XIV LEGISLATURA
PROGETTO DI LEGGE - N. 2201
Onorevoli Colleghi! - La caduta delle ideologie,
l'inveramento di un'egemonia delle categorie economiche
significa dunque "fine della politica"? Ancora: qual è lo
scopo della politica oggi, deprivata della sua proiezione
teleologica, indissolubilmente connessa alla dimensione
ideologica?
L'ideologia, infatti, forniva una ragione alla politica,
gettando su ogni azione compiuta in suo nome un cono di luce
che ne caratterizzava l'intero disegno, ricomponendo nella
teleologia della società rinnovata o rivoluzionata la ragione
ultima dell'agire politico. La consumazione del fine
ideologico rischia dunque di lasciare orfana di senso la
politica.
Le equazioni correnti tra tecnicalità e politica, la
riduzione, cioè, di quest'ultima a somma di saperi tecnici e
perciò stesso neutri e dunque fungibili a qualsiasi esperienza
di governo, rappresenta l'estremo esito della mancanza di
ancoraggio ideologico e della riduzione della ragione di ogni
agire politico a pura autoreferenzialità. A ben vedere, però,
non dovrebbe essere così: anzi la consumazione di ogni
sovrastruttura ideologica consegna la politica alla funzione
che le è più connaturata, quella, cioè, della ricerca di
risposte plausibili ai bisogni dell'uomo, considerato sia
nella sua dimensione di singolo che nella sua dimensione
sociale.
Dunque il nuovo tempo ridisegna l'assoluta politicità dei
bisogni umani. La questione, semmai, è nel discernimento tra
bisogni autentici e desideri effimeri, prodotti dall'industria
del consumo. L'affastellamento degli eventi, la caduta
alluvionale di episodi e frammenti di realtà spesso
contraddittori fra loro, l'implosione dei sistemi, dalle
ermeneutiche, dei valori del passato e la loro sostituzione
con situazioni nuove dal segno ancora indecifrabile sono tutti
elementi che concorrono a creare un effetto di straniamento e
di alterazione della percezione della storia, che certamente
non aiutano a rendere più chiara la gerarchia dei bisogni
umani e a riallocare la politica nel binario della
modernità.
E' chiaro, tuttavia, che non saranno certamente le lenti
deformanti degli ideologismi dei secoli scorsi a consentire
una più nitida lettura dei nostri bisogni. Un ideologismo che
ci consegnava una visione dell'uomo a due dimensioni soltanto,
quella economicistica e quella giuridicistica, per governarne
l'agire in un consorzio sociale in cui era del tutto bandita
la dimensione della felicità, intesa come soddisfazione dei
bisogni materiali, ma anche spirituali, come il bisogno
d'amore.
Del resto come avrebbe potuto trovare cittadinanza
all'interno di una cultura politica volta a sublimare i
bisogni insoddisfatti, un carica vitale, eversiva e
insofferente ad ogni tentativo di razionalizzazione entro
governabili categorie giuridico-economiche, come l'amore,
pulsione "rivoluzionaria" per definizione? La felicità,
dunque, sfugge alle categorie della vecchia politica perché
essa ha lo sguardo rivolto al passato, ad un conflitto tra
codici e procedure ideologiche incapaci oggi di interpretare
la realtà e i bisogni dell'uomo alla luce anche di una
modernità che si costruisce sulla nuova scienza e sulle nuove
tecnologie.
Un nuovo Marx che nascesse oggi, infatti, non potrebbe
scrivere il suo Capitale senza tener conto delle
scoperte della genetica, della psicanalisi, della fisica,
della cibernetica, con gli influssi destabilizzanti
sull'universo arcaico dell'operaismo della prima rivoluzione
industriale. Né potrebbe trascurare la valutazione degli esiti
funesti del marxismo e la sua definitiva estinzione.
Il nuovo tempo, dunque, assegna compiti più rischiosi alla
politica, fuori dai rassicuranti e usati binari
dell'ideologismo: favorire il compimento della rivoluzione che
le nuove tecnologie, la nuova organizzazione del lavoro e del
tempo libero, la nuova forma della distribuzione di ricchezza
hanno avviato, per offrire le risposte più soddisfacenti ai
bisogni dell'uomo che hanno al fondo un'unica impellente e
ineludibile domanda: l'ottenimento della massima felicità
possibile nella società complessa che la modernità allestisce
per ognuno di noi.
Se la felicità è il movente della politica, deve allora
potersi coniugare con una dimensione pubblica, in cui il
"privato", luogo necessario per la ricerca e l'affermazione
del bonheur personnel possa interagire con il
"collettivo". Perché se "il personale è politico" come, con
forte suggestione, affermavano i contestatori del sessantotto
promuovendo finalmente il privato al rango di urgenza della
politica, è vero pure che la vocazione della politica si versa
per sua stessa natura nello spazio pubblico.
Uno spazio descritto da Hannah Arendt come unica
dimensione plausibile della libertà, intesa come "diritto di
essere partecipi del governo". Per la Arendt addirittura
politico e privato sono collocati in posizioni antitetiche in
un immaginario asse cartesiano dei valori. Ma, a ben vedere,
l'incitamento che la Arendt rivolge ad ogni uomo è a riversare
nella sfera pubblica la tensione e l'impegno capitalizzati
nella dimensione privata. Rinunciare all'impegno
significherebbe essere "privati" di qualcosa: perdere la
politica e la sua attitudine a farsi strumento di
partecipazione al destino collettivo.
L'antitesi arendtiana pubblico/privato se c'è, riguarda il
ripiegamento sulle piccole felicità domestiche inteso come
appagamento del "poco" e come rinuncia all'impegno nobile
della politica. La politica, allora, è lo strumento per la
costruzione della storia collettiva dei popoli che non può non
avere come fine la felicità. Dunque la politica, in una
versione attualizzata dell'Etica Nicomachea di
Aristotele, in quanto attività umana che tende ad un fine,
oggi recupera la sua dimensione mettendo al centro del suo
agire la felicità individuale che prende corpo e consistenza
non come gamma infinita di risposte possibili alla crescita
esponenziale dei desideri.
Sarebbe questa una visione riduzionista che persino il
nichilismo nicciano avrebbe rifiutato ricorrendo alla parabola
della "vogliuzza" ("una vogliuzza per il giorno, un vogliuzza
per la notte, ferma restando la salute. Noi abbiamo inventato
la felicità, dicono i piccoli uomini e strizzano l'occhio").
Ma la felicità individuale si afferma compiutamente solo
all'interno del consorzio umano: non si può godere di una
felicità piena in una dimensione di estraneità dal sistema
delle relazioni interpersonali. La felicità individuale,
pertanto, ha bisogno di situarsi in un contesto umano il più
possibile felice, condizione stessa della sua affermazione.
E se la politica non può di per sé generare felicità (al
più predisporre le condizioni affinché la felicità collettiva
e dunque individuale possa più agevolmente annidarsi,
rimuovendo gli ostacoli, assicurando la godibilità della
natura, garantendo i diritti fondamentali dell'uomo, la sua
sicurezza, l'esigenza di estetica, di salute, di benessere di
cui ognuno è portatore), la felicità come diritto di ognuno
alla ricerca del proprio eudamon, deve restare l'utopia
di cui la politica, scarnificata dall'ideologismo dei secoli
passati, andrà a nutrirsi. Utopia come modello ideale cui
tendere, misura dell'azione, orma su cui condurre il passo
della nostra storia.
La stagione delle Costituzioni illuministe
L'inserzione della felicità tra i diritti individuali
codificati in un corpus costituzionale ha una singolare
genesi che merita di essere rammentata. Come è largamente
risaputo, risale all'intuizione di Jefferson il celebre
riconoscimento del diritto di tutti gli uomini (dunque non
solo dei "cittadini" di "quel" particolare Stato) alla "vita,
alla libertà e al perseguimento della felicità", che fa
splendida mostra di sé nella "Dichiarazione dei diritti"
americana del 1776. Ciò che è meno noto, e che è interessante
raccontare, è che quel valore orientò generosamente le opere
di codificazione settecentesche in coppia con un altro
principio.
Gli ordinamenti giuridici del mondo moderno, infatti, a
partire dalla seconda metà del settecento si misurarono
consuetudinariamente con la nozione di "bene comune" e di
"felicità", quali approdi teleologici dell'organizzazione
politica. La diade "bene comune" e "felicità pubblica" ha,
anzi, rappresentato un elemento caratterizzante il
costituzionalismo del XVIII secolo, inteso come codificazione
di sistemi di regole e percorsi organizzativi della politica
discendenti dalle dichiarazioni dei diritti, (o Carte dei
diritti) figli della cultura illuminista. Alle Carte dei
diritti veniva riconosciuta una anteriorità logica ed una
primazia morale sulle costituzioni, chiamate, invece, ad
offrire una forma concreta e storicamente determinata
all'organizzazione del potere. Se la "felicità" secondo le
costituzioni illuministe è, dunque, lo scopo dell'umanità, il
"bene comune" rappresenta l'insieme delle condizioni e
garanzie predisposte alla sua realizzazione.
L'impostazione lavorista della Costituzione italiana
Non si rintraccia un solo cenno dell'aspirazione
illuministica alla felicità nella Costituzione italiana.
Nemmeno delle sue declinazioni più soft, quali il
benessere o la qualità della vita. Non nella Costituzione e
neppure nel dibattito che la precedette e la accompagnò
nell'Assemblea costituente e nella sterminata pubblicistica
dell'epoca.
Non v'è felicità nella Costituzione vigente:
l'incipit, perentorio e austero, è una dichiarazione
programmatica che impregnerà di sé l'intero impianto
insistendo sulla diade "democrazia e lavoro". Articolo 1:
"L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro".
In verità, se il carattere "democratico" della Repubblica si
svolge già in territorio giuridico, per essere poi completato
dall'articolo 5 (il riferimento dello Stato democratico è alla
Repubblica parlamentare, una e indivisibile, che si articola
nelle autonomie locali), più difficile appare il conferimento
di una rilevanza giuridica all'inciso "fondata sul lavoro".
Definizione pregna di sapore politico, sociale, storico,
economico, perfino. Ma non giuridico.
Spiegherà l'autore della formula, approvata poi
dall'Assemblea, un giovanotto di nome Amintore Fanfani:
"dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude
che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà
ereditaria, sulla fatica altrui".
Il principio trova suo coerente completamento con
l'articolo 4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il
diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano
effettivo questo diritto". Più incalzante ancora è il secondo
comma che ripropone la dimensione del lavoro vista, però, dal
lato del dovere: "Ogni cittadino ha il dovere di svolgere,
secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale
o spirituale della società". E' ancora Fanfani, attivissimo
nell'impegno di proposta in tema di rapporti economici, ad
illustrare la portata dell'inserzione in capo ai princìpi
fondamentali della norma programmatico-teleologica sul
diritto-dovere del lavoro: "(...) affermazione del dovere di
ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione dei
talenti naturali, sicchè la massima espansione di questa
comunità potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà
realizzato (...) il massimo contributo alla prosperità di
tutti". Gli articoli 1 e 4 non sono che gli esiti testuali di
una complessa mediazione tra posizioni che, dal lato della
cultura marxista (che non era precisamente irrilevante nella
Costituente), proponeva di assumere come unità fondamentale
dell'ordinamento democratico il "lavoratore" piuttosto che il
cittadino, (si vedano gli emendamenti Amendola, Laconi, Iotti,
Grieco e poi Basso, Nenni, Togliatti "L'Italia è una
Repubblica democratica di lavoratori").
Gli emendamenti comunisti furono respinti con una
motivazione spiegata dall'onorevole Gronchi, a nome della DC,
e relativa al sapore "classista" del termine lavoratore. Ma
restò l'opzione Fanfani: "Repubblica fondata sul lavoro". Una
sola voce, in verità, si levò a sostegno di una visione più
incline a raccogliere echi di suggestioni liberaldemocratiche:
un emendamento presentato da La Malfa e sottoscritto tra gli
altri da Gaetano Martino, Codignola e Silone, proponeva la più
moderna formula "L'Italia è una Repubblica democratica fondata
sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro". Ma fu
respinta. Negli altri emendamenti, respinti, ritirati,
decaduti od assorbiti, non v'è traccia alcuna di riferimenti
esulanti dal concetto di lavoro o di giustizia sociale quali
ragioni fondanti della Repubblica (Cortese: "ha per fondamento
il lavoro"; Fabbri: "alla parola "il lavoro" sostituire "la
giustizia sociale""; Russo Perez: "la Repubblica ha per
fondamento essenziale il lavoro e... i lavoratori del braccio
e della mente" eccetera.
A ben vedere, però, l'articolo 2, che nel progetto
originario recava il numero 6, avrebbe potuto opportunamente
integrare la norma-principio contenuta nell'incipit
delle nostra Costituzione, laddove soprattutto chiama in
causa i "diritti inviolabili dell'uomo", riconoscendoli e
garantendoli uti singuli e uti collettivi.
Ma, a parte la pronta evocazione del sinallagma
"adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà" che si
rintraccia nella seconda parte dell'articolo, a rammentare
ruvidamente che la possibilità di fruizione dei diritti è
sempre mazzinianamente correlata all'assolvimento dei doveri,
l'area stessa dei diritti è definita anche questa volta da un
concetto metagiuridico.
Il lungo dibattito nella I Sottocommissione aveva portato
all'individuazione di una vasta area di diritti
"fondamentali", solo in parte riconosciuti ed espressamente
definiti dai successivi articoli della Costituzione ma è
chiaro che nell'espressione "diritti inviolabili" non possono
non ricadere quelli che vengono accolti dalla tradizione
giuridica come "diritti naturali", dal diritto alla vita, al
diritto all'onore, al diritto di formarsi una famiglia,
eccetera.
La facies dei doveri naturali viene poi definita per
contrasto: il dovere di rispettare la vita, il dovere di
onorare l'altrui, eccetera.
Credo, tuttavia, che riassuma con molta efficacia
l'intento che animava la I Sottocommissione nel concordare un
progetto di articolo che non ebbe poi grande discussione in
Assemblea, un ordine del giorno Dossetti che, in capo alla
individuazione dei caratteri che il nuovo articolo sui diritti
inviolabili dovrà avere pone, prima ancora del principio
antitotalitario, quello anti-individualistico.
Così, infatti, recita l'ordine del giorno Dossetti: "La
Sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni
sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell'uomo,
esclude quella che si ispiri ad una visione soltanto
individualistica". E come poteva trovare asilo all'interno di
un impianto così nettamente vocato alla declinazione sociale
dell'uomo, quel bene così tremendamente immateriale, così
indeflettibilmente soggettivo, così irrimediabilmente
refrattario a misurazioni "oggettive", così dichiaratamente
individualista (anche se "naturalmente" alimentato da una
dimensione "sociale") che anche ai tempi della Costituente si
chiamava felicità?
No che non poteva, in quella stagione difficile, in cui il
benessere andava consumato in morigerato silenzio, al riparo
dagli occhi dell'altro, per non offendere i troppi che si
agitavano nell'ordinario mal-essere, perché anche una risata
troppo fragorosa poteva apparire blasfema.
Una nuova ispirazione
Il fine della politica: la felicità. Ma anche il principio
ispiratore dell'intero impianto costituzionale che potrà
accettare come preambolo l'affermazione jeffersoniana
dichiarativa dei diritti che l'uomo riceve per natura: la
vita, la libertà e la ricerca della felicità. In un'accezione
moderna il riferimento alla felicità può agevolmente tradursi
nell'affermazione del benessere, inteso come "salute globale"
dell'individuo, come insieme, cioè di condizioni materiali e
psicologiche, di situazioni concrete e di volizioni dello
spirito, che, secondo la peculiare sensibilità e i particolari
bisogni di ognuno, e all'interno di un contesto sociale
orientato verso gli stessi obiettivi, realizzi il più alto e
duraturo stato di felicità possibile.
Porre in capo alla Costituzione tale principio, capovolge
la prospettiva valoriale su cui è costruito l'ordinamento,
provocando un ribaltamento etico che però non modifica
assolutamente la gerarchia né la struttura delle
norme-principio, ma fornisce una nuova luce al titolo I,
togliendo al diritto al lavoro l'incomodo di caratterizzare,
con tutta l'enfasi sacrificale di cui l'articolo 1 è
generosamente portatore, l'intero assetto della nostra
Costituzione. Essa sarà così informata al principio
post-ideologico del diritto individuale alla ricerca del
benessere (nel perimetro, s'intende, assegnato ad ogni ricerca
umana dalle democrazie liberali, con un limite precisamente
segnato nel diritto dell'altro) e non in quello, ormai
superato dalla coscienza popolare, del sacrificio come fine
ultimo dell'agire individuale e collettivo.