostazione che si è data alla gara con la quale si intendeva assegnare l'incarico per la realizzazione e la gestione di tali impianti; il capitolato generale di appalto prevedeva, nella sostanza, che fossero le stesse imprese vincitrici ad indicare le località nelle quali realizzare la costruzione degli impianti. È parere unanime di questa Commissione d'inchiesta che l'impostazione data alla gara d'appalto e le procedure conseguenti da nessun commissario modificate rappresentino, di fatto, una grave rinuncia, da parte delle amministrazioni competenti, a svolgere il proprio dovere di gestione del territorio. Ad ogni modo, per meglio comprendere e valutare anche gli altri elementi che hanno causato il blocco della costruzione dei due impianti di termovalorizzazione e, per avere un quadro sufficientemente esaustivo della situazione, sono stati ascoltati numerosi rappresentanti sia di organi istituzionali sia di organizzazioni della c.d. «società civile», senza peraltro tralasciare personalità del mondo della scienza, della cultura ed autorità religiose. La maggior parte delle persone che hanno fornito il loro contributo hanno indicato nella forte opposizione delle popolazioni residenti (in special modo nel sito di Acerra) la causa principale del blocco. Sebbene consapevoli che la risoluzione di tali difficoltà possa rappresentare la «via d'uscita» dalla situazione di stallo nella quale ci si trova ancora oggi, è parere di questa Commissione che non possano e non debbano essere messe in atto iniziative volte a «forzare» ulteriormente decisioni che appaiono, anche alla luce dei recenti avvenimenti, inadeguate; è invece auspicabile che gli organi oggi competenti, pur nella difficoltà dettata dalla nuova «emergenza», avviino una serena riflessione in ordine alla opportunità di rivedere il contratto sottoscritto con l'impresa che ha vinto la gara senza tralasciare alcuna possibilità di soluzione.
D'altro canto, è parere di questa Commissione che, il medesimo contratto necessiti oggi di una nuova verifica anche per quanto riguarda il profilo della sua piena e corretta esecuzione; come si dirà più avanti, nel paragrafo relativo agli impianti di produzione di C.D.R., potrebbero essere ravvisati gli estremi per la sua risoluzione unilaterale. Nel contempo, si ritiene necessario che vengano portate avanti tutte le iniziative possibili per far fronte alla nuova emergenza, alcune delle quali precedentemente avviate e, in particolare: l'utilizzo pieno dei sette impianti per la produzione di C.D.R. di Avellino, S. Maria Capua Vetere, Caivano, Giugliano, Tufino, Battipaglia e Casal di Principe;
l'apertura dei previsti cinque impianti di vagliatura nei comuni di Pomigliano, Caivano, Acerra, Salerno e Benevento; la realizzazione delle isole ecologiche per la raccolta e lo stoccaggio di frazioni differenziate da realizzare su scala comunale e per piccoli ambiti sovracomunali;


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la costruzione di aree di trasferenza per il trasbordo dei rifiuti residuali dai mezzi di raccolta ai mezzi di trasporto di grande portata; la costruzione di impianti di compostaggio per il recupero della frazione organica; la costruzione di impianti di selezione e valorizzazione delle frazioni secche riciclabili; la realizzazione di impianti di trattamento dei rifiuti ingombranti;
il rilascio di eventuali nuove autorizzazioni per l'apertura di discariche per lo smaltimento di frazioni secche dei rifiuti.

Appare peraltro evidente che anche tali scelte, come quella eventuale di una realizzazione e/o nuova localizzazione degli impianti di incenerimento, non debbano essere assunte prima di una preventiva e rigorosa valutazione di impatto ambientale, anzi sarebbe necessaria una vera e propria valutazione ambientale strategica (con il recepimento dei contenuti della direttiva 2001/42), partendo dal coinvolgimento delle autonomie locali per finire con i rappresentanti delle varie realtà sociali (associazioni sindacali delle imprese e dei lavoratori, associazioni dei cittadini, ecc.). In tale contesto la disponibilità espressamente manifestata da alcune amministrazioni comunali, quali Napoli, Salerno Giffoni, ad accogliere nel proprio territorio la localizzazione di impianti di trattamento dei rifiuti deve avvenire a valle di una seria valutazione preventiva e con il coinvolgimento dei cittadini.

8) Gli impianti di produzione del combustibile da rifiuti (c.d.r.).

La scelta di avviare la costruzione dei sette impianti di produzione di CDR è strettamente legata alla grave situazione di emergenza verificatasi in occasione della chiusura delle due più grandi discariche di rifiuti presenti nel territorio regionale. L'esigenza di smaltire il più rapidamente possibile una notevole quantità di rifiuti, che giacevano nelle strade di quasi tutti i comuni della Regione, non ha consentito un pre-trattamento di tali rifiuti né, tantomeno, le attività di raccolta differenziata necessarie ad avviare la produzione di un «C.D.R. di qualità». Tale elemento, sebbene debba essere tenuto presente per consentire una analisi corretta della gestione di tali impianti, non può eliminare completamente una valutazione critica in ordine alle carenze gestionali da parte delle imprese che ne hanno avviato l'attività. Bisogna ricordare infatti che, proprio in previsione del prolungarsi dei tempi di realizzazione degli impianti di termovalorizzazione, nei capitolati d'appalto per la gestione degli impianti di produzione del C.D.R. era prevista la valorizzazione del «prodotto» in impianti alternativi; questa pratica non è mai stata avviata. Ci si trova oggi di fronte alla produzione di un elevato quantitativo di c.d. «eco-balle» stoccate nelle 12 piattaforme esistenti che, tra l'altro, da numerose indicazioni pervenute a questa Commissione durante lo svolgimento delle audizioni, non sembrano essere di una qualità tale da poter essere poi utilizzate «tout court» in impianti di termovalorizzazione. Anche questo fatto rappresenta quindi un ulteriore elemento di criticità strettamente legato alla realizzazione degli impianti di termovalorizzazione e, come accennato in altra parte della


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relazione, ad una puntuale verifica di tutti i parametri contrattuali sottoscritti con l'impresa che ha vinto la gara. In definitiva, al fine di conseguire un compiuto sistema di gestione del ciclo integrato dei rifiuti nella regione, pare necessario promuovere una serie di iniziative coordinate tese, in particolare, a predisporre nuovi piani di gestione dei rifiuti dimensionati sulle aree provinciali della regione; a potenziare decisamente gli esigui risultati ottenuti dalle attuali modalità di realizzazione della raccolta differenziata nei comuni campani; a rivedere il complessivo assetto dell'impiantistica, prevedendosi al riguardo una ridefinizione delle localizzazioni degli impianti di trattamento, sulla base di intese con le autonomie locali ed eventualmente prospettandosi una rimodulazione degli attuali rapporti contrattuali con la società Fibe.

2.3 Friuli Venezia-Giulia.

Ad una situazione generale che non presenta particolari criticità, determinata da una serie di condizioni economiche, culturali e sociali favorevoli alla realizzazione di un ciclo integrato dei rifiuti, si contrappongono una serie di specifiche emergenze ambientali legate ad alcune singole realtà industriali attive o dismesse, come l'area dell'ex Esso, le Ferriere, Valle delle Noghere e la raffineria Aquila, per le quali si impone un adeguato e costante monitoraggio e in alcuni casi mirati interventi volti alla bonifica dei siti interessati. L'Arpa Friuli, pur penalizzata dalla carenza di organico registrata nel corso della missione effettuata dalla Commissione, assolve positivamente le sue funzioni tecniche e di controllo del territorio. In relazione alle diverse fasi, dalla raccolta differenziata allo smaltimento, al trasporto, al recupero, la gestione integrata dei rifiuti si delinea nella regione con apprezzabili risultati, pur se le potenzialità a disposizione consentirebbero di accrescere il livello dell'efficienza. La raccolta differenziata si attesta su una discreta percentuale, circa il 20 per cento, il che riduce la quota di rifiuti trattati mediante impianti di termovalorizzazione. Occorre risolvere alcune emergenze ambientali legate soprattutto alla presenza di insediamenti industriali; al transito di rifiuti ferrosi, talvolta inquinati da residui oleosi o caratterizzati da bassa radioattività; all'esistenza di micro-siti ancora troppo diffusi e all'interno dei quali è stata rilevata la presenza di amianto. La sensibile attenzione dell'autorità giudiziaria in relazione alle diverse cause che provocano l'inquinamento di alcune specifiche aree e la tecnologia promossa dalla Regione che ha attivato l'impiego di metodiche moderne, come il sistema ad alta tecnologia MIVIS, per realizzare il monitoraggio del territorio, sembrano tuttavia non essere ancora del tutto sufficienti a contrastare il traffico illecito di rifiuti pericolosi, che pure coinvolge le frontiere della regione. Occorre allora promuovere l'introduzione di ulteriori sistemi di verifica, quali la realizzazione di portali che consentano un controllo sistematico e capillare del traffico alle frontiere, nonché la predisposizione di misure fiscali incentivanti per gli operatori interessati, al fine di dissuadere tali forme di smaltimento illecito dei rifiuti.


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2.4 Lazio.

Profili critici nella regione riguardano in generale le problematiche relative ad una condizione di carenza di impianti che possano completare il ciclo integrato dei rifiuti; in particolar modo si pone la necessità di realizzare nella regione impianti di termovalorizzazione. La regione ha già in funzione due impianti di tale tipologia, uno nella provincia di Frosinone e l'altro in quella di Roma, ma risultano insufficienti. In ordine agli impianti di combustibile da rifiuti (CDR), ne è stato approvato uno per la provincia di Frosinone, ed un altro nel comune di Paliano, in attesa che venga ristrutturato l'impianto di Colfelice, in relazione al quale la Commissione ha svolto una approfondita indagine riscontrando l'assoluta necessità di un non più procrastinabile adeguamento tecnico innovativo. Occorre segnalare, come esempio positivo di gestione e resa dell'impianto, quello operante nel comune di Maccarese, che produce compost di qualità, al quale si affiancheranno altri due analoghi impianti di trattamento nella provincia di Latina. Per la città di Roma sono in via di ultimazione due impianti di CDR e altri due sono in fase di realizzazione da parte della società AMA, che gestisce la raccolta e il trasporto di rifiuti. È stato quindi stipulato un accordo di programma tra la regione e il Conai, al fine di incrementare la percentuale della raccolta differenziata, ancora esigua rispetto ai valori fissati dal decreto legislativo 22/'97. A tal proposito occorre segnalare che la regione Lazio è una delle prime ad avere approvato una legge che obbliga le pubbliche amministrazioni a dotarsi dei contenitori per la raccolta differenziata. Per quanto riguarda le discariche, la situazione è ancora sotto controllo in quasi tutta la regione, ma si profila all'orizzonte una situazione di criticità nella città di Roma, in quanto la discarica di Malagrotta dovrebbe esaurirsi nel 2005. L'attivazione di quattro impianti di CDR non rende così rigida tale scadenza, tuttavia si pone il connesso problema di attivare un centro di stoccaggio di tale materiale. Il reperimento dei siti per lo stoccaggio di CDR rappresenta una delicata problematica che caratterizza peraltro diverse aree del territorio nazionale.

2.5 Liguria.

La regione ha adempiuto ai doveri di adeguamento alla normativa nazionale, sia con atti legislativi sia con atti programmatori. Si registra la presenza di siti di particolare criticità, alcuni dei quali sono di interesse nazionale; in particolare l'area di Cornigliano, lo stabilimento Stoppani e l'ACNA di Cengio. In conformità alla legge regionale del 1999 che individua le funzioni e i compiti attribuiti ai diversi enti locali per il perseguimento di obiettivi riferibili al ciclo dei rifiuti si è incentrato sulle quattro province della regione l'onere della scelta delle aree idonee per gli impianti, nonché la costituzione delle comunità d'ambito. Nel 2000 è stato varato il piano regionale di gestione dei rifiuti. I piani provinciali sono stati approvati entro i termini previsti, il giugno 2003. Tali piani provinciali contemplano una serie di impianti di termovalorizzazione che dovranno essere localizzati sulla base delle scelte operate dall'ATO, nell'ambito dei siti già


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individuati dai piani provinciali. Attualmente vi è solo una previsione per l'inizio dell'attività di termovalorizzazione. Per le province di Genova e Savona è prevista la localizzazione di impianti di termovalorizzazione nel territorio provinciale; infine per quanto riguarda la provincia di Imperia, il termovalorizzatore sarà realizzato tramite un consorzio costituito con i comuni francesi limitrofi e sarà collocato in territorio francese. Una realtà particolare si riscontra nell'ambito spezzino, dove è previsto un impianto di produzione di CDR da destinare alla produzione di energia, già localizzato nell'ambito del piano provinciale. In Liguria, ad oggi lo smaltimento si basa quindi sul conferimento in discarica. Attualmente questo sistema funziona anche perché la capacità delle discariche è ancora tale da garantire il loro esercizio fino all'attivazione di tutti gli strumenti previsti dai piani provinciali di gestione dei rifiuti, a condizione, s'intende, che i tempi previsti vengano sostanzialmente mantenuti, perché in caso contrario esiste il fondato timore che l'intera Regione vada in emergenza. Per ciò che concerne gli ambiti territoriali ottimali, alcuni piani d'ambito sono già stati realizzati, in particolare per le province di Genova e Savona; sono invece in fase di costituzione gli ambiti delle province di Imperia e La Spezia. Per quanto riguardo la raccolta differenziata, la regione si attesta su valori non particolarmente brillanti. I dati relativi al 2001 segnalavano una percentuale del 15 per cento. Per quanto riguarda le bonifiche, va segnalato anzitutto il positivo andamento di quella che riguarda il sito nazionale Acna di Cengio. Grazie all'accordo di programma a suo tempo siglato tra Governo, enti pubblici e privati responsabili dell'area da bonificare, ed alla nomina di un apposito commissario, le attività di bonifica sono ben avviate, e vengono accompagnate da attività di studio e di ricerca sul campo che vengono realizzate grazie alla collaborazione dell'Università di Genova. Le altre bonifiche previste nel territorio regionale, in terra e in mare, procedono invece assai più a rilento. A Pitelli (La Spezia) è stato avviato il piano di caratterizzazione, ormai anche per le aree a mare, e così - dopo molte incertezze e ritardi - è avvenuto per quanto riguarda la Stoppani: i tempi di bonifica sono comunque da considerarsi ancora assai lunghi.

2.6 Lombardia.

Il ciclo integrato dei rifiuti funziona a regime nella regione e non presenta rilevanti disfunzioni organizzative. In Lombardia si pone tuttavia il problema dei flussi dei rifiuti speciali: la Commissione ha rilevato che il sistema in uso della dichiarazione semplificata compilata per ottenere l'autorizzazione allo stoccaggio delle scorie speciali è causa talvolta di illiceità nella gestione di tale tipologia di rifiuti producendo sversamenti indiscriminati e traffici di rifiuti in altre regioni. Si pone allora l'esigenza di apportare modifiche ad una disciplina che legittima e favorisce in alcuni casi condotte irregolari da parte di imprenditori senza scrupoli. La Commissione ha potuto accertare che la Lombardia, come altre regioni a forte vocazione industriale, rischia di costituire una delle stazioni di partenza e di transito delle scorie della produzione industriale che vengono spesso


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«scaricate» nei territori delle regioni del Sud, come la Murgia Barese o i laghetti artificiali del casertano. Occorre allora mirare ad un più etico federalismo ambientale basato su criteri di autosufficienza anche in materia di smaltimento di rifiuti speciali. Auspicabile in tal senso la redazione di veri e propri piani di gestione su scala provinciale, sul modello di quelli già esistenti per i rifiuti urbani. Pur non essendo stati segnalati rilevanti problemi di interferenze criminali nell'ambito della gestione dei rifiuti regionali risulta evidente l'interesse delle ecomafie ai lucrosi affari connessi alla gestione del ciclo dei rifiuti. Non mancano infatti indizi allarmanti al riguardo, quali appaiono i casi di intimidazioni ai danni delle aziende che attualmente operano nel settore. In ordine ai rifiuti ospedalieri nessuna differenza si apprezza rispetto alla situazione registrata nelle altre regioni d'Italia: ad un impeccabile formalismo cartaceo corrisponde l'incertezza sull'effettiva destinazione e sulle modalità di trattamento dei rifiuti. Sul ciclo integrato dei rifiuti urbani la Lombardia costituisce un modello di eccellenza nell'organizzazione di un sistema in controtendenza rispetto al resto del paese. La raccolta differenziata si attesta sul 35 per cento superando nettamente una media nazionale che non va oltre il 15 per cento. Questo ha comportato una riduzione dello smaltimento in discarica. Mentre nelle altre regioni i rifiuti che finiscono negli invasi sono il 70 per cento del totale, in Lombardia la percentuale è del 34 per cento. Su questo dato pesano però l'eccesso di capacità di incenerimento installata che, in alcune realtà, come le città di Brescia e Milano, nonché la provincia di Pavia, costituiscono un oggettivo motivo di bassi livelli di intercettazione di raccolta differenziata. Un importante ruolo svolge nella regione l'Arpa Lombardia, diventata punto di riferimento nazionale sia per organizzazione che per competenza professionale mostrata nello svolgimento dei propri compiti. Vanno inoltre sottolineati i positivi risultati raggiunti dall'Agenzia in relazione alla attivazione di uno specifico modulo operativo d'indagine sull'amianto.

2.7 Puglia.

L'attività della Commissione ha rilevato che in Puglia i profili di criticità attengono prevalentemente al mancato avvio della raccolta differenziata e ad una sorta di quiescenza delle funzioni attribuite agli enti locali nello svolgimento delle relative competenze inerenti allo smaltimento dei rifiuti; conseguenza quest'ultima riconducibile anche alla condizione di commissariamento della regione nel settore dei rifiuti, e che ha provocato altresì una eccessiva presenza di soggetti privati, non sempre sottoposti a mirate verifiche sui requisiti richiesti per l'attività intrapresa nella realizzazione e gestione degli impianti di trattamento rifiuti. Allo stato i rifiuti sono gestiti nella maggior parte dei casi presso impianti autorizzati e controllati, il che ha ridotto notevolmente l'emissione di ordinanze sindacali di urgenza. I servizi di raccolta differenziata risultano avviati per una percentuale vicina al 90 per cento dei comuni; i dati della raccolta differenziata non sono tuttavia esaltanti e non divergono dalla esigua percentuale che connota l'intero sud d'Italia. Sono state costituite quindici autorità di bacino con il compito di indire le gare per la raccolta unitaria: sono previsti,


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alcuni già in esercizio, 23 impianti per la gestione dei rifiuti urbani e, specificatamente, per il recupero ed il riciclaggio. Elemento cruciale, al fine di poter conseguire la chiusura del ciclo di gestione dei rifiuti, consiste nell'avvio dell'attività degli impianti di termovalorizzazione o recupero energetico. Va segnalato il dato poco incoraggiante dell'eccessivo ricorso alle discariche nel territorio pugliese. In ordine ai rifiuti speciali, il piano regionale individua una griglia di parametri al fine di fornire, ai soggetti privati che intendano promuovere iniziative al riguardo, certezze sui percorsi amministrativi e sulla disciplina da seguire. Il piano non individua il numero degli impianti di trattamento ritenuti necessari nella regione. Apprezzabile risulta la politica di gestione dei policlorobifenili (PCB); la regione, mediante accordi definiti con altre regioni e con il Ministero dell'ambiente, ha predisposto un apposito piano di decontaminazione dei PCB, che riguarda anche in forte misura il materiale proveniente dall'ILVA, dall'ENEL, dalla Telecom, nonché il materiale rotabile delle ferrovie. La normativa impone di effettuare la decontaminazione di tali materiali entro il 2010, si sono pertanto definiti accordi di programma con i grandi detentori di apparecchi volti ad anticipare il predetto termine. Per quanto riguarda la mappatura dei siti con amianto, la regione ha promosso iniziative di coordinamento con il sistema LARA del CNR, mediante sistemi di aereorilevamento. In ordine alle problematiche relative ai fanghi in agricoltura, che nel territorio della Murgia hanno dato luogo a gravi casi di inquinamento a causa della illecita gestione di tale tipologia di rifiuti, è emersa nel corso dell'indagine la necessità di definire rigide e trasparenti procedure di impiego nei terreni agricoli, potenziando i controlli con personale tecnico qualificato.

2.8 Sardegna.

Nella regione ancora non ha preso avvio la raccolta differenziata, pur in presenza di un piano regionale di trattamento dei rifiuti; il dato scoraggiante del 2,8 per cento evidenzia gravi difficoltà e deriva non solo da carenze nella gestione dei servizi di raccolta dei rifiuti solidi urbani, ma anche da oggettive difficoltà, prima tra tutte l'insularità. Per quanto riguarda l'Arpa Sardegna, è stata regolarmente costituita attraverso un decreto del presidente della regione, con conseguente nomina di un commissario. La Commissione ha registrato forti difficoltà operative e carenza di strutture e personale; il che genera l'impossibilità per l'Agenzia di esercitare efficacemente le proprie funzioni istituzionali. I profili di criticità nella regione riguardano in particolar modo le aree relative ai poli industriali, interessate da siti caratterizzati da rilevanti indici di inquinamento. La zona del Sulcis Iglesiente, riconosciuta ad alto rischio, è stata interessata dalla legge sulle bonifiche delle aree degradate. In tale territorio si pone la problematica della gestione e dello smaltimento dei fanghi rossi. Un secondo polo che necessita di bonifiche è quello della Piana di Ottana, in provincia di Nuoro. Dismesse le attività industriali ed abbandonato il ciclo produttivo, è in corso il procedimento di bonifica dell'area, che dovrebbe concludersi entro pochi anni. Un terzo polo che desta preoccupazione riguarda il comune di Porto Torres; in relazione al polo industriale ivi ubicato la società Syndial ha presentato un piano


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di emergenza dell'area, è stato altresì attivato il piano di caratterizzazione dei siti oggetto della bonifica. Si è registrata nel corso dell'indagine in Sardegna la mancata programmazione di un sistema di discariche autorizzate ed attrezzate per ricevere specifiche tipologie di rifiuti. L'iniziativa in tal senso potrebbe sorgere in capo alle province, anche mediante la predisposizione di appositi piani che prevedessero misure incentivanti e premiali per le amministrazioni comunali interessate dai relativi siti.

2.9 Sicilia.

L'indagine ha confermato il dato secondo cui il businness della gestione dei rifiuti nella regione suscita le attenzioni della criminalità organizzata, che tende ad avvinghiare i suoi tentacoli sull'intero ciclo: dallo smaltimento, al trattamento, alla movimentazione, alle bonifiche dei siti inquinati. Nel corso delle audizioni e delle missioni svolte si è registrata la tendenza ad un forte aumento nell'isola, in anni recenti, dei reati ambientali perseguiti dalle forze dell'ordine. Un segnale la cui chiave di lettura non appare univoca. Da un lato l'aumento dei reati testimonia la massiccia infiltrazione della criminalità nel settore, dall'altro però il dato sembra evidenziare una maggiore incisività, da parte delle istituzioni preposte, nella repressione delle illiceità, nonché una più accresciuta sensibilità ambientale mostrata dai cittadini. In ordine al complessivo ciclo dei rifiuti, pur segnalandosi positivi risultati quanto all'impiantistica presente sul territorio ed allo smaltimento e recupero delle diverse tipologie di rifiuti, si riscontrano tuttavia talune gravi carenze, tra cui va segnalata in particolare la necessità di porre in essere quanto prima un programma adeguato di bonifiche dei siti inquinati di interesse nazionale e delle numerose discariche aperte dai sindaci, con ordinanze d'urgenza, per far fronte alla situazione di emergenza causata anche dal fatto che le risorse stanziate per attivare le ordinarie modalità di smaltimento dei rifiuti non sempre giungono con tempestività a destinazione. Capitolo a parte merita la questione della raccolta differenziata, che costituisce, per l'intero meridione, una vera e propria nota dolente. Il gap accumulato rispetto alla media nazionale è ingiustificatamente ampio e, nello specifico, non si registrano livelli accettabili di differenziazione nella raccolta dei rifiuti solidi urbani. L'Arpa-Sicilia è ancora caratterizzata da forti ritardi funzionali, il che ne pregiudica talvolta la piena operatività nei compiti di controllo e di monitoraggio cui è preposta. Sui rifiuti ospedalieri la Commissione ha evidenziato interessanti spunti di riflessione in relazione a progetti organizzativi attivati da talune aziende sanitarie per lo smaltimento ed il trattamento dei rifiuti ospedalieri, mediante l'affidamento a servizi che utilizzano risorse interne e che pertanto, riducendo notevolmente i costi, hanno consentito alla Commissione di evidenziare le distorsioni del sistema tradizionalmente in uso, eccessivamente oneroso e carente di controlli effettivi sulle regolari modalità di smaltimento di tale tipologia di rifiuti. Urge inoltre un sistematico ed efficace monitoraggio sugli appalti relativi a tutti i servizi connessi alla gestione del ciclo dei rifiuti, al fine di garantirne la trasparenza e sconfiggere le lobbies ed i comitati d'affari che in molti casi costituiscono un vero e proprio


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rischio di inquinamento di tale settore producendo costi spropositati ed inefficienze di cui è costretta a pagarne le conseguenze l'intera collettività.

2.10 Toscana.

Il quadro d'insieme è sostanzialmente positivo: si registrano brillanti risultati nella raccolta differenziata, nel sistema impiantistico ed in quello di gestione dei rifiuti urbani; va inoltre sottolineata la competenza dell'Arpa Toscana nello svolgimento dei propri compiti istituzionali. Profili critici emergono invece dal sistema di smaltimento dei rifiuti speciali. L'attenzione della Commissione si è concentrata, tra l'altro, sulla destinazione di ingenti quantità di residui del polo conciario, ricchi di metalli pesanti e con elevati valori di tossicità ambientale, che in taluni casi sono stati rinvenuti nel fertilizzante utilizzato nei campi della Murgia, in Puglia, nonché in altre aree del territorio nazionale. Tale specifica vicenda rappresenta il sintomo di una serie di distorsioni ed inefficienze che caratterizzano sovente il sistema di trattamento e recupero dei rifiuti speciali pericolosi. Da non sottovalutare, secondo quanto emerso dall'attività conoscitiva della Commissione, l'attenzione riposta dalla criminalità organizzata verso la gestione del ciclo integrato dei rifiuti. Non si esclude, tuttavia, a causa dell'eccessiva quantità di rifiuti speciali esportati in altre regioni, che proprio nel transito e nello smaltimento fuori regione possa concentrarsi più diffusamente l'interesse delle ecomafie. Il traffico illecito dei rifiuti rappresenta un fenomeno nazionale ed internazionale che non può essere sottovalutato. Risulta allora indispensabile procedere non solamente alle prescritte verifiche del corredo cartaceo che accompagna, spesso solo formalmente, il movimento dei rifiuti, ma anche all'introduzione di un sistema capillare di controllo sul trasporto che si avvalga dei più sofisticati strumenti tecnologici, che consentirebbero di seguire il rifiuto nell'intero percorso, dalla sua produzione fino allo smaltimento definitivo.

3. Il quadro normativo in evoluzione; la spinta riformatrice del diritto comunitario.

3.1 Premessa.

Il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 invitò la Commissione delle Comunità Europee a «preparare una proposta per una strategia a lungo termine tesa a delineare le politiche di uno sviluppo economicamente, socialmente ed ecologicamente sostenibile», da sottoporre al Consiglio europeo di Gotheborg nel luglio del 2001. La proposta della Commissione - «Strategia per uno sviluppo sostenibile nell'Unione Europea» - fu successivamente adottata il 15 maggio 2001. Essa contiene una serie di proposte concrete finalizzate a rendere le politiche dell'Unione delle Comunità Europee più coerenti e dotate di un approccio di lungo periodo, così come una serie di azioni previste per il raggiungimento di obiettivi specifici. Con la decisione n. 1600/2002/EC del Parlamento Europeo e del Consiglio del


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22 luglio 2002 è stato definitivamente adottato il Sesto Programma di azione per l'ambiente - «Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta» che, riprendendo la strada tracciata dal Quinto programma d'azione per l'ambiente del 1992 ed alla sua revisione del 1998, dà alla politica ambientale della Commissione un indirizzo strategico per il decennio che stiamo vivendo, con uno sguardo prospettico all'espansione territoriale della Comunità. Le indicazioni che il Programma formula appaiono rivolte, già nella definizione delle quattro aree prioritarie e più urgenti di azioni da avviare, ad un approccio strategico che pone in relazione gli obiettivi della tutela e della salvaguardia dell'ambiente e della salute con gli aspetti economici e sociali di crescita della nuova Europa. «L'uso sostenibile delle risorse naturali e la gestione dei rifiuti», rappresenta una delle quattro aree d'azione prioritaria definite dal Programma e la «garanzia che il consumo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili non superi la capacità di carico dell'ambiente; l'ottenimento dello sganciamento dell'uso delle risorse dalla crescita economica mediante un significativo miglioramento dell'efficienza delle risorse, la dematerializzazione dell'economia e la prevenzione dei rifiuti» rappresentano gli obiettivi di fondo che dovranno essere perseguiti attraverso l'avvio di tali azioni. «Le risorse del pianeta, soprattutto quelle rinnovabili come il suolo, l'acqua, l'aria e le foreste, sono soggette a forti pressioni esercitate dalla società umana. È necessaria una strategia che, mediante strumenti fiscali ed incentivi, possa garantire un uso più sostenibile delle risorse. Secondo le previsioni i volumi di rifiuti sono destinati ad aumentare se non saranno intraprese azioni di rimedio. La prevenzione costituirà un elemento fondamentale della politica integrata dei prodotti. Urgono ulteriori misure per incoraggiare il riciclaggio e il recupero dei rifiuti». La Commissione d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, in questi primi tre anni di attività ha avviato, alla luce di questa prospettiva, un'attenta analisi in merito alla recente produzione normativa italiana e alle più recenti direttive europee in materia ambientale che il nostro Paese si accinge a recepire. Oltre alle considerazioni di ordine politico, l'analisi della Commissione si è rivolta ai profili connessi all'inevitabile coordinamento sistematico di cui necessita il quadro normativo complessivo per effetto degli interventi del legislatore comunitario. Si assiste, in sintesi, alla formazione di «un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunciato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani» (causa 26/62, Van Gend en Loos, raccolta CGCE, 1963, 1, decisione del 1973). Gli interventi comunitari vengono inserendosi nell'ordinamento giuridico nazionale a volte producendo effetti diretti e vincolanti, a volte imponendo al legislatore di adeguare opportunamente il diritto interno. Se, quindi, prima, le fonti normative con le quali confrontarsi erano quelle tipiche dello stato nazionale, oggi, la cornice normativa si è arricchita, non semplicemente di una fonte, bensì di una pluralità di fonti, quelle dell'Unione Europea, tra loro eterogenee, che richiedono un mutamento di mentalità nella ricerca della regola per il caso concreto. Non si tratta, infatti, solo di stabilire se un fatto è contemplato da una norma nazionale e se quella norma è compatibile con il dettato costituzionale. Nel sistema attuale, occorre


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accertare se quella fattispecie non sia oggetto di disciplina normativa sovranazionale, se tale disciplina sia direttamente applicabile al diritto interno, se, ancora, vi siano state sentenze di un interprete superiore, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, che abbiano trattato quel caso e fornito una statuizione, in quanto tale vincolante. La molteplicità dei settori nei quali il legislatore comunitario è legittimato ad intervenire ha fatto sì che il legislatore nazionale fosse impegnato, per più della metà dei propri atti normativi, a recepire il diritto prodotto dalla comunità europea. In particolare, poi, va rilevato che l'Unione Europea è il legislatore più prolifico in materia ambientale. Infatti, a partire dal 1970, l'Unione Europea aveva adottato oltre 200 direttive in materia ambientale, ma il nuovo approccio al tema si è avuto solo nel 1992 con l'approvazione del programma di azione denominato «per uno sviluppo durevole e sostenibile» che disegnava la strategia europea sino al nuovo millennio. Prima del 1992 l'ottica della politica ambientale dell'U.E. aveva puntato su azioni correttive, spesso non seguite da successo; e ciò in quanto non si era avuto un approccio che integrasse la protezione ambientale con le attività economiche. In questa che può essere definita la seconda fase della politica ambientale comunitaria viene promossa la compartecipazione e vengono invitati i governi, mondo industriale e consumatori a raccordarsi ed a impegnarsi per conservare le risorse, riutilizzare e riciclare i rifiuti in maniera sicura, nonché a sviluppare fonti energetiche che non danneggino l'ambiente. Obiettivo della politica ambientale dell'U.E., diviene dal 1992 l'adeguamento dei modelli di consumo e produzione alla capacità dell'ambiente di sostenerne il peso, specialmente in una visione di lungo periodo, così accogliendosi il principio dello sviluppo sostenibile. Con il Trattato di Amsterdam del 1997, i principi della tutela dell'ambiente da ogni forma di inquinamento raggiungono piena ed impegnativa (non solo per i singoli Stati, ma per la stessa Comunità) affermazione, allorché si prevede che «La comunità ha il compito di promuovere, tra l'altro, uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell'insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l'ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione dell'ambiente ed il miglioramento di quest'ultimo»; disposizione che va letta in combinato con la nuova previsione dell'articolo 129 del Trattato che impone alla Comunità di garantire, nell'attuazione delle politiche comuni, «un elevato livello di protezione della salute umana». Può in conclusione affermarsi che «un elevato livello di tutela dell'ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell'Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile», come affermato dall'articolo 37 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. Il primo livello di attenzione della Commissione sul ciclo dei rifiuti è stato occupato dall'esigenza, imposta dal nuovo quadro ordinamentale, di ricostruire, con compiutezza, lo stato dell'arte relativo alle normative in materia di ambiente, nazionali e comunitarie, nel loro reciproco integrarsi. Ciò ha indotto la Commissione sia a procedere ad audizione di vari esponenti del mondo accademico e giudiziario, sia ad organizzare incontri con gli organi comunitari, al fine di approfondire la comprensione


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in ordine allo sviluppo di tale processo di integrazione normativa in materia ambientale, per opportunamente modulare le proprie osservazioni su possibili linee riformatrici della normazione interna. Ma vi è un ulteriore aspetto che rende ancor più complesso lo sforzo ricostruttivo della Commissione, ed è quello che chiama in causa l'attività interpretativa svolta dagli organi giurisdizionali nazionali, anche in conseguenza di pronunzie adottate dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Quel che preme porre in evidenza è che la materia dell'ambiente, oggi ancor più di ieri, è interessata da un diritto pretorio, affidato, cioè, ad un'elaborazione giurisprudenziale che, nel ricercare la norma per il caso concreto, è, spesso, necessariamente, di tipo creativo. Necessariamente creativa poiché se conflitto vi è fra diritto interno e diritto sovranazionale, e se non è dato al giudice il non liquet, la regola viene individuata, nella più semplice delle ipotesi, accordando la preferenza all'uno o all'altro; nelle ipotesi più complesse, che sono anche le più frequenti, se la norma prevalente si rinviene in una sentenza della Corte di Giustizia, quest'ultima, come ogni pronunzia giurisprudenziale, richiede, a sua volta, un'opera di ulteriore modulazione affinché sia resa confacente a quel caso concreto. Non solo; quel dictum si inserisce in un sistema ed acquista, per ciò solo, una potenzialità espansiva: è un principio che, ricorrendo la medesima ratio, può trovare applicazione anche ad altre ipotesi, non espressamente previste. Di qui la creatività dell'interpretazione. Seguendo tale impostazione, l'attenzione della Commissione si è incentrata sui settori nevralgici della materia ambientale, nei quali cioè maggiori sono le criticità dovute a tale processo di integrazione normativa, secondo una triplice direttrice di osservazione: quella degli interventi normativi comunitari che hanno trovato riscontro nei decreti di recepimento emanati; quella relativa alle direttive europee che non hanno trovato traduzione chiara e puntuale all'interno di atti normativi nazionali e, infine quella che attiene agli atti comunitari che attendono di essere recepiti, richiedendo, talora, una profonda rivisitazione di interi settori dell'ordinamento giuridico nazionale. Per quanto attiene alla prima direttrice di osservazione, i lavori della Commissione si sono concentrati sulle tematiche specifiche della gestione delle discariche e della gestione dei veicoli a fine vita. Con riferimento alla seconda direttrice, viene in rilievo la questione relativa alla nozione giuridica del termine rifiuto, in ordine alla quale la Commissione ha approvato all'unanimità un documento. In relazione, infine, all'ultima direttrice, che apre anche ai futuri approfondimenti della Commissione, l'interesse è rivolto alla tematica della gestione dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, nonché alla questione, per molti aspetti nodale, del delitto ambientale.

3.2 La gestione delle discariche.

Con l'emanazione del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36, e del decreto ministeriale 13 marzo 2003, sui criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica, si è finalmente compiuta, con oltre un anno e mezzo di ritardo rispetto al termine previsto, la complessa vicenda legislativa del recepimento, da parte dell'ordinamento nazionale, della direttiva 1999/31/CE in materia di discariche di rifiuti.


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Con il d. lgs. n. 36/2003 - che è entrato in vigore il 27 marzo 2003 - la complessa normativa italiana sulla gestione dei rifiuti si arricchisce, dunque, di un nuovo ed importante tassello. Il decreto, nell'attuare la delega contenuta nell'articolo 42 della legge n. 39/2002 (legge Comunitaria 2001) con i suoi 17 articoli e i due allegati tecnici, introduce una nuova disciplina specificamente dedicata alla gestione delle discariche. Sicuramente il decreto ha colmato un vuoto legislativo che perdurava da anni e ha consentito di abbandonare le norme tecniche in materia che, a vent'anni dalla loro emanazione, apparivano non in linea, se non addirittura in contrasto, con le direttive della Comunità, soprattutto alla luce dei princìpi già sanciti dal Quinto programma d'azione comunitario e ripresi dal Programma 2001-2010. Fra le principali novità che il decreto introduce deve essere sottolineata la nuova classificazione delle discariche nelle seguenti tre categorie: discarica per rifiuti inerti; discarica per rifiuti non pericolosi; discarica per rifiuti pericolosi. Se uno degli obiettivi della nuova disciplina vuole essere quello, ulteriormente specificato dalla Comunità Europea, di prevenire o ridurre il più possibile le ripercussioni negative sull'ambiente e i rischi per la salute umana risultanti dalle discariche di rifiuti, durante l'intero «ciclo di vita» delle stesse, deve essere salutata positivamente la prevista forma di coordinamento fra le regole dettate dal decreto e quelle in materia di riduzione e prevenzione integrate dell'inquinamento (c.d. IPPC) - anche se l'applicazione di queste ultime, in Italia, è a tutt'oggi ancora parziale. Alcune delle definizioni contenute nel decreto legislativo 36/2003, appaiono essere sicuramente innovative e destinate a promuovere rilevanti modifiche di carattere gestionale. Il riferimento va, in particolare, alla definizione di «discarica». Con l'articolo 3, comma 1, lett. g), si è introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento la definizione di «discarica» come l'«area adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi, nonché qualsiasi area ove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno. Sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, o lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore a un anno». Anche altre definizioni, introdotte con il decreto 36/2203, devono essere valutate positivamente e considerate in linea con le indicazioni della Comunità Europea. Si fa riferimento, in questo contesto, alla definizione di «rifiuti inerti»: («i rifiuti solidi che non subiscono alcuna trasformazione fisica, chimica o biologica significativa; i rifiuti inerti non si dissolvono, non bruciano né sono soggetti ad altre reazioni fisiche o chimiche, non sono biodegradabili e, in caso di contatto con altre materie, non comportano effetti nocivi tali da provocare inquinamento ambientale o danno alla salute umana»), così come a quella di «trattamento»: («i processi fisici, termici, chimici o biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura


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pericolosa, di facilitarne il trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza»); a tal proposito, peraltro, si ritiene utile segnalare che, nell'ambito di eventuali proposte di modifica all'articolo 14 del decreto-legge n. 138/2002, recante «interpretazione autentica della nozione di rifiuto», anche la definizione di trattamento dovrà essere posta in relazione a questa. In particolare la finalità di «ridurre il volume» dei rifiuti per «favorirne lo smaltimento», pur prevista dalla direttiva, appare troppo estensiva ed estendibile sotto il profilo interpretativo, riducendo la valenza della direttiva - e della norma di recepimento - in termini di maggiore protezione ambientale. Deve essere sottolineata, inoltre, la distinzione che il decreto introduce, fra la figura del «gestore»: («il soggetto responsabile di una qualsiasi delle fasi di gestione di una discarica») quella del «detentore»: («il produttore dei rifiuti o il soggetto che ne è in possesso») e quella del «richiedente»: («il soggetto che presenta richiesta di autorizzazione per una discarica»). Completa il quadro innovativo che la disciplina introduce, la disposizione che prevede in via generale «che i rifiuti possano essere collocati in discarica soltanto dopo trattamento».
L'introduzione del decreto legislativo 36/2003 si colloca, ad avviso della Commissione d'inchiesta, in modo conforme e in linea parallela alle indicazioni contenute nel decreto legislativo n.22 del 5 febbraio 1997. Tale decreto, infatti, aveva posto le basi per una profonda revisione del concetto di gestione dei rifiuti, non limitando tale attività ad un'unica modalità e in questo senso, il decreto 36/2003, tende a collocare l'utilizzo della discarica, l'abbandono, lo smaltimento «al suolo», nella fase più marginale possibile del ciclo integrato. Da sempre gli uomini convivono con il problema dei rifiuti e, in particolare, del loro smaltimento e, almeno fino a pochi anni fa, la risposta risolutiva che è stata data a questo problema ha preso in considerazione, quasi esclusivamente, due processi: il conferimento in discarica (spesso senza alcuna forma di protezione per il sottosuolo) e l'incenerimento (spesso, anche in questo caso, senza troppa attenzione a quello che si spargeva nell'aria). Risposte rischiose che, in Italia - ma non solo - troppo spesso hanno causato danni anche luttuosi: l'esempio dell'area industriale di Porto Marghera e quello del forte inquinamento dei suoli dell'area dell'Alta Murgia, sono solo due dei casi più emblematici dei danni che l'illecita o non corretta gestione dei rifiuti può provocare all'ambiente e, soprattutto, alla salute. La scelta fatta con il decreto 22/97 e con la nuova disciplina sulle discariche, quindi, appare in linea con gli orientamenti comunitari di passare dal «sistema delle discariche» ad un sistema di gestione coordinato e finalizzato al raggiungimento di obiettivi programmati: rilanciare la ricerca e l'innovazione tecnico-scientifica legata, oltre che ai sistemi di gestione e di smaltimento (tecnologia e ingegneria dei mezzi e degli impianti) anche, e soprattutto, ai cicli di produzione e alla qualità delle merci prodotte; modificare consuetudini, costumi di vita, modelli di consumo penalizzando lo spreco consumistico e incentivando un uso razionale e sostenibile delle risorse; ridurre drasticamente l'inquinamento prodotto dalle tantissime discariche non controllate, mal gestite, abusive; espellere dal sistema il giro di affari criminale, eco-mafioso che stime sicuramente sottodimensionate valutano


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tra i quattro e i seimila miliardi annui; creare nuove opportunità di lavoro, nuove professioni e imprenditorialità. A sette anni dall'emanazione del decreto legislativo 22/97 però, i dati che devono essere registrati non inducono a riflessioni soddisfacenti soprattutto se si considera che il 70 per cento dei soli R.S.U. prodotti, finisce ancora in discarica e, sebbene, alcuni passi siano stati fatti nella giusta direzione, rimane e si fa sempre più pressante l'esigenza di promuovere azioni atte a ridurre il forte impatto ambientale che i rifiuti hanno sull'ambiente (intervenendo, ad esempio, sui sistemi e sui processi di produzione delle merci) e la necessità di interpretare in un diverso modo le politiche ambientali attraverso una riflessione più attenta intorno alla attività normativa e regolamentare. In questo senso, uno degli obiettivi che la Commissione d'inchiesta ha unanimemente condiviso in questi primi tre anni è quello che si arrivi, al più presto, ad un coordinamento organico di tutta la normativa ambientale di riferimento che deve essere un punto di riferimento unitario, costituire certezza del diritto e rappresentare la misura dell'innovazione per amministratori, cittadini ed operatori del settore, nel segno di un modello di sviluppo sostenibile ed eco-compatibile.

3.3 La gestione dei veicoli fuori uso.

La direttiva 2000/53/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio in materia di veicoli fuori uso indica a tutti gli Stati membri l'obiettivo della «prevenzione della produzione dei rifiuti» così come richiamato dai «Programmi di azione a favore dell'ambiente e di uno sviluppo sostenibile». Tale direttiva persegue il conseguimento, in via prioritaria, dell'armonizzazione delle diverse discipline nazionali relative ai veicoli da «rottamare» al fine di ridurne al minimo l'impatto sull'ambiente ed assicurare il corretto funzionamento del mercato interno dell'Unione Europea, ed indica le linee guida per la definizione di un omogeneo quadro giuridico comunitario volto al conseguimento di obiettivi comuni, basati sui princìpi di «sussidiarietà» e di «chi inquina paga». A tali fini essa stabilisce che:
i costruttori e i fornitori di materiali e di equipaggiamenti debbano ridurre l'utilizzo di sostanze pericolose a livello di progettazione dei veicoli;
sia tenuta in considerazione, sempre nell'ambito della progettazione, la semplificazione delle attività di smontaggio, il reimpiego, il recupero e il riciclaggio delle parti;
sia opportunamente incrementato l'utilizzo di materiale riciclato per la costruzione dei veicoli stessi;
i componenti immessi sul mercato dopo il 1 luglio 2003 non contengano sostanze pericolose.
La direttiva, inoltre, prevede anche disposizioni relative alla raccolta di veicoli fuori uso. Gli Stati membri sono tenuti ad istituire sistemi per la raccolta dei veicoli fuori uso e dei loro componenti che costituiscono rifiuti e a verificare che tutti i veicoli a fine vita, siano


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consegnati in appositi impianti di trattamento autorizzati. Gli Stati membri sono altresì autorizzati ad approntare adeguati sistemi di cancellazione dei veicoli fuori uso dal registro automobilistico dietro consegna di un apposito certificato di rottamazione che dovrà essere rilasciato al momento in cui il veicolo fuori uso è consegnato, gratuitamente, ad uno degli impianti di trattamento autorizzati. I costi per l'applicazione di tale misura debbono essere sostenuti dai produttori dei veicoli. La direttiva stabilisce inoltre che lo stoccaggio e il trattamento dei veicoli fuori uso sia soggetto a rigidi controlli. Prima del trattamento, gli stabilimenti o le imprese che ne eseguono le operazioni, devono procedere allo smontaggio e al recupero delle parti e delle componenti nocive per l'ambiente, nonché ricorrere, per quanto più possibile, al reimpiego e al riciclaggio delle parti riutilizzabili. L'obiettivo della direttiva è quello di portare la percentuale di reimpiego e di recupero, attualmente del 75 per cento, ad almeno l'85 per cento del peso medio per veicolo entro il 2006 e al 95 per cento entro il 2015. Con il decreto legislativo del 24 giugno 2003, n. 209, predisposto in attuazione della delega contenuta nella legge n. 39/2002 (legge Comunitaria 2001) il Parlamento ha quindi introdotto la nuova disciplina specificamente dedicata alla gestione dei veicoli giunti a fine vita. Nel corso dell'iter parlamentare del decreto, la Commissione d'inchiesta bicamerale sul ciclo dei rifiuti ha ritenuto opportuno promuovere una propria indagine in ordine alle problematiche che il tema affrontava. Nell'ambito di tale indagine sono state svolte numerose audizioni sia di soggetti istituzionali, sia di rappresentanti del mondo imprenditoriale direttamente chiamato in causa dai meccanismi e dalle nuove regole che la norma doveva recepire e, nella seduta del 16 aprile 2003 è stato approvato all'unanimità un documento che sintetizza il lavoro di indagine svolto ed esprime alcune considerazioni in merito al testo dello schema di decreto allora predisposto. Il testo del decreto, successivamente approvato dal Parlamento, è entrato in vigore il 22 agosto 2003 e, sebbene sia trascorso poco meno di un anno da allora, è possibile tracciare alcune brevi considerazioni in ordine alla sua applicazione. Si ritiene utile ricordare, in via preliminare, che il dispositivo di legge è stato emanato con oltre un anno di ritardo rispetto al limite che la direttiva imponeva (21 aprile 2002); tale fatto, ha causato il deferimento dell'Italia alla Corte di Giustizia europea, la quale dovrà definire le azioni, di carattere sanzionatorio, da prendersi nei confronti del nostro Paese. Il testo del decreto appare in linea con le indicazioni che la direttiva poneva ed, in particolare, gli obiettivi che propone di perseguire rispecchiano i princìpi, già ricordati, fissati dalla Comunità Europea: ridurre al minimo l'impatto ambientale dei veicoli dismessi, favorire la libera concorrenza tra le imprese senza pregiudizi per le piccole e medie, definire le regole per rendere efficiente la macchina del recupero, creare i presupposti per prevenire la produzione di rifiuti all'atto della dismissione, partendo direttamente da una progettazione del veicolo più razionale e sensibile alle variabili ambientali. Al fine di ottemperare ad uno degli obblighi posti dalla direttiva, il decreto legislativo, all'articolo 11, definisce tempistica e modalità di trasmissione delle informazioni e dei dati indispensabili per poter disporre di un efficace sistema di monitoraggio in relazione all'intero


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settore del ciclo dei rifiuti derivanti dalle attività di demolizione degli autoveicoli usati. Sotto tale profilo, peraltro, appare utile ricordare che l'Italia è tra gli Stati che, con il pubblico registro automobilistico, dispone di un valido sistema di registrazione dei veicoli capace di fornire dati molto attendibili anche in sede comunitaria. Tuttavia, il monitoraggio dei flussi di rifiuti derivanti dalla demolizione dei veicoli fuori uso, continua a rappresentare allo stato attuale un profilo ancora critico del sistema. Gli strumenti di monitoraggio disponibili, rappresentati in particolar modo dalle dichiarazioni del modello unico di dichiarazione ambientale, forniscono informazioni talvolta incomplete e di non agevole interpretazione. Disfunzioni si riscontrano anche in relazione all'acquisizione dei dati afferenti al numero di impianti di demolizione e frantumazione localizzati sul territorio nazionale, e ciò in ragione della notevole disomogeneità delle dichiarazioni presentate dai diversi soggetti dichiaranti, che non consentono un'identificazione univoca. Lo strumento rappresentato dalle dichiarazioni MUD risulta, infatti, allo stato di non facile lettura in relazione alla specifica tipologia di rifiuti derivanti dalla demolizione di autoveicoli. La difformità di informazioni ricavabili dà luogo ad una indubbia incompletezza del quadro conoscitivo. L'altro profilo di criticità che la Commissione ha inteso sottolineare durante l'iter parlamentare del provvedimento in esame, riguarda la necessità di una riorganizzazione complessiva del sistema della demolizione.Il decreto legislativo 209/2003 sembra dare una prima risposta in tal senso attraverso quanto prescritto nell'Allegato I; Gli impianti di trattamento, siano essi autorizzati dagli enti competenti in procedura ordinaria o semplificata, ai sensi degli articoli 27, 28, 33 del D. Lgs. 22/97, devono essere conformi a quanto prescritto dall'Allegato I del Decreto. Per quanto concerne le operazioni di trattamento, ovvero di messa in sicurezza, demolizione, pressatura, tranciatura, frantumazione, recupero, preparazione per lo smaltimento dei rifiuti frantumati, operazioni eseguite ai fini del recupero o dello smaltimento del veicolo fuori uso e dei suoi componenti, devono essere: effettuate senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero arrecare pregiudizio all'ambiente (articolo 2 comma 2, D. Lgs. 22/97); effettuate nel rispetto delle prescrizioni pertinenti dell'Allegato I del Decreto in esame, nei tempi più rapidi possibili;
precedute da un intervento di messa in sicurezza del veicolo mediante rimozione di accumulatori, soluzioni acide, serbatoi di gas, airbag, carburanti, fluidi, filtri olio, componenti contenenti mercurio ecc... (Punto 5, Allegato I); caratterizzate dalla massima attenzione al non compromettere la possibilità di reimpiego, riciclaggio e recupero dei materiali recuperati.
L'introduzione di tali prescrizioni per gli impianti di messa in sicurezza e trattamento dei veicoli dovrebbe garantire una maggiore omogeneità a livello nazionale e facilitare il processo di razionalizzazione del sistema impiantistico anche mediante forme di aggregazione degli attuali impianti in strutture tecnologicamente più avanzate e in grado di fornire più solide garanzie del rispetto dei principi di tutela ambientale. Nel quadro della piena attuazione della direttiva 2000/53, ed anche in relazione agli elementi di valutazione emersi nel


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corso delle audizioni, è parere di questa Commissione valutare l'opportunità, già segnalata con il documento del 16 aprile 2003, di dar vita ad una sorta di organo di autogoverno degli operatori economici del settore che sia abilitato a svolgere un ruolo di monitoraggio e di coordinamento dell'attività svolta dagli attori dell'intera filiera di imprese coinvolte nel settore della rottamazione degli autoveicoli usati, anche con l'obiettivo di incentivare la collaborazione con gli organismi istituzionali competenti. Attraverso il percorso di procedure e di responsabilità, delineato dal decreto legislativo 209/2003, è allora necessario coinvolgere tutti i soggetti interessati all'attività di gestione dei rifiuti, dai produttori agli operatori economici del settore (demolitori, riciclatori, frantumatori), al fine di promuovere e potenziare moduli organizzativi flessibili ed efficienti, all'interno di un programma elaborato in collaborazione con le autorità preposte dalla legge alla regolamentazione del settore. Proprio nell'ambito di un processo di pianificazione oculata, svolta dagli organi pubblici competenti, potrebbe appunto rendersi opportuna, con funzione anche propositiva, l'istituzione di un organismo che possa far proprie e contemperare le diverse esigenze di tutti gli operatori del settore, e che sia posto in grado di prospettare ed applicare regole che abbiano efficacia nei confronti di tutti i soggetti coinvolti, coordinandone e controllandone l'attività, e che sia teso altresì a promuovere e tutelare, nelle sedi competenti, gli interessi dell'intero settore. Risulta utile in tale prospettiva attivare forme associative vincolanti dei soggetti coinvolti che sappiano aggregare le molteplici realtà attualmente polverizzate sul territorio, e che costituirebbero senza dubbio strumenti idonei per contrastare e scoraggiare le forme di illegalità che insidiano l'intero settore. Si profila, inoltre, l'utilità di costituire un gruppo di lavoro interministeriale, con la partecipazione anche di rappresentanze dei produttori degli autoveicoli e degli operatori della filiera del riciclo, con funzioni di controllo e monitoraggio del settore, che miri all'ottimizzazione del sistema, e svolga compiti di vigilanza in ordine al raggiungimento degli obiettivi posti dalla disciplina. La presenza di un organismo in grado di svolgere un'attività di controllo e di gestione, costituirebbe altresì una sede formale deputata a promuovere e attivare iniziative volte a compensare i momenti sfavorevoli del mercato e a identificare eventuali elementi correttivi del sistema.

3.4 La definizione giuridica del termine «rifiuto».

a) la situazione normativa.

La questione della definizione, o meglio: della ridefinizione, della nozione giuridica di rifiuto è emblematica della complessità del mutato quadro normativo; essa discende, in primo luogo, dalla consapevolezza, accresciutasi in questi anni nella società italiana e nelle istituzioni europee, della centralità della tutela dell'ambiente; è, inoltre, tema strettamente connesso alla vita delle imprese, al funzionamento delle pubbliche amministrazioni statali, regionali e locali; è, infine, un tema che evoca una lunga, attenta, talora controversa,


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esperienza giurisprudenziale che su questa nozione ha definito i confini dell'illecito penale in materia ambientale. La definizione della nozione normativa di rifiuto è operazione senza dubbio complessa. I fattori che rendono complesso ridurre il rifiuto entro precisi confini definitori, condivisi e riconosciuti da tutti, sono molteplici, e spesso di segno contrastante. Innanzitutto, si tratta di cause di ordine culturale. La percezione del concetto di rifiuto è, infatti, influenzata, in modo decisivo, dalla particolare prospettiva in cui si pone ciascun osservatore, prospettiva che condiziona la collocazione di determinati materiali o sostanze nella categoria dei rifiuti. Non vi è dubbio, ad esempio, che nella considerazione di chi li utilizza, i materiali che vengono impiegati nel ciclo produttivo dell'azienda non sono rifiuti, bensì materie prime; e si tratta di un atteggiamento non solo fondato sull'interesse economicamente valutabile rispetto alle res, ma anche supportato dalla resistenza psicologica (che rimanda, appunto, ad un atteggiamento culturale) dell'imprenditore a concepirsi come manipolatore di rifiuti piuttosto che come trasformatore di materie prime. E rimanda pure ad un atteggiamento di cultura dell'impresa la resistenza ad investire in tecnologie ecocompatibili, concepite come un inutile costo aggiuntivo. Vi è, poi, l'angolo visuale proprio dei soggetti esponenziali degli interessi ambientali, portati ad estendere, in modo tendenzialmente omnicomprensivo, il campo dei rifiuti, siccome avvertito in insanabile contrasto con la piena ed effettiva tutela della salubrità dell'ambiente, che richiede una costante ed effettiva attività di prevenzione e vigilanza, supportata necessariamente da una rete normativa dalle maglie il più possibile strette. Si tratta di una prospettiva rilevante ma con contenuti tuttora di tipo ideologico, in quanto tali portati a non considerare la complessità del reale, entro cui vanno ascritti le altrettanto vitali aspirazioni legate allo sviluppo economico. La definizione della nozione di rifiuto è, quindi, questione centrale. In tale prospettiva, la Commissione ha ritenuto indispensabile procedere ad un'istruttoria che raccogliesse le osservazioni e le sollecitazioni di tutti i settori interessati alla questione: dalla dottrina alla giurisprudenza, dalle associazioni ambientaliste a quelle rappresentative degli imprenditori, senza trascurare, come si è anticipato, di approfondire il punto di vista delle istituzioni comunitarie, presso le quali la Commissione ha proceduto a svolgere proficui incontri. Nella Comunicazione adottata il 27 maggio 2003, la stessa Commissione Europea, peraltro, nell'avviare un'ampia consultazione pubblica sulla futura politica europea in questo campo, ha dedicato ampio spazio alla definizione di rifiuto, ricordando che tale definizione, contenuta nell'articolo 1, lettera a) della direttiva quadro sui rifiuti (75/442/CEE) è il fulcro della legislazione comunitaria. Si tratta, tuttavia, come la Commissione ha riconosciuto, di una definizione che è stata ed è (non solo nel nostro paese) al centro di intensi dibattiti, tanto più che l'articolo 8, paragrafo 2), punto IV) del Sesto Programma comunitario di azione in materia ambientale chiede che sia precisata la distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che non lo è. La nozione di rifiuto è, attualmente, definita dalla direttiva comunitaria 91/156/CEE, che ha modificato la direttiva 75/442/CEE; essa mira sia a favorire l'armonizzazione delle legislazioni, sia soprattutto a garantire un elevato livello di protezione della salute umana e dell'ambiente contro gli


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effetti nocivi della gestione dei rifiuti. Ai sensi della direttiva sopra menzionata, si intende per rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I della citata direttiva e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi. L'articolo 1 a) della direttiva è stato trasposto nella legislazione italiana dall'articolo 6, comma 1 - lett. a), del D. Lgs. 5.2.1997, n. 22 (cosiddetto decreto Ronchi), secondo cui «è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'Allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». Il primo elemento essenziale della nozione di rifiuto è costituito, pertanto, dall'appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato A); tale elenco, tuttavia, ha un valore puramente indicativo, poiché lo stesso Allegato A), Parte I, comprende voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti. Assume quindi rilievo primario, la condotta del detentore, incentrata sulla nozione di disfarsi. L'atteggiamento del detentore, è stato, quindi, oggetto di interpretazione autentica con l'articolo 14 del decreto-legge 8.7.2002, n. 138, convertito nella legge 8.8.2002, n. 178 . Tale disposizione prevede, introducendo una doppia deroga alla nozione generale di rifiuto, che non ricorrono l'atto del disfarsi e la decisione del disfarsi, se i beni o le sostanze o i materiali residuali di produzione o di consumo:
1) possono essere e vengono effettivamente ed oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;
2) possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'Allegato C) del decreto legislativo n. 22/1997.

Tale definizione della nozione di rifiuto, soprattutto nella parte relativa alle deroghe, ha formato oggetto della decisione n. 200/2213-C(2002)3868, con la quale la Commissione Europea ha avviato, nei confronti dell'Italia, la procedura di infrazione, ritenendo la richiamata interpretazione autentica contrastante con gli obblighi previsti dalle richiamate direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE, in quanto rappresenta un indebita limitazione del campo di applicazione della nozione di rifiuto. I criteri menzionati al comma 2 dell'articolo 14, quali il riutilizzo nel medesimo o in analogo ciclo di produzione o consumo, coincidono, ad avviso della Commissione Europea, proprio con le operazioni di gestione di rifiuti che la direttiva mira a sottoporre a controllo. La Corte Europea di Giustizia, nel ribadire che l'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine disfarsi (sentenza 18 dicembre 1997, Inter-Environment Wallonie), ha osservato che tale nozione ed è da ritenersi comprensiva anche delle sostanze e degli oggetti suscettibili di riutilizzo economico (sentenza 28 marzo 1990, Gessoso e Zanetti). Quanto al sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva 75/442, si è, inoltre, precisato che esso si riferisce a tutti gli oggetti e le sostanze di cui


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il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (sentenza 25 giugno 1997, Tombesi). Gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità attraverso cui stabilire quando ricorre la decisione di disfarsi, senza tuttavia introdurre presunzioni assolute, che avrebbero l'effetto di restringere indebitamente la nozione di rifiuto e, quindi, abbassare il livello di tutela dell'ambiente (sentenza 15 giugno 2000, Arco). Non contrasta, inoltre, con le finalità della direttiva 75/442 l'ipotesi secondo cui un bene, un materiale o una sostanza, che derivi da un processo che non è principalmente destinato a produrlo, possa essere dall'impresa sfruttato o commercializzato a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari e sempre che ciò avvenga senza pregiudizio per l'ambiente (sentenza 18.4.2002, Palin Granit Oy).
In sintesi, la Corte europea di giustizia, più che aderire al partito del rifiuto od a quello del non rifiuto, predilige la strada del rifiuto riutilizzato e controllato.

b) l'urgenza di ridefinire la nozione di rifiuto.

È un fatto che l'articolo 14, nato come norma interpretativa, ha finito con il produrre una molteplicità di orientamenti interpretativi. Vi è sempre stata, occorre osservare, nella prassi, la tendenza a considerare non rifiuto materiali che oggettivamente e formalmente lo sono. Si tratta di una tendenza che muove dalla considerazione che esiste sul nostro territorio una fetta di materiali che sono rifiuti per il decreto Ronchi, ma che nel senso comune, sociale ed economico, faticano ad essere considerati rifiuti. L'articolo 14 nasce da questa difficoltà di modulare l'ambito normativo della definizione del rifiuto, di renderlo maggiormente adeguato alla realtà, ma non la risolve; anzi, finisce con l'accrescere gli ambiti di incertezza e col favorire l'espandersi dell'area degli smaltimenti cosiddetti bianchi, cioè sottratti ad ogni forma di controllo: tutto può essere considerato non rifiuto, basta che vada verso una forma generica di riutilizzo (emblematico, al riguardo, è il caso dei fanghi e dei liquami zootecnici). Le criticità, in particolare, riguardano il secondo comma della citata norma, e cioè le disposizioni derogatorie. Infatti, dopo aver definito l'atto del disfarsi, la decisione di disfarsi e l'obbligo di disfarsi, l'articolo 14 introduce delle presunzioni assolute (che, come sopra si è visto, non sono compatibili con le finalità delle direttive comunitarie in materia di protezione dell'ambiente), dalla portata così ampia ed indefinibile da rendere evanescenti i confini stessi della nozione di rifiuto. Che non si tratti di esercizio puramente teorico, è testimoniato dalle ricadute sulla delimitazione degli ambiti dell'illecito penale in materia di rifiuti. Poiché, infatti, gli illeciti penali in materia ambientale rimandano, in larghissima parte, a nozioni extrapenali, fra le quali, in primis, quella di rifiuto, non è difficile afferrare gli effetti metastatici, coerenti e devastanti, connessi ad una determinata scelta interpretativa. Se, infatti, non si tratta di rifiuti, chi li trasporta, non può essere classificato come trasportatore di rifiuti (e quindi non deve ottemperare alle prescrizioni connesse); ed ancora, chi li ha prodotti e consegnati al trasportatore, neppure può essere considerato un


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produttore di rifiuti (e, pertanto, va ritenuto esente dagli obblighi e controlli relativi); ed infine, se, nel trattarli, vengono prodotte immissioni nell'atmosfera, queste ultime non devono ritenersi provenienti da rifiuti (e, dunque, non assoggettabili alla più rigorosa disciplina prevista in materia). E viceversa. L'assenza di parametri interpretativi certi incide, quindi, sulla stessa attività di accertamento degli illeciti penali. Ed infatti, l'incertezza interpretativa determina un oggettivo disorientamento negli organi di polizia impegnati nel contrasto alle attività di illegale smaltimento di rifiuti, mascherate spesso con forme di riutilizzo di mera facciata. È evidente, inoltre, il vero e proprio shopping giudiziario che tale situazione crea. Gli imprenditori, infatti, tenderanno a spostare le proprie attività di riutilizzo in quelle regioni dove si registrerà un orientamento meno rigoroso dell'autorità giudiziaria, conseguentemente penalizzando il mercato e l'occupazione di quelle aree dove, viceversa, gli interventi giurisdizionali mireranno a restringere le maglie interpretative. Paradigmatica, a tale riguardo, è la vicenda dei rottami ferrosi. Tale intollerabile situazione di incertezza -ancor più insostenibile in vista del recepimento della decisione quadro 2003/80/Gai relativa alla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale- ha spinto, come si è detto, la Commissione Bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse ad affrontare in maniera approfondita la questione, giungendo ad approvare all'unanimità, in data 1 luglio 2004, un documento sulla nozione giuridica del termine di rifiuto che ha evidenziato l'urgenza di stabilirne i confini giuridici; e ciò anche per i riflessi in ambito penale della nozione stessa, essendo evidente che tale incertezza definitoria è inconciliabile con il principio di tassatività delle fattispecie penali. Molteplici sono state le sollecitazioni registrate dalla Commissione, provenienti sia da soggetti istituzionali preposti al contrasto dei reati in materia di rifiuti che da enti esponenziali di interessi ambientali; gli stessi imprenditori, peraltro, hanno rappresentato l'urgenza di porre fine alla condizione di incertezza interpretativa, fonte di alterazione delle regole del mercato e della concorrenza. Le conclusioni dell'analisi effettuata dalla Commissione Bicamerale sono per l'adozione non più differibile di opportuni rimedi, in grado, da un lato, di attribuire confini certi alla nozione di rifiuto e, dall'altro, di consentire un'adeguata protezione dell'ambiente compatibile con le esigenze di sviluppo economico. Tale risultato può e deve essere raggiunto anche facendo leva sugli interessi dei soggetti economici coinvolti nelle attività di riutilizzazione.
Il Consiglio Europeo, nel Sesto Programma di azione per l'ambiente della Comunità, nell'identificare gli aspetti che devono essere assolutamente affrontati per ottenere uno sviluppo sostenibile, ha sostenuto l'opportunità che la realizzazione degli obiettivi passi attraverso la collaborazione con il mondo imprenditoriale, al fine di attuare un giusto bilanciamento tra interessi ambientali ed economici.

c) il possibile percorso di riforma; il ruolo centrale delle imprese.

Ogni percorso che miri a ridare certezza alla nozione giuridica di rifiuto non può, pertanto, che tener conto, da un lato, della mutata cornice normativa (conseguente all'innesto del diritto comunitario) e,


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dall'altro, della necessità di trovare un adeguato bilanciamento tra l'esigenza di non abbassare il livello di protezione dell'ambiente e quella di non mortificare l'iniziativa imprenditoriale.
Lo snodo, giuridico ma anche lato sensu culturale, è il comportamento del detentore delle sostanze residuali, e, soprattutto, del detentore-imprenditore. Occorre, allora, individuare delle condizioni di fatto che dimostrino che la detenzione è finalizzata alla riutilizzazione economica delle sostanze residuali; sicché, se ricorrono tali condizioni, sempre sottoposte a verifica e controlli, non ci sarà volontà di disfarsi e, quindi, non ci sarà rifiuto; se tali condizioni non ricorrono ovvero vengono meno, la volontà è nel senso del disfarsi e, pertanto, ci sarà rifiuto. L'individuazione delle condizioni di fatto, proprio perché indicative di un atteggiamento volitivo, non può che essere oggetto di una programmazione che deve essere il frutto di scelte imprenditoriali che la pubblica amministrazione sottopone a controllo, preventivo e successivo, quanto alla compatibilità con le esigenze di protezione dell'ambiente. Tale programmazione può essere trasfusa in modelli organizzativi e gestionali, predisposti sia a seguito di accordi di programma che autonomamente dalle imprese ovvero dalle associazioni di categoria; l'osservanza di siffatti modelli, verificati e controllati dalla pubblica amministrazione, costituirà il parametro non solo per stabilire se il detentore-imprenditore rimarrà entro i confini del non-rifiuto, ma anche per stabilire se ed in quale misura l'impresa possa essere chiamata a rispondere dei reati in materia ambientale commessi da soggetti alla stessa organicamente riconducibili. La responsabilità da reato della persona giuridica non è, peraltro, una novità per il nostro ordinamento; essa è stata introdotta con il decreto legislativo n. 231 del 2001. È di interesse ricordare che il decreto del Presidente della Repubblica n. 231 introduce il concetto di adozione di efficienti modelli organizzativi come sistema attraverso il quale l'ente può escludere ogni riferibilità soggettiva alla propria struttura aziendale del comportamento delittuoso del soggetto autore del reato. Si tratta dell'adozione di «buone prassi» al fine di prevenire la realizzazione, mediante la strumentalizzazione dell'ente, di specifici reati, prassi consistenti in condotte positive di buona organizzazione aziendale, in materia di vigilanza e controllo interno, che vengono adottate ed efficacemente attuate, mediante modelli di organizzazione e gestione che, nello specifico, dovranno garantire un adeguato livello di protezione ambientale. Va, inoltre, tenuto presente come in campo ambientale gli impegni internazionali rendono indispensabile procedere, a breve, ad un'estensione dei casi tipizzati di responsabilità da reato per le persone giuridiche, come previsto dalla Convenzione di Strasburgo contro il crimine ambientale, del 4.11.1998, e dalla decisione quadro dell'Unione europea in materia di crimine ambientale, del 27.1.2003. Appare opportuno, pertanto, ricorrere ai siffatti modelli - negoziabili anche dalle associazioni di categoria - da un lato per consentire all'azienda di esplicitare la propria intenzione di «utilizzare» certe sostanze, anziché «disfarsi» delle stesse, attraverso la adozione, certa ed attuale, di un modello di impiego o produzione che veda inclusa la sostanza come bene, e non come rifiuto, nell'attività di impresa; e, dall'altro, per tracciare, in modo altrettanto certo, i confini entro i quali l'impresa può e deve essere chiamata a


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rispondere dei reati ambientali alla stessa riconducibili. La previsione, infine, di opportune misure premiali -strutturate in termini di crediti di imposta- potrà avere l'effetto di promuovere e favorire un vero e proprio circolo virtuoso capace di ottenere il recupero dei rifiuti nelle attività produttive secondo modalità rispettose dell'ambiente. Sul punto va osservato come la politica ambientale dell'Unione riconosce nell'ambiente una risorsa economica dotata di un valore intrinseco. Ciò conferma il principio «chi inquina paga», ma non si pone in contraddizione con la visione che un'economia rispettosa dell'ambiente può essere una economia sana anche sotto il profilo finanziario. Le imprese che si troveranno ad investire in ecologie pulite, in aderenza con il progresso scientifico e tecnologico, investono anche in un futuro sociale ed economico che ne potrà accrescere la competitività. Se è vero che gli investimenti contro l'inquinamento appaiono alquanto costosi, è altrettanto vero che essi sono sopportabili e tanto più lo saranno quanto più lo sviluppo tecnologico ne ridurrà i costi. Peraltro l'attuazione comunitaria del principio «chi inquina paga» appare da un lato temperata dalla previsione di aiuti per la riparazione del danno all'ambiente, come il Fondo di coesione o i Fondi strutturali, dall'altro indirizzata verso vere e proprie forme di responsabilità oggettiva, come quando si prevede la responsabilità oggettiva per danno all'ambiente derivante dall'esercizio di attività pericolose anche senza colpa del soggetto che ha il controllo dell'attività, ovvero per il solo fatto del collegamento funzionale tra attività e danno (Convenzione di Lugano del 22 giugno 1993). Come autorevolmente sostenuto in dottrina, si tratta di un vero e proprio rischio di impresa derivante dal possibile effetto inquinante dell'attività produttiva. La questione della responsabilità civile per danno ambientale risulta poi affrontata più specificamente nel Libro Verde sul risarcimento dei danni all'ambiente presentato come Comunicazione della Commissione al Consiglio e al parlamento ed al comitato economico e sociale dell'U.E. nel maggio del 1993 e più di recente dal Libro Bianco sulla responsabilità per danni all'ambiente pubblicato il 9 febbraio 2000; quest'ultimo delinea la struttura di un futuro sistema di responsabilità comunitario mirato a realizzare il principio «chi inquina paga», prevedendo oltre ai danni alle persone e alle cose anche quelli alla natura, in specie alle risorse naturali rilevanti per la conservazione della diversità biologica.
L'attuazione dei richiamati principi internazionali in ambito comunitario risulta, pertanto, fortemente perseguita da un Consiglio Europeo che tra l'altro ha impegnato la Commissione a essere nel futuro ancor più determinata nel seguire il principio di precauzione (adottato dalla legislazione comunitaria solo con il Trattato di Maastricht), preparando proposte legislative e sviluppando in via prioritaria orientamenti chiari ed efficaci per l'applicazione di questo principio, anche con riguardo al settore della tutela dei consumatori (Risoluzione del Consiglio del 13 aprile 1999). Così come il principio di precauzione e quello «chi inquina paga», la Comunità ha espressamente richiamato il principio di prevenzione, sin dalla direttiva 85/337/CEE relativa alla valutazione di impatto ambientale; in particolare, con la direttiva 96/61/CEE, si impone ai singoli Stati che negli impianti siano prese le opportune misure di prevenzione dell'inquinamento,


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applicando le migliori tecnologie disponibili. Più in generale, infine, il già citato Sesto programma di azione per l'ambiente della Comunità ha identificato quegli aspetti che devono essere assolutamente affrontati per ottenere uno sviluppo sostenibile; programma che la Commissione ha ritenuto di poter attuare attraverso la collaborazione del mondo imprenditoriale, ricercando un opportuno bilanciamento tra interessi ambientali ed economici. Sotto tale ultimo aspetto, prioritaria appare la sollecitazione di interventi in sede comunitaria al fine di addivenire alla formulazione di direttive più dettagliate (e quindi self executing), anche in materia di nozione di rifiuto, oggetto di condivisione da parte di tutti i paesi aderenti all'Unione: circostanza tanto più significativa ove si consideri il processo di ampliamento dei confini dello Stato Europeo. Una disciplina unitaria, che accomuni tutti gli Stati, è di grande utilità, sia per garantire omogeneità nella tutela dell'ambiente, sia per evitare tentazioni di allocare attività pericolose per la salute dell'uomo in paesi caratterizzati da legislazioni più permissive.

3.5 La gestione dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche.

Le stime che ogni anno vengono fornite circa la produzione dei rifiuti derivanti dalle apparecchiature elettriche ed elettroniche sono rappresentate da cifre impressionanti. Viene calcolato che, tra il 2001 e il 2007, almeno un miliardo di personal computer diventerà obseleto (saranno cinquecento milioni nei soli Stati Uniti). In Italia la produzione dei cosiddetti RAEE si attesta annualmente intorno alle 200 mila tonnellate, con una produzione pro-capite di circa 20 Kg. Il brevissimo ciclo di vita di queste apparecchiature e il contenuto altamente tossico dei loro componenti, è il principale elemento di rischio per gli impatti che una cattiva gestione di tali rifiuti può comportare per l'ambiente. Personal computer, stampanti, telefoni, videocamere, fax, monitor, cartucce di inchiostro e, ancora, frigoriferi, lavatrici, televisori, ecc., contengono tutti sostanze estremamente pericolose quali metalli pesanti (piombo, mercurio, alluminio, rame, cadmio, cromo esavalente) plastiche di vario genere trattate con ritardanti di fiamma bromurati e ftalati, gas per il raffreddamento delle serpentine (CFC), e non solo. La maggior parte di questi elementi se non correttamente smaltiti o riciclati possono essere causa di gravi forme di malattie per gli esseri umani e provocare danni irreparabili all'intero eco-sistema. Sebbene le istituzioni internazionali, già dal 1989 con la Convenzione di Basilea, abbiano dettato regole circa il divieto di esportazione di tali rifiuti, alcune inchieste condotte da associazioni ambientaliste internazionali, quali Greenpeace nel 2002, hanno dimostrato che, ancora oggi purtroppo, la maggior parte di tali rifiuti viene avviata presso alcune aree dei Paesi in via di sviluppo per una gestione, a dir poco, criminale degli stessi. Alcuni Paesi, peraltro, tra cui gli Stati Uniti, non hanno ancora ratificato la Convenzione di Basilea sebbene questa, ancora nel 1994, sia stata rafforzata con il «Basel Ban Amendament» che vieta definitivamente l'esportazione di rifiuti tossici dai paesi ricchi a quelli poveri, non ammettendo neanche il riciclaggio tra le motivazioni; tuttavia, finché non ci sarà una


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adesione formale di un numero sufficiente di Paesi, gli obblighi posti dall'atto aggiuntivo della Convenzione non entreranno in vigore in nessuno dei Paesi OCSE. In tale contesto internazionale, l'Unione delle Comunità Europee, comunque chiamata in causa quale uno dei responsabili di tale «commercio», ha predisposto due direttive che dovranno essere recepite dai Paesi membri entro il 14 agosto 2004: la n. 2002/96/CE e la n. 2002/95/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, entrambe del 27 gennaio 2003. La prima, relativa specificatamente alle «Apparecchiature elettriche ed elettroniche», impone alle imprese produttrici di farsi carico dei costi per lo smaltimento di questi rifiuti e ha come obiettivo la raccolta differenziata di almeno 4 kg l'anno (dei 20 kg prodotti attualmente pro-capite) di RAEE da uso domestico entro il 2008. La seconda direttiva invece indica che, a partire dal 1o luglio 2006 gli Stati membri devono provvedere affinché le apparecchiature elettriche ed elettroniche nuove immesse sul mercato non contengano piombo, mercurio, cadmio, cromo esavalente, bifenili polibromurati (PBB) o etere di difenile polibromurato (PBDE). In particolare, nelle premesse a questa seconda direttiva viene detto che «Le prove disponibili indicano che le misure sulla raccolta, il trattamento, il riciclo e lo smaltimento dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) di cui alla direttiva 2002/96/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 gennaio 2003, sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche sono necessarie per ridurre i problemi di gestione dei rifiuti legati ai metalli pesanti e ai ritardanti di fiamma in questione. Malgrado queste misure, tuttavia, parti significative di RAEE continueranno a finire negli attuali canali di smaltimento. Anche se i RAEE fossero raccolti separatamente e sottoposti a processi di riciclaggio, il loro tenore di mercurio, cadmio, piombo, cromo VI, PBB e PBDE potrebbe presentare rischi per la salute o l'ambiente». L'Europa, quindi, si sta dotando di una propria disciplina giuridica relativa a tali problematiche e, anche in questo campo il nostro Paese è chiamato a riorganizzare il proprio quadro normativo. A tal fine, il Parlamento italiano, con la legge 31 ottobre 2003, n.306, ha delegato il governo all'emanazione dei decreti legislativi di attuazione delle due direttive; ad oggi, però, i decreti non sono stati ancora predisposti e, a tale proposito, la Commissione esprime preoccupazione per il ritardo e ritiene utile sollecitare il Governo affinché, nei tempi più brevi possibili, avvii tutte le iniziative utili ad un rapido esercizio della delega.
La Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti ha aperto un altro fronte di analisi e di indagine anche su questa tematica. Le prime indicazioni emerse nel corso dei lavori della Commissione attengono, in particolare, alle difficoltà organizzative relative alla raccolta separata dei RAEE che dovranno essere affrontate e risolte. A parere della Commissione, come indicato nella direttiva, i produttori e i distributori dovranno essere chiamati a definire, in collaborazione con le Amministrazioni Locali, sistemi di raccolta che prevedano la realizzazione di centri di raccolta almeno a livello di Ambiti Territoriali Ottimali, garantendone la gratuità e, in particolare, la disponibilità e l'accessibilità a tutti i cittadini. In sede di definizione delle norme di attuazione, inoltre, dovranno essere prese in considerazione,


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ove possibile, l'opportunità di rendere maggiormente dettagliati i riferimenti alle attività di prevenzione nella fase di produzione e alla pericolosità delle sostanze contenute; sarebbe utile definire, ad esempio, specifiche che determinino target temporali o obiettivi chiari e definiti di prevenzione.

3.6 Bonifiche dei siti inquinati.

1) introduzione.

In tutto il mondo industrializzato le problematiche legate al forte impatto ambientale che sottende allo sviluppo economico e sociale non possono essere governate senza adeguati strumenti tecnologici e normativi volti alla salvaguardia dell'ambiente, al controllo dell'uso delle risorse e alla promozione di un modello di sviluppo sostenibile ed eco-compatibile. Il forte inquinamento ambientale e il degrado di vastissime aree del mondo e, in particolare, dei paesi occidentali, sta a dimostrare che le strategie di crescita adottate e le politiche di salvaguardia contro gli sprechi di risorse, gli abusi e, molto spesso, i crimini perpetrati ai danni dell'ambiente, non si sono dimostrate adeguate. È solamente da pochi anni, infatti, che l'accresciuta consapevolezza dei rischi che corre l'intero pianeta, ha stimolato, da un lato, la ricerca di nuove tecnologie e di strumenti per il controllo degli inquinamenti e, dall'altro, l'emanazione di nuove regole condivise per la crescita e lo sviluppo che tengano in maggior considerazione la salvaguardia e il rispetto dell'ambiente.
La Comunità Europea, ha risentito fortemente delle sollecitazioni pervenute in tal senso, in particolare dal mondo scientifico e, da almeno un decennio, sta adeguando la propria normativa ambientale ai principi fondamentali della «responsabilità condivisa», del «chi inquina paga» e dell'«approccio integrato» alla risoluzione ed al ripristino delle condizioni ambientali pre-esistenti ai più gravi fenomeni di inquinamento e di impatto ambientale dovuto alla attività umana e, in particolare, a quella industriale. In questo quadro l'Italia, sebbene sotto il profilo propositivo stia rispondendo in maniera sufficientemente adeguata a tali esigenze, soprattutto attraverso la produzione normativa in materia, dal punto di vista dei risultati, appare ancora in grave ritardo.
Una delle tematiche maggiormente legate a tali questioni, che la Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti istituita in questa XIV legislatura ha trattato con particolare interesse, è quella relativa alle bonifiche dei siti inquinati. Tale questione è stata affrontata, nel corso delle numerose audizioni e delle missioni che la Commissione ha effettuato, con particolare riferimento alle attività di bonifica che sono state definite dal «Programma Nazionale di bonifica e ripristino ambientale» di cui all'articolo 1, della Legge n. 426/98 e successive integrazioni. Non è stata trascurata, peraltro, una verifica circa le molteplici segnalazioni e denunce, provenienti in ordine a situazioni di degrado e di abbandono di altre aree del territorio nazionale, causate da attività di illecito smaltimento dei rifiuti molto spesso provocato da attività industriali. In tal senso, oltre ad effettuare


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indagini conoscitive mirate a delineare un quadro, il più rappresentativo possibile, della situazione in cui versa il territorio nazionale, la Commissione ha organizzato, nel mese di ottobre 2002, un convegno di presentazione dei dati dell'indagine effettuata dal Corpo Forestale dello Stato sulla diffusione delle discariche abusive in Italia. Gli atti del convegno sono stati pubblicati dalla Camera del Deputati nella collana «Convegni e Conferenze».

2) Il quadro normativo nazionale.

Con l'emanazione del Decreto Ministeriale n. 471 del 25 ottobre 1999 in attuazione dell'articolo 17, del decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997, è stato sancito il principio che le attività produttive in grado di causare un inquinamento del terreno o delle acque, sia esso dovuto ad un incidente che ad una normale attività lavorativa, non siano sanzionabili se il responsabile provvede, entro termini temporali certi, a bonificare l'area. Prima dell'entrata in vigore del Decreto Legislativo 22/97, la bonifica dei siti contaminati era regolamentata dall'articolo5 della Legge 441/87 e dal decreto ministeriale 16 maggio 1989, emanato in attuazione del citato articolo5. Il decreto ministeriale in questione dettava criteri e linee guida per la predisposizione, con modalità uniformi da parte delle Regioni, dei piani di bonifica. Tali piani dovevano individuare i siti da bonificare in ordine di priorità, le caratteristiche generali degli inquinanti presenti, le modalità degli interventi e la stima degli oneri finanziari. Non erano previste norme per la definizione univoca di sito contaminato, per le procedure di prelievo ed analisi dei campioni, per le modalità d'intervento, per la redazione ed approvazione dei progetti. La regolamentazione degli aspetti sopraelencati era demandata a leggi regionali, ove esistenti. Il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, anche attraverso il citato decreto ministeriale 471/99, emanato ai sensi dell'articolo17 comma 1 dello stesso, ha dettato regole complessivamente più organiche che dovrebbero permettere di affrontare tale problematica in modo esaustivo. I punti salienti, in materia di bonifiche, del D.Lgs.22/97 e del regolamento, decreto ministeriale 471/99, riguardano:
le definizioni di sito contaminato, sito potenzialmente contaminato, messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, bonifica e ripristino ambientale con misure di sicurezza, misure di sicurezza;
le disposizioni procedurali per gli interventi (articolo 17 comma 2) e sanzionatorie (articolo 51-bis), per chiunque cagioni il superamento dei limiti di accettabilità o determini un concreto ed attuale pericolo di superamento degli stessi;
l'affermazione che gli interventi di bonifica costituiscono onere reale sulle aree inquinate e che tale onere deve essere riportato nel certificato di destinazione urbanistica (articolo 17 comma 10);
l'affermazione che le spese sostenute per la bonifica sono assistite da privilegio speciale mobiliare ed immobiliare sulle aree


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medesime (articolo 17 comma 11 come modificato dall'articolo 1 comma 11 della Legge 426/98), privilegio da esercitarsi anche in pregiudizio dei diritti acquistati da terzi sull'immobile;
l'istituzione dell'Anagrafe dei siti da bonificare (articolo 17 comma 12) che le Regioni devono predisporre sulla base delle notifiche dei soggetti interessati e degli accertamenti degli organi di controllo;
l'indicazione d'intervento di bonifica d'interesse nazionale e la procedura per l'approvazione dei relativi progetti, da effettuarsi con Decreto Interministeriale d'intesa con la Regione territorialmente competente (articolo 17 comma 14).

L'articolo 17 del D.Lgs. 22/97, prevede inoltre che gli interventi di bonifica possano essere assistiti, sulla base di apposita disposizione legislativa, da contributo pubblico fino ad un massimo del 50 per cento delle spese (comma 6-bis). Il decreto ministeriale 471/99 definisce, altresì, i criteri generali per l'individuazione dei siti di interesse nazionale che avviene in base alla sussistenza di specifici requisiti, tra i quali si possono ricordare: area di particolare pregio ambientale e soggetta a tutela ai sensi della Legge 431/1985 (la cosiddetta «Legge Galasso»); sussistenza di un reale rischio igienico-sanitario anche in funzione della densità della popolazione residente in prossimità del sito; sussistenza di un forte impatto socio-economico; sussistenza di un rischio per i beni di interesse storico e culturale di rilevanza nazionale; il sito da bonificare ricada in un'area che ricomprenda più regioni.

Sulla base dei criteri sopra descritti, attraverso la legge 9 dicembre 1998 n. 426 sono stati individuati i primi 15 interventi di bonifica di interesse nazionale tutti ricadenti in aree definibili «ad alto rischio ambientale». Tali siti sono: Venezia (Porto Marghera); Napoli orientale; Gela; Priolo; Manfredonia; Brindisi; Taranto; Cengio e Saliceto; Piombino; Massa e Carrara; Casale Monferrato; Litorale Domizio-Flegreo e Agro Aversano (Caserta - Napoli); Pitelli (La Spezia); Balangero; Pieve Vergonte. A questi primi siti, attraverso la legge 388/2000 (Legge finanziaria 2001), ne sono stati aggiunti altri tre: Sesto S. Giovanni; Pioltello e Rodano e Napoli Bagnoli - Coroglio. Successivamente, con l'adozione del decreto ministeriale n. 468, del 18 settembre 2001, di approvazione del «Programma nazionale di bonifica», previsto dalla legge 426/98, ne sono stati individuati altri 23 e, precisamente: Fiumi Saline e Alento; Tito; Crotone - Cassano-Cerchiara; Sassuolo-Scandiano; Fidenza; Trieste; Laguna di Grado e Marano; Frosinone; Cogoleto-Stoppani; Cerro al Lambro; Milano-Bovisa; Basso bacino del fiume Chienti; Campobasso-Guglionesi II; Basse di Stura (Torino); Bari-Fibronit; Sulcis-Iglesiente-Guspinese; Biancavilla; Livorno; Terni-Papigno; Emarese; Mardimago-Ceregnano (Rovigo); Bolzano; Trento nord. E ancora, attraverso la Legge 179 del 2001, sono stati aggiunti altri nove siti: Brescia-Caffaro; Broni; Falconara Marittima; Serravalle-Scrivia; Laghi di Mantova e polo chimico; Orbetello (area ex Sitoco); Litorale Vesuviano; Porto-Torres (area industriale); area industriale della Val Basento. Complessivamente,


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dunque, sono 50, ad oggi, i siti inquinati definiti «di interesse nazionale» sulla base dei criteri dettati dal richiamato decreto ministeriale n. 471/99. La Commissione d'inchiesta parlamentare, in questi tre anni della sua attività, ha cercato di svolgere una analisi più approfondita del quadro normativo nazionale in materia di siti inquinati, facendo riferimento anche ad altre norme relative al controllo, alla salvaguardia e al recupero di territori in cui siano presenti rischi per la salute e per l'ambiente. In questo senso, nell'ambito delle attività svolte, si è fatto riferimento al decreto legislativo n. 344, del 17 agosto 1999, attuativo della direttiva sui rischi di incidente rilevante (la cosiddetta «Seveso 2»), al decreto legislativo n. 372, del 4 agosto 1999, attuativo della direttiva relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento e al decreto legislativo n. 152, dell'11 maggio 1999, sulla protezione della qualità delle acque.

3) Lo stato dei lavori.

Le attività di indagine conoscitiva su cui la Commissione parlamentare di inchiesta si è impegnata in questi primi tre anni di attività, per acquisire dati e conoscenze e prospettare, ove possibile, soluzioni alle problematiche riscontrate, hanno riguardato, in primo luogo lo stato di attuazione del «Piano Nazionale» approvato con il ricordato decreto ministeriale n. 468/2001. Le numerose audizioni dei rappresentanti delle istituzioni nazionali e locali, delle imprese, del mondo del lavoro e dei cittadini coinvolti dalle e nelle predette attività, nonché le missioni che la Commissione ha ritenuto di svolgere in alcuni dei siti inseriti nel piano (si ricordano, a tal proposito, le missioni svolte presso la Fibronit di Bari, nella zona industriale di Taranto, nell'area di Bagnoli, nella zona industriale di Porto Marghera, nel sito di Cengio) rappresentano la volontà comune di tutti i parlamentari membri, di porre al centro degli interessi istituzionali una tematica fortemente legata alle politiche di risanamento, di sicurezza, di sviluppo, e di sostenibilità ambientale che, nel nostro Paese, denunciano ancora forti ritardi. Se si considera che i cinquanta siti di interesse nazionale inseriti nel Piano sono situati nel territorio di tutte le Regioni; che oltre venti milioni di cittadini italiani vivono o lavorano nelle vicinanze di questi siti e, in tal senso, direttamente interessati, ovvero, indirettamente coinvolti dalla necessità che risorse pubbliche vengano investite nelle azioni di risanamento, si può ben comprendere quanto queste problematiche debbano trovare risposte soddisfacenti nell'azione politica ed amministrativa della classe dirigente del Paese.
Operare le iniziative volte al risanamento ambientale di questi territori, al recupero di intere aree industriali, alla riconversione di tali aree anche a fini produttivi diversi, significa, tra l'altro, recuperare i cittadini ad una maggiore fiducia nei confronti della politica e delle istituzioni in genere; ma significa anche recuperare gli stessi cittadini ad un nuovo rapporto di fiducia verso il mondo imprenditoriale, a volte compromesso proprio da fatti di inquinamento e di abuso nei confronti di quel bene di proprietà comune che è l'ambiente. Tali iniziative possono rappresentare tutto questo nonché, possono essere,


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se si superano ritardi e condizionamenti anche di carattere politico che, a volte, ne rallentano il corso, occasione per la creazione di nuove opportunità di lavoro, per lo sviluppo di attività di ricerca e di crescita di un tessuto economico produttivo basato sui servizi alle imprese e ai cittadini. Il Piano Nazionale di Bonifica avviato nel 2001 può rappresentare un passo importante nel senso fin qui indicato anche se, ad avviso della Commissione, debbono essere fatti ulteriori sforzi da parte di tutte le realtà istituzionali pubbliche e imprenditoriali private che vi sono coinvolte, soprattutto nel senso di dotarlo di nuove e maggiori risorse economiche e, ove possibile, di meccanismi procedimentali più rapidi e che ne snelliscano l'impianto burocratico. In tal senso appare molto positivo il ricorso alle procedure previste dall'articolo 14 (Indizione delle Conferenze di Servizio) della Legge 241/90 sul procedimento amministrativo svolto dalla Direzione della qualità della vita del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio. Alla data del 5 maggio 2004, (data dell'ultima audizione del Dr. Mascazzini, Direttore Generale del Ministero), per 49 dei 50 siti inseriti nel Piano, risulta già effettuata l'attività di perimetrazione delle aree interessate dai progetti. La perimetrazione dell'ultimo sito, quello del Litorale Vesuviano, è stata parzialmente formalizzata ed in attesa della firma del Ministro sul relativo provvedimento. Come già accennato precedentemente, per l'esame e l'approvazione degli elaborati progettuali relativi agli interventi di messa in sicurezza d'emergenza, di caratterizzazione, di bonifica e di ripristino ambientale, si è fatto ricorso alle procedure previste dall'articolo 14 della Legge 241/90. A tal fine si sono svolte numerosissime Conferenze dei Servizi, istruttorie e decisorie, per esaminare gli elaborati presentati dai diversi soggetti pubblici e privati, titolari di aree ubicate all'interno dei perimetri dei siti di interesse nazionale. Ai fini del progressivo riutilizzo delle aree inquinate, si è proceduto anche per stralci relativi alle aree ove sussistono realtà di deindustrializzazione e prospettive di riuso. Così come si è messo in atto un sistema per svincolare aree comprese nei perimetri, laddove sono state accertate condizioni di conformità ai limiti dell'inquinamento previsti dal decreto per le rispettive destinazioni d'uso, analogamente si è incrementata una specifica procedura per consentire, in tali aree, la realizzazione di progetti di interesse pubblico e di infrastrutture di pubblica utilità.

4) Conclusioni.

Sulla base delle indagini conoscitive effettuate e dalle analisi dei dati forniti dalle personalità audite, la Commissione considera necessario proseguire sulla strada tracciata dalle attività finora poste in essere per l'attuazione del Piano Nazionale di Bonifica; le opportunità che il quadro normativo nazionale offre devono però essere maggiormente sfruttate facendo ricorso, ove possibile, a iniziative volte ad un maggior impegno, soprattutto di carattere finanziario sia delle istituzioni, sia, in particolare, da parte del mondo imprenditoriale. D'altro canto si ritiene utile promuovere a livello di tutte le istituzioni preposte, iniziative volte a semplificare ulteriormente e a coordinare il quadro regolamentare vigente, facendo ricorso, ove possibile, a impostazioni delle norme che valorizzino maggiormente, favorendoli


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e incentivandoli, i meccanismi di autocontrollo e di audit-interno da parte delle imprese, nonché l'aspetto della partecipazione volontaria ai meccanismi di gestione ambientale dei processi e dei sistemi di produzione. È opinione della Commissione che deve essere ulteriormente favorito l'utilizzo di tali strumenti al fine di avviare un reale processo di armonizzazione tra le caratteristiche proprie di questi e le procedure di comando e controllo proprie della normativa ambientale. Non si tratta, ovviamente, di ridurre o di eliminare il sistema dei controlli; questi, al contrario, devono essere resi maggiormente efficaci attraverso l'utilizzo di procedure snelle e semplificate che evitino perdite di tempo e sprechi di risorse sia a chi li effettua, sia alle imprese che, troppo spesso, li percepiscono come una forma di sopruso da parte della Pubblica Amministrazione. In tal senso le esperienze di altri Paesi, tra cui gli Stati Uniti, e le normative europee sviluppatesi in questi ultimi anni (si veda, ad esempio, le norme regolamentari per l'adesione delle imprese al sistema di gestione ambientale EMAS) possono rappresentare un elemento di stimolo per l'Italia. La Commissione di inchiesta ha avuto modo, in questi tre anni, di instaurare con altre realtà istituzionali e amministrative d'Europa e d'America, un rapporto di collaborazione che si è concretizzato in un proficuo scambio di conoscenze e informazioni.
Nel mese di novembre 2003, una delegazione della Commissione, nell'ambito di una missione presso la Commissione delle Comunità Europee, ha avuto l'opportunità di conoscere a fondo una delle più imponenti opere di bonifica in corso di realizzazione in Europa e, precisamente, nell'area industriale della città di Düsseldorf. Questa esperienza vede impegnati, in un grande sforzo economico congiunto, pubbliche amministrazioni e piccole e grandi imprese consorziate, nella realizzazione di un immenso piano di recupero di un'area che, nel corso del XX secolo ha subìto un fortissimo impatto antropico. Una delegazione della Commissione ha avuto altresì l'opportunità di effettuare, nel mese di luglio 2003, una missione negli Stati Uniti durante la quale si sono svolti incontri con rappresentanti dell'E.P.A. (Environmental Protection Agency - l'Agenzia di Protezione Ambientale Americana) e dell'Amministrazione statunitense e sono stati effettuati sopralluoghi in alcuni siti oggetto di attività di bonifica e di recupero ambientale, nonché aree adibite a discariche controllate per la gestione dei rifiuti radioattivi. L'ipotesi di lavoro maturata in quel contesto, unanimemente condivisa dai membri della Commissione, è quella di cercare di mutuare dall'esperienza americana nuove e moderne regole, condivise con il mondo delle imprese, per l'istituzione di un fondo nazionale per la bonifica dei siti inquinati e a garanzia di possibili eventi inquinanti.
Si segnala l'opportunità di affidare ad enti ed organismi tecnici competenti, quale in particolare l'Istituto Superiore di Sanità, l'incarico di realizzare una indagine epidemiologica a livello nazionale tesa ad ottenere una complessiva ricognizione delle diverse aree del territorio in cui non risultano rispettati i parametri di salubrità ambientale; in particolare si prospetta l'esigenza di procedere ad un monitoraggio dell'impatto, sotto il profilo igienico-sanitario, dei siti che presentano profili di criticità ambientale sulle popolazioni che risiedono in prossimità dei siti medesimi, affinché in esito ai risultati


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dell'indagine possano essere promosse ed intraprese le conseguenti iniziative di salvaguardia ambientale ad opera degli enti competenti.

4. La criminalità ambientale.

4.1 Premessa.

La Commissione ha dedicato grande attenzione agli aspetti illeciti che si manifestano nel ciclo della gestione dei rifiuti: pertanto, ha avuto numerosi incontri con esponenti dell'autorità giudiziaria, sia in sede che nel corso di missioni. Le informazioni assunte, inerenti alcune importanti inchieste giudiziarie, hanno permesso di delineare in modo dettagliato lo scenario dell'illecito ambientale. Le numerose informazioni e testimonianze raccolte dalla Commissione dimostrano come lo scenario dell'illecito ambientale a livello nazionale si ripartisca secondo due direttrici, fra loro correlate e frequentemente intersecatesi. Infatti, a quello che viene definito traffico illecito di rifiuti, gestito ed organizzato dalla criminalità organizzata, in particolare nelle regioni meridionali, si contrappone un'altra illegalità ambientale diffusa, che ha motivazioni differenti. Se nel meridione d'Italia gli interessi economici, legati alla gestione del ciclo dei rifiuti, si esprimono, infatti, con il controllo della criminalità organizzata, nel settentrione, l'imprenditoria «deviata» ricerca la complicità ed il sostegno delle amministrazioni locali e della burocrazia corrotta. Sarebbe quanto mai errato, pertanto, ricondurre tutte le attività illecite nel settore dei rifiuti all'azione delle cd. «ecomafie». Esistono aziende non riconducibili alla criminalità organizzata che tuttavia paiono basare la loro attività proprio su una non corretta gestione dei rifiuti. A questo proposito è sufficiente citare il caso del depuratore di Fusina, che sorge vicino al sito petrolchimico di Porto Marghera. Il depuratore, realizzato alla fine degli anni Ottanta per il trattamento delle acque reflue di origine civile provenienti dall'area sub-occidentale di Mestre e dalla fognatura del Consorzio del Mirese (17 Comuni), trattava invece, secondo quanto accertato dalla Procura di Venezia, anche quelle di origine industriale, provenienti dal polo di Marghera e dagli autospurghi dei pozzi neri.
Per gli imprenditori che producono rifiuti di vario genere, indubbiamente l'attività di raccolta, selezione e smaltimento degli stessi costituisce un elemento di costo che incide sulla capacità e sulla qualità di presenza sul mercato. Per tale ragione, l'imprenditore, come per tutti gli altri fattori di costo, è tentato di ridurli al minimo onde mantenere inalterata, garantire o potenziare, la sua presenza nel mercato. In questa logica, angustamente economica, è evidente che l'impresa che si libera illegalmente dei propri rifiuti, conseguendo consistenti economie di costo, acquisisce posizioni di vantaggio rispetto a quelle che invece, rispettose dei precetti normativi, affrontano tutti gli oneri previsti. L'operare in dispregio delle prescrizioni normative in tema di rifiuti genera, quindi, non solo gravissimi e spesso irreversibili danni all'ambiente, ma causa anche una catena ininterrotta di atti emulativi da parte di altre imprese che giustificano il loro operare nell'illegalità quale comportamento obbligato a difesa


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della loro capacità imprenditoriale. Da non sottovalutare è anche l'attività illecita posta in essere dagli operatori della piccola impresa, nonché dai comuni cittadini, che per inadeguata sensibilità ambientale, in certe zone del territorio nazionale fanno sì che tante aree pubbliche, considerate res nullius, siano utilizzate per disfarsi di ogni cosa, specialmente rifiuti ingombranti, in molti casi pericolosi per il loro contenuto di PCB (policlorobifenili). Laddove tali illegalità raggiungono livelli di sistematicità, divengono socialmente dannose, non solo per il danno ambientale arrecato ma anche per l'alto costo che le amministrazioni pubbliche devono sostenere per la bonifica dei luoghi.

4.2 Le indagini seguite dalla Commissione.

Per quantità di rifiuti illecitamente gestiti, certamente, l'operazione Cassiopea rappresenta per l'Italia la più grossa inchiesta mai fatta in questo settore. Le indagini iniziate alla fine del 1999, a seguito di un sequestro eseguito presso un impianto di conglomerati bituminosi nella zona del napoletano, si sono poi sviluppate sull'intero territorio nazionale portando alla luce un traffico illecito di rifiuti di circa un milione di tonnellate. Si trattava spesso di rifiuti speciali pericolosi: polveri di abbattimento fumi delle industrie siderurgiche e metallurgiche, ceneri da combustione di oli minerali, vernici di scarto contenenti solventi organici non alogenati, fanghi da trattamento di acque di processo di depurazione di industrie, acque reflue industriali, melme acide. A reggere la fila del lucroso traffico era un circuito criminale sostenuto da legami e connivenze fra ditte di trasporto rifiuti, agenzie di intermediazione, centri di stoccaggio, attività di recupero rifiuti e impianti di smaltimento. I rifiuti provenivano dai poli industriali situati in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Toscana principalmente da industrie siderurgiche, metallurgiche, cartarie e conciarie e, attraverso ditte compiacenti abilitate al trasporto, al recupero ed allo stoccaggio, venivano irregolarmente smaltiti in siti localizzati in provincia di Caserta, nonché in altre località dell'Umbria, Lazio, Campania, Puglia e Sardegna. I numeri dell'inchiesta sono impressionanti: 97 richieste di rinvio a giudizio da parte della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, 182 persone denunciate per singoli reati presso diverse procure del territorio nazionale, 18 i sequestri tra cave, aziende agricole ed impianti di recupero adibiti a discariche abusive. Associazione per delinquere, disastro ambientale, avvelenamento di acque, realizzazione e gestione di discariche abusive, truffa ed abuso di ufficio, i reati contestati. Dall'analisi di tale quadro è dato comprendere le ragioni per le quali una regione, quella campana, in perenne emergenza rifiuti per carenza di regolari siti di smaltimento, sia diventata la meta finale di migliaia di tonnellate di rifiuti provenienti dal Nord. Va aggiunto come l'indagine abbia mostrato chiaramente le tecniche di penetrazione delle organizzazioni camorristiche nei traffici dei rifiuti; la varietà dei siti destinati allo smaltimento illegale di tali rifiuti industriali e la loro pronta individuazione da parte dell'organizzazione, a fronte del sequestro di altri, è indice di un controllo del


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settore che va ben oltre il territorio in cui esse operano direttamente - come mostrano le connessioni fra traffici abusivi di rifiuti e criminalità organizzata, emersi in Campania, Lazio, Molise, nonché Lombardia e Piemonte - e della penetrazione che tali organizzazioni stanno attuando nelle cosiddette aree non tradizionali. Altro elemento da sottolineare riguarda l'estensione delle attività delle organizzazioni criminali: risulta, infatti, dalle indagini che i clan hanno ormai ampliato le loro attività specifiche nel settore dal semplice controllo dei siti finali di smaltimento alle attività di trasporto e di commercializzazione, gestendo tali attività illecite dal produttore dei rifiuti sino al sito di smaltimento illegale. Proprio l'indagine Cassiopea della Procura di Santa Maria Capua Vetere ha evidenziato come l'organizzazione si articoli, al suo interno, in settori con specifiche specializzazioni: interessante è il ruolo dei cosiddetti «Stakeholders», cioè coloro che ascoltano e recepiscono le esigenze dell'utenza, soggetti che stabilmente hanno contatti con i responsabili ambiente e qualità di molte imprese italiane; essi realizzano, di fatto, una sorta di «ecoaudit». In tutte queste vicende l'aspetto economico è predominante, in quanto i costi per i produttori vengono straordinariamente abbattuti attraverso lo smaltimento illegale che, in concreto, presenta diverse forme: dallo smaltimento illegale tout court, alla miscelazione illegale, alla produzione illegale di compost per finalità di ammendante.

4.3 L'emergenza diossina nella provincia di Caserta.

La provincia di Caserta e l'hinterland a nord di Napoli costituiscono uno spaccato eloquente di quell'Italia martoriata dalle discariche abusive, ricettacolo di rifiuti di ogni genere. In questi territori, i rifiuti oltre che tombarli, in moltissimi casi, soprattutto di notte, vengono dati alle fiamme. La combustione dei rifiuti, pericolosi e non, sprigiona altissime colonne di fumo nere e dense. I mezzi a disposizione degli ecocriminali, per tali devastazioni, sono rudimentali ma efficaci. Bastano, solitamente, pneumatici fuori uso, stracci e taniche di benzina. Materiale da bruciare c'è in abbondanza nelle campagne isolate. Qui i camion arrivano di notte e trovano ad aspettarli persone fidate, senza le quali nessuno sarebbe capace di districarsi tra le stradine della campagna. Sono proprio questi fumi densi e neri che hanno originato la cosiddetta «emergenza diossina» nelle zone del casertano e nolano. La diossina è una sostanza incolore ed inodore, è il prodotto più insidioso dell'incenerimento e si forma ad ogni combustione di materiale. Essendo un elemento molto stabile, prima che scompaia dai terreni occorre che trascorrano decine di anni. Ne deriva che, una volta posatasi sull'erba o sul fieno, viene assunta dagli animali e si concentra nel tessuto adiposo, dove resta per anni affluendo anche nel latte. Ai tanti fuochi notturni si sono aggiunti, sempre nella zona del casertano, due incendi di vaste proporzioni di aziende addette al recupero di pneumatici usurati, rispettivamente di Marcianise e Castel Volturno. Si tratta di vere e proprie montagne di pneumatici andate in fumo. In seguito agli esami eseguiti su numerosi campioni di mangime, foraggio, latte e suoi


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derivati è emersa la presenza di una percentuale di diossina superiore di ben dieci volte i limiti fissati dalla normativa europea. La diossina è la causa dell'inquinamento di una notevole estensione del territorio, in particolare tra i comuni di Marcianise ed Acerra da una parte, e Casal di Principe e Castel Volturno dall'altra. Gli esiti degli accertamenti hanno portato la Procura di Santa Maria Capua Vetere a disporre il sequestro di 30 aziende bovine e bufaline. Le indagini di vari istituti specializzati hanno imposto l'abbattimento di 6.789 capi di bestiame. Gli animali venivano abbattuti alla presenza di personale del Corpo Forestale dello Stato e le carcasse scortate fino all'impianto di prettrattamento di Buonabitacolo (SA). È una vicenda, questa, disastrosa non solo per il territorio e la salute dei cittadini ma anche per l'economia della zona, già in grave crisi occupazionale, aggravata, ancora di più, dalla chiusura delle aziende interessate da tale disastro ambientale, alcune delle quali, tra le più note della Regione Campania.

4.4 I traffici illeciti.

I lavori svolti consentono di affermare la persistenza ed anzi l'aggravarsi dei fenomeni di spostamento di ingenti quantitativi di rifiuti, anche pericolosi, dal Nord al Sud del paese, spesso in violazione del divieto di esportazione transregionale. Sono, infatti, numerose le indagini giudiziarie connesse ai traffici e allo smaltimento illegale di rifiuti che vedono coinvolte regioni come il Piemonte, la Lombardia, la Liguria, l'Emilia-Romagna, il Lazio e il Molise, oltre a quelle in cui è tradizionalmente più presente la criminalità organizzata (Sicilia Campania, Calabria e Puglia). Le rotte del traffico illegale si muovono sull'asse nord-sud in direzione del Mezzogiorno, dove i rifiuti vengono smaltiti in discariche non autorizzate, costituite da cave, da specchi d'acqua (si pensi ai laghetti della camorra del litorale Domiziano, oggetto di un recente piano di riqualificazione da parte del Ministero dell'Ambiente), da grandi buche scavate in fondi anche agricoli sulle quali, una volta ricoperte, vengono praticate, non di rado, colture di vario genere. Le ultime inchieste hanno dimostrato che i traffici si sono spostati dalla dorsale tirrenica a quella adriatica, coinvolgendo in particolare le aree interne del litorale abruzzese e molisano. La contaminazione di zone, tradizionalmente esenti da presenze criminali, organizzate e non, è confermata dalla cosiddetta «Operazione Mosca», del marzo 2004, condotta dal Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente, in collaborazione con il ROS, e coordinata dalla Procura di Larino (CB), nei confronti di un sodalizio criminale, operante tra Campania e Molise, nel settore del traffico illecito di rifiuti. Le indagini hanno consentito di documentare come l'organizzazione indagata gestisse quantitativi elevatissimi di rifiuti speciali pericolosi, provenienti dal nord Italia, smaltiti abusivamente in aree situate a ridosso del litorale molisano, in prossimità di greti di fiumi e torrenti, nonché in terreni coltivati, grazie anche alla complicità di aziende agricole, che impiegavano i fanghi inquinanti e residui industriali pericolosi come fertilizzanti. I rifiuti, quantificabili nell'ordine di migliaia di tonnellate e contenenti arsenico e solfuri, mercurio, cromo, rame, piombo e reflui ad alta tossicità, venivano


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trasferiti dal nord Italia in provincia di Campobasso, accompagnati da falsa documentazione che non ne certificava il reale livello di pericolosità. Tra i beni sottoposti a sequestro ci sono anche quattro ettari di terreno, ove erano stati occultati ingenti quantitativi di rifiuti pericolosi. Il terreno, peraltro, era stato coltivato a grano, successivamente raccolto e venduto nella quantità di 9 tonnellate ad un consorzio locale operante nel campo della distribuzione di generi alimentari. Il cereale, interamente sottoposto a sequestro, risultava contenere, agli esami di laboratorio, un'elevatissima concentrazione di cromo. Sempre sull'asse Nord - Sud, in particolare verso la Campania, si è sviluppata un'altra importante inchiesta, denominata «Re Mida», condotta dalla Procura di Napoli. L'attività illecita posta in essere si sostanziava in operazioni di intermediazione, trasporto, sversamento ed abbancamento di rilevantissime quantità di rifiuti che, provenienti da diverse società di stoccaggio e/o di intermediazione del centro - nord nonché da alcuni consorzi per la gestione dei rifiuti solidi urbani, in particolare quello della città di Milano, venivano fittiziamente lavorati presso impianti situati in diverse parti d'Italia nella disponibilità del gruppo criminale. Il profitto della gestione illecita dei rifiuti è rappresentato non solo dalla vasta attività posta in essere, ma anche dalla mancata spesa che sarebbe stata sopportata per smaltire i rifiuti secondo norma. In questi casi, infatti, i costi ordinariamente praticati vanno da 300 delle vecchie lire per Kg per i rifiuti solidi urbani a 1.200 delle vecchie lire per Kg per i fanghi di conceria, a fronte delle 120/130 delle vecchie lire pagate dagli indagati per lo smaltimento illecito. Pertanto, avendo gli indagati movimentato, nel solo periodo novembre 2002 - maggio 2003, circa 40.000 tonnellate di rifiuti, avrebbero dovuto sostenere una spesa di sei milioni e duecentomila Euro che, per contro, non hanno sostenuto a tutto danno del territorio e dell'ambiente. A tali considerazioni va aggiunto che gli indagati hanno evaso la cd.«ecotassa» - ovvero l'imposta sulla gestione dei rifiuti introdotta con la L.549/95 - pari a 25 delle vecchie lire per ogni Kg (pari a circa Euro 0,01/Kg) per un ammontare pari a circa 500.000 Euro. La strada seguita dagli indagati per trasportare e smaltire illecitamente i rifiuti è stata quella tipica della fittizia declassificazione dei rifiuti, del conseguente «giro bolla» presso impianti di stoccaggio e del trattamento di detti rifiuti che si concludeva, per contro, con lo sversamento in luogo non autorizzato. Gli indagati si servivano, inoltre, di un laboratorio che rilasciava falsi certificati di analisi dei rifiuti trasportati e smaltiti, certificati che venivano confezionati telefonicamente dagli stessi soggetti interessati insieme ai titolari del laboratorio e che poi venivano trasmessi via fax ai richiedenti. Il contenuto dei falsi certificati serviva a «declassificare» i rifiuti per renderli compatibili con le autorizzazioni possedute dai trasportatori, dagli impianti di stoccaggio e dagli smaltitori. In questo come in tanti altri casi, si è trattato, in sostanza, di trasformare solo documentalmente i rifiuti in modo da renderli compatibili con la destinazione finale; nei fatti, invece, i rifiuti - restati tali e quali rispetto al momento della produzione - sono stati riversati su terreni agricoli e in cave in ricomposizione ambientale. A finire nelle cave o


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sotto terra erano, in particolare, fanghi industriali e oli minerali derivanti dalla lavorazione di idrocarburi, tutte sostanze altamente cancerogene.

4.5 Le strategie di contrasto e repressione.

Preliminarmente, la Commissione ritiene che gli elementi acquisiti consentano di valutare positivamente l'azione di contrasto della magistratura e delle forze di polizia nei confronti degli «ecocriminali», nonostante una normativa non sempre adeguata e rispettosa del principio della chiarezza, canone irrinunciabile in un diritto penale del fatto. A tal proposito la Commissione, fin dal momento del suo insediamento, ha constatato con favore le ipotesi di una nuova disciplina penale ambientale, in particolare quella orientata all'introduzione della fattispecie del delitto ambientale. Una scelta che non solo garantirebbe una semplificazione nell'attuale disciplina penale ambientale, ma rafforzerebbe nella collettività la consapevolezza della gravità dell'offesa portata al bene ambiente. Un grande passo in avanti è rappresentato senza alcun dubbio dall'introduzione dell'articolo 53 bis nel Decreto Legislativo 22/97, grazie al quale, nel breve periodo di due anni, si è giunti all'emissione di ben 133 ordinanze di custodia cautelare. Se l'azione di repressione ha raggiunto ottimi risultati, è evidente, anche alla luce della particolare natura del bene giuridico ambiente, l'assoluta necessità di provvedere ad un potenziamento della strategia di prevenzione generale e speciale, nonché una cosciente ed adeguata cultura di controllo e di informazione.
La descrizione dei circuiti del crimine ambientale rende evidente una prima osservazione: oggi, non è solo lo ius ad essere divenuto complesso, per quanto sopra si è osservato a proposito del diritto comunitario, ma è lo stesso factum che si presenta con connotazioni qualitativamente diverse rispetto al passato. Sicché, l'ampliamento della cornice normativa, unita alla complessità qualitativa dei fatti da investigare e giudicare, impongono un cambiamento di mentalità, nel legislatore, ma anche nell'interprete. Finora, infatti, la criminalità ambientale è stata spesso vista, in modo pressoché esclusivo, come una sorta di appendice della criminalità di impresa; in ciò forse ha pesato un approccio di tipo ideologico che ha finito nell'individuare nell'impresa il nemico principale da combattere. Sicché, non senza ritardo si è preso atto che l'ambiente non è solo esposto agli attacchi interessati dell'imprenditore preoccupato di ridurre i costi di produzione tagliando le spese di salvaguardia ambientale, ma soprattutto è oggi risorsa, ad esempio al pari degli stupefacenti o degli appalti, attraverso cui la criminalità organizzata ricava profitti, anche in chiave transnazionale.
La criminalità ambientale, mafiosa e non, ha oggi assunto caratteristiche di impresa, con un raggio di azione che va ben oltre i confini nazionali. Il Procuratore Nazionale Antimafia, nel corso dell'audizione svoltasi in Commissione, ha riferito che «la movimentazione dei rifiuti nocivi o pericolosi ha assunto una dimensione transnazionale, nel senso che non è limitata al passaggio dal nord al sud dell'Italia o a quello trasversale, ma vengono effettuate esportazioni


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in vari paesi, soprattutto dell'Africa, da parte non solo dell'Italia ma anche degli Stati Uniti e di altri paesi». Per quanto attiene al versante interno, è emerso con nettezza «quello che qualcuno ha chiamato il "ciclo"» - come osservato ancora da Vigna -; «si scava, il materiale serve per costruire abusivamente; nello scavo si mettono i rifiuti che inquinano le falde»; si tratta, cioè, di organizzazioni criminali capaci di seguire e gestire l'intera sequenza relativa al trattamento dei rifiuti, non più - o non solo - accontentandosi di imporre il pizzo alle imprese autorizzate alla raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani, ma subentrando direttamente nell'intera filiera economica relativa alla gestione dei rifiuti. Le organizzazioni criminali - ha rilevato al riguardo Vigna - si attrezzano sotto forma di impresa per gestire la raccolta e lo smaltimento ed anche per bonificare siti inquinati: prima inquinano e poi si propongono come disinquinatori«. Questa vocazione imprenditoriale delle organizzazioni mafiose spiega perché esse orientano il loro campo d'azione sulle opportunità che, nel tempo, i vari mercati offrono. Così i sodalizi di tipo mafioso approdano ai rifiuti non appena si manifesta una crescita economica del settore, impadronendosi di alcuni snodi fondamentali ed impedendo che tale crescita si trasformi in sviluppo vero e proprio, andando a stravolgere le regole del mercato legale. Nel fare questo, le organizzazioni criminali approfittano sia dell'assenza di un quadro normativo chiaro e coerente (anzi, traggono vantaggio da una normativa dalle ampie zone grigie, come si è visto in tema di nozione di rifiuto, ovvero dalla scarsa efficacia repressiva, essendo il versante sanzionatorio strutturato secondo illeciti di tipo contravvenzionale), sia di pubbliche amministrazioni scarsamente interessate a promuovere un ciclo integrato di gestione dei rifiuti, sia, infine, della sostanziale mancanza di un'imprenditoria significativamente interessata al recupero dei rifiuti: la criminalità, soprattutto quella di tipo mafioso, tende, pertanto, in questo come in altri ambiti sociali ed economici, ad occupare un vuoto, rispondendo ad una domanda - dalle dimensioni sempre più vaste - lasciata senza risposte dagli interlocutori istituzionali ed economici. Completa il quadro, il versante dei rapporti collusivi delle organizzazioni criminali con gli organi della pubblica amministrazione deputati all'esercizio delle funzioni di controllo e vigilanza. «Questi delitti - ha ancora rilevato il Procuratore Vigna - sono spesso collegati, in primo luogo, con delitti di falso e con reati contro la pubblica amministrazione. La nuova «missione» delle organizzazioni criminali è inserirsi, oltre che negli appalti delle opere pubbliche, negli appalti dei servizi, sforniti, a differenza dei primi, dei presidi di vigilanza. Fra i mille appalti di servizi e forniture, notiamo che le organizzazioni criminali si stanno orientando proprio verso gli appalti per le pulizie dei comuni e lo smaltimento dei rifiuti».
Paradigmatica della trasformazione dei soggetti economici interessati al ciclo dei rifiuti da imprese protette dalle organizzazioni mafiose a vere e proprie imprese mafiose, cioè gestite o controllate da mafiosi, è la vicenda della MessinAmbiente s.p.a., società appaltatrice del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani per la città di Messina. La Commissione ha svolto un particolare approfondimento su tale questione, anche procedendo all'audizione degli organi inquirenti,


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accertando l'inserimento della società mista MessinAmbiente all'interno di una holding composta da circa 40 società, interessate a vario titolo nel settore ambientale. Le indagini svolte dalla Procura del predetto capoluogo siciliano hanno permesso di verificare la sponsorizzazione della MessinAmbiente da parte di esponenti mafiosi locali, i quali subentravano nella gestione della vita dell'impresa, con particolare riferimento alle fasi di aggiudicazione degli appalti, della successiva stipula dei contratti (imponendo costi elevati e privando di ogni utile la parte pubblica della società), nonché di quella relativa ai pagamenti delle spettanze, determinando situazioni di emergenza connesse alla deliberata omessa raccolta dei rifiuti. La correttezza formale della struttura societaria e la regolarità apparente del procedimento amministrativo seguito per il conferimento dell'appalto di servizi in questione, induce la Commissione a riflettere sull'efficacia degli strumenti di controllo vigenti, con particolare riguardo alla certificazione antimafia. Il contrasto alla criminalità ambientale deve, più in generale, passare attraverso incisive modifiche normative che rendano chiaro ed efficacemente presidiato il quadro normativo di riferimento; ma, in primo luogo, occorre agire sulle cause sociali ed economiche, e prima ancora culturali, che hanno determinato quel vuoto occupato dalle organizzazioni criminali: facendo crescere la cultura di rispetto per l'ambiente, predisponendo opportuni programmi educativi, pretendendo che le pubbliche amministrazioni si attrezzino per affrontare e risolvere, con interventi strutturali (propri di un approccio autenticamente politico e non meramente gestionale dell'emergenza) l'intero ciclo dello smaltimento dei rifiuti, stimolando efficacemente e premiando le imprese sane ad investire in tecnologie ecocompatibili, sanzionando adeguatamente i comportamenti trasgressivi. È necessario, pertanto, procedere nell'azione di responsabilizzazione delle aziende del settore, che appaiono in molti casi più inclini alla ricerca del massimo profitto che non uno smaltimento corretto e pertanto più oneroso. È altrettanto necessaria un'azione di responsabilizzazione degli enti locali, poiché la debolezza delle funzioni di controllo amministrativo è una delle condizioni principali per la penetrazione nel settore degli operatori più spregiudicati e, quindi, delle organizzazioni criminali di riferimento. Certo, «la prima domanda da porsi - ha avvertito Vigna - è se sotto il profilo repressivo la nostra legislazione sia sufficientemente munita nella materia del traffico illecito dei rifiuti la repressione penale, fino a pochissimi mesi fa, era affidata a reati di tipo contravvenzionale e, in gran misura, a infrazioni amministrative. Questo sistema era inefficace perché le contravvenzioni si prescrivono assai rapidamente. Inoltre il reato contravvenzionale, non solo non legittima il ricorso a particolari mezzi di indagine, come le intercettazioni, ma addirittura non consente la misura restrittiva dell'arresto per chi sia colto in flagranza. Il reato contravvenzionale, anche quando è commesso da una struttura associativa, non può nemmeno dar luogo al delitto di associazione per delinquere semplice, perché l'articolo 416 prevede che ricorra questo delitto solo quando l'associazione è finalizzata a commettere delitti e non contravvenzioni. Il reato contravvenzionale, poi, rende del tutto impossibile la cooperazione internazionale. Il legislatore si è reso conto di questa situazione e, con la legge n. 93 del 23 marzo 2001,


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ha introdotto, nel decreto legislativo n. 22 del 1997, l'articolo 53 bis che punisce come delitto l'attività organizzata per traffico illecito di rifiuti, addirittura con pene severe ed aggravate se si tratti di particolari tipi di rifiuti pericolosi». Tale ultima disposizione, tuttavia, non può dirsi rassicurante sotto il profilo della repressione penale; essa, infatti, punisce per traffico illecito dei rifiuti solamente chi, a fine di profitto, con organizzazione di mezzi e con attività continuativa, tiene una serie di condotte molto ben descritte (cioè riceve, spedisce, trasferisce, movimenta rifiuti in genere). «Provare questa condotta organizzata professionalmente - avverte Vigna - qualche volta è possibile, ma nella gran parte dei casi la norma, per il modo in cui è costruita, lascia poco spazio ad applicazioni pratiche». Molteplici, pertanto, sono i fattori che rendono, allo stato, di scarsa efficacia e di modesta dissuasività la protezione penale apprestata dal nostro sistema all'ambiente. In primo luogo, l'assenza di un intervento-quadro, che disciplini armonicamente la materia; l'introduzione di sanzioni penali è stata, per lo più, l'effetto, infatti, di apporti occasionali se non alluvionali, frutto di spinte particolaristiche o categoriali. Inoltre, la più gran parte delle sanzioni, come si è visto, è di tipo contravvenzionale (anzi, la tendenza più recente è nel senso della depenalizzazione dell'illecito ambientale, della sua degradazione ad illecito amministrativo): il che significa termini di prescrizione brevi, cioè estinzione della pretesa punitiva in tempi modesti, impossibilità di fare ricorso a strumenti investigativi penetranti (dal codice processuale riservate unicamente ai delitti), ovvero di anticipare la tutela sanzionatoria con misure cautelari reali (incidenti sui mezzi produttivi del danno o sul patrimonio) o personali (restrittivi, cioè, della libertà personale), anche di tipo interdittivo.
Né è da sottovalutare la stessa tecnica di formulazione delle fattispecie incriminatrici in materia ambientale, spesso costruite come norme penali in bianco: norme incomplete, cioè, che attendono di essere integrate da altre previsioni normative, di carattere tecnico, in grado di definire nozioni, stabilire parametri, delimitare prescrizioni. Con la conseguenza che se la norma extrapenale è dai confini incerti (si pensi alla nozione giuridica di rifiuto), altrettanto incerta finisce con il diventare l'applicazione della fattispecie penale che dalla prima riceve ossigeno. Un invito, pressante, a por mano ad una complessiva rivisitazione della materia proviene dalla disciplina del mandato d'arresto europeo, nel cui ambito i reati ambientali costituiscono uno dei gruppi dei reati sensibili, per i quali, al fine di ottenere l'immediata consegna del ricercato o condannato da uno Stato membro all'altro, non occorre che il fatto lesivo dell'ambiente sia supportato, tanto nello Stato richiedente quanto in quello dell'esecuzione, dalla duplice incriminazione.

4.6 La protezione penale dell'ambiente negli atti dell'Unione Europea.

L'opportunità di apprestare una tutela penale efficace all'ambiente non discende solo dalla particolare rilevanza di tale bene, di indiscusso rango costituzionale in base agli articoli 9 e 32 della Costituzione. Il ricorso al diritto penale per proteggere l'ambiente è,


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infatti, una tendenza ormai univocamente presente negli interventi dell'Unione Europea, anche in considerazione della potenzialità lesiva ultranazionale che contraddistingue le condotte di inquinamento.
L'articolo 2 della decisione quadro 2003/80 Gai impone agli Stati membri di adottare provvedimenti necessari per rendere perseguibili penalmente, in virtù del proprio diritto interno, le fattispecie dolose, cioè volontariamente lesive dell'ambiente e della salute umana. Di immediata evidenza è lo stretto collegamento, indicato nella lettera a) del citato articolo 2, tra il bene ambiente ed il bene della incolumità individuale. Il reato voluto e da normativizzare, a livello di legislazione nazionale, è certamente di danno alle persone, ma reca la peculiarità di avere quale presupposto fattuale, e anche giuridico, la lesione o messa in pericolo del bene ambiente. La stessa decisione quadro, tuttavia, alla lettera b) dall'articolo 2, prevede condotte di messa in pericolo di determinati aspetti del bene ambiente, derivante dalla violazione di prescrizioni legislative, soprattutto se attuative di disposizioni del diritto comunitario: qui il bene primario da salvaguardare non è tanto la persona umana nella sua integrità biologica, quanto piuttosto il bene ambientale propriamente inteso. Mentre nell'ipotesi prevista alla lettera a) del citato articolo 2 ciò che rileva è la contaminazione dolosa dell'ambiente idonea di per sé a provocare danni direttamente alle persone, nell'ipotesi prevista alla lettera b) è criminalizzata la contaminazione ambientale non autorizzata e cioè quella che supera una normale soglia di tollerabilità. Oggetto di attenzione della decisione-quadro sono pure il traffico di rifiuti radioattivi e le fattispecie di funzionamento illecito di impianto. Il quadro incriminatorio viene, poi, completato dalle ipotesi di delitti commessi per negligenza o, quantomeno, per negligenza grave. Sul versante sanzionatorio, oltre a raccomandare il ricorso a sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, comprendenti, per lo meno nei casi più gravi, pene privative della libertà, la decisione quadro impone agli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari affinché le persone giuridiche possano essere dichiarate responsabili dei fatti di criminalità ambientale commessi, in loro vantaggio, da coloro che sono muniti di un reale potere gestionale e di controllo.
In relazione alle ipotesi di riforma della tutela penale dell'ambiente, la Commissione ha proceduto ad audire il presidente della Commissione ministeriale di riforma del codice penale, dottor Carlo Nordio, nonché il coordinatore della sottocommissione ad hoc costituita, professor Sergio Vinciguerra. Il Presidente Nordio ha riferito che è intenzione della Commissione riformatrice abolire il reato contravvenzionale, con trasformazione in delitti di tutte quelle fattispecie ritenute munite di un effettivo disvalore per la collettività. «In quest'ottica - ha osservato Nordio - i reati cosiddetti ambientali hanno una posizione per così dire privilegiata. La nostra commissione ha ritenuto che esista un interesse di rango costituzionale nella protezione dei beni lato sensu ambientali e proprio nell'ottica della protezione dei beni primari costituzionalmente protetti si è deciso di dare una vera e propria impronta di serietà ai reati contro l'ambiente, il paesaggio e la salute. Il primo sintomo di questa serietà è dell'importanza che la nostra commissione intende dare a questi reati deriverà dalla collocazione che daremo a questi reati, che saranno


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inseriti nella parte speciale del codice penale» distinguendo «nell'ambito di questi reati, quelli contro il patrimonio ambientale, quelli contro l'assetto del territorio, quelli contro le risorse naturali e la salute pubblica». «All'interno di questo titolo, che consta progettualmente di 17 articoli - ha osservato Vinciguerra - ve ne sono 4 concernenti espressamente la gestione illecita dei rifiuti, vale a dire la gestione dolosa, quella colposa, quella illecita mediante organizzazione e le falsità documentali che molto spesso sono strumentali alla commissione di reati di gestione illecita dei rifiuti».
La Commissione Bicamerale ha ritenuto, inoltre, di prestare particolare attenzione anche al dibattito che si sta venendo sviluppando in sede europea, a seguito dell'emanazione della menzionata decisione quadro dell'Unione Europea 2003/80/GAI, nonché per effetto della Convenzione firmata a Strasburgo il 4.11.1998. Nel corso dell'Environmental crime conference tenutasi a Bruxelles il 27 e 28 novembre 2003, organizzata dalla Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea, sono stati offerti numerosi ed interessanti contributi, provenienti sia dal mondo accademico, che da quello giudiziario e dalle Istituzioni europee. È stato segnalato come la criminalità ambientale sia considerata dagli Stati una forma di criminalità non grave. Si è osservato che si tratta di una criminalità che mira al profitto e che conosce, fra le sue più gravi manifestazioni, il movimento transfrontaliero di rifiuti. Di particolare interesse risultano alcune soluzioni pure nel medesimo contesto suggerite per superare le problematiche di repressione, anche alla luce della convenzione di Basilea, di quella di Strasburgo e della CITES, quali: a) introdurre una legislazione che imponga di verificare la legalità della merce introdotta nel luogo della sua importazione; b) stabilire di riconoscere in ogni legislazione nazionale come merci illegali quelle merci che siano state prodotte illegalmente all'estero (sull'esempio di una recente legge USA, la Lacey Act); c) estendere la previsione in tema di riciclaggio, in modo che i proventi dei comportamenti illeciti posti in essere all'estero siano considerati illegali anche dalla legislazione nazionale; d) recependo in modo rigoroso la direttiva europea 2004/35 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. Si è insistito da più parti circa la discrasia esistente tra il sistema sanzionatorio, sia a livello amministrativo che a livello penale, ed i risultati conseguiti in tema di tutela dell'ambiente. Il tema dell'effettività delle sanzioni è stato posto come uno dei temi cruciali, soprattutto con riferimento alla responsabilità delle persone giuridiche, che sono quelle che principalmente beneficiano dei proventi del delitto ambientale. Si è evidenziata la frammentarietà delle normative nazionali, sollecitando l'adozione di linee guida in tema di sanzioni penali per gli Stati membri. La tematica del crimine ambientale, come fenomeno di criminalità organizzata, è stata, poi, ampiamente trattata dal prof. Albrecht del Max Planck Institute, il quale ha posto l'accento sul carattere di transaction crime del crimine ambientale e sulle peculiarità dell'environmental market, che si presenta in modo del tutto differente da ogni altro mercato illecito. L'associazione criminale che opera nel mercato del crimine ambientale si caratterizza per la struttura di impresa che assume (con ciò convergendo significativamente con l'analisi sopra condotta). Essa


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riveste un ruolo di legalità apparente all'interno del mercato, caratterizzandosi per una gestione manageriale della propria attività (mediante un attento esame del rapporto costo del crimine e benefici) oltre che per alcune specificità, costituite dalla necessità di sviluppare alte capacità di comunicazione all'interno del mercato stesso (soprattutto in relazione ai traffici transfrontalieri). È stato, inoltre, esaminato il frequente collegamento con ipotesi di corruzione o collusione dei pubblici ufficiali incaricati di seguire le fasi procedimentali relative alla disciplina amministrativa dell'ambiente. Il tema risulta anche più significativo in relazione al cosiddetto cross-border crime. Secondo alcuni, occorre che, cercando un equilibrio con i principi di libertà di impresa e di commercio, si arrivi ad un sistema di controlli di legalità delle merci affidato a pubblici ufficiali, ai quali dovrebbero applicarsi sanzioni penali in caso di violazione dei doveri connessi alla pubblica funzione esercitata ovvero di corruzione.

4.7 Prospettive di riforma.

Quali sono le difficoltà principali che devono essere superate in questo percorso, il cui esito può essere rappresentato, come si visto, tanto da un testo unico in materia ambientale quanto da un apposita sezione dedicata dal codice penale ai reati ambientali? Innanzitutto, l'introduzione nel nostro ordinamento di una figura di delitto ambientale, secondo lo schema dell'articolo 2 lettera a) e b) della decisione - quadro citata, richiede di individuare una definizione di «ambiente» dai confini il più possibile certi, e, quindi, in linea con i canoni di tassatività e determinatezza propri della norma penale. In secondo luogo, l'elaborazione, al fine di rendere seriamente efficace e dissuasivo il precetto penale, di fattispecie incriminatrici strutturate in funzione della progressività dell'aggressione al bene giuridico tutelato, contemplando ipotesi base di pericolo astratto (per le quali, cioè, la mera violazione di prescrizioni di carattere amministrativo comporta la presunzione di messa in pericolo del bene tutelato) e successive ipotesi di pericolo concreto (legate al superamento in fatto di determinate soglie di pericolo); ipotesi sulle quali, poi, modulare il trattamento sanzionatorio.
C'è consapevolezza che la costruzione di un reato di evento ovvero di pericolo concreto porrebbe, nella maggior parte dei casi, gli organi investigativi nella condizione di dover fornire una probatio diabolica dell'avvenuto inquinamento ovvero del pericolo di inquinamento. D'altra parte, la delicatezza degli equilibri ambientali richiede un piano di osservazione ben più ampio di quello limitato al singolo caso di immissione o di scarico, il quale deve essere inserito nell'intero contesto delle fonti potenzialmente inquinanti. Prevedere, poi, che gli illeciti penali siano non contravvenzionali bensì delittuosi, significa, come si è detto, attribuire alla tutela dell'ambiente un posto di rilievo primario nell'intero sistema penale, anche sotto il profilo degli strumenti investigativi e processuali. Centrale è anche il profilo delle condotte agevolatrici e corruttive dei pubblici ufficiali: diventa indispensabile introdurre figure autonome di reato ovvero ipotesi aggravate di fattispecie già esistenti, tali da sanzionare efficacemente tutte


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le attività di ausilio alla criminalità ambientale poste in essere dai funzionari infedeli. Poiché, inoltre, la criminalità ambientale, come dimostrano i molteplici elementi acquisiti dalla Commissione relativamente alle inchieste giudiziarie, è criminalità di profitto, sovente su base organizzata, diventano indispensabili misure sanzionatorie che colpiscano i profitti, mediante la confisca dei patrimoni accumulati per effetto delle condotte illecite ovvero imponendo, anche come condizione di attenuazione della responsabilità, la bonifica dell'ambiente danneggiato. Sul punto, la Commissione ritiene indispensabile condurre un particolare approfondimento, che conduca ad individuare le forme più opportune attraverso le quali aggredire i patrimoni illeciti, sia considerando l'ipotesi di un'estensione delle misure di prevenzione patrimoniali, sia valutando un'opportuna rimodulazione di altri strumenti normativi esistenti, in primis dell'articolo 12 sexies della legge 356/1992.
Criminalità ambientale è, spesso, come si è visto, criminalità inserita in contesti di tipo mafioso, a vocazione transnazionale; deve costituire, pertanto, motivo di specifica riflessione l'introduzione di collegamenti, quanto meno per le ipotesi più gravi, con la disciplina prevista per i reati di stampo mafioso, prevedendo la competenza investigativa delle direzioni distrettuali antimafia, sulla scorta di quanto già previsto - ad esempio - per la tratta degli esseri umani, per il traffico di droga o per il contrabbando di sigarette (tutti fenomeni criminali transnazionali, al pari di molte delle manifestazioni della delinquenza ambientale). Un sistema, dunque, armonico e coerente, non necessariamente composto da numerose fattispecie, ma ispirato a principi ed obiettivi chiari e, soprattutto, chiaramente percepiti dalla collettività, nel quale deve trovare spazio un'adeguata riflessione sul reato delle persone giuridiche. La responsabilità della persona giuridica - opzione non più eludibile, alla luce degli impegni europei ed internazionali assunti dal nostro Paese - è stata introdotta nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 231 del 2001. La sua introduzione risponde anche ad un obiettivo disvalore, ormai «percepito» dalla collettività dell'utilizzo a fini illeciti delle entità giuridiche. Se pure non si è voluto superare il dogma della «fisicità» dell'autore del reato ( anche se invero tracce di superamento dello stesso sono rinvenibili in molte delle disposizioni del corpus in commento), comune risulta l'opinione favorevole all'affermazione della responsabilità di tipo amministrativo, ma dipendente da reato, in capo alle strutture giuridiche «di appoggio» o «serventi» le modalità del fatto criminoso posto in essere da persone in qualche modo riconducibili all'ente stesso (innanzitutto, quelle che esercitano rappresentanza, amministrazione, direzione o di fatto lo controllano e gestiscono, od anche quelle persone sottoposte a vigilanza e controllo delle prime), purché il reato sia stato commesso nell'interesse dell'ente o abbia fornito vantaggi allo stesso. Attraverso l'accertamento giudiziale, con le garanzie del processo penale, possono essere applicate all'ente le sanzioni interdittive espressamente previste dall'articolo 9 (l'interdizione dall'esercizio dell'attività, la sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni il cui esercizio sia stato funzionale alla commissione dell'illecito, il divieto di contrattazione con la P.A., l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi e similia o


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eventuale revoca dei provvedimenti già concessi, il divieto di pubblicizzazione di beni e servizi). La disciplina in vigore include allo stato i seguenti reati: malversazione, indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di altro ente pubblico o della Comunità Europea, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e frode informatica in danno dello Stato o di altro ente pubblico, corruzione, corruzione per atto di ufficio e in atti giudiziari, istigazione dei medesimi delitti, concussione, anche ove coinvolgano membri degli organi delle Comunità europee e funzionari delle Comunità europee o di Stati esteri. Sono stati, poi, introdotti i reati di finanziamento del terrorismo internazionale e l'associazione finalizzata alla tratta di esseri umani ed alla riduzione in schiavitù o servitù (quest'ultima introdotta con legge n. 228/2003).
A questo proposito sembra opportuno ricordare che l'esercizio della delega è stato attuato solo in parte. Non risultano previsti per legge altri casi di responsabilità amministrativa degli enti in dipendenza da reato, diversi da quelli specificati sopra. L'articolo 11 della legge-delega includeva tra i delitti suscettibili di addebito per illecito amministrativo all'ente i reati relativi alla tutela dell'incolumità pubblica previsti dal codice penale (al titolo VI del libro II), quelli ambientali, quelli scaturenti dalla violazione alla normativa di tutela del territorio e quelli relativi a omicidio o lesioni colpose per violazione delle disposizioni sulla sicurezza ed igiene del lavoro. Il Governo in sede di attuazione del potere di delega ha motivato la decisione di limitare l'intervento ai soli delitti inclusi nelle Convenzioni oggetto della legge di ratifica contenente la delega (OCSE e PIF), come una scelta «minimalista», in linea con la volontà di un ordine del giorno votato dalla Camera dei deputati.
In riferimento ai reati ambientali non è stata a tuttoggi ancora introdotta la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Va, peraltro, tenuto presente come in campo ambientale gli impegni internazionali rendono indispensabile procedere, a breve, ad un'estensione dei casi tipizzati di responsabilità amministrativa da reato: il sistema del decreto legislativo n. 231 si pone, pertanto, come cornice generale per ogni successiva tipizzazione normativa di addebito di responsabilità per le soggettività giuridiche conseguente ad un reato, e rappresenta quindi una base per la costruzione di un diritto sanzionatorio unitario, in grado di colpire con i requisiti della effettività, proporzionalità e dissuasività, le condotte illecite riferibili agli enti (collegate quindi ai settori della criminalità lato sensu economica).
In sede di recepimento della Convenzione di Strasburgo contro il crimine ambientale del 1998 e della decisione quadro dell'Unione europea del 2001 in materia di crimine ambientale - le quali entrambi prevedono l'obbligo di introdurre la responsabilità per le persone giuridiche - sarà pertanto necessario richiamare il citato decreto legislativo, che disciplina in via generale i requisiti e le modalità di accertamento della responsabilità amministrativa anche in riferimento al crimine ambientale.


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5. La criminalità ambientale transnazionale.

5.1 Quadro d'insieme.

Già si è detto in ordine alla dimensione transnazionale oggi assunta dalla criminalità ambientale. Gli spillowers o effetti transnazionali si presentano sia in chiave giuridica che naturalistica e sono indubbiamente agevolati dal progressivo sgretolamento, fattuale prima che normativo, dei confini nazionali. Paesi ad economia arretrata (quali quelli africani) ovvero ad economia di mercato emergente (quali gli stati ex comunisti, la Cina, l'India) si affacciano sulla scena mondiale offrendosi come luoghi di stoccaggio, di smaltimento o reimpiego dei rifiuti. La Commissione ha dedicato, ed intende dedicare, particolare attenzione a tale inquietante fenomeno, sia per l'intreccio fra strutture legali ed organizzazioni criminali che per le evidenti ricadute sul mercato e sulla tutela dell'ambiente che, per poter essere realmente efficace e duratura, non può che assumere connotazioni planetarie. Le direttrici più significative che sono emerse all'attenzione della Commissione - e sulle quali, come si è detto, verranno condotti ulteriori approfondimenti - sono costituite, da un lato, dalla domanda, proveniente dai paesi con economia di mercato emergente, diretta ad ottenere i prodotti residuali dei processi produttivi da reimpiegare per ricavarne le materie prime, e, dall'altro, dalla disponibilità, offerta sia da strutture statali politicamente instabili che da gruppi locali di potere in collegamento con organizzazioni criminali transnazionali, a ricevere, sovente in cambio di forniture di armi, rifiuti, anche radioattivi, da stoccare, interrare o smaltire in mare. Sotto il primo versante, vengono in rilievo in primo luogo gli effetti distorsivi sul mercato indotti da tale turismo transfrontaliero dei rifiuti. Infatti, accanto alla posizione deteriore in cui vengono inevitabilmente a trovarsi le imprese che affrontano i costi per lo smaltimento o la riutilizzazione ecocompatibili dei propri materiali residuali, rispetto a quelle che si limitano a conferirli, direttamente o indirettamente, a soggetti riciclatori extra comunitari, va, altresì, considerato l'effetto dirompente connesso alla successiva introduzione sul mercato europeo di prodotti, a basso costo, e quindi più concorrenziali: con conseguenze, in tema di tutela dell'ambiente, metastatiche, essendo travolgente la spinta a mortificare, in tutti i soggetti economici, gli investimenti per uno sviluppo eco-sostenibile. A tale riguardo, uno sguardo particolare, ritiene la Commissione, anche a seguito dei dati emersi in sede di audizione delle associazioni consortili interessate al recupero dei prodotti residuali, deve essere rivolta alla Cina, per le sue enormi capacità, ancora inespresse, di espansione industriale, e, quindi, per l'elevato rischio, sull'eco-sistema complessivo, che uno sviluppo irrispettoso dell'ambiente può presentare. La nuova frontiera della protezione dell'ambiente, come si è detto, sta proprio nel fatto che non devono esserci frontiere; solo in tal modo può assicurarsi durevolezza alle strategie in materia ambientale.
La seconda direttrice di osservazione, che, come si è visto, coinvolge soprattutto i cosiddetti paesi-pattumiera, presenta diversi, ma non secondari profili di allarme. In primo luogo, è indiscutibile


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l'accrescimento dei profitti delle organizzazioni criminali, anche di quelli tradizionali italiane, connesso a tale traffico. Quel che, fino ad oggi, è avvenuto per larghe zone del nostro meridione (si pensi, in particolare, per quanto accertato nell'area casertana), sta interessando e, progressivamente, interesserà maggiormente, quei paesi - soprattutto africani, ma non solo (essendo coinvolti anche paesi ex comunisti dell'est europeo) - nei quali, sia per la carenza di apparati governativi stabili che per l'assenza di sistemi di vigilanza, controllo e repressione adeguati, diventa agevole ed a basso costo smaltire rifiuti, con guadagni ingenti sia per i referenti locali che per le organizzazioni criminali transnazionali. Né deve sfuggire un ulteriore aspetto di preoccupazione. Il legame di affari tra organizzazioni criminali transnazionali e apparati statali dei paesi pattumiera può assumere dimensioni tali da divenire, se non la più significativa, sicuramente una delle più sostanziose fonti di reddito per le economie di questi paesi, generando, pertanto, una dipendenza strutturale ed in quanto tale pregiudizievole per la crescita democratica dei relativi governi, con le intuibili conseguenze sulla pace interna (essendo tali traffici solitamente connessi a quelli delle armi) e sulla stabilità della comunità internazionale.

5.2 Il caso Somalia e la vicenda di Ilaria Alpi.

La Somalia è, per molti aspetti, emblematica degli effetti devastanti prodotti dall'alleanza fra organizzazioni criminali transnazionali dedite al traffico illecito dei rifiuti e gruppi di potere locali. Verosimilmente, lo stesso omicidio, avvenuto il 20 marzo 1994, di Ilaria Alpi, inviata nel paese somalo per conto della RAI all'epoca dell'operazione Restor Hope, per gli elementi acquisiti in Commissione, appare ricollegabile ai dati venuti in possesso della giornalista con riferimento al traffico di armi e rifiuti. L'attenzione della Commissione alla vicenda della coraggiosa giornalista è diretta proprio alla ricerca di ogni aspetto che, nel far luce sulle possibili causali dell'agguato, illumini quel tratto di storia e, soprattutto, conduca a comprendere i meccanismi che presiedono a quella scellerata congiunzione, propria non solo del paese somalo, fra interessi criminali transnazionali, anche in materia ambientale, e fazioni locali in lotta per la conquista del potere. Una menzione particolare merita, a tale riguardo, l'attività di indagine compiuta dalla Procura di Asti. Il radicamento del procedimento penale ad Asti segue alla denunzia presentata da un imprenditore lombardo, il quale riferiva di essere stato contattato, al fine, esplicito, di esportare rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi in Somalia. Lo stesso denunziante riferiva di aver appreso che altro imprenditore veneto aveva ricevuto, dalla stessa fonte, analoga offerta. L'operatore veneto aveva, a tale riguardo, avviato trattative, di cui, nel corso dell'indagine, venivano trovati specifici riscontri. «Per mettere bene a fuoco una problematica che avevamo già intravisto sotto il profilo nazionale nel corso di una precedente indagine che ci aveva fatto scoprire la vicenda della discarica di Pitelli a la Spezia - ha riferito in Commissione il p.m. Luciano Tarditi - (in quella zona avevamo individuato un'area sensibile per quanto


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riguarda la presenza di un porto utilizzato a molti fini, compresa l'esportazione di rifiuti e di materiali pericolosi all'estero) pensammo di verificare che cosa di serio potesse emergere nel corso dell'indagine relativa al fatto segnalato dall'imprenditore». Furono, pertanto, disposte operazioni di intercettazione di comunicazioni telefoniche, a seguito delle quali emerse che tale Scaglione, che aveva contattato gli imprenditori sopra evocati, appariva in contratto strettissimo con Giancarlo Marocchino, operatore italiano residente in Somalia (fra i primi ad accorrere sul luogo dell'omicidio di Ilaria Alpi). Sottoposte ad intercettazione le utenze di Scaglione, gli inquirenti ricostruirono la rete che il medesimo aveva instaurato. In particolare, vennero in rilievo i numerosi contatti con Marocchino, i quali dopo poco tempo di ascolto, verso l'agosto del 1997, si concretizzarono in telefonate estremamente esplicite in cui quest'ultimo invitava Scaglione a spedire in tutta fretta, nelle more di operazioni più consistenti, due o tre mila fusti da sistemare in qualche sito, contemporaneamente confortandolo sul fatto che erano in fase di avanzata autorizzazione le concessioni che il capo clan, egemone sulla zona, Ali Mahdi, stava accordando proprio per una discarica di tipo C per i materiali più pericolosi, in un'area che poi venne individuata nella zona di El Bahraf. Nelle conversazioni successive, Marocchino e Scaglione concordavano sul fatto che la realizzazione della discarica dovesse essere giustificata con il paravento della costruzione di un inceneritore per rifiuti urbani; entrambi concordavano sulla necessità di ottenere, con sollecitudine, consistenti arrivi di rifiuti e sul fatto che una parte degli introiti doveva andare ad Ali Mahdi, che doveva rifarsi delle rilevanti spese sostenute nella guerra civile. «Tutto ciò ci convinceva - ha aggiunto il p.m. Tarditi - della gravità della cosa e della serietà della pista che si stava percorrendo. Nel corso delle conversazioni tenute da Scaglione ad Asti con l'imprenditore, di cui noi eravamo a conoscenza in tempo reale, era altresì emerso che lo stesso Scaglione, per spiegare al suo interlocutore le modalità con cui si sarebbe svolto il traffico, faceva il nome di uno spedizioniere di Livorno, tale Nesi, il quale - a dire dello Scaglione - gli era stato caldamente consigliato da Giancarlo Marocchino. In effetti, dallo sviluppo delle indagini emergerà che Nesi aveva una serie di strettissime relazioni con la Somalia, al punto da essere intimo di Faddum Aidid, figlia del generale Mohammed Aidid, che aiutava in vari modi, e della cui esistenza venimmo a conoscenza perché questa donna utilizzava un cellulare del Nesi. Quando risalimmo dalle intercettazioni su Scaglione a quelle di coloro che si rapportavano con lui ed arrivammo a Nesi, ci accorgemmo che uno dei cellulari di quest'ultimo era utilizzato dalla stessa Aidid, che solo in seguito sapemmo essere oggetto di attenzione della questura di Milano perché rappresentante commerciale della Somalia già ai tempi di Barre e che poi fu legittimata ad operare in Italia nell'ambito dell'attività del clan Aidid, il quale assumeva, al pari del clan di Ali Mahdi, di essere legittimo rappresentante del disfatto Stato somalo». Ulteriori elementi pervenuti all'attenzione della Commissione, in particolare dall'ing. Vittorio Brofferio, impegnato alla fine degli anni '80 in Somalia nella realizzazione per conto della LOFEMON (Lodigiani-Federici-Montedil) della strada di collegamento fra Garoe e Bosaso, nel nord del paese africano, testimoniano l'interesse, di gruppi


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locali e soggetti stranieri, a sfruttare tali lavori per interrare containers. I dati, provenienti da organizzazioni anche non governative presenti sul territorio somalo, relativi, poi, ad un sensibile aumento di patologie verosimilmente connesse alla presenza di materiali tossici e radioattivi, inducono la Commissione a proseguire nell'esame delle vicende di tale paese africano, e di ogni altro paese in qualche modo versante in condizioni analoghe, attraverso l'acquisizione di utili elementi conoscitivi sia da soggetti istituzionali che da organismi di volontariato attivi nel continente africano.

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