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PDL 5782

XIV LEGISLATURA

CAMERA DEI DEPUTATI

   N. 5782



 

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PROPOSTA DI LEGGE

d'iniziativa del deputato PAOLO RUSSO

Modifica dell'articolo 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178, concernente la nozione di rifiuto

Presentata il 13 aprile 2005


      

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Onorevoli Colleghi! - L'Unione europea è il legislatore più prolifico in materia ambientale. I suoi interventi si inseriscono nell'ordinamento giuridico nazionale a volte producendo effetti diretti e vincolanti, a volte imponendo al legislatore di adeguare opportunamente il diritto interno.
      Se, quindi, prima, le fonti normative con le quali confrontarsi erano quelle tipiche dello Stato nazionale, oggi la cornice normativa si è arricchita, non semplicemente di una fonte, bensì di una pluralità di fonti, quelle dell'Unione europea, tra loro eterogenee, che richiedono un mutamento di mentalità nella ricerca della regola per il caso concreto.
      Non si tratta, infatti, solo di stabilire se un fatto è contemplato da una norma nazionale e se quella norma è compatibile con il dettato costituzionale.
      Nel sistema attuale occorre accertare se quella fattispecie non sia oggetto di disciplina normativa sopranazionale, se tale disciplina sia direttamente applicabile al diritto interno, se, ancora, vi siano state sentenze di un interprete superiore, la Corte di giustizia delle Comunità europee, che abbiano trattato quel caso e fornito una statuizione, in quanto tale vincolante.
      E ciò è quanto accaduto per la nozione di rifiuto.
      La nozione di rifiuto, infatti, è definita dalla direttiva 91/156/CEE del Consiglio, del 18 marzo 1991, che ha modificato la direttiva 75/442/CEE del Consiglio, del 15 luglio 1975; essa mira sia a favorire l'armonizzazione delle legislazioni, sia soprattutto a garantire un elevato livello di protezione della salute umana e dell'ambiente contro gli effetti nocivi della gestione dei rifiuti. Ai sensi della direttiva
 

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menzionata, si intende per rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I della citata direttiva e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi.
      L'articolo 1, lettera a), della direttiva è stato trasposto nella legislazione italiana dall'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (cosiddetto «decreto Ronchi»), secondo cui è «rifiuto: qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi».
      Il primo elemento essenziale della nozione di rifiuto è costituito, pertanto, dall'appartenenza ad una delle categorie di materiali e sostanze individuate nel citato allegato A; tale elenco, tuttavia, ha un valore puramente indicativo, poiché lo stesso allegato A, parte I, comprende voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od oggetto, da qualunque attività prodotti.
      Assume quindi rilievo primario la condotta del detentore, incentrata sulla nozione di «disfarsi».
      L'atteggiamento del detentore è stato, quindi, oggetto di interpretazione autentica con l'articolo 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178; il comma 1 dell'articolo 14 prevede che per:

          a) «si disfi» deve intendersi: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale, un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22 del 1997;

          b) «abbia deciso» deve intendersi: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22 del 1997, sostanze, materiali o beni;

          c) «abbia l'obbligo» deve intendersi: l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del decreto legislativo n. 22 del 1997 (che riproduce la lista dei rifiuti che, a norma della direttiva 91/689/CEE del Consiglio, del 12 dicembre 1991, sono classificati come pericolosi).

      Tale disposizione prevede, introducendo una doppia deroga alla nozione generale di rifiuto, che non ricorrono l'atto del disfarsi e la decisione del disfarsi, se i beni o le sostanze o i materiali residuali di produzione o di consumo:

          1) possono essere e vengono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o un diverso ciclo produttivo o di consumo, «senza subire» alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente;

          2) possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o in diverso ciclo produttivo o di consumo, «dopo aver subìto» un trattamento preventivo, senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22 del 1997.

      Tale definizione della nozione di rifiuto, soprattutto nella parte relativa alle deroghe, ha formato oggetto della decisione n. 200/2213 - C(2002)3868, con la quale la Commissione europea ha avviato, nei confronti dell'Italia, la procedura di infrazione, ritenendo la richiamata interpretazione autentica contrastante con gli obblighi previsti dalle richiamate direttive 75/442/CEE e 91/156/CEE, in quanto rappresenta una indebita limitazione del campo di applicazione della nozione di rifiuto.
      I criteri menzionati al comma 2 dell'articolo 14, quali il riutilizzo nel medesimo o in analogo ciclo di produzione o di consumo, coincidono, ad avviso della Commissione

 

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europea, proprio con le operazioni di gestione di rifiuti che la direttiva mira a sottoporre a controllo.
      La Corte di giustizia delle Comunità europee, nel ribadire che l'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine «disfarsi» (sentenza 18 dicembre 1997, Inter-Environment Wallonie), ha osservato che tale nozione è da ritenersi comprensiva anche delle sostanze e degli oggetti suscettibili di riutilizzo economico (sentenza 28 marzo 1990, Gessoso e Zanetti). Quanto al sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva 75/442/CEE si è, inoltre, precisato che esso si riferisce a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (sentenza 25 giugno 1997, Tombesi). Gli Stati membri sono liberi di scegliere le modalità attraverso cui stabilire quando ricorre la decisione di disfarsi, senza tuttavia introdurre presunzioni assolute, che avrebbero l'effetto di restringere indebitamente la nozione di rifiuto e, quindi, di abbassare il livello di tutela dell'ambiente (sentenza 15 giugno 2000, Arco). Non contrasta, inoltre, con le finalità della direttiva 75/442/CEE l'ipotesi secondo cui i residui di produzione possano essere dall'impresa sfruttati o commercializzati, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari e sempre che ciò avvenga senza pregiudizio per l'ambiente (sentenza 18 aprile 2002, Palin Granit Oy).
      In sintesi, la Corte di giustizia delle Comunità europee, più che aderire al partito del rifiuto o a quello del non rifiuto, predilige la strada del rifiuto riutilizzato e controllato.
      È un fatto che il citato articolo 14, nato come norma interpretativa, ha finito con il produrre una molteplicità di orientamenti interpretativi.
      Le criticità, in particolare, riguardano il comma 2 della citata norma, e cioè le disposizioni derogatorie.
      Infatti, dopo aver definito l'atto del disfarsi, la decisione di disfarsi e l'obbligo di disfarsi, l'articolo 14 introduce delle presunzioni assolute (che, come si è visto, non sono compatibili con le finalità delle direttive comunitarie in materia di protezione dell'ambiente), dalla portata così ampia e indefinibile da rendere evanescenti i confini stessi della nozione di rifiuto.
      Che non si tratti di esercizio puramente teorico è testimoniato dalle ricadute sulla delimitazione degli ambiti dell'illecito penale in materia di rifiuti.
      Poiché, infatti, gli illeciti penali in materia ambientale rimandano, in larghissima parte, a nozioni extrapenali, fra le quali, in primis, quella di rifiuto, non è difficile afferrare gli effetti metastatici, coerenti e devastanti, connessi ad una determinata scelta interpretativa.
      Se, infatti, non si tratta di rifiuti, chi li trasporta non può essere classificato come trasportatore di rifiuti (e quindi non deve ottemperare alle prescrizioni connesse); e, ancora, chi li ha prodotti e consegnati al trasportatore neppure può essere considerato un produttore di rifiuti (e, pertanto, va ritenuto esente dagli obblighi e dai controlli relativi); e infine, se, nel trattarli, vengono prodotte immissioni nell'atmosfera, queste ultime non devono ritenersi provenienti da rifiuti (e, dunque, non assoggettabili alla più rigorosa disciplina prevista in materia). E viceversa.
      L'assenza di parametri interpretativi certi incide, quindi, sulla stessa attività di accertamento degli illeciti penali.
      E, infatti, l'incertezza interpretativa determina un oggettivo disorientamento negli organi di polizia impegnati nel contrasto alle attività di illegale smaltimento di rifiuti, mascherate spesso con forme di riutilizzo di mera facciata.
      È evidente, inoltre, il vero e proprio «shopping giudiziario» che tale situazione crea.
      Gli imprenditori, infatti, tenderanno a spostare le proprie attività di riutilizzo in quelle regioni dove si registrerà un orientamento meno rigoroso dell'autorità giudiziaria, conseguentemente penalizzando il mercato e l'occupazione di quelle aree dove, viceversa, gli interventi giurisdizionali
 

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mireranno a restringere le maglie interpretative. Emblematica a tale riguardo è la vicenda dei rottami ferrosi.
      Tale intollerabile situazione di incertezza - ancora più insostenibile in vista del recepimento della decisione quadro 2003/80/GAI del Consiglio, del 27 gennaio 2003, relativa alla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale - ha spinto la Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse ad affrontare in maniera approfondita la questione, giungendo ad approvare all'unanimità, in data 1o luglio 2004, un documento sulla nozione giuridica del termine di rifiuto che ha evidenziato l'urgenza di stabilirne i confini giuridici; e ciò anche per i riflessi in ambito penale della nozione stessa, essendo evidente che tale incertezza definitoria è inconciliabile con il principio di tassatività delle fattispecie penali.
      Molteplici sono state le sollecitazioni registrate dalla medesima Commissione parlamentare, provenienti sia da soggetti istituzionali preposti al contrasto dei reati in materia di rifiuti che da enti esponenziali di interessi ambientali; gli stessi imprenditori, peraltro, hanno rappresentato l'urgenza di porre fine alla condizione di incertezza interpretativa, fonte di alterazione delle regole del mercato e della concorrenza.
      Le conclusioni dell'analisi, effettuata dalla Commissione parlamentare, sono per l'adozione «non più differibile» di opportuni rimedi «in grado, da un lato, di attribuire confini certi alla nozione di rifiuto e, dall'altro, di consentire un'adeguata protezione dell'ambiente compatibile con le esigenze di sviluppo economico.
      Tale risultato può e deve essere raggiunto anche facendo leva sugli interessi dei soggetti economici coinvolti nelle attività di riutilizzazione.
      Il Consiglio europeo, nel Sesto Programma di azione per l'ambiente della Comunità, nell'identificare gli aspetti che devono essere assolutamente affrontati per ottenere uno sviluppo sostenibile, ha sostenuto l'opportunità che la realizzazione degli obiettivi passi attraverso la collaborazione con il mondo imprenditoriale, al fine di attuare un giusto bilanciamento tra interessi ambientali ed economici».
      Ogni percorso che miri a ridare certezza alla nozione giuridica di rifiuto non può, pertanto, che tenere conto, da un lato, della mutata cornice normativa (conseguente all'innesto del diritto comunitario) e, dall'altro, della necessità di trovare un adeguato bilanciamento tra l'esigenza di non abbassare il livello di protezione dell'ambiente e quella di non mortificare l'iniziativa imprenditoriale.
      Lo snodo, giuridico ma anche lato sensu culturale, è il comportamento del detentore delle sostanze residuali e, soprattutto, del detentore-imprenditore.
      Occorre, allora, individuare delle condizioni di fatto che dimostrino che la detenzione è finalizzata alla riutilizzazione economica delle sostanze residuali; sicché, se ricorrono tali condizioni, sempre sottoposte a verifica e a controlli, non ci sarà volontà di disfarsi e, quindi, non ci sarà rifiuto; se tali condizioni non ricorrono ovvero vengono meno, la volontà è nel senso del disfarsi e, pertanto, ci sarà rifiuto.
      L'individuazione delle condizioni di fatto, proprio perché indicative di un atteggiamento volitivo, non può che essere oggetto di una programmazione che deve essere il frutto di scelte imprenditoriali che la pubblica amministrazione sottopone a controllo, preventivo e successivo, quanto alla compatibilità con le esigenze di protezione dell'ambiente.
      Tale programmazione può essere trasfusa in modelli organizzativi e gestionali, predisposti sia a seguito di accordi di programma che autonomamente dalle imprese ovvero dalle associazioni di categoria; l'osservanza di siffatti modelli, verificati e controllati dalla pubblica amministrazione, costituirà il parametro non solo per stabilire se il detentore-imprenditore rimarrà entro i confini del non-rifiuto, ma anche per stabilire se e in quale misura l'impresa possa essere chiamata a rispondere dei reati in materia ambientale commessi da soggetti alla stessa organicamente riconducibili.
 

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      La responsabilità dipendente da reato della persona giuridica non è, peraltro, una novità per il nostro ordinamento; essa è stata introdotta con il decreto legislativo n. 231 del 2001. È di interesse ricordare che tale decreto introduce il concetto di adozione di efficienti modelli organizzativi come sistema attraverso il quale l'ente può escludere ogni riferibilità soggettiva alla propria struttura aziendale del comportamento delittuoso del soggetto autore del reato. Si tratta dell'adozione di «buone prassi» al fine di prevenire la realizzazione, mediante la strumentalizzazione dell'ente, di specifici reati, prassi consistenti in condotte positive di buona organizzazione aziendale, in materia di vigilanza e di controllo interno, che vengono adottate ed efficacemente attuate mediante modelli di organizzazione e gestione che, nello specifico, dovranno garantire un adeguato livello di protezione ambientale.
      Va, inoltre, tenuto presente come in campo ambientale gli impegni internazionali rendono indispensabile procedere, a breve, ad un'estensione dei casi tipizzati di responsabilità da reato per le persone giuridiche, come previsto dalla Convenzione di Strasburgo contro il crimine ambientale, del 4 novembre 1998, e dalla decisione quadro dell'Unione europea in materia di crimine ambientale, del 27 gennaio 2003.
      Appare opportuno, pertanto, ricorrere a siffatti modelli - negoziabili anche dalle associazioni di categoria - da un lato per consentire all'azienda di esplicitare la propria intenzione di «utilizzare» certe sostanze, anziché «disfarsi» delle stesse, attraverso la adozione, certa e attuale, di un modello di impiego o di produzione che veda inclusa la sostanza come bene, e non come rifiuto, nell'attività di impresa; e, dall'altro, per tracciare, in modo altrettanto certo, i confini entro i quali l'impresa può e deve essere chiamata a rispondere dei reati ambientali alla stessa imputabili.
      La previsione, infine, di opportune misure premiali - strutturate in termini di crediti di imposta - potrà avere l'effetto di promuovere e favorire un vero e proprio circolo virtuoso capace di ottenere il recupero dei rifiuti nelle attività produttive secondo modalità rispettose dell'ambiente.
 

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PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

      1. L'articolo 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 2002, n. 178, è sostituito dal seguente:

      «Art. 14. - (Interpretazione autentica della definizione di "rifiuto" di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22). - 1. Le parole: "si disfi", "abbia deciso" o "abbia l'obbligo di disfarsi" di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, di seguito denominato "decreto legislativo n. 22", si interpretano come segue:

          a) "si disfi": qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22;

          b) "abbia deciso": la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22, sostanze, materiali o beni;

          c) "abbia l'obbligo di disfarsi": l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del decreto legislativo n. 22.

      2. Non ricorre la decisione di disfarsi dei beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo, di cui alla

 

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lettera b) del comma 1, quando sussistono le seguenti condizioni:

          a) le imprese hanno adottato modelli di organizzazione e di gestione, di cui al comma 3, idonei a realizzare la riutilizzazione certa dei beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo di cui all'allegato A del decreto legislativo n. 22, in modo da assicurare un'efficace protezione dell'ambiente;

          b) le imprese utilizzano attualmente i beni e le sostanze o i materiali di cui alla lettera a) nel loro ciclo produttivo nel rispetto dei modelli di organizzazione e di gestione di cui al comma 3.

      3. I modelli di organizzazione e di gestione sono definiti, attraverso l'istituto dell'accordo di programma ai sensi degli articoli 4, 25 e 42 del decreto legislativo n. 22, ovvero autonomamente dalle imprese o dalle relative associazioni di categoria, sulla base di quanto previsto:

          a) dal decreto di cui al comma 5;

          b) dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e, in particolare, dagli articoli 2 e 7, commi 3 e 4, considerati in riferimento al ciclo integrale di gestione dei rifiuti e in relazione ai reati in materia ambientale.

      4. I modelli di cui al comma 3, definiti autonomamente dalle imprese o dalle relative associazioni di categoria, devono essere comunicati al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio che, entro due mesi dalla data del loro ricevimento, può formulare osservazioni sulla idoneità dei modelli, anche imponendo prescrizioni. In caso di inosservanza delle prescrizioni, ricorre la fattispecie di cui al comma 1, lettera b).
      5. Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, di concerto con i Ministri delle attività produttive e della salute, da emanare di intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della

 

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presente disposizione, sono definite le linee guida per la predisposizione e l'adozione dei modelli di organizzazione e di gestione di cui al comma 3.
      6. Fatte salve le limitazioni settoriali della Commissione europea e limitatamente all'anno fiscale nel quale le imprese interessate attuano tutte le procedure per l'adesione e la realizzazione dei modelli di organizzazione e di gestione di cui al comma 3, è concesso un credito di imposta ai sensi del comma 7. Sono esclusi dall'applicazione del presente comma i soggetti previsti dall'articolo 74 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni.
      7. Il credito di imposta di cui al comma 6 è riconosciuto alle imprese che hanno realizzato interventi ovvero hanno acquistato materiali o strumentazioni per l'ammodernamento strutturale o tecnologico al fine di aderire ai modelli di organizzazione e di gestione di cui al comma 3, nella misura pari alla spesa sostenuta e per un massimo di 10.000 euro, ed è utilizzabile a decorrere dal 1o gennaio dell'anno successivo a quello indicato al citato comma 6, esclusivamente in compensazione ai sensi del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni.
      8. Il credito di imposta di cui al comma 6 non concorre alla formazione del reddito del valore della produzione rilevante ai fini dell'imposta regionale sulle attività produttive né ai fini del rapporto previsto dall'articolo 96 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni.
      9. Il credito di imposta di cui al comma 6 spetta a condizione che:

          a) gli interventi o gli acquisti di cui al comma 7 siano avvenuti in data successiva a quella di entrata in vigore della presente disposizione;

          b) le spese per gli interventi o per gli acquisti di materiali o strumentazioni per l'ammodernamento strutturale o tecnologico siano state sostenute al fine dichiarato

 

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dal presente articolo e siano documentate ai sensi della vigente normativa fiscale.

      10. Entro il 31 dicembre di ciascun anno il Governo provvede ad effettuare la verifica e il monitoraggio degli effetti delle disposizioni di cui al presente articolo identificando il numero delle imprese che, nel corso dell'anno, hanno aderito ai sistemi di organizzazione e di gestione di cui al comma 3.
      11. Al credito di imposta di cui al comma 6 si applica la regola «de minimis» di cui alla comunicazione della Commissione delle Comunità europee 96/C68/06, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee C68 del 6 marzo 1996, e ad esso sono cumulabili altri benefìci eventualmente concessi ai sensi della citata comunicazione purché non venga superato il limite massimo di 90.000 euro nel triennio».
    
    


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