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CAMERA DEI DEPUTATI
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N. 2346 |
austriaco Konrad Lorenz (2). Egli dette vita a una scuola, quella scandinava, che è tutt'oggi la più titolata, insieme a quella tedesca e a quella anglosassone, nella ricerca «sul terrorismo psicologico
nei luoghi di lavoro». Nel corso dell'ultimo scorcio di scuola, l'interesse verso tale fenomeno ha conosciuto un notevole impulso tanto che oggi, anche nel nostro Paese, si inizia ad attribuire a questa particolare forma di «stress postraumatico» una certa rilevanza nel campo della psicologia del lavoro e dell'organizzazione aziendale. A partire dagli studi di Leymann numerose scuole sono fiorite nel mondo, spesso di orientamento diverso - ora più attente agli aspetti medici del fenomeno, ora di ispirazione più marcatamente sociologica - e in alcuni casi al termine mobbing sono state preferite altre terminologie (soprattutto bullyism at work, ma anche harassment, horizontal violence). Tuttavia le caratteristiche di fondo individuate da Leymann hanno costituito l'humus necessario per tutte le elaborazioni successive.
Leymann definisce il mobbing come «l'esercizio del terrorismo psicologico nell'ambiente di lavoro attuato in maniera sistematica attraverso modalità comunicative ostili ed eticamente scorrette». A metterlo in pratica sono uno o più individui nei confronti di un soggetto che, spinto in una condizione di debolezza o emarginazione, è incapace di uscirne a causa della pressione psicologica continuativa esercitata nei suoi confronti. È importante sottolineare che Leymann non prende in considerazione i conflitti episodici o temporanei - inevitabili in un luogo di lavoro - ma soltanto quelli che si verificano con una frequenza minima (almeno una volta alla settimana) e per un periodo di tempo di almeno sei mesi. Le gravi conseguenze sulla salute psicologica del lavoratore «mobbizzato» sono proprio il risultato dell'elevata frequenza e del perdurare del mobbing. In altri termini, la definizione di Leymann non focalizza tanto l'attività persecutoria in sé quanto la sofferenza che essa procura; non prende in esame tanto cosa è stato fatto e in che modo quanto piuttosto il punto di rottura a partire dal quale un fattore di stress (stressor) sfocia in una situazione patologicamente rilevante sotto il profilo psichiatrico o psicosomatico. Il mobbing, secondo lo studioso tedesco, non è sinonimo di conflitto, né ne costituisce lo sviluppo inevitabile, ma soltanto uno dei suoi possibili esiti determinato dal verificarsi di particolari condizioni.
Non esiste, cioè, alcun rapporto diretto di causa-effetto tra il manifestarsi di un conflitto e l'insorgere del mobbing e solo l'individuazione di determinati dispositivi psicosociali rintracciabili all'interno dell'organizzazione del lavoro può fornire gli strumenti per la sua individuazione. Anche nel caso in cui il mobbing si sviluppi apparentemente al di fuori di un conflitto preesistente e si indirizzi nei confronti di un singolo soggetto «caratteriale» (la persona timida, complessata, ipersensibile o, viceversa, quella invadente, sicura di sé, egoriferita) è sempre nella carente organizzazione del lavoro che ne va rintracciata l'origine. Leymann è estremamente chiaro su questo punto: «Io indago su quel particolare tipo di stress mentale e psicosomatico nei posti di lavoro di cui studio le conseguenze, le condizioni patologiche e le malattie che esso genera. La definizione scientifica del termine "mobbing" si riferisce dunque all'interazione sociale attraverso la quale un individuo (raramente più d'uno) è attaccato da una o più persone (raramente più di quattro) con frequenza quasi quotidiana e per periodi di tempo molto lunghi». (Cfr. il Manuale LIPT, Leymann Inventory Of Psychological Terrorization = Inventario di Leymann del Terrorismo Psicologico). La precisazione di Leymann sul numero di soggetti generalmente coinvolti in situazioni di mobbing (poche unità) può aiutarci a comprendere meglio la differenza tra conflitto e mobbing. È rarissimo, se non impossibile, che un ambiente lavorativo sia esente da dinamiche conflittuali. Vi può essere conflitto - manifesto o inespresso - tra management e dipendenti (a causa dell'insufficiente retribuzione, dell'eccessivo, carico di lavoro, degli orari di servizio eccetera) così come tra gli stessi dipendenti (a causa dell'attribuzione ad altri di mansioni gratificanti a cui si riteneva di avere diritto, per la mancanza di disponibilità di un collega ad accettare una turnazione o,
a) il conflitto quotidiano. In tutti i posti di lavoro si sviluppano quotidianamente conflitti di vario genere che non rappresentano mobbing ma possono darvi luogo qualora non siano risolti;
b) il conflitto irrisolto assume carattere continuativo, e al suo interno si definiscono i ruoli di mobber (colui/colei/coloro che iniziano a perseguire sistematicamente uno o più soggetti) e di vittima (colui/colei/coloro che subiscono il terrore psicologico e vengono messi nella condizione di non potersi difendere). Inizia la fase del mobbing vero e proprio;
c) errori, abusi e illegalità da parte del management e dell'amministrazione del personale. Una volta che la situazione di mobbing si palesa la sua eco giunge di regola all'amministrazione del personale, la quale inizia le indagini sul caso, sabotate dal mobber attraverso maldicenze, voci infamanti e falsità sul conto della vittima. Parallelamente quest'ultima inizia ad accusare problemi di salute di carattere fisico e psichico ed è costretta ad assentarsi frequentemente per malesseri o visite mediche, manifestando un chiaro calo di rendimento. L'amministrazione del personale tenta di eliminare il problema eliminando la vittima, che viene fatta oggetto di provvedimenti disciplinari, declassamenti o trasferimenti, fino a porla in una situazione insostenibile che la induce a considerare come unica via di uscita le dimissioni;
d) l'eliminazione della vittima. Essa si dimette, chiede il prepensionamento o viene licenziata. Il mobbing può avere anche esisti più tragici, come il suicidio della vittima e il tentato omicidio o omicidio del mobber. D'altra parte non tutti i casi di mobbing giungono a quest'ultima fase.
Il mobber può celarsi tanto in un capo che in uno o più colleghi. La casistica disegna gli attori del mobbing con dei tratti caratteriali abbastanza precisi. Il capo dispotico è in genere un soggetto che soffre la propria inadeguatezza a ricoprire il ruolo rivestito, che non nutre alcuna stima verso se stesso e cerca di colmare l'insicurezza abusando del potere che gli è stato conferito. Dispone di limitate capacità comunicative e relazionali - è incapace, in sostanza, di gestire i rapporti umani - ha una scarsa professionalità e una forte mentalità vendicativa. In alcuni Paesi, come Italia e Stati Uniti, esso è il mobber per eccellenza. In altri, come nei Paesi scandinavi e in Germania, sono i colleghi a indossare più spesso i panni dell'aguzzino, dando vita a una sorta di mobber collettivo che si muove e colpisce secondo le modalità del branco. L'ambiente in cui più facilmente emergono i «cattivi colleghi» è caratterizzato in genere da:
omogeneità sociale, culturale, etnica, di genere o di età (un ufficio dove gli impiegati sono tutti maschi, tutti italiani, tutti giovani, tutti laureati eccetera);
legami personali fragili (grandi società con migliaia di dipendenti, occupazioni alienanti, rapporti umani spersonalizzati e finalizzati al lavoro e alla carriera);
«amoralità diffusa» (dipendenti corrotti, complicità dell'azienda in frodi e illeciti);
inefficienza lavorativa (scarsa produttivà o incompetenza).
La vittima del mobbing può corrispondere ad identikit di vario genere. Può essere il cosiddetto «primo della classe» - dalle elevate capacità professionali, dal particolare carisma o dalla grande esperienza lavorativa - che in quanto tale suscita le gelosie dei colleghi - o il soggetto deviante o «diverso» che si presta perfettamente a ricoprire il ruolo di capro espiatorio. Quest'ultima definizione non va intesa secondo l'accezione generica: il mobbing è un sistema rigoroso, governato da una sua precisa dinamica interna e basato sull'assegnazione di ruoli ben definiti. Sarebbe dunque estremamente errato individuare un capro espiatorio ricorrendo soltanto a un giudizio di valore. Esso, infatti, serve a distogliere l'attenzione dal gruppo, dalle sue deficienze organizzative e professionali, ne garantisce, in una parola, la sopravvivenza. Esso appartiene preferibilmente a una minoranza - etnica, politica (un sindacalista), di genere (un omosessuale) - può essere una persona facilmente ricattabile per la sua giovane età, per la sua mancanza di esperienza o per la precarietà della sua posizione lavorativa (part-time, contratto di collaborazione o lavoro interinale). Il capro espiatorio, dunque, non è soltanto il «mezzemaniche fantozziano», il dipendente caratterialmente debole e senza qualità, o il manager «incompreso» (sulle cui presunte persecuzioni sta fiorendo una letteratura giornalistica dai toni di imbarazzante faciloneria) ma innanzitutto una persona che rompe l'uniformità del gruppo, che viene colpito, cioè, perché la coesione cooperante si è istituzionalizzata in gruppo, dandosi regole e gerarchie sommerse nelle quali lui non rientra. Questa precisazione è estremamente importante perché ci riporta alle nuove, per certi versi «ciniche», modalità relazionali dell'organizzazione del lavoro postfordista, dove l'annullamento delle individualità è la precondizione necessaria per l'applicazione delle flat hierarchies, le «gerarchie piatte». Studiate per creare un ambiente di lavoro all'apparenza collaborativo e informale (e per eliminare i quadri intermedi in eccesso), esse sono in realtà uno strumento formidabile per azzerare il tasso di conflitto verso il management, indirizzandolo e internalizzandolo tra le fila del team. Flessibilità e multiskilling (3) appiattiscono le competenze personali e rendono ogni singolo dipendente interscambiabile e sostituibile alla stregua di una parte meccanica. Tali strategie, ben lungi dal «democratizzare» il luogo di lavoro, rendono quest'ultimo particolarmente esposto alla creazione di lobbie e contribuiscono alla costituzione di microcomunità ascrittive impermeabili a qualsiasi nuovo innesto. Inoltre, il senso di precarietà che caratterizza la condizione lavorativa, il timore di poter essere rimpiazzati in qualsiasi momento, rende diffidenti e ostili verso il prossimo, visto più come concorrente che come collega, e induce il gruppo ad attuare una strategia «conservativa» degli equilibri precari garantiti dallo status quo.
Le trasformazioni strutturali del lavoro nell'era della globalizzazione tecnologica e del mercato totale, la flessibilità, il downsizing, l'outsourcing, più in generale la struttura organizzativa stessa dell'impresa moderna producono mobbing in virtù del riallineamento definitivo dei tempi della «macchina-uomo» da quelli della «macchina-organizzazione». L'impresa globalizzata è, per certi versi, il brodo di coltura ideale per il mobbing: la competitività esasperata, lo sfruttamento selvaggio delle risorse umane, l'inarrestabile ricorso all'automazione informatizzata, sottopongono il lavoratore ad un tasso di stress mai conosciuto prima, esigono da lui un livello
di competenze sempre maggiore e una disponibilità personale sempre più incondizionata. Questo scenario è definito da McCarthy «capitalismo del caos», un fosco orizzonte segnato, oltre che dalla frenesia dei ritmi produttivi, da una profonda indefinitezza delle prospettive generali dello sviluppo umano: un magma ribollente che viene sussulto dalle nuove ideologie aziendali e scaricato brutalmente e scientificamente sulla forza lavoro del terziario avanzato. È l'esercizio di quella che lo studioso australiano chiama organising violence, violenza organizzativa, ossia «una violenza psicologica che organizza produttivamente le risorse umane dell'azienda per spremerle di più. Pur di venire incontro alle richieste dei mercati, le imprese odierne provocano dei "flussi di brutalità" che scorrono indisturbati sotto la superficie dell'organizzazione aziendale e generano una guerra di tutti contro tutti».
Il capro espiatorio può essere, infine, un soggetto non disponibile a compromessi e con forti motivazioni etiche. È il caso del whistleblower, del «delatore», di colui, cioè, che assecondando i propri princìpi morali, si rifiuta di osservare la regola dell'omertà ed esce allo scoperto per denunciare illegalità fino a quel momento tollerate o addirittura tutelate (appropriazioni indebite e corruzione, episodi di sessismo, intimidazioni e discriminazioni eccetera). Il whistleblower è una figura chiave del mobbing e può sembrare che ne costituisca in qualche modo il versante romantico e «letterario». A dispetto di ciò, in realtà, esso si sostanzia di una grandissima concretezza e dimora più nelle pagine della cronaca che in quelle dei romanzi. Il whistleblowing diviene una pratica ad alto rischio personale in quegli ambienti lavorativi fondati sullo spirito di corpo (come i reparti dell'esercito e della polizia, l'amministrazione delle carceri (4) e, in genere, tutti i settori «operativi», dove esso si intreccia con la sua forma più esasperata, il cameratismo e la sua perversione, il nonnismo) o laddove è maggiore la contiguità con il denaro e la sua erogazione illegale (l'articolato sistema della corruzione aziendale). Proprio perché la posta in gioco è alta, il delatore paga spesso un prezzo estremamente oneroso, in termini di salute psicofisica e di vita lavorativa.
Il mobbing assume talvolta la valenza di strategia aziendale pianificata. Ciò accade quando è necessario predisporre degli esuberi in determinati comparti, ristrutturare un settore obsoleto, incentivare in maniera selvaggia i ritmi produttivi. È quello che la letteratura in materia definisce bossing o mobbing verticale, esercitato cioè dalla direzione verso i dipendenti. Esso può essere indirizzato chirurgicamente (nei confronti di determinati soggetti che si vuole eliminare senza incontrare resistenze sindacali o dover dar conto al giudice del lavoro della mancanza di giusta causa) o praticato nei confronti di interi gruppi di lavoratori (come misura punitiva, per forzare una chiusura al ribasso di una trattativa con il personale, per eliminare articolazioni aziendali non più produttive). In Italia è giunta recentemente eco alle cronache di una tipica vicenda di bossing, quella riguardante la Palazzina LAF dell'Ilva di Taranto. Questa azienda, in origine di proprietà pubblica, è stata privatizzata nella seconda metà degli anni novanta e rilevata dal gruppo Riva, la cui dirigenza espresse subito la necessità di praticare 1000 esuberi tra il personale. Tali esuberi, dopo una lunga trattativa sindacale, furono riassorbiti in cambio di flessibilità, mobilità, limitazione del diritto di sciopero e, soprattutto, a condizione che la gran parte dei lavoratori con la qualifica di impiegato fossero declassati alla qualifica di operaio. Ad essi, in altri termini, fu proposta la novazione del rapporto di lavoro, il che prevedeva il loro licenziamento come impiegati e la riassunzione, a parità di stipendio, come operai. Coloro che rifiutavano il declassamento venivano mandati alla Palazzina LAF, antica sede degli uffici del laminatoio
a freddo, ora in disuso, dove erano costretti a trascorrere l'intera giornata lavorativa senza alcune mansioni da svolgere, sottoposti a un terribile stress psicologico fino ad essere ridotti all'umiliante condizione di residuo umano (5).
Un processo di mobbing, una volta giunto a termine, lascia sul terreno più di una vittima. Il lavoratore, in primo luogo, al quale nessuno potrà ripagare le sofferenze patite e i danni psicofisici riportati. I suoi colleghi, i quali pur non essendo intervenuti in soccorso della vittima - o avendo addirittura contribuito alla sua fine - hanno vissuto per mesi o anni un clima di tensione che ha alimentato ulteriormente diffidenze e conflitti. Infine l'azienda, la quale deve sopportare costi di vario tipo: economici (i lunghi periodi di malattia delle vittime e i rimborsi che sempre più spesso è costretta a pagare in sede giudiziaria); organizzativi (le varie misure di riassetto dei reparti teatro del mobbing); di riqualificazione del personale (in molti Paesi, specialmente quelli scandinavi, l'azienda è tenuta per legge a
predisporre piani di ristrutturazione, riqualificazione e formazione professionale in presenza di conflitti endemici) (6).
Elevatissimi sono anche i costi sociali (7). Già nel 1991, Toohey denunciava il
(7) Andrea Adams, una delle prime studiose dello stress lavorativo in Inghilterra, ha calcolato che gran parte dei 1.3 miliardi di sterline persi annualmente nel Regno Unito per assenteismo e turn over siano da attribuire al mobbing. Ogni anno si perdono 360 milioni di giornate lavorative per permessi malattia dovuti a persecuzioni psicologiche nei posti di lavoro. Negli USA il Bureau Of National Affairs ha stimato in 5-6 miliardi di dollari l'anno la perdita media di produttività causata dal mobbing. In Europa, infine, si spendono 11.000 miliardi l'anno per malattie correlate allo stress lavorativo. Alcune multinazionali sono già corse ai ripari, una volta verificato che i costi per mobbing minacciavano di divenire intollerabili per i bilanci aziendali. In Germania, la Volkswagen ha sottoscritto un accordo con il sindacato che prevede l'istituzione di un referente all'interno dell'Azienda al quale le vittime di mobbing possono fare riferimento. Attraverso tale figura, l'Azienda, una volta accertati i fatti, può disporre i provvedimenti del caso, che vanno dal trasferimento fino al licenziamento dell'autore del mobbing. (Cfr. Gilioli, Alessandro e Renato, Cattivi capi, cattivi colleghi, Mondadori 2000). Secondo una valutazione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, il costo annuo del mobbing per un'azienda di mille dipendenti si aggira intorno ai 700 milioni di lire. Su tale cifra incidono i costi per sostituire un lavoratore licenziato (inserzioni, selezioni e formazione), il costo delle liquidazioni che l'azienda deve pagare a chi si dimette, i risarcimenti che deve erogare in seguito alle azioni legali intraprese dai dipendenti mobbizzati, il calo di produttività generato dal mobbing. Per quanto riguarda il nostro paese non vi sono studi statistici abbastanza approfonditi per determinare con esattezza il numero reale delle vittime del mobbing. Secondo una ricerca del 1996-97 condotta dal European Foundation for the lmprovement of Living and Working Conditions (realizzata attraverso 15.986 interviste, di cui 1032 in Italia) il numero dei mobbizzati in Italia ammonterebbe a circa il 4 per cento della popolazione lavorativa (vale a dire 720.000 unità). Tale cifra, tuttavia, dovrebbe essere almeno raddoppiata, tenendo conto che la ricerca risale a circa 4 anni fa. Harald Ege, addirittura, ritiene che il numero reale dei lavoratori sottoposti a psicoterrore nel posto di lavoro sia di circa 3.000.000, tenendo conto anche del bacino del lavoro nero e sommerso. In generale, il numero delle vittime del mobbing a livello europeo è stimato in circa 12.000.000, pari all'8 per cento della popolazione attiva. Le percentuali maggiori sono quelle riscontrate in Gran Bretagna (16 per cento), Svezia (10 per cento), Francia e Finlandia (9 per cento), Irlanda e Germania (8 per cento).
circolo vizioso alimentato dal mobbing. I costi, infatti, sopportati dal sistema sanitario per fronteggiare i casi di malattia derivanti dai maltrattamenti psicologici di lavoratori crescono in misura esponenziale perché l'industria della salute focalizza il suo intervento sullo stato di malattia e non sulla necessità che esso sia evitato; invece di condurre ricerche nei luoghi di lavoro che producono la malattia, il medico si limita a diagnosticare uno generico stato di stress per il quale prescrive cure (farmacologiche o meno) tanto lunghe quanto costose e inefficaci. La maggior parte dei lavoratori fortemente abusati psicologicamente non è in grado tuttavia di continuare la propria attività senza alcuna tutela e tende a collocarsi prematuramente in pensione. In Svezia, già a partire dai primi anni novanta, il 25 per cento della forza lavoro di età superiore ai 55 anni si ritirava precocemente dal lavoro; circa il 30 per cento di questi prepensionamenti erano dovuti alle sofferenze per le carenti condizioni psicosociali lavorative.
L'insieme di espedienti messi in atto dal persecutore ha una matrice comune: il rifiuto della comunicazione diretta. Ritorniamo così al principium individuationis caro a Leymann: possiamo riconoscere il volgere di un conflitto verso lo stadio di «psicoterrore» attraverso lo spegnimento dei livelli comunicativi interpersonali. Attenzione, non della comunicazione tout court ma soltanto di quella diretta, costruttiva, fondata sullo scambio reciproco di informazioni, sul dialogo. Viceversa, è impensabile che una strategia di mobbing possa ottenere gli effetti desiderati senza ricorrere alla comunicazione indiretta, tesa soltanto al discredito e allo svilimento della vittima agli occhi degli altri. La sottrazione al dialogo funge in questo caso da dispositivo di annullamento dell'interlocutore. Non parlo con te semplicemente perché non esisti. Per perfezionare l'opera di «sparizione» della vittima concorrono poi altri espedienti: rimproveri vaghi, imprecisi o contraddittori, battute e sottintesi malevoli, calunnie e insinuazioni umilianti. Questo concorso di sevizie psicologiche conduce inevitabilmente la vittima ad essere preda di svalutazione, senso di inferiorità, complessi di colpa e disistima di se stessa (8). Banalizzando, potremmo dire che ogni mobber sa di aver portato a buon esito il proprio «lavoro» quando la vittima inizia a credere di essere essa stessa causa delle sue sofferenze.
Anche il sesso - soprattutto quello alluso, «parlato», evocato - è in molti casi una delle armi predilette del mobber, una volta che egli abbia prescelto una donna come vittima. Il ricorso continuo ed ostentato ad un linguaggio volgare, il gossip a sfondo sessuale (teso a screditare la vittima sotto il profilo della «moralità»), l'uso mirato di calunnie, doppi sensi e riferimenti sibillini sono strumenti molto più efficaci, infatti, delle avance dirette, le quali trovano uno spazio limitato nel bagaglio del persecutore di professione. Vittime del mobbing sessuale sono in grandissima maggioranza le donne (con un percentuale intorno all'86 per cento) e solo in rarissimi casi (4 per cento) esse subiscono aggressioni sessuali vere e proprie. Nel restante numero dei casi, la molestia avviene senza contatto fisico e viene messa in atto attraverso mezzi indiretti (foto pornografiche lasciate sulla scrivania, e-mail o file dal contenuto osceno inseriti nel computer, «scherzi» volgari, attacchi alla reputazione e calunnie a sfondo sessuale).
Nel nostro Paese non esiste alcuna normativa che tuteli il lavoratore da questa sofisticata e devastante forma di persecuzione. Se è impossibile agire perché la stessa struttura del lavoro, sempre più
globalizzata e complessa, sia riformata, è tuttavia possibile e doveroso predisporre un sistema di tutele e garanzie in grado di arginare un fenomeno in crescita esponenziale e di ridare dignità e sicurezza a chi quotidianamente affronta un sistema produttivo che esige un coinvolgimento emozionale e intellettivo al limite del burn-out. Lo Stato e le aziende, dunque, non possono non farsi carico di questa vera e propria emergenza e non è più rimandabile il varo di una legge che sappia riconoscere e sanzionare adeguatamente le persecuzioni psicologiche messe in atto nei luoghi di lavoro.
Tali sono le finalità della presente proposta di legge il cui contenuto è illustrato di seguito:
l'articolo 1 definisce cosa vada inteso per persecuzione psicologica (mobbing);
l'articolo 2 illustra le misure di prevenzione che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è tenuto a predisporre nei luoghi di lavoro;
l'articolo 3 chiarisce gli obblighi che il datore di lavoro è tenuto ad osservare;
l'articolo 4 definisce i casi in cui ricorrere a sanzioni disciplinari e punire comportamenti illeciti da parte del datore di lavoro, decretandone l'annullabilità quando essi siano stati adottati con il fine di recare danno al lavoratore;
l'articolo 5 specifica i casi in cui è previsto il ricorso alla giustizia ordinaria.
1. Per «mobbing» si intendono gli atti e i comportamenti posti in essere da datori di lavoro, capi intermedi e colleghi, che danno luogo a condotte persecutorie, attuate con evidente e mirata determinazione, con carattere di continuità e finalizzati ad arrecare danno alla salute psico-fisica del lavoratore, ovvero ad emarginarlo e penalizzarlo nello svolgimento delle sue mansioni o allontanarlo dall'ambiente lavorativo in seno al quale presta la propria opera.
2. Gli atti e i comportamenti rilevanti ai fini della presente legge comprendono:
a) molestie e maltrattamenti verbali quali attacchi alla reputazione, calunnie, pettegolezzi e ogni altra offesa e insinuazione che possa ledere l'immagine e le relazioni sociali del lavoratore, ovvero arrecare danno alla sua carriera professionale pregiudicandone la salute psichica;
b) atti tesi all'emarginazione del lavoratore quali carenza di informazioni, esclusione sistematica ed immotivata dai momenti di socialità;
c) atti vessatori o intimidatori quali controlli e sorveglianza continui privi di valida motivazione, minacce di trasferimenti, violazione della segretezza della corrispondenza privata, cartacea o elettronica, mancata concessione di permessi o ferie, blocco della carriera professionale attraverso l'ingiustificata rimozione da incarichi ricoperti proficuamente o la svalutazione dei risultati conseguiti;
d) comportamenti o provvedimenti di discriminazione sessuale, etnica, politica o religiosa, anche quando messi in pratica attraverso allusioni o sottintesi malevoli.
3. Il danno di natura psico-fisica, provocato dagli atti e dai comportamenti di cui al comma 2 è rilevante, ai fini della presente legge, quando incide sulla capacità lavorativa del lavoratore sia pregiudicandone la stima di sé sia inducendolo a crisi depressive o cagionando danni diretti o indiretti alla sua salute.
1. Entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge il Ministro del lavoro e delle politiche sociali individua con apposito decreto le singole fattispecie di violenza e persecuzione ai danni dei lavoratori, rilevanti ai sensi della presente legge.
2. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali provvede a predisporre una campagna di informazione, utilizzando i più diffusi canali di comunicazione, volta a sensibilizzare l'opinione pubblica sul fenomeno del mobbing e a fare conoscere gli strumenti attivati per contrastarlo.
3. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali istituisce in tutti i luoghi di lavoro pubblici strutture di monitoraggio, consulenza e assistenza, denominati «mobbing point», a cui il lavoratore che ritiene di essere vittima di atti persecutori può rivolgersi per ottenere tutela. I mobbing point, presso i quali operano consulenti del lavoro e assistenti sociali, hanno l'obbligo, in seguito alle segnalazioni ricevute e in collaborazione con le organizzazioni sindacali, di stilare un rapporto dettagliato da inviare al Ministero per gli opportuni provvedimenti. Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, in accordo e coordinamento con gli enti locali, istituisce altresì strutture di servizio a carattere territoriale, dotate di call center con numero verde, di ufficio di consulenza
1. I datori di lavoro, pubblici o privati, unitamente alle rappresentanze sindacali dove esistenti, sono obbligati a fornire tutte le informazioni rilevanti relative al conferimento degli incarichi, ai trasferimenti, alle variazioni delle mansioni e delle qualifiche, in applicazione della presente legge.
2. Le informazioni di cui al comma 1, unitamente al testo della presente legge, devono essere affissi nelle bacheche aziendali e, in ogni caso, resi di pubblico dominio.
3. In caso di denuncia degli atti e dei comportamenti di cui all'articolo 1 da parte di singoli lavoratori è compito dei datori di lavoro, delle rispettive rappresentanze sindacali aziendali e dei mobbing point, dove esistenti, provvedere tempestivamente all'accertamento dei fatti denunciati. Accertati i fatti, il datore di lavoro è tenuto ad assumere le iniziative idonee a risolvere il conflitto denunciato.
4. A integrazione di quanto disposto dall'articolo 20 della legge 20 maggio 1970, n. 300, i lavoratori hanno diritto di riunirsi, fuori dall'orario di lavoro, nei limiti di sessanta ore su base annuale, al fine di esaminare e dibattere in merito alle violenze e alle persecuzioni psicologiche nei luoghi di lavoro con le modalità e con le forme previste dal citato articolo 20.
1. A coloro che pongono in essere gli atti e i comportamenti di cui all'articolo 1 si applicano le misure previste dalla normativa vigente con riferimento alla responsabilità disciplinare.
1. Ogni lavoratore che abbia subito violenza o persecuzione psicologica nel luogo di lavoro e non ritenga di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, ma intenda agire in giudizio, può promuovere il tentativo di conciliazione contemplato dall'articolo 410 del codice di procedura civile, ove del caso, anche con l'ausilio delle rappresentanze aziendali dove esistenti. Il procedimento è regolato ai sensi dell'articolo 413 del codice di procedura civile.
2. Il giudice condanna il responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento del danno, la cui liquidazione ha luogo in forma equitativa.
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