XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 2955
Onorevoli Colleghe! Onorevoli Colleghi! - La
Costituzione repubblicana del 1948 ci ha consegnato una grande
idea della democrazia, ispirata a quei valori di libertà, di
uguaglianza, di giustizia che, in Italia, affondano le loro
radici nella lotta antifascista e nella Resistenza e si
ispirano ai principi universalistici fondativi della
democrazia moderna. E' una democrazia fondata sul primato del
potere legislativo del Parlamento e strutturata secondo una
netta divisione e un sapiente equilibrio dei poteri dello
Stato. Nel quadro garantito dalla Costituzione repubblicana,
le lotte democratiche di massa del dopoguerra hanno potuto
sviluppare positivamente le promesse di libertà, uguaglianza,
giustizia così nitidamente espresse dai princìpi del 1948,
colmando, in maniera spesso significativa, la distanza che
sempre esiste tra costituzione formale e costituzione
materiale. La legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) è
in tal senso un esempio quanto mai emblematico e
significativo. Essa infatti ha avuto la forza di definire un
contesto di più compiuta cittadinanza per gli uomini e le
donne del lavoro dipendente, sottraendoli all'arbitrio
dell'impresa fino ad allora, nel nostro Paese, dominante in
forma pressoché monocratica. In particolare ha avuto questo
significato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il
quale afferma che non si può licenziare senza giusta causa,
cioè senza un argomentato motivo e con le prescritte procedure
tra le parti. Il che significa che il lavoratore ha la
possibilità - il potere - di dimostrare con le sue
organizzazioni, legge alla mano, davanti alla magistratura se
c'è o non c'è giusta causa, potendo essere automaticamente
reintegrato laddove il motivo del licenziamento non sussista.
La giusta causa nel licenziamento invera il fondamento
costituzionale del lavoro e attribuisce un più compiuto
statuto di cittadinanza a chi lavora, altrimenti ridotto a
variante dipendente dall'arbitrio dell'impresa, a inerte
accessorio del sistema produttivo.
Su un altro versante, la legge n. 194 del 1979
(interruzione volontaria della gravidanza) riconoscendo il
primato femminile in materia di procreazione e conferendo alle
donne il diritto alla responsabilità del proprio corpo, ha
introdotto nella giurisdizione il riconoscimento di
un'asimmetria tra donne e uomini sul versante dell'habeas
corpus. Sull'habeas corpus si fonda la cittadinanza
moderna ma alle donne è restato - e resta al fondo -
interdetto l'accesso a questa disponibilità di sé, in ragione
del peso intrinseco e soverchiante che la cultura patriarcale
continua ad avere nei rapporti sociali e nella
rappresentazione simbolica del mondo. Il controllo del corpo
femminile, della sessualità e della capacità procreativa delle
donne è infatti alla base di questo sistema. Il principio
dell'autodeterminazione femminile in materia di procreazione
costituisce quindi un passaggio importante, ancorché non
esaustivo, di una più compiuta e responsabile cittadinanza
delle donne, contribuisce a quel processo di civilizzazione
delle relazioni tra i due sessi che ha conosciuto un rinnovato
impulso proprio grazie alle lotte delle donne.
Ma è fin troppo chiaro che senza il quadro di riferimento
definito in maniera così fulminante e perentoria dell'articolo
3 della Costituzione, in quel principio di uguaglianza là
affermato, senza incertezze ma insieme capace di accogliere
positivamente le differenze - di sesso, di razza, di lingua,
di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e
sociali - che un universalismo astrattamente definito potrebbe
non vedere, ignorandone quindi ragioni, aspirazioni, bisogni
sia intrinseci sia specifici, senza un tale quadro, conquiste
e avanzamenti così importanti per la convivenza civile e per
la democrazia non vi sarebbero stati o sarebbero stati molto
più difficili da conseguire. La Costituzione, infatti,
stabilendo la natura e la qualità della democrazia, stabilisce
anche la legittimità degli strumenti validi per la sua piena
attuazione. Non a caso quindi nella Costituzione trovano
posto, come legittimi, veri e propri strumenti di democrazia,
il conflitto sociale, il dissenso e la battaglia politica. Il
principio rappresentativo inteso come principio di
rappresentazione di un equilibrio sociale sempre in
fieri, attraverso compromessi e negoziazioni sociali
continue, è stato alla base dello sviluppo e del
consolidamento della democrazia repubblicana in Italia.
A cinquantaquattro anni di distanza la consapevolezza
della grande ricchezza democratica racchiusa nella
Costituzione si è però molto appannata e rischia, se non si
attivano processi in controtendenza, di disperdersi
ulteriormente, con la conseguenza di guasti irreversibili nel
tessuto democratico del nostro Paese. Tra democrazia e
Costituzione c'è infatti un nesso indissolubile, che va
rigorosamente riaffermato e ad esso va richiamata la
responsabilità dei pubblici poteri e insieme quella di ogni
cittadino e cittadina. La Costituzione è la legge suprema, che
racchiude un nucleo di principi immodificabili alla base dei
diritti inviolabili della persona e delle regole della
democrazia partecipativa. Il Parlamento, sede di esercizio del
potere, e il Governo, che al Parlamento risponde, devono non
solo rispettare ma garantire e promuovere il primato della
Costituzione come perno e bussola della democrazia. L'idea
della democrazia maggioritaria e il primato della
governabilità, affermatisi con virulenza negli anni novanta,
hanno via via depotenziato il valore del dettato
costituzionale, mentre si è andata affermando un'idea diversa
della democrazia, che si vorrebbe, a parole, più democratica e
"vera" ma che contiene in sé il rischio di un'involuzione
antidemocratica e autoritaria. Si tratta della cosiddetta
"democrazia di investitura", non più mediata, si sostiene,
dalle oligarchie partitocratriche e dai trasformismi
parlamentari, non più impacciata - si invoca - dai
contro-poteri burocratici o dall'autonomia di "ordini" non
elettivi come la magistratura, non più inceppata dai lacci e
lacciuoli del confronto con le parti sociali. Il
costituzionalismo inteso come teoria della limitazione del
potere (a partire da quello democraticamente legittimato dal
voto popolare), dell'equilibrio tra i poteri, e quindi della
democrazia strettamente collocata in questo ambito di
realizzazione, è messo oggi in discussione. Si va realizzando
una pericolosa dissociazione tra democrazia e
costituzionalismo e la democrazia tende a essere interpretata
in chiave plebiscitaria, ridotta all'espressione della volontà
popolare tramite voto, con un restringimento di fatto della
sua sede di realizzazione nelle mani della maggioranza
parlamentare e del governo che, in questo modo, vengono
proiettati in una zona di comando sottratta ai vincoli
previsti dalla Costituzione.
Non c'è adeguata comprensione di quello che sta avvenendo,
dei processi sotterranei e dei fatti evidenti che minano alle
radici lo spirito della Costituzione, banalizzandone i
princìpi ispiratori ad accorgimenti del tutto ininfluenti o
variamente e diversamente interpretabili a seconda dei casi.
La complessa intelaiatura istituzionale che la Costituzione
pone a base della legittimità dei poteri e dell'esercizio del
potere è stata via via depotenziata, negli anni che abbiamo
alle spalle, in nome del principio di governabilità come bene
assoluto e dell'astratta sovranità popolare, cioè di un popolo
indistinto e reso anonimo dall'unico potere che gli compete,
quello di esprimere una preferenza nel segreto dell'urna. Il
principio rappresentativo, inteso come principio di
rappresentazione di un equilibrio sociale in fieri, da
realizzare attraverso il gioco politico delle forze e dei
soggetti interessati, da valorizzare, rendere visibile, fare
agire come principio di democrazia e strumento di controllo
democratico del popolo sovrano attraverso le sue
rappresentanze, si è trasformato in un principio di
legittimazione assoluta che rischia di fare carta straccia
dell'equilibrio costituzionale complessivo.
Il duello tra magistratura e ceto politico sta
emblematicamente ad indicare quanto intorno alla giustizia si
sia consumato il passaggio dalla forma costituzionale della
democrazia italiana a una sua forma plebiscitaria, in cui il
principio della sovranità popolare in questo modo inteso è
sganciato dal principio di legalità ed anzi giocato contro di
esso.
La sospensione in occasione di manifestazioni pubbliche (a
Napoli, il 17 marzo del 2001, a Genova, nel luglio dello
stesso anno) delle garanzie costituzionali, fino alla messa in
mora di quel principio fondativo della democrazia che è
l'habeas corpus, così puntigliosamente affermato e
tutelato dalla nostra Costituzione, deve rappresentare un vero
e proprio campanello di allarme, essendo emerso in occasioni
come queste il conflitto tra i poteri dello Stato, il
tentativo del potere politico di creare un clima di
condizionamento e autolimitazione del potere giudiziario e di
considerare le forze di polizia come strumento di ordine a
servizio del potere politico e non come istituzione dello
Stato al servizio di tutti i cittadini.
Il "primato della politica" sulla giurisdizione nel
governo della società e la rivendicazione di un privilegio dei
politici rispetto alla legalità costituzionale rischiano di
aprire un solco incolmabile tra la Costituzione e la vicenda
politico-istituzionale del nostro Paese con gravissimo
detrimento della democrazia. L'idea che la Costituzione vada
difesa contro un malinteso primato della politica ha
accompagnato il dibattito sull'elaborazione delle Carte fin da
quella del 1789 francese. E alla Commissione della
Costituzione Giuseppe Dossetti proponeva un articolo - poi non
accolto - che recitava così: "La resistenza, individuale e
collettiva, agli atti dei poteri pubblici che violino le
libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente
Costituzione, è diritto-dovere di ogni cittadino". Analogo è
il contenuto dell'articolo 21 della Costituzione francese del
19 aprile 1946.
L'articolo 54 già prevede meccanismi che obbligano alla
salvaguardia e alla difesa dello spirito e dei princìpi
fondamentali della Costituzione: nell'obbligo fatto ai
cittadini di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la
Costituzione e le leggi; nel dovere in tal senso richiesto a
tutti/e coloro cui sono affidate funzioni pubbliche e nel
giuramento previsto nei casi stabiliti dalla legge.
L'inserimento nella Costituzione di un nuovo comma
all'articolo 54, in analogia a quanto stabilito dall'articolo
20, comma 4, della Costituzione della Repubblica Federale di
Germania, che riconosca il diritto-dovere di ciascun cittadino
e cittadina a resistere e a disobbedire ai pubblici poteri
quando violino la Costituzione, ha il chiaro intento di
richiamare l'attenzione sulla posta in gioco, di
responsabilizzare donne e uomini con atti concreti di
resistenza e disobbedienza civile nel caso di violazioni, di
restituire alla sovranità popolare il suo ancoraggio
democratico che risiede appunto in primis
nell'ottemperanza agli obblighi costituzionali.