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PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulla copertura vaccinale in età pediatrica e sulla ospedalizzazione dei bambini affetti da malattie infettive, l'audizione del professor Franco Tancredi, direttore generale dell'agenzia sanitaria della regione Campania e del dottor Saverio Ciriminna, direttore dell'ufficio speciale per la programmazione sanitaria della regione Sicilia.
Comunico che è pervenuta alla Commissione una lettera inviata dalla dottoressa Stefania Salmaso, direttore del reparto malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità, laboratorio di epidemiologia e biostatistica. Ne do lettura:
«Gentili onorevoli, sono lieta di informarvi che il piano nazionale di eliminazione del morbillo e della rosolia congenita è stato approvato il 13 novembre scorso dalla Conferenza Stato-regioni. Questo documento è quindi ora un accordo formale tra il Ministero della salute, le regioni e le province autonome, e delinea le strategie per contrastare efficacemente queste malattie nell'arco dei prossimi 5 anni. Il piano va ora messo in pratica al più presto e ritengo che anche la Commissione parlamentare per l'infanzia si possa fare parte attiva di questo sforzo collettivo, che dovrebbe permettere ai vari interlocutori nel paese di muoversi in modo coordinato come un reale network operativo. Un appropriato ruolo per la Commissione potrebbe essere quello di monitoraggio e stato di avanzamento delle attività, con particolare riguardo a quelle di competenza centrale quali la campagna informativa per la popolazione generale (nel piano è già attribuita al Ministero della salute) e alla istituzione del gruppo di coordinamento nazionale.
Rimango come sempre a vostra disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento e vi ringrazio fin d'ora per l'ampia sensibilità dimostrata sul tema delle vaccinazioni».
Ringraziamo la dottoressa Salmaso per questa comunicazione fortemente attesa, che conferisce nuovi compiti alla nostra Commissione. Penso che le sue sollecitazioni saranno tenute in grandissima considerazione nel prossimo ufficio di presidenza.
Do ora la parola al professor Tancredi per la sua relazione.
FRANCO TANCREDI, Direttore generale dell'agenzia sanitaria della regione Campania.
Sono il direttore generale dell'azienda regionale sanitaria ma, fino ad un mese fa e per tre anni, sono stato presidente della Società italiana di pediatria: quindi, ho la duplice esperienza del pediatra e dell'amministratore. In Italia non tutte le regioni hanno seguito le indicazioni dei piani sanitari nazionali per le vaccinazioni cosiddette raccomandate, che, in effetti, sono diventate obbligatorie perché inserite in un piano voluto dal Governo e dal Parlamento. Per i recuperi di quelle più importanti, come la vaccinazione contro morbillo-rosolia, le azioni intraprese sono state positive, ma ne ho sperimentata un'altra che funziona sicuramente. Siamo organizzati sul territorio in aziende sanitarie o socio-sanitarie e ai direttori delle stesse le regioni danno degli obiettivi, che quasi mai sono di salute ma quasi sempre economici (risparmiamo, facciamo meno visite, meno farmaci ecc.). Tutto ciò è in parte giusto, ma le ricerche dovrebbero innanzitutto produrre salute e rendere più sani i cittadini.
Purtroppo questo obiettivo, tranne in casi sporadici e del tutto eccezionali, non è stato dato. Sarebbe semplice, proprio per le vaccinazioni che, in generale, sono considerate qualcosa di poco importante e di cui ci si accorge solo quando ci sono le epidemie, i malati, i morti e i ricoverati. Le obbligatorie vengono trascinate per tradizione e si continua a farle, ma vi ricordo che se oggi un bambino non si vaccina per la poliomielite difficilmente corre il rischio di contrarla, ma se non si vaccina per il morbillo, certamente si ammalerà.
Vedete quindi come il peso di ciascuna vaccinazione sia diverso e negli anni si sia completamente trasformato. A parte le campagne televisive di informazione, che sono importanti, basterebbe dare ai direttori delle aziende l'obiettivo di aumentare le coperture vaccinali e, se non si raggiunge una certa percentuale (ad esempio l'80 per cento quest'anno - ma dipende dalla percentuale dalla quale si parte - e il 95 per cento entro due anni), vengono giudicati negativamente: vi assicuro che difficilmente ci sarà più un bambino non vaccinato in Italia.
Questo meccanismo è stato già sperimentato in Campania. Sapete che la Campania è una delle regioni in cui vi sono meno vaccinazioni. I direttori, impegnati in tal senso, rapidamente si sono dati da fare perché devono raggiungere un obiettivo di salute, che è coinvolgente e determinante per la loro carriera. È importante che venga dato tale obiettivo perché, anche da un punto di vista etico e morale, noi dobbiamo produrre salute e non solo risparmiare. Il risparmio è conseguente alla prevenzione.
L'altro motivo per cui sono contento di essere qui è, sotto certi aspetti, anche più importante. Noi siamo uno dei pochi paesi europei che impegnano nella formazione degli specialisti, e nel caso specifico dei pediatri, notevoli risorse. Un pediatra si forma dopo sei anni di università, uno o due anni di parcheggio - se gli va bene - e cinque anni di specializzazione. Quindi in totale sono circa tredici anni. Gran parte della sua formazione è dedicata allo studio delle malattie infettive e gran parte della sua attività professionale sarà legata alla diagnosi, alla cura e alla prevenzione (parliamo di vaccinazioni) delle malattie infettive.
Nella legislazione italiana la responsabilità ospedaliera del bambino con malattie infettive è tolta al pediatra. L'Italia è una delle poche nazioni al mondo che adotta questo criterio. Il bambino (che per definizione deve essere affidato al pediatra, perché non è un piccolo adulto, ma è un soggetto diverso per fisiologia, anatomia e psicologia) è tolto al suo medico naturale. Il motivo è difficile dirlo, è antico ed è relativo ai rapporti di forza. Ne deriva però che noi diamo una cattiva assistenza ospedaliera al bambino affetto da malattie infettive.
Se avete letto le notizie di stampa di ieri, a Napoli ci sono stati due casi di setticemia meningococcica. Quando un bambino va all'ospedale pediatrico da questo viene trasferito in un ospedale per adulti, dove non c'è un infermiere pediatrico,
non c'è una culla, non c'è poppatoio, manca la cultura di assistere il bambino. Manca anche la capacità di trovare una vena, perché non è facile effettuare un prelievo di sangue su un bambino collassato di 18 mesi: anzi, è difficilissimo e ci vuole una persona esperta che lo sappia fare. I bambini arrivati all'ospedale Cotugno sono stati trattati benissimo, però non hanno avuto una diagnosi. Finora non è stato possibile fare una diagnosi perché non è stato possibile effettuare una puntura lombare, né un prelievo. Sono morti senza una diagnosi. Si trattava di una sindrome particolare che porta alla morte nello spazio di poche ore, e dobbiamo pensare, con notevole probabilità, che si trattasse di una setticemia meningococcica. Però non ne siamo sicuri. Nel reparto pediatrico altre volte nella mia lunga carriera sono capitati casi di tale sindrome: alcuni sono morti, altri no, non perché si era più bravi, ma perché si conoscevano le caratteristiche della malattia nel bambino e si sapeva come agire.
Non so quanti di voi ricordano la tragica esperienza di salmonellosi a Napoli. Vi erano bambini affetti da salmonella ricoverati in reparti per adulti. I medici non sapevano che i bambini andavano idratati immediatamente e che l'unica soluzione era dare dell'acqua e non altre cose, cioè fare delle fleboclisi. Si ebbero circa otto-dieci morti. Io, in un ospedale pediatrico napoletano, l'ospedale della S.S. Annunziata, un ospedale storico, aprii di prepotenza un reparto di malattie infettive pediatriche che ha funzionato per vent'anni, fino a quando è stato chiuso perché per motivi di legge non ci poteva essere un pediatra a dirigerlo.
Chi ricorda il male oscuro? Siamo stati su tutti i giornali del mondo per i morti da male oscuro. Lì era stato incriminato un ospedale pediatrico perché la parte rianimatoria in quel momento era stata affidata ai medici dell'adulto. Chi per primo diagnostica i bambini che respirano male e non sapeva ritenere che fosse un male strano, proprio perché non lo aveva mai riscontrato. Si trattava invece di un male comunissimo che colpisce i bambini nel primo anno, al massimo fino al secondo. Non essendo abituati a visitare dei soggetti così piccoli, le conseguenze furono drammatiche.
Non faccio questo discorso per incolpare qualcuno, però sommessamente prego voi, che siete rappresentanti del Parlamento, di portare all'attenzione del Governo questo problema. L'infettivologia è una importante componente della pediatria per la quale siamo stati formati. Anche l'attività quotidiana di un pediatra per il 70-80 per cento consiste nella cura di malattie infettive, che possono essere malattie in fieri oppure importanti. Quindi, vi ripeto l'esigenza di far conoscere al Governo la necessità di modificare quella norma antistorica, antiscientifica e antimoderna che toglie al pediatra l'assistenza dei bambini con malattie infettive.
Questi erano i due aspetti di cui volevo parlare e vi ringrazio per avermi ascoltato.
PRESIDENTE. Grazie, professore, per quanto ci ha comunicato. Rispetto alla questione delle aziende sanitarie, sono perfettamente d'accordo. Una valutazione di qualità deve essere fatta rispetto all'azione delle aziende e dei manager. In alcune aziende basta chiudere dei reparti per conseguire un risparmio, ma certamente si privano i cittadini di servizi talora essenziali.
Sulla questione delle vaccinazioni e rispetto al problema generale della prevenzione, ritengo che questo sia un investimento a reddito differito. Non se ne vedono immediatamente i risultati, ma l'eliminazione di patologie ovviamente porta a un risparmio successivo oltre che ad una garanzia per la nostra salute.
FRANCO TANCREDI, Direttore generale dell'Agenzia sanitaria della regione Campania. Il direttore resta in carica cinque anni e quindi non ha modo di vedere tali risultati.
PRESIDENTE. Esattamente. Do ora la parola ai colleghi che desiderano porle domande.
CARLA CASTELLANI. Nel nostro ospedale i neonatologi non c'erano, per cui l'azienda ci ha mandato a fare un corso biennale di neonatologia e quindi riuscivamo a compensare tale carenza.
Condivido l'impostazione che ha dato il professor Tancredi. Anche noi siamo perfettamente convinti che investire in prevenzione sia la vera forma di risparmio. In tal modo si raggiungono due obiettivi: il risparmio a lunga distanza, perché ci si ammala di meno, e, soprattutto, si produce realmente salute e benessere, che sono gli aspetti più importanti.
Purtroppo, in tanti anni da quando è stato istituito il Servizio sanitario nazionale, questa cultura fatica a prendere piede nella nostra società, soprattutto in chi ha la responsabilità di indirizzo di livello sia legislativo che amministrativo. In realtà, sarebbe l'uovo di Colombo. Tant'è che in Italia, finanziaria dopo finanziaria, investiamo in prevenzione una percentuale del PIL sempre molto più bassa di quella degli altri paesi europei. Sicuramente, quindi, sono d'accordo su questo aspetto e mi auguro che, soprattutto per quanto riguarda il tema dell'infanzia, ci sia un'inversione di tendenza.
Circa quanto riferito, invece, dal professor Tancredi riguardo alle carenze organizzative causa le quali il ricovero dei bambini in fase di malattia acuta avviene nei reparti di malattie infettive, devo precisare che non sempre ciò si verifica. A tale proposito, porterò ad esempio la mia struttura (ma ne esistono molte altre); ebbene, in tale struttura esiste, nel reparto di pediatria, un mini reparto di malattie infettive dove vengono ricoverati bambini e adolescenti (fino a 18 anni) e dove, altresì, costoro vengono trattati, in genere, dal pediatra.
La finalità della nostra indagine conoscitiva è proprio far sì che, là dove ancora tale tipo di cultura, nell'approccio alle patologie pediatriche (ovvero al bambino), non sia così fortemente sviluppata, si prenda almeno atto delle carenze sussistenti nel paese e si operi, quindi, un'inversione di tendenza. Forse, non sbaglio pensando di interpretare il pensiero del collega De Franciscis dicendo quanto segue. L'obiettivo è proprio trovare un'ipotesi di soluzione - siamo, infatti, una Commissione di controllo e di indirizzo, non una Commissione legislativa - e, quindi, produrre una risoluzione o, comunque, un atto parlamentare che consenta alle Commissioni competenti di legiferare in questa direzione; al Governo, di dare seguito a quanto sarà deciso dal Parlamento, sapendo che l'inversione di tendenza richiederà sicuramente del tempo. Infatti, più che di adottare un vero e proprio atto operativo, si tratta di favorire un'inversione di tipo culturale; a tale riguardo, sappiamo benissimo quanto sia difficile riuscire a fare recepire un certo tipo di passaggi, anche e soprattutto nel mondo medico.
ALESSANDRO DE FRANCISCIS. Signor presidente, vorrei rivolgere al professor Tancredi alcune domande per ricevere, in fase di replica, alcuni chiarimenti circa quanto da lui riferito in maniera molto succinta, ma anche molto convincente.
Alcuni di noi sono pediatri e sanno, quindi, che egli non solo è stato presidente della Società di pediatria fino al mese scorso ma ha potuto conoscere, nella sua esperienza, un po' tutte le realtà pediatriche presenti nel mondo occidentale. Ebbene, lei, professore, ha terminato la sua esposizione con una sorta di appello al Parlamento della Repubblica per porre in qualche modo riparo all'incongruenza dell'anomalia, tutta italiana, della sottrazione del paziente infettivo alla cura ed alla sapienza del personale medico e paramedico addestrato a trattare il soggetto in età evolutiva.
Dai nostri lavori - sono ormai tre mesi che ci incontriamo settimanalmente sul tema oggi in discussione -, è emerso, attraverso tutte le diverse testimonianze venute dai diversi auditi, il seguente dato: l'attribuzione, ormai piena - ma fortunatamente non ancora totale -, della materia «sanità» alle singole regioni italiane.
A sostegno e a conforto di quanto affermato dalla collega Castellani, preciserei che il nostro impegno potrà culminare,
tutt'al più, nell'elaborazione di un documento conclusivo equilibrato, ampio e ricco di apporti. Alla fine, però, giungeremo pur sempre, nella migliore delle ipotesi, all'adozione di una semplice risoluzione; atto che, in ipotesi, presenteremo in ciascuno dei due rami del Parlamento.
La salute è, dunque, materia attribuita alle regioni ed alle province autonome; d'altra parte, come è noto, un partito facente parte dell'attuale maggioranza di Governo - è un dato politico, non di merito - chiede, addirittura, la totale devoluzione di competenze, in materia di sanità, alle regioni. In questa cornice, dobbiamo intervenire; non a caso, signor presidente, quando lei, in questa seduta, ci ha dato lettura della lettera, abbiamo potuto constatare come alcune decisioni operative di un certo rilievo - quali quelle relative ad un piano nazionale per la eradicazione di alcune malattie infettive - siano assunte attraverso il «tavolo» con le regioni e le province autonome.
Al riguardo, professor Tancredi, considerata la sua vasta e lunga esperienza, vorrei chiederle un commento circa tale questione; nelle nostre precedenti audizioni, infatti, è emerso un particolare aspetto. Soprattutto quando abbiamo preso in considerazione i dati epidemiologici e quelli illustrati dagli operatori del settore (dati forniti, quindi, non da esponenti politici o dirigenti), si è evidenziato un elemento che, peraltro, è agli atti della nostra discussione, accessibile non solo a tutti i parlamentari ma, altresì, a tutti i cittadini della Repubblica, via Internet (dato su cui, a mio avviso, sarà bene riflettere). Si tratta del fatto che le malattie infettive costituiscono uno di quei casi in cui il confine amministrativo è assolutamente ridicolo; è difficile, infatti, ipotizzare che si possa seguire una strategia di approccio in Campania - peraltro, lei rappresenta autorevolmente un'esperienza sanitaria campana - del tutto separata da quella seguita nelle regioni confinanti del Lazio, dalla Basilicata, della Puglia.
Le riferisco di tale aspetto emerso dai nostri lavori, professore, in quanto lei non era presente quando, due settimane fa, abbiamo appreso i dati dell'agenzia regionale Lazio sulle principali malattie infettive in età pediatrica. Detta agenzia ci ha presentato il suo modello di flussi informativi ed epidemiologici ed è apparso in maniera molto evidente che, nello stesso periodo in cui in Campania, lo scorso anno, si verificava la gravissima epidemia di morbillo che ha portato a morte moltissimi bambini, contemporaneamente, nella regione Lazio, si registrava un picco completamente inatteso ed imprevedibile, data la stagione. Circostanza eloquente, se si pensa che la provincia di Caserta e di Latina, di fatto, vivono la stessa realtà; in tale cornice, vorrei sapere quale suggerimento può darci in base alla sua esperienza non solo di dirigente della sanità pubblica ma anche di pediatra appassionato, di ricercatore, di clinico, già presidente della Società italiana di pediatria. Soprattutto, in base alla sua esperienza, cosa ritiene che oggi si possa concretamente fare per la questione che abbiamo dinanzi?
Il secondo quesito riguarda il rapporto tra infettivologia e pediatria; si tratta, in particolare, della questione ospedaliera di carattere organizzativo, circa la quale vorrei chiederle quanto segue. Lei ha portato alla luce un dato che, per la verità, con varie accentuazioni e con diversi toni, era piuttosto presente nei lavori della nostra Commissione. Ebbene, proprio per pervenire all'elaborazione di un documento conclusivo con cui indicare eventuali suggerimenti, siamo alla ricerca di un modello. È immaginabile, in base alla sua esperienza, che, in tutte le divisioni di pediatria oggi esistenti nelle aziende sanitarie locali, si «spinga» affinché le regioni aiutino, finanzino, decidano la creazione, ad esempio, di piccoli reparti di infettivologia con isolamento? Non è forse vero, piuttosto, che ormai, fortunatamente, anche nel nostro paese, prevale l'approccio teso a sostenere i centri di eccellenza? Si preferisce, infatti, nell'ambito di un territorio più vasto, ricorrere, quando serve l'ospedale, ai centri migliori e più competitivi. Sono questi i centri che dobbiamo
considerare e, solo dove non ne esistano, si potrebbe considerare l'altra ipotesi; lei, a proposito della sua (e, peraltro, anche mia) regione, la Campania, ha citato il caso dell'ospedale Cotugno, dove sappiamo che esiste un grande centro regionale di riferimento per le malattie infettive, che però non ha alcuna struttura o approccio di tipo pediatrico.
Ebbene, non è, forse, il caso di immaginare - e capisco che il modello potrebbe essere anche misto - che, invece, nelle regioni dove non esista un centro di eccellenza per le malattie infettive dell'età evolutiva, una struttura ad hoc si possa realizzare all'interno di un centro già esistente di cura delle malattie infettive? Nella sua esperienza in giro per l'Italia, che idea si è fatto di tale ipotesi? Proprio poc'anzi, discorrendo con i colleghi, prima dell'inizio dei lavori, si valutava l'ipotesi, nella fase finale dell'indagine conoscitiva, di visitare alcuni centri. Centri che rappresentino sia modelli in positivo - da alcuni colleghi, nelle scorse riunioni, è emersa, ad esempio, la candidatura dell'istituto Mayer di Firenze - sia in negativo. Peraltro, su suo eventuale invito, la Commissione potrebbe visitare, nel corso di una missione, l'ospedale Cotugno di Napoli.
Inoltre, in base alla sua esperienza, che cosa si può fare per ottimizzare i flussi di informazione senza un aumento della spesa? Sin dalla prima audizione è emerso che i medici, i pediatri in particolare, sono disponibili a svolgere il compito di sentinelle sul territorio per raccogliere i dati epidemiologici riguardanti vaccinazioni e prevalenza di malattie infettive, tuttavia essi hanno la netta percezione che il loro sforzo, anche senza incentivazione economica, si perda nei meandri del sistema di rilevazione. Come si può riuscire a livello regionale a mettere in rete le informazioni in modo che diventino fruibili a livello nazionale, per avere così un approccio che non sia a livello di singolo distretto sanitario e che consenta, invece, a chi deve governare e programmare i problemi di avere il quadro della situazione il più completo possibile?
ANTONIO ROTONDO. Riprendo quanto detto dai colleghi, cercando di avere dal professor Tancredi una conferma riguardo alla capacità professionale del pediatra di affrontare le problematiche di tipo epidemiologico. Mi pare che il problema non sia tanto quello di far cambiare mentalità o di fornire ulteriori professionalità ai pediatri per affrontare le patologie infettive. In base alla mia esperienza risulta che i pediatri abbiano sempre curato le malattie infettive, anzi la stragrande maggioranza delle malattie che essi affrontano è rappresentata proprio da quelle infettive. Nell'ospedale medio-piccolo dove ho esercitato questa professione abbiamo sempre affrontato le patologie infettive più importanti, anche perché avevamo una struttura di rianimazione a supporto che ci permetteva di poter far fronte a tutte le più gravi patologie infettive. Il problema non è quindi quello di preparare una classe medica adeguata, ma quello di organizzare strutture sanitarie che siano in grado di poter affrontare in maniera puntuale l'emergenza e la problematica epidemiologica pediatrica.
Come ha già fatto rilevare il professor Tancredi occorre organizzare strutture ospedaliere pediatriche che abbiano la possibilità di seguire il problema della malattie infettive.
Vorrei affrontare inoltre la questione degli obiettivi di vaccinazione che devono essere posti localmente. A me risulta che la regione Sicilia abbia imposto alle singole aziende ospedaliere degli obiettivi da raggiungere per quanto riguarda i livelli di vaccinazione e l'ampliamento dei progetti di vaccinazione. È evidente che, quando si hanno a disposizione persone che abbiano esperienza e capacità su questi aspetti specifici, in alcune realtà si riesce a realizzare qualcosa di buono. Dovremmo quindi cogliere le opportunità che ci vengono fornite da esperienze particolari per poterle magari diffonderle in tutta Italia.
FRANCO TANCREDI, Direttore generale dell'agenzia sanitaria della regione Campania.
In effetti, lo ripeto, il pediatra è educato, addestrato e lavora con le malattie infettive; tuttavia all'interno dell'organizzazione ospedaliera italiana, se un direttore generale vuole aprire un reparto di malattie infettive in pediatria, non può dare la direzione ad un pediatra ma ad un infettivologo. Trovo che tutto ciò sia assurdo. Quando prima ho ricordato di avere aperto un reparto di malattie infettive all'interno di pediatria, ho dimenticato di far presente che non lo potetti chiamare «reparto di malattie infettive» ma dovetti ipocritamente chiamarlo «reparto di pediatria per contumacia».
ANTONIO ROTONDO. Non c'è neanche la possibilità di concedere l'indennità di rischio al personale parasanitario.
FRANCO TANCREDI, Direttore generale dell'agenzia sanitaria della regione Campania. Infatti ad un certo punto abbiamo dovuto chiuderlo, perché il personale non riuscendo ad ottenere le indennità che hanno normalmente i reparti di malattie infettive si è rifiutato di proseguire con questo progetto. Faccio presente che in questo reparto curavamo tutte le malattie infettive (che a Napoli sono state numerose), tanto che nessun bambino andava più al Cotugno.
La cosa strana, tra l'altro, è che l'AIDS infantile, malattia infettiva per eccellenza, viene fatta rientrare nelle competenze dei pediatri, mentre il morbillo rientra in quella degli infettivologi. Va bene che il nostro è un paese strano, dove succede di tutto, ma queste discrepanze risaltano comunque all'occhio! Il problema è organizzativo, non certo culturale, tanto è vero che, personalmente, ho fondato una società pediatrica di malattie infettive, di cui il professor Guarino è l'attuale presidente. Il professor Guarino deve però inventarsi un altro nome per poter curare le malattie infettive a livello pediatrico. Intanto l'ospedale pediatrico Santobono, non avendo l'infettivologo, deve mandare i propri pazienti all'ospedale Cotugno.
Rispondendo all'onorevole De Franciscis debbo dire che trovo ridicola la devolution per quanto riguarda le malattie infettive e, in parte, anche per le vaccinazioni. L'esempio di globalizzazione lo abbiamo avuto dalla SARS: nel momento in cui è questa infezione è stata denunziata, nello spazio di 12 giorni tutto il mondo si è ritrovato coinvolto, e in pratica non vi è stata una nazione che abbia preso decisioni diverse dalle altre. Queste misure hanno fatto che sì che una epidemia di quelle proporzioni venisse limitata a 4 mila casi quando invece avrebbe potuto avere un contagio ben più vasto. Le paure che avevamo per l'arrivo dell'autunno in occidente si sono rivelate esagerate, tanto è vero che la malattia sembra scomparsa. Ciò dimostra che la parcellizzazione della lotta alle malattie infettive è dannosa, in quanto è contraria alla filosofia del germe, che non ha confini.
Un'altra cosa su cui non sono d'accordo è la via siciliana alle vaccinazioni, peraltro meritoria e degna di ammirazione. Tuttavia, le vaccinazioni dovrebbero seguire un calendario ed un programma; dovrebbero essere fatte nel minor tempo possibile, coinvolgendo quante più persone possibile, nel maggiore spazio possibile: dovrebbe trattarsi di uno spazio europeo o, perlomeno, continentale.
Infatti, l'Organizzazione mondiale della sanità ci giudica liberi dalla polio in Europa e non a Napoli, in Sicilia o a Caltanissetta o da qualche altra parte. Le dimensione delle malattie infettive rientra in un contesto quanto meno continentale e quindi dobbiamo ragionare per continenti e non più per piccole frazioni. Purtroppo, la spinta eccessiva verso le autonomie locali porta con sé il rischio che ognuno segua poi un calendario personale (non solo regionale ma anche aziendale o distrettuale) e ciò sarebbe la negazione della filosofia stessa delle vaccinazioni.
Per quanto riguarda i modelli, come Società italiana di pediatria, nel piano sanitario, abbiamo proposto al ministro che vengano ridotti i reparti di pediatria attualmente esistenti in Italia, sulla base di una considerazione. Innanzitutto, che i 500 e più reparti di pediatria (mi riferisco alle unità operative, quindi ai reparti di
secondo livello) erano stati concepiti per una popolazione di circa un milione di bambini nati per anno, nonché in base ad una frequenza di malattie che era tripla o quadrupla rispetto a quella di oggi.
Avere oggi tutto questo comporta che non disponiamo, tranne eccezioni, di centri di eccellenza bensì di tanti piccoli centri che non riescono a fare tutto quello che dovrebbero. Sarebbe interesse della popolazione che i reparti, in modo particolare quelli di pediatria, si accorpassero in modo da poter offrire maggiore e più qualificata assistenza. Sappiamo bene che un medico più lavora e più acquisisce esperienze e capacità, anche dal punto di vista manuale.
Quindi, senza variazioni di spesa o diminuzioni di personale, il progetto è quello di un accorpamento in centri più grandi in modo da produrre una migliore sanità, prevedendo altresì (sempre in questi centri) un reparto di isolamento temporaneo, perché poi, in realtà, le grandi malattie che dovrebbero essere isolate girano per la strade. Si vuole forse isolare il meningococco? Non è possibile, visto che ogni giorno ci sono in giro dei portatori dello stesso. Non possiamo certo ricorrere ai campi di concentramento: un medico questo lo capisce! Non siamo di fronte alle grandi malattie come il colera, il vaiolo o simili, ma oggi si tratta piuttosto del morbillo, dell'encefalite, della meningite o della gastroenterite (al massimo, ma si tratta di casi rari, di tifo).
Il punto è che non servono grandi investimenti strutturali ma occorrono un'organizzazione ed una mentalità per la quale il bambino con una malattia infettiva dovrebbe essere seguito da un pediatra, come risulta anche dalla convenzione di New York che abbiamo sottoscritto, per cui il pediatra è il medico del bambino (l'infettivologo non centra).
Certamente, ci sono centri di eccellenza (è stato citato il Mayer), tuttavia, anche in questi casi, le malattie infettive vengono poi curate da medici che non sono pediatri. Nel caso del Gaslini, per esempio, se ne occupa il professor Bassetti, un infettivologo degli adulti che si interessa dei bambini, ma non un pediatra.
Anche il professore Tolentino, che era un pediatra, per curare le malattie infettive, da pediatra, dovette diventare infettivologo degli adulti, affrontando un relativo concorso (cioè, dovette lui trasformarsi in adultologo invece di continuare a fare il pediatra): questo è uno controsenso!
Se poi la Commissione desidera visitare questi centri di eccellenza (Mayer e Cotugno) per accertare come stanno le cose su quest'aspetto relativo alla pediatria, in positivo o in negativo, ne sarei lieto. La domanda è insomma come possa essere curato un bambino presso un ospedale dove si ritrovano ammalati di AIDS, epatite, epatite C, tossicodipendenti e via dicendo rispetto ad un ambiente più propriamente pediatrico.
PRESIDENTE. L'argomento è sicuramente molto interessante e coinvolgente. Soprattutto, vorrei sottolineare che, per quanto riguarda gli indirizzi al Parlamento e al Governo, noi siamo in grado di inserire nel documento che la Commissione andrà a redigere proprio gli spunti di riflessione emersi nel corso di audizioni come questa. La ringrazio per il suo intervento.
Do ora la parola al professor Saverio Ciriminna, direttore dell'ufficio speciale per la programmazione sanitaria della regione Sicilia.
SAVERIO CIRIMINNA, Direttore dell'ufficio speciale per la programmazione sanitaria della regione Sicilia. Prima di procedere nel mio intervento, vorrei illustrare le linee di governo della nostra regione nel campo delle malattie infettive.
Sulla diatriba che si è aperta sulle scelte, più o meno condivise, in materia di vaccinazione, considerata anche l'assoluta varietà del quadro nazionale in termini di coperture raggiunte, la nostra regione (che, vi ricordo, è a statuto speciale) ha intrapreso, sin dal 1996-1998, una serie di iniziative che, rispetto ad altre regioni
italiane, hanno permesso di raggiungere un'elevata copertura, dapprima contro la pertosse e poi con i vaccini antinfluenzali e di antipneumococcica.
A questo proposito, quando è stato definito il piano nazionale contro il morbillo, la parotite e la rosolia (si tratta di un vaccino trivalente e quindi tre sono le vaccinazioni che vengono somministrate contemporaneamente), la nostra regione è stata contraria ad un documento che si sarebbe rivelato una griglia rigida e che non avrebbe costituito una base di riferimento su obiettivi condivisi, bensì una griglia di comportamento in assoluto.
Questo è stato ciò che il nostro assessore, il professore Cittadini, ha detto in sede di Commissione su questa materia, ricordando che è interesse della nostra regione (e crediamo anche delle altre regioni italiane) che, oltre a raggiungere gli obiettivi ottimali di copertura vaccinale per le vaccinazioni attualmente in uso, vengano sfruttate al meglio le possibilità di prevenzione che i nuovi vaccini, via via disponibili, ci permettono di sfruttare.
È necessario, quindi, che i documenti in via di definizione siano rispettosi delle prerogative statutarie delle regioni e della loro sfera di competenza in materia sanitaria, voluta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, la quale ha modificato il titolo V della Costituzione. Essi devono garantire, nel quadro degli obiettivi generali condivisi, elementi di flessibilità che siano compatibili con le specificità delle singole regioni e non devono introdurre elementi che possano, ancorché lontanamente, sembrare limitativi dell'autonomia tecnica, politica e finanziaria delle stesse. Questo per evitare ricadute non sempre positive che altrimenti potrebbero generarsi.
La conseguenza di questo è che noi, come regione, abbiamo sempre offerto, gratuitamente ed attivamente, le vaccinazioni alla nostra popolazione, infantile e anziana, perché abbiamo ritenuto che ciò sia coerente con gli indirizzi politici di accessibilità, equità e universalità, trattandosi di una scelta di civiltà mirata ad eliminare le disuguaglianze e tenendo conto del fatto che si devono evitare le malattie infettive e le loro complicanze spesso invalidanti. Riteniamo che la morte per malattie prevenibili debba essere assolutamente assente dal nostro quadro di riferimento sanitario, quando si è in possesso di strumenti che permettono di prevenire il suo verificarsi.
Tale scelta ha indotto la regione ad introdurre, nel tempo, sempre nuovi modelli e a seguire nuovi programmi di incentivazione dei programmi vaccinali. Su questa base, ancor prima che venisse varato il piano d'azione dei vaccini, abbiamo definito, nel 2000, un nostro piano regionale straordinario di recupero per il morbillo (visto che la regione aveva una copertura del 40 per cento) e, con uno sforzo non indifferente, abbiamo, in un anno, vaccinato 280 mila soggetti.
Abbiamo conseguito un risultato di grande efficacia ed eccellenza, con coperture vicine al 90 per cento ma, soprattutto, abbiamo sfruttato la sinergia con i pediatri di famiglia.
L'elemento vincente della nostra strategia, oltre l'incentivo dato ai pediatri e ai servizi, è stata l'alleanza con i pediatri di famiglia. Nel 1990-1991 e nel 1996-1997 si sono verificate due epidemie di morbillo perché si era rifiutato l'accordo con i pediatri, che per la loro attività di promozione volevano essere retribuiti o incentivati. Questa volta abbiamo mutato atteggiamento e, in realtà, è stata la strategia vincente, perché nella nostra promozione sanitaria i soggetti opinion leaders sono i medici e i pediatri di famiglia, a cui affidiamo noi stessi e i nostri figli appena nati. Quindi, il consiglio dato o non dato o la dissuasione esercitata dai nostri colleghi medici, di fatto, è l'elemento determinante nelle scelte delle campagne vaccinali.
I nostri servizi vaccinali sono brillanti ed efficaci ma non sono in grado di raggiungere capillarmente il consenso con la popolazione perché sono strutture che i cittadini vedono una volta ogni due-tre mesi, quando portano i bambini a vaccinare.
Avendo raggiunto questo brillante successo - siamo stata l'unica regione italiana
che nel 2003 non ha avuto un'epidemia di morbillo e che, comunque, non ha registrato un picco di riacutizzazione della stessa, il che dimostra che le nostre scelte sono state vincenti -, abbiamo introdotto due nuove vaccinazioni. In primo luogo la vaccinazione antivaricella universale nella prima infanzia, perché non è vero che tale malattia sia benigna: ogni anno abbiamo mediamente dai 4.000 ai 5.500 casi denunciati, il che equivale almeno a 20.000 casi l'anno di malattia: se non utilizzassimo i fattori di protezione introdotti dalla Società italiana di pediatria, sarebbero 40.000 casi l'anno.
Tutto ciò comporta dei costi sanitari notevolissimi, anche perché la malattia ha spesso esiti invalidanti: sappiamo che, in realtà, i danni cerebrali sono spesso irreversibili perché la vasculite che procura il virus molto spesso nel bambino dà un esito invalidante permanente. Lo strumento valido ed efficace che ci permette di agire contro la varicella ci costa per ogni caso circa 180 euro, che per 25.000 casi l'anno equivalgono a circa 10 miliardi di vecchie lire, mentre l'investimento finanziario della campagna vaccinale è di gran lunga meno costoso.
Contestualmente, abbiamo intrapreso anche la vaccinazione antipneumococcica perché riteniamo che tale arma ci permetta di agire meglio ed efficacemente. Non ci sentiamo di dire al cittadino che avevamo il vaccino ma, per risparmiare, non abbiamo vaccinato suo figlio. Pensiamo che una tale scelta sarebbe immorale.
Abbiamo definito il nuovo calendario vaccinale per la nostra regione con la collaborazione del presidente regionale della FIMP e dell'altro sindacato dei pediatri, con la componente universitaria e con il presidente regionale della società italiana di igiene. Riteniamo che sia il calendario ufficiale più attuale e coerente con le politiche regionali e nazionali, e che non comporti costi ingiustificati. Abbiamo posto il raggiungimento delle coperture vaccinali come un obbligo all'interno dei contratti dei direttori generali delle aziende USL, perché non è vero che il risparmio nel campo dei vaccini sia utile per il sistema. Lo sviluppo di questo programma vaccinale costa alla nostra regione circa 30 miliardi l'anno e, se a questi aggiungessimo altri 10 miliardi di incentivi per i medici dei servizi vaccinali, per i pediatri di famiglia e per i medici di medicina generale, il costo complessivo raggiunge i 40 miliardi, che per la nostra regione significa circa 4 euro a testa per abitante.
La nostra spesa farmaceutica per il 2002 è stata di circa 2.200 miliardi, pari a 185 euro pro capite. Una qualunque confezione di antibiotico costa molto più dell'intervento che andremo a fare per la protezione dei nostri figli. Allora, qual è il vantaggio per la spesa farmaceutica quando questo costituisce soltanto lo 0,2 per cento della spesa globale della regione? Certo, i dipartimenti di prevenzione hanno una spesa senza vantaggi diretti. Infatti, i vantaggi di un'efficace programma vaccinale non ricadono mai all'interno del dipartimento di prevenzione, perché il risparmio sulla spesa farmaceutica e sui ricoveri ospedalieri assieme ai guadagni sociali per il risparmio delle mancate perdite delle giornate lavorative vanno su altri comparti: tuttavia, questa è l'azione primaria per realizzare la prevenzione.
Quindi, perseguiremo il nostro programma vaccinale universale dell'infanzia per la varicella perché non è carente come in alcune regioni. Infatti, prevede l'inizio della vaccinazione dei bambini al quindicesimo mese di età insieme al morbillo e, contestualmente, la vaccinazione dei dodicenni che non hanno contratto la malattia, sviluppando un programma simile a quello attuato per l'epatite B, che ha permesso la saldatura delle coorti all'undicesimo anno di età dalla vaccinazione. Fra l'altro, questo modello è vincente - infatti, è coerente con quelli elaborati dall'Istituto superiore di sanità -, raggiungendo la copertura vaccinale all'80 per cento fin dal primo anno dall'inizio della vaccinazione e permettendo di controllare la malattia già nel corso del secondo anno: questo è lo scopo del nostro programma.
Per quanto riguarda l'organizzazione, abbiamo una rete di reparti di malattie
infettive e alcune divisioni di malattie infettive pediatriche: la professoressa Titone è direttrice dell'Istituto di malattie infettive pediatriche dell'università di Palermo, poi vi sono un'unità operativa complessa al policlinico di Catania e una divisione di malattie infettive pediatriche nella città di Ragusa.
Disponiamo inoltre di una rete di reparti di malattie infettive. Abbiamo sempre lottato contro la cultura prevalente in alcune regioni secondo la quale le malattie infettive non dovevano avere una propria dignità e dovevano esserci soltanto alcune stanze situate alla fine di qualche reparto di medicina perché questo era più che sufficiente. La querelle contro questo tipo di cultura dura da circa 15 anni. Riteniamo che le malattie infettive debbano avere una propria dignità, sia per gli adulti che per i bambini. Dove c'è soltanto il reparto per adulti abbiamo previsto la realizzazione di un'unità operativa, ancorché semplice, dedicata ai bambini.
Avete chiesto i dati relativi all'ospedalizzazione. Forse il professor Tancredi potrebbe essere più specifico di me. Per quanto concerne il dato relativo al ricovero per malattie infettive, bisogna dire che l'attuale sistema, così com'è organizzato, ha delle grandi lacune. Infatti, le malattie infettive vengono ricomprese all'interno di un macroaggregato, l'MDC18, ossia malattie infettive parassitarie e sistemiche. Ma in realtà questo dato non è sufficiente per comprendere tutte le malattie infettive. La professoressa Titone mi ha fornito l'elenco degli altri DRG che interessano le malattie infettive e che vanno dal DRG18 sino al DRG423 perché le varie malattie infettive o virali sono distribuite all'interno delle patologie d'organo. Ciò di fatto rende assolutamente difficile avere il reale monitoraggio di queste malattie.
Comunque, riferendoci alla classe 18, in Sicilia nel 2001 - non ho portato i dati relativi al 2002 perché avevamo alcune incertezze e quindi abbiamo preferito presentare un dato certo e verificato con il Ministero, oltre che con le aziende sanitarie - abbiamo avuto 9.500 ricoveri che hanno impegnato 60.000 giornate di degenza. Questo rapporto è buono, perché su 10.000 ricoveri ordinari abbiamo 6,6 giornate di degenza, quindi siamo vicini ad una degenza media ancora accettabile. Vi faccio presente che le malattie infettive sono le uniche discipline che non devono rispondere all'indicatore standard della degenza media.
ANTONIO ROTONDO. Il dato si riferisce alle malattie infettive generali o pediatriche?
SAVERIO CIRIMINNA, Direttore dell'ufficio speciale per la programmazione sanitaria della regione Sicilia. Alle malattie infettive generali. Relativamente a quelle pediatriche vi darò qualche altro dato, anche se è molto difficile essere precisi. Abbiamo preso in considerazione il dato relativo al DRG422. Voi sapete bene che i DRG sono relativi ai maggiori o ai minori di 18 anni. Quindi, già questo non ci permette di valutare la possibilità di avere un raggruppamento dell'età classica pediatrica, che è relativa all'età compresa tra 0 e 14 anni, a meno che non si entri direttamente all'interno del DRG per verificare le singole SDO. Quindi c'è una fascia di soggetti che non appartengono all'età pediatrica.
Il DRG422 riguarda le malattie di origine virale e parassitaria.
FRANCO TANCREDI, Direttore generale dell'Agenzia sanitaria della regione Campania. Mi permetto di interrompere per chiarire una questione. In effetti, c'è una discrepanza tra gli accordi sindacali e gli aspetti giuridici. L'Italia ha adottato i DRG18 perché ha firmato una convenzione per cui l'età pediatrica è compresa tra 0 e 18 anni. Poi per motivi sindacali si può parlare di età pediatrica come fascia tra 0 e 14 o 0 e 6 anni, ma per la convenzione è 0-18, e su questo non c'è alcun dubbio. Poi, vige anche una vecchissima legge che permette ai reparti di pediatria di ricoverare fino a 14 anni, ma i fatti sono una cosa e le convinzioni un'altra.
PRESIDENTE. Purtroppo il tempo a disposizione della Commissione è limitato. Pertanto, per quanto riguarda i dati tecnici, vi prego di lasciarli agli atti. È importante comunque constatare che indubbiamente, da tutto ciò che abbiamo sentito, risalta un aspetto fondamentale: deve essere perseguita una cultura del reparto ospedaliero specifico per la malattia infettiva pediatrica. Non possono certo essere adibite a tale scopo solo due stanze ricavate in fondo a un corridoio! Ci deve essere una maggiore dignità per i medici e, soprattutto, per il paziente bambino e per la sua famiglia, che hanno bisogno di certezze. Credo che questo sia un risultato da prendere sociologicamente in considerazione. Non sono un medico e questo è l'aspetto con il quale ho impattato maggiormente. La sento come un'esigenza morale.
Vi ringrazio moltissimo perché questi dati ci saranno utili per redigere il nostro atto di indirizzo, che, tra le altre cose, confermerà quanto ho espresso poc'anzi.
SAVERIO CIRIMINNA, Direttore dell'ufficio speciale per la programmazione sanitaria della regione Sicilia. Nel settore sanitario molte scelte non sono economiche. Bisognerebbe farlo presente a qualche ministro e ai direttori, signor presidente.
PRESIDENTE. Lo so. Penso che stiamo andando verso una cultura mediana. Per anni abbiamo avuto una cultura «spendacciona», poi siamo incappati in una cultura «taccagna», adesso dobbiamo privilegiare una cultura mediana, che faccia salvi i principi sociali e anche il rispetto delle convenzioni internazionali che abbiamo sottoscritto.
ANTONIO ROTONDO. Mi sfugge un passaggio e le chiedo se lo può chiarire meglio. Mi pare che le convenzioni internazionali prevedano interventi economici per le vaccinazioni svolte nell'ambulatorio del pediatra di base. Vorrei capire se nella regione Sicilia è stato adottato un progetto ad hoc secondo il quale è prevista una maggiore incentivazione per quanto riguarda le vaccinazioni svolte dai pediatri di base, oppure se avete operato un richiamo alla convenzione internazionale.
SAVERIO CIRIMINNA, Direttore dell'ufficio speciale per la programmazione sanitaria della regione Sicilia. I nostri pediatri hanno rifiutato di vaccinare i bambini nei loro ambulatori per motivi che riguardano la corretta catena del freddo e, in secondo luogo, per aspetti medico-legali.
Abbiamo fornito ai pediatri due tipi di incentivi: il primo sulla copertura vaccinale all'interno delle proprie coorti (ad esempio se hanno una coorte tra 0 e 24 mesi, deve aver raggiunto l'80 per cento dei soggetti vaccinati al 90 per cento); il secondo incentivo riguarda la copertura complessiva raggiunta nell'ambito dei singoli distretti. Ciascuno dei pediatri che hanno partecipato al programma del morbillo ha ricevuto circa quattro milioni lordi di vecchie lire per l'attività di promozione, in ambito individuale e del target complessivo nell'ambito del distretto. Lo stesso hanno ricevuto i nostri operatori. Devo dire che hanno lavorato bene perché ci hanno presentato gli elenchi dei soggetti che avevano già avuto la malattia e che quindi non erano più suscettibili, dei soggetti vaccinati e dei soggetti suscettibili e da vaccinare.
PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Ciriminna e il professor Tancredi per la loro presenza e i colleghi per le loro domande. Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle 15.30.
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