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PDL 6338

XIV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 6338



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato NICOLA ROSSI

Delega al Governo per l'ampliamento e la diversificazione dell'offerta formativa del sistema di istruzione universitaria

Presentata l'8 febbraio 2006

      

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Onorevoli Colleghi! - Uno dei discorsi politici emotivamente più coinvolgenti - quello di accettazione pronunciato da Bill Clinton a San Francisco nel 1996 - fu in buona parte giocato sui temi dell'istruzione e della ricerca: nella visione del Presidente Clinton, il futuro degli Stati Uniti sarebbe dovuto passare attraverso la scuola, l'università, i laboratori, le biblioteche. Tony Blair ha messo a rischio la propria stessa sopravvivenza politica nel tentativo generoso di rilanciare il sistema universitario inglese. Gerhard Schroeder aveva assicurato che avrebbe impostato la strategia politica e programmatica della SDP su scuola e ricerca e Angela Merkel non ha mancato di seguirlo su questa strada.
      E in Italia? Non più tardi di due anni fa, le prime pagine dei giornali di solito, con poche eccezioni, piuttosto distratte in tema di formazione e ricerca si sono riempite con la protesta dei vincitori di concorso non immessi nei ruoli. Nessuno, tuttavia, ha osservato allora l'aspetto kafkiano della vicenda: università «autonome», che avevano bandito i concorsi sulla base di un impegno di fondi disponibili nei propri «autonomi» bilanci, hanno avuto bisogno di una allocazione centrale di fondi per assumere i vincitori di concorso. Qualche mese fa il Governo Berlusconi ha licenziato un disegno di legge delega per la riforma dello «stato giuridico» dei professori con regole minute, uguali per ogni università dalle Alpi al Lilibeo. L'autonomia, perno dell'organizzazione universitaria dal medioevo sino agli odierni sistemi competitivi, non è stata metabolizzata né dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, né dalle università. Il primo per atavica vocazione
 

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napoleonica, le seconde per il terrore di tanti verso una piena assunzione di responsabilità.
      È possibile anche in Italia, come avviene nei principali Paesi dell'Occidente e dell'Asia, mettere l'università e la ricerca al centro di un programma politico di rinnovamento? È possibile farlo guardando in faccia senza ipocrisia al sistema e proponendo soluzioni svincolate dai tabù e dall'istinto conservatore di tante componenti del sistema universitario, dal compromesso di basso profilo stabilito con gli studenti e le loro famiglie: «paghi poco e ricevi poco»? L'impressione è che la politica ritenga spesso che il tema non paghi sul piano elettorale un po' perché in fondo agli italiani non importerebbe molto dell'università, un po' per la necessaria iniziale impopolarità di alcune scelte, un po' perché, dopotutto, quella dei professori universitari è tuttora una lobby conservatrice di un qualche peso.
      È arrivato invece il momento di pensare che scuola, università e ricerca costituiscano temi ai quali gli italiani sono più attenti di quanto non si pensi. Se si centrasse coraggiosamente attorno ad essi un programma elettorale, ci si potrebbe sorprendere di quanto la scelta possa premiare. Ma se anche così non fosse, nel trascurare questi temi sia chi governa sia chi si candida a sostituirlo si assume una responsabilità enorme: il futuro del Paese si gioca «ora» su questo terreno.
      Non avrebbe ovviamente senso affrontare il tema dell'università se le cose, in Italia, andassero sostanzialmente per il meglio. Purtroppo così non è. Tutti sanno che l'Italia è piena di studiosi di grande valore. Sanno anche che vi sono dipartimenti, forse intere facoltà, che producono didattica e ricerca alla frontiera degli standard internazionali. Questi casi indicano che è possibile, anche in condizioni difficili, lavorare bene. Consentono di individuare le forze sulle quali contare per il rilancio del sistema. Ma non devono trarre in inganno circa la condizione media del sistema universitario italiano. Questo soffre in misura estrema dei mali che affliggono, sempre con le dovute eccezioni, le università dell'intera Europa continentale, sempre più al margine della grande ricerca mondiale: centralismo e burocratismo che alimentano un sistema di incentivi perverso sia per gli studenti sia per i professori sia, infine, per chi amministra gli atenei.
      I dati relativi al sistema universitario italiano non sono noti al grande pubblico ma ampiamente conosciuti agli addetti ai lavori. Roberto Perotti li ha sintetizzati molto bene in un lavoro pubblicato dall'ISAE (R. Perotti, «The Italian University System: Rules vs. Incentives», in ISAE, Annual Report Monitoring Italy 2002, Roma, 2002).
      Per quanto riguarda gli aspetti strettamente formativi (al cosiddetto «primo livello»), nel confronto tra i Paesi OCSE e l'Unione europea, l'Italia spicca per conferire un titolo di livello universitario a una quota assai minore della media della popolazione nella relativa classe di età. La qualità della formazione ottenuta in Italia con la vecchia laurea quadriennale è mediamente buona nel confronto internazionale, nel caso delle migliori università paragonabile a un serio master di comparabili istituzioni straniere. Ma i tempi medi per il conseguimento della laurea sono inaccettabilmente lunghi. L'età media di laurea (quadriennale) per un giovane italiano è vicina ai 27 anni. Alla stessa età, un giovane inglese ha conseguito laurea e master e, normalmente, lavora già da almeno 3-4 anni.
      Siamo tutti convinti che l'università italiana soffra per una scarsità di risorse. Ciò è innegabile: in rapporto al prodotto interno lordo, la spesa in ricerca e istruzione superiore ci vede, come ormai sanno tutti, agli ultimi posti nel confronto tra i Paesi OCSE. Le priorità assegnate dalla collettività italiana nell'allocazione della spesa pubblica vanno indubbiamente riviste: progettare il futuro significa investire maggiormente nei giovani, nella formazione, nel sapere, nella creazione e, semmai, ridurre un po' i trasferimenti alle classi medie. Ma, come vedremo, il problema delle risorse - che esiste, eccome! - può trovare almeno in parte soluzioni
 

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eque ed efficienti che non incidano sulla finanza pubblica.
      Il problema meno facilmente risolubile, del quale vi è assai minore consapevolezza, riguarda la produttività delle risorse umane e finanziarie impiegate nel processo di produzione dell'insegnamento superiore e della ricerca.
      È bene sapere che, rispetto all'Inghilterra - senza ombra di dubbio il migliore sistema universitario europeo - l'Italia fa un cattivo uso delle poche risorse disponibili. La spesa annua per studente-equivalente a tempo pieno calcolata da Perotti è di 12.400 dollari nel Regno Unito e, tenuto conto del potere d'acquisto nei due Paesi, di 16.800 dollari in Italia. Il rapporto personale accademico/studenti a tempo pieno è circa uguale nei due Paesi (attorno a 11 studenti per docente di qualunque grado) ma il costo medio del personale accademico per persona è considerevolmente più elevato in Italia, anche se molti professori guadagnano nel Regno Unito assai più dei professori ordinari italiani a fine carriera (la maggiore differenziazione nelle retribuzioni spiega il minore costo medio di un docente britannico).
      Se si passa all'altra funzione dell'università, quella di produrre ricerca scientifica, il confronto con il Regno Unito è ancora meno confortante. La produttività della ricerca universitaria, misurata in lavori o citazioni per milione di spesa o per ricercatore, è in Gran Bretagna circa il doppio di quella italiana. Malgrado ciò, Tony Blair è giustamente preoccupato della inadeguatezza del sistema inglese nel confronto non solo con gli Stati Uniti ma anche con Canada, Australia e, in un futuro molto più prossimo di quanto non si pensi, con alcuni Paesi asiatici emergenti.
      Oltre la laurea, la formazione universitaria italiana, in particolare quella che conduce al dottorato ed è legata strettamente alla ricerca, è di qualità modesta. Sono pochissimi gli studenti stranieri che scelgono un dottorato italiano. Mentre molti laureati italiani, conseguito il dottorato all'estero, trovano un lavoro e una carriera presso le migliori università straniere, è molto raro (anche se tutti possono citare eccezioni) che un neo dottore di ricerca italiano riesca ad affermarsi sul mercato del lavoro accademico internazionale.
      Quella del dottorato, introdotto in Italia in tempi relativamente recenti, è stata una delle grandi occasioni perdute del nostro sistema. Frazionati in mille programmi, con finanziamenti a pioggia limitati alle borse, con attività didattica spesso inesistente, i dottorati italiani si sono in molti casi trasformati in forme di modesto sussidio post-laurea, prima tappa di un precariato universitario al quale non si danno prospettive di un percorso professionale caratterizzato da regole certe.
      Non serve dilungarsi ulteriormente: la débacle è nota, almeno a grandi linee. È bene, però, ribadirlo: il sistema universitario italiano soffre di una cronica scarsità di risorse e ha, al tempo stesso, una produttività, didattica e scientifica (per addetto o per euro speso), che non regge il confronto internazionale. È anche noto che vi sono alcune importanti eccezioni di dipartimenti, per non dire di singoli studiosi, di qualità e prestigio mondiali. Essi dovrebbero costituire, come vedremo, le pietre angolari per un rilancio del sistema ma la loro esistenza non può, come a volte accade, venire aneddoticamente citata per negare l'evidenza statistica circa la bassa produttività «media» delle università italiane.
      Un sistema universitario svolge tre funzioni principali in una società moderna: 1) la trasmissione del sapere in senso lato (una funzione che non ha ruoli e riscontri economici facilmente definibili e misurabili); 2) la formazione professionale; 3) la ricerca scientifica (intesa come avanzamento della frontiera delle conoscenze o, se si vuole, come creazione di «nuovo» sapere).
      Rispetto a queste funzioni, gli obiettivi che dovrebbe proporsi una seria politica per l'università italiana sono sostanzialmente tre: a) educare meglio e in tempi più brevi un numero maggiore di studenti nel cosiddetto «triennio». Si tratta di
 

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trovare di volta in volta la giusta combinazione tra la trasmissione di un sapere generale e la formazione professionale; b) produrre formazione professionale avanzata, necessariamente destinata a un numero relativamente piccolo di studenti; c) migliorare notevolmente la qualità della ricerca prodotta, il che comporta, contestualmente, la creazione di dottorati competitivi a livello mondiale. Va detto subito - anche per capire meglio il senso della proposta di legge - che si tratta di obiettivi del sistema ma non necessariamente di tutte le sue singole parti. Ci potrebbero essere ottime istituzioni universitarie dedicate al solo insegnamento triennale, ce ne potrebbero essere altre che puntano anche alla formazione specialistica, senza ambizioni di ricerca, altre ancora che perseguono i tre obiettivi e, infine, alcune che si dedicano esclusivamente al dottorato e alla ricerca.
      La chiave di volta di ogni ragionevole politica universitaria si chiama «autonomia». In tutti i Paesi dove le università funzionano bene esse sono libere nella scelta del personale (docente e non docente, quest'ultimo - del quale si parla poco - è assolutamente decisivo), nelle remunerazioni, nella formulazione dei programmi di insegnamento (per intenderci anche dei corsi di laurea), nella scelta dei criteri di ammissione degli studenti e, in genere, nella gestione delle proprie risorse. Una dimostrazione dei benefìci dell'autonomia, se ve ne fosse bisogno, viene dalla Spagna, Paese in tante cose, inclusa l'università, sino a poco tempo fa indietro rispetto all'Italia e ora in grado di competere aggressivamente in molti campi. Il sistema universitario spagnolo era in gran parte - ed è tuttora - simile al nostro per centralismo burocratico, atenei mastodontici e ingestibili, concorsi universitari nazionali. Alcune università sono riuscite a conquistare una maggiore autonomia: sono queste che oggi stupiscono l'Europa per la loro crescita qualitativa testimoniata dal numero crescente di studenti stranieri che attraggono e dal numero dei loro dottori di ricerca che viene assunto da altre università (autonome) di tutto il mondo.
      L'autonomia serve soprattutto a creare, in tutta l'organizzazione dell'ateneo, un sistema di incentivi efficace. Efficace in modo particolare nell'attrarre e nel «tenere» docenti e ricercatori. Si tratta di talenti altamente mobili, il cui mercato del lavoro coincide sempre più con il mondo intero. Essi si aspettano oggi contratti, sovente tagliati su misura, basati su un legame diretto tra rendimento (didattico ma, soprattutto, scientifico) e remunerazione (che include, oltre allo stipendio, fondi di ricerca, strutture, assistenti, anni sabbatici e simili).
      Un sistema centralistico e burocratico come quello italiano produce incentivi del tutto perversi per rettori e amministratori, per il personale non docente, per la collettività nella quale ha sede l'ateneo e, soprattutto, per i professori. Quale incentivo a produrre ricerca di livello internazionale viene dato a un giovane trentacinquenne approdato finalmente al ruolo (ancora oggi potenzialmente a vita) di ricercatore e a uno stipendio netto mensile attorno ai 1.000 euro? Dovrà necessariamente arrotondare lo stipendio (le occasioni non mancano) spesso producendo ricerche applicate di qualità modesta. D'altra parte sa che, salvo poche eccezioni, il suo futuro non dipenderà dalla performance negli indici di citazione e penetrazione dei suoi lavori ma dalla sua fedeltà a un maestro, a una scuola, forse all'ateneo che gli «chiamerà» il posto. E che incentivi ha, se non quelli della propria coscienza o del proprio orgoglio, un professore senior di valore a presentare articoli alle prime riviste internazionali del suo campo quando in alternativa gli vengono offerte lucrose consulenze oppure, semplicemente, può dedicarsi a una tranquilla vita di ozi, più o meno intellettuali?
      Le classi dirigenti italiane, a partire dalla corporazione dei professori universitari, non hanno mai seriamente creduto all'autonomia degli atenei. Le ragioni sono molte, alcune nobili altre un po' meno. L'autonomia nega alla radice i concorsi nazionali (mai aboliti, semmai peggiorati),
 

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un mostro che, nella forma estrema italiana, esiste solo da noi. L'argomento invocato da coloro che si dicono favorevoli all'autonomia in astratto ma non nel caso italiano è quello del cosiddetto «valore legale del titolo di studio». Si tratta di un istituto - difficile da definire sul terreno strettamente giuridico - il cui significato, rispetto al problema universitario, consiste soprattutto nel parificare, ai fini dei concorsi pubblici, la laurea ottenuta in tutte le università italiane. In questo senso, il valore legale reca un duplice danno: distorce l'efficienza delle assunzioni nella pubblica amministrazione e «ingessa» le università italiane.
      Università pubblica non è, del resto, sinonimo di università eterodiretta da una invadente burocrazia centrale. Non è così nel sistema delle università inglesi, australiane, canadesi né in quello, per molti aspetti straordinario, delle università di Stato americane (si pensi al sistema californiano). Basterebbe, cioè, ispirarsi al modello di successo dei sistemi universitari pubblici di questi Paesi. In particolare, come suggerisce autorevolmente Perotti, si tratta di adattare al caso italiano il blue print inglese.
      Ma il caso italiano non risalta solo per la «sovranità estremamente limitata» del nostro sistema universitario pubblico. È vero, infatti, che una tradizione di università private - e con essa la possibilità di disporre di un reale, tangibile, termine di paragone per l'attuale sistema universitario pubblico - è anch'essa assente in Italia. Le poche esistenti sono sostanzialmente prive di una dotazione di capitale adeguata e dunque anch'esse abbondantemente finanziate dallo Stato e da esso, pertanto, anch'esse minutamente regolate. Sia ben chiaro, non è affatto evidente che le università private siano, in media, migliori di quelle pubbliche. Ma il punto è un altro: in assenza di una componente privata caratterizzata da modalità organizzative (finanziarie, gestionali, didattiche e scientifiche) affatto diverse, il sistema universitario pubblico perde la sua quotidiana possibilità di confronto.
      In astratto, dunque, sarebbe necessario ricostruire il sistema universitario italiano poggiandolo su due pilastri: una compiuta autonomia e una rigorosa e pervasiva valutazione.
      L'autonomia, indispensabile, si regge solo se esistono incentivi forti ad assumere e a promuovere i migliori. Questo avviene se chi è deputato alla scelta dei colleghi trae un vantaggio diretto dal loro valore professionale. Se le risorse del dipartimento aumentano con l'assunzione di un professore i cui lavori abbiano un elevato indice di penetrazione e se da queste risorse dipendono gli stipendi di tutti i membri del dipartimento, è grande l'incentivo a cercare il migliore collega disponibile (e a offrirgli le migliori condizioni possibili) piuttosto che a promuovere l'amico locale. Da parte loro, i responsabili dell'ateneo avranno l'incentivo a stabilire efficaci regole interne che favoriscano effettivamente la qualità della didattica e della ricerca.
      In questo modo si dovrebbe provvedere al problema dell'efficienza del sistema. Quanto alle risorse, se la collettività crede veramente all'istruzione, potrà continuare a offrirla quasi gratuitamente ai propri membri. Non sembra, tuttavia, che questo sia o sia stato l'orientamento dei suoi rappresentanti eletti. L'attuale maggioranza ha, nei fatti, confermato scelte già viste in passato: dare poco e chiedere poco agli studenti, fingere di dare l'università gratis (una università necessariamente povera di strutture e di docenti) ma caricare sulle famiglie enormi spese di sostentamento (vitto, alloggio, eccetera), con il risultato perverso che l'università viene scelta in base alla prossimità geografica piuttosto che alla qualità dell'insegnamento. Se questa maggioranza ne fosse l'espressione, si potrebbe, addirittura, sostenere che la collettività italiana non esprime una preferenza per l'aumento delle risorse pubbliche destinate alla formazione universitaria. Ma se così fosse, allora la stessa maggioranza non avrebbe dovuto impedire, come ha regolarmente fatto, che le risorse venissero recuperate altrove, in modo al tempo stesso più equo
 

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ed efficiente: presso chi beneficia dell'istruzione superiore (e cioè in prevalenza presso le fasce più abbienti della popolazione).
      Le prevedibili obiezioni a questa impostazione sono o conosciute o facilmente immaginabili.
      Taluni sostengono che l'università italiana va già bene e che per portarla a livelli di eccellenza internazionale basterebbe che il Governo accrescesse le risorse a essa destinate. Quanto accennato brevemente sopra circa la produttività media del nostro sistema universitario non consente di farsi illusioni circa la sua efficienza, tanto meno circa la sua eccellenza. Si tratta, comunque, di una posizione già abbondantemente sconfitta dalle vicende degli ultimi decenni. Non si sarebbe parlato per quarant'anni (chi ricorda il disegno di legge n. 2314 del Ministro Gui?) di riforma universitaria se prevalesse l'opinione che tutto va bene e andrebbe ancora meglio con un po' di milioni (di euro) aggiuntivi.
      Un'obiezione facilmente prevedibile è che l'autonomia (con finanziamenti legati alla performance) potrebbe finire per indebolire il già fragile sistema universitario meridionale. Non è necessariamente vero. Da Catania a Napoli, il Mezzogiorno possiede strutture universitarie che attendono solo di essere liberate da costrizioni burocratiche e corporative per dare buoni risultati. Non c'è ragione a priori di pensare che il sistema degli incentivi non possa funzionare anche a sud di un dato parallelo scelto a piacere. E d'altra parte, se tuttavia così non fosse, se le cose dessero davvero ragione a chi teme gli effetti distruttivi dell'autonomia su tutte le università meridionali, che cosa ci sarebbe di più antimeridionale che mantenere in loco un sistema universitario inefficiente che condanni i giovani meridionali a essere meno istruiti dei loro colleghi norvegesi o milanesi? Meglio sarebbe allora favorire, con borse e altri strumenti, la formazione altrove dei giovani meridionali. Formazione che già oggi, in molti casi, avviene altrove ma senza il sostegno di una borsa di studio. Ed avviene fuori proprio perché si è scelto di non offrire al sistema universitario meridionale la possibilità di competere.
      Un'altra obiezione comune (vale purtroppo anche per i concorsi) è quella di chi sostiene che un sistema di valutazione rigorosa dei meriti scientifici semplicemente non può esistere. Concesso che i singoli criteri di valutazione soffrono di limiti e di controindicazioni, un insieme bilanciato degli stessi garantisce giudizi che approssimano molto da vicino il valore della ricerca e dei singoli ricercatori. L'allocazione delle risorse di ricerca sulla base di criteri condivisi dalla comunità scientifica ha dato ottimi risultati nei soli sistemi universitari al mondo che funzionano bene.
      Purtroppo, dicono molti, quello che funziona all'estero non può funzionare da noi. Per motivi storici, di tradizione, culturali: noi siamo diversi. Portata alle estreme conseguenze, questa tesi, assai diffusa, afferma che viviamo nel migliore dei mondi possibili (date, appunto, le nostre tare avite) e che ogni tentativo di cambiare le cose può solo peggiorarle. Per parte nostra riteniamo che la storia testimoni che il buon governo funziona anche in Italia. La storia, la cultura e, soprattutto, gli interessi costituitisi nel tempo in rendite di posizione hanno, in Italia come altrove, un peso enorme, mai però tale da rendere immodificabile il cammino di una collettività. Si potranno facilmente trovare i modi per superare le difficoltà iniziali di funzionamento del sistema di valutazione, per esempio utilizzando anche esperti stranieri.
      Un'altra obiezione facilmente immaginabile è quella di coloro che temono la creazione di università di serie A e B. Ad essa non è difficile rispondere dicendo anzitutto che si creerebbe un bel niente: le serie A, B e C e, forse, anche D esistono già e la finzione del «valore legale del titolo» le maschera solo in minima parte. In secondo luogo, non vi è motivo di temere una differenziazione dell'offerta e anche della qualità tra le strutture di insegnamento superiore e ricerca: il pernicioso messaggio sessantottino che anche
 

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per quanto riguarda l'intelligenza e il sapere dobbiamo essere tutti uguali ha fatto sin troppi danni: le sue vestigia vanno dimesse in fretta. La «classifica», d'altronde, sarebbe più variegata di quanto si pensi: accanto a ottime strutture di formazione per il triennio potrebbero cercare di sopravvivere pessimi atenei di ricerca. Quale dei due modelli sarebbe più interessante, soprattutto per una città relativamente piccola?
      Infine si potrebbe dire, e si dirà certamente, che l'ipotesi avanzata sarebbe buona ma non ha la possibilità di ottenere il consenso necessario. Il sistema attuale, per quanto inefficiente, ha creato nel tempo un coacervo di interessi che congiurano nel sostenerlo. Il mondo accademico gode di numerose rendite di posizione professionali e di potere che non abbandonerà facilmente. Le famiglie sono trincerate dietro l'illusione di una università gratuita sotto casa. Gli studenti pensano al «pezzo di carta» conquistato con il minimo sforzo. Le comunità locali, anche di piccole dimensioni, desiderano essere sede universitaria ma non sono disposte ad allocare le risorse necessarie che, non dimentichiamolo, sono ingenti.
      L'obiezione che in Italia non esistano, come si diceva una volta, le «condizioni politiche» per attuare una ristrutturazione dell'intero sistema universitario può, purtroppo, avere fondamento. Ad essa cerca di rispondere la presente proposta di legge, che è così riassumibile.
      È data facoltà alle università (pubbliche o private) che, nel rispetto delle loro attuali procedure statutarie, lo decidano, di trasformarsi in fondazioni universitarie e godere della più completa autonomia finanziaria, gestionale, didattica e scientifica. Esse, e solo esse, saranno libere di assumere il personale docente e non docente con contratti di diritto privato sottoposti solo al vincolo della legge, di organizzare l'intera struttura della didattica (dai corsi di laurea di primo livello ai dottorati di ricerca), di stabilire le norme per l'ammissione degli studenti e di fissare le tasse di frequenza, di provvedere in piena autonomia ai servizi connessi (dalle mense agli alloggi per gli studenti o per i docenti), di acquisire risorse da destinare esclusivamente alle attività statutarie della fondazione.
      Contestualmente, nel bilancio dello Stato verrebbe creato un «Fondo per le università autonome» costituito dai trasferimenti già in essere verso le università che avessero optato per la trasformazione e aumentato di una significativa percentuale. Il Fondo verrebbe ripartito in due distinti capitoli. Il capitolo della ricerca verrebbe allocato inizialmente secondo le quote di allocazione preesistenti e successivamente sulla base di una rigorosa valutazione dei risultati scientifici a livello di singolo dipartimento effettuata, almeno inizialmente, con l'ausilio di docenti stranieri. Il capitolo della didattica verrebbe, invece, interamente utilizzato per il finanziamento di un massiccio programma di borse di studio (inclusive del pagamento delle tasse di frequenza) riservato alle università che avessero optato per la trasformazione e agli studenti capaci e meritevoli e privi di mezzi che volessero accedervi.
      Alla valutazione provvederebbe una Autorità per la valutazione del sistema delle università e della ricerca per le cui caratteristiche si rinvia alla relativa proposta di legge (a prima firma onorevole Tocci).
      Al personale docente e non docente in servizio presso le università che avesse optato per la trasformazione e che preferisse conservare lo status precedente verrebbe data la possibilità di trasferirsi - entro un congruo periodo di tempo - presso un'altra università che non avesse optato per la trasformazione e che ne avesse fatto richiesta o, se del caso, in altro impiego pubblico. Le università che non optassero per la trasformazione permarrebbero nella loro situazione giuridica, finanziaria, gestionale, didattica e scientifica attuale.
      Come si vede, nessuno sarebbe costretto ad essere «autonomo» ma sarebbero le singole università a deciderlo. Gli oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato, che sarebbe qualitativamente più che
 

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quantitativamente modificato, sarebbero con ogni probabilità molto modesti. Qualora alcune coraggiose università decidessero di spingersi sulla via della trasformazione, il Paese avrebbe una semplice ed immediata possibilità di valutare l'entità e la distribuzione degli oneri impliciti nella situazione attuale.
      Inutile dire che si renderebbero necessarie disposizioni transitorie sia per quanto riguarda il personale che non optasse per il nuovo regime privatistico sia per le diverse poste del bilancio sia, in fine, per il passaggio ai nuovi atenei fondazione dei compiti relativi al diritto allo studio (in particolare mense e alloggi) oggi facenti capo alle regioni.
      Riassumendo, gli atenei che liberamente optassero per la trasformazione sarebbero assolutamente autonomi nell'assunzione del personale (con stipendi liberi e, se lo ritenessero opportuno, differenziati), nell'organizzazione dei curricula e dei corsi, nell'ammissione degli studenti. Stabilirebbero le rette (tasse) di frequenza (allo Stato, prima che ad altri, spetterebbe l'attuazione del dettato costituzionale, garantendo ai capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi borse di studio spendibili negli atenei di loro scelta). A questa autonomia corrisponderebbe una piena responsabilità di bilancio. Lo Stato finanzierebbe la ricerca soprattutto allocando i fondi ai singoli dipartimenti sulla base di una rigorosa valutazione dei risultati da essi ottenuti, con criteri capaci di concentrare le risorse laddove essere risultassero più produttive, anche a costo di lasciare numerosi dipartimenti del tutto privi di fondi di ricerca. Il «valore legale del titolo di studio» sarebbe semplicemente sostituito dalla prescrizione di un principio di mutuo riconoscimento da parte di altre istituzioni universitarie europee.
      Inutile dire che il passaggio al nuovo sistema imporrebbe una revisione profonda dei comportamenti degli atenei coinvolti. Lo stato giuridico pubblico dei professori non si applicherebbe più. La gestione degli atenei non sarebbe più appannaggio dei docenti ma di manager con specifiche competenze. La libertà degli atenei di fissare rette dovrebbe utilmente accompagnarsi (oltre che alle borse di cui si è detto) a un impegno massiccio per l'accensione di prestiti d'onore, il modo socialmente più equo di finanziare la formazione universitaria. La gestione delle residenze universitarie, restituita alle università, imporrebbe a queste ultime di competere tra loro nell'attrarre gli studenti anche sulla base dei servizi complessivamente offerti. In questo quadro sarebbe ragionevole che il finanziamento dei privati alle università goda di importanti vantaggi fiscali.
      In quasi tutti gli aspetti della sua politica, l'attuale Governo ha mostrato una tendenza dirigista e statalista che può sorprendere solo coloro che avevano creduto agli slogan elettorali del 2001. Si pensi alla finanza, alla procreazione assistita, agli interventi nel Mezzogiorno, alle tentazioni del «colbertismo», alla avversione per ogni autorità indipendente. Quel po' di politica universitaria che è stato dato sinora di vedere non fa, nel complesso, eccezione. E non a caso, dunque, la legge delega sullo stato giuridico dei professori universitari si è collocata nel segno di una grande continuità con il dirigismo in materia che ha caratterizzato tutti i Governi della Repubblica.
      È stato un errore. Un errore, peraltro, non casuale: intrisa di dirigismo è infatti da sempre la cultura della destra italiana. Visibilmente a disagio con i concetti di merito e di competizione. Concetti che a volte anche a sinistra sono guardati con sospetto, dimenticando colpevolmente che, lì dove il merito non prevale, è il censo a dettare legge.
      E la strada del merito e della competizione è l'unica cui oggi possa guardare con qualche speranza l'università italiana. Come dimostrano i sistemi universitari che funzionano, la piena autonomia degli atenei accompagnata da una allocazione delle risorse pubbliche sulla base dei risultati ottenuti, dalla competizione e dalla libertà di fissare le rette è la sola ricetta possibile per consentire al nostro sistema di ricerca e istruzione superiore di arrestare quello che sembra essere un inarrestabile declino.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.
(Delega al Governo).

      1. Il Governo è delegato ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante l'ampliamento e la diversificazione dell'offerta formativa del sistema di istruzione universitaria, con specifico riguardo alle forme di organizzazione degli atenei e ai sistemi di valutazione dei risultati della ricerca e della didattica.
      2. La riforma di cui al comma 1, nel rispetto e in coerenza con la normativa comunitaria e in conformità ai princìpi e criteri direttivi previsti dalla presente legge, realizza il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti.
      3. Il decreto legislativo previsto dal comma 1 è adottato su proposta del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e con il Ministro per la funzione pubblica.
      4. Lo schema di decreto legislativo è trasmesso al Parlamento, affinché sia espresso il parere da parte delle Commissioni competenti entro il termine di sessanta giorni dalla data della trasmissione; decorso tale termine il decreto è emanato anche in mancanza del parere. Qualora detto termine venga a scadere nei trenta giorni antecedenti allo spirare del termine previsto dal comma 1 o successivamente, la scadenza di quest'ultimo è prorogata di novanta giorni.
      5. Entro un anno dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui al comma 1, il Governo può emanare disposizioni correttive e integrative nel rispetto dei princìpi e criteri direttivi di cui alla presente legge e con la procedura di cui al comma 4.

 

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Art. 2.
(Princìpi e criteri direttivi generali per realizzare l'ampliamento e la diversificazione dell'offerta formativa del sistema di istruzione universitaria).

      1. Il decreto legislativo recante l'ampliamento e la diversificazione dell'offerta formativa del sistema di istruzione universitaria di cui all'articolo 1 è adottato nella base dei seguenti princìpi e criteri direttivi generali:

          a) consentire una effettiva autonomia organizzativa, scientifica e didattica nel sistema dell'istruzione universitaria;

          b) favorire e promuovere la diversificazione dell'offerta scientifica, culturale e didattica dei singoli atenei;

          c) consentire e promuovere forme di autofinanziamento degli atenei nel rispetto dei princìpi costituzionali relativi al diritto allo studio e dei princìpi di non discriminazione e di pari opportunità.

Art. 3.
(Trasformazione degli atenei in fondazioni universitarie di diritto privato).

      1. Per quanto concerne l'organizzazione giuridica degli atenei il decreto legislativo di cui all'articolo 1 è adottato sulla base delle seguenti finalità e dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) consentire alle università pubbliche e private di trasformarsi in fondazioni universitarie di diritto privato;

          b) prevedere le regole che disciplinano le procedure deliberative degli atenei, nel rispetto delle loro attuali regole statutarie, al fine di vagliare e di approvare la trasformazione prevista dalla lettera a);

          c) dotare la fondazione dei beni pubblici, mobili e immobili, materiali e immateriali dell'università quali sono al momento della trasformazione;

 

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          d) attribuire alle sole università che hanno esercitato l'opzione di trasformarsi in fondazione di godere della più completa autonomia finanziaria, gestionale, didattica e scientifica, prevedendo, in particolare, la facoltà di:

              1) assumere il personale docente e non docente con contratti di diritto privato;

              2) organizzare l'intera struttura della didattica, dai corsi di laurea di primo livello ai dottorati di ricerca, coerentemente con le norme del diritto comunitario, subordinata alla sola condizione che l'istituzione universitaria consegua un regime di mutuo riconoscimento dei titoli di studio con altre università di Stati appartenenti all'Unione europea;

              3) stabilire liberamente le norme per l'ammissione degli studenti e fissare le tasse di frequenza, nel rispetto dei princìpi generali della presente legge;

              4) provvedere in piena autonomia ai servizi connessi, dalle mense agli alloggi per gli studenti e per i docenti;

              5) acquisire risorse da destinare esclusivamente alle attività statutarie della fondazione universitaria.

      2. Per quanto concerne il finanziamento dello Stato alle università che hanno deliberato la trasformazione in fondazioni di diritto privato, il decreto legislativo di cui all'articolo 1 è adottato sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) costituire nel bilancio dello Stato un «Fondo per le università autonome» di entità pari, nel primo anno, almeno al 110 per cento del complesso dei trasferimenti già in essere verso le università che hanno optato per la trasformazione e, negli anni successivi, incrementato in misura pari agli incrementi nominali del prodotto interno lordo;

          b) ripartire il Fondo di cui alla lettera a) in due distinti capitoli, ricerca e didattica,

 

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informati ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

              1) distribuire il capitolo della ricerca inizialmente secondo le quote di allocazione preesistenti e successivamente sulla base della rigorosa valutazione dei risultati scientifici considerati a livello di singolo dipartimento o facoltà, ai sensi di quanto disposto dall'articolo 4;

              2) utilizzare interamente il capitolo della didattica per il finanziamento di un programma di borse di studio, inclusive del pagamento delle tasse di frequenza, riservato alle università che hanno optato per la trasformazione in fondazioni nonché agli studenti capaci e meritevoli e privi di mezzi che intendono accedervi.

      3. Le università che non esercitano l'opzione per la trasformazione in fondazioni permangono nella vigente situazione giuridica, finanziaria, gestionale, didattica e scientifica.
      4. Il decreto legislativo di cui all'articolo 1 in ogni caso assicura al personale docente e non docente, in servizio presso le università che optano per la trasformazione in fondazioni e che intendono conservare lo status precedente, la possibilità di trasferirsi, entro un congruo periodo di tempo, presso un'altra università ovvero, se del caso, in altro impiego pubblico.

Art. 4.
(Sistema di valutazione indipendente della ricerca e della didattica degli atenei).

      1. Il decreto legislativo di cui all'articolo 1 prevede, altresì, che tutti i trasferimenti diretti all'università operati dallo Stato e gravanti sul bilancio pubblico avvengano sulla base delle valutazioni delle attività di ricerca e di didattica.
      2. Al fine di cui al comma 1, il decreto legislativo prevede l'istituzione del sistema pubblico nazionale di valutazione della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca, nonché dell'efficienza ed efficacia dei programmi statali di finanziamento

 

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e di incentivazione delle attività di ricerca e di innovazione, cui è preposta un'Autorità indipendente denominata «Autorità per la valutazione del sistema delle università e della ricerca». Il sistema è ispirato ai seguenti princìpi:

          a) articolazione dell'attività dell'Autorità per la valutazione del sistema delle università e della ricerca su due livelli, centrale e di ateneo o di ente di ricerca, distinti per organismi, funzioni, responsabilità e tipologie di attività;

          b) piena autonomia e indipendenza di giudizio e di valutazione dell'Autorità per la valutazione del sistema delle università e della ricerca, in conformità ai princìpi di terzietà, professionalità, trasparenza e pubblicità degli atti;

          c) autonomia organizzativa, amministrativa e contabile dell'Autorità per la valutazione del sistema delle università e della ricerca.

      3. Il decreto legislativo di cui all'articolo 1 stabilisce, inoltre, per le fondazioni universitarie di diritto privato, un sistema di revisione contabile e di missione obbligatoria in conformità ai seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) verificare il corretto rispetto dei princìpi contabili al fine di certificare la correttezza del bilancio;

          b) assicurare l'efficiente ed efficace impegno delle risorse disponibili, indipendentemente dal fatto che esse siano pubbliche o private;

          c) per il bilancio di missione sociale, assicurare la congruità dei programmi scientifici e didattici con l'impiego delle risorse disponibili.


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