Onorevoli Colleghi!
Le mancate scelte.
Il Documento di programmazione economica e finanziaria 2006-2009 è utile per valutare quanto il Governo ha fatto finora e quanto si impegna a realizzare da qui alla fine del suo mandato. Per quanto riguarda la valutazione dell'operato del Governo, il quadro tracciato dal DPEF è inequivocabile: negli ultimi quattro anni sono peggiorati tutti gli indicatori economici; la crescita del Pil è stata debolissima, lo 0,5 per cento in media, fino ad arrestarsi del tutto nel 2005; mentre l'economia mondiale ha conosciuto una ripresa negli ultimi due anni, l'Italia continua a perdere competitività, la quota delle nostre esportazioni sul commercio mondiale si è ridotta ed è adesso di circa un punto più bassa che un decennio fa. Anche la crescita dell'occupazione sembra entrare in una fase di decelerazione.
Per quanto riguarda il futuro, il DPEF è troppo vago. Se presenta saldi di finanza pubblica più realistici che in precedenza, non dice nulla su come intervenire; se afferma che il risanamento dei conti può avvenire solo con interventi strutturali e che bisogna ridurre evasione e sommerso, non c'è nessun impegno esplicito in questa direzione.
Del resto, come credere a un Governo che si è caratterizzato per una offerta di condoni mai vista? Come credere a un Governo sotto il quale il surplus primario, dopo le revisioni Eurostat, si è ridotto dal 4,5 per cento del Pil del 2000 allo 0,6 per cento del 2005?
La vera natura del documento è il rinvio delle misure per rimettere in ordine i nostri conti pubblici alle scelte del prossimo Governo.
È vero, il DPEF indica cinque classi di intervento come prioritarie (opere pubbliche, maggiore libertà d'impresa, alleggerimento del carico fiscale, difesa del potere d'acquisto delle famiglie e qualità della spesa) ma allora perché su queste cose non si è intervenuti prima? Inoltre le proposte sono vaghe e indefinite.
Con questo Documento il Governo oscura, quindi, lo stato reale della finanza pubblica nazionale - più grave di quanto si ammetta -, ribadisce le linee guida del precedente DPEF, indica coperture fittizie, al fine di crearsi qualche margine per operazioni elettoralistiche. Sono a malapena presenti i «titoli», degli interventi, ma essi sono così generici da poter ottenere l'adesione di tutti o quasi.
Inoltre, le versioni sui contenuti veri della manovra divergono significativamente sull'entità della riduzione Irap (non specificata nel DPEF), delle spese per lo sviluppo, delle agevolazioni alle famiglie, e soprattutto sulle coperture finanziarie.
Il ministro Siniscalco ha ribadito che la manovra in ogni caso sarà essenzialmente una manovra di rientro dal deficit eccessivo con poche risorse per interventi mirati per la crescita: «manovra netta e manovra lorda tendono a coincidere». Nella versione del DPEF trasmessa al Parlamento, peraltro, non c'è l'esplicita esclusione del ricorso a una tantum e condoni fiscali, in funzione dell'aggiustamento della finanza pubblica. Una esclusione che, invece, era stata più volte annunciata ed era presente in un prima versione del testo. Nel DPEF il governo si limita a dire che «l'aggiustamento della
L'occultamento della verità.
Il documento ammette solo parzialmente il reale stato dei conti pubblici. Ammette però che esso non è addebitabile all'andamento dell'economia: le tabelle del DPEF dicono, infatti, che il saldo primario strutturale (al netto del ciclo) si è ridotto dal 2001 al 2005 di quasi un punto di Pil.
Se le previsioni saranno rispettate finiremo con il 4,3 per cento di disavanzo nel 2005; pur assumendo una crescita a tassi sconosciuti negli ultimi anni (1,5 per cento) per i prossimi cinque vedremo crescere il nostro debito pubblico, ridurre il saldo primario a zero, e ad avere un disavanzo vicino al 5 per cento del Pil.
Ma, ancora una volta, non si rinuncia a fare propaganda quando si afferma che:
«l'impostazione di politica economica rimane quella tracciata nel DPEF dello scorso anno»,
«in particolare, il tetto alla spesa introdotto con la legge finanziaria 2005 permette la riduzione graduale della spesa pubblica e dell'indebitamento», che infatti sono cresciuti come mai era accaduto negli ultimi anni.
la crescita dell'occupazione (che peraltro si è fermata) è merito del buon funzionamento della riforma del mercato del lavoro varata in questa legislatura», mentre è opinione condivisa dagli studiosi che il «merito» è semmai della regolarizzazione degli immigrati.
«il Governo ha aumentato in maniera strutturale la spesa per investimenti in infrastrutture», affermazione che è l'esatto contrario della realtà come certificato dalla Corte dei conti, e cosi via.
Ed è proprio la Corte dei conti (nel corso dell'Audizione in Parlamento sul Dpef) a sostenere che «l'andamento dell'economia e dei conti pubblici propone motivi di seria preoccupazione» perché «oltrepassa la soglia che sarebbe giustificata dallo sfavorevole andamento del ciclo» e conferma il «deterioramento strutturale intervenuto nell'ultimo quinquennio».
Così, per nascondere le proprie responsabilità in materia di finanza pubblica ed economica, il Governo, nel DPEF, presenta i dati confrontando il 2004 con il 1995, oppure con il 2000 od il 2001, a seconda delle sue convenienze statistiche; così facendo occulta il peggioramento sensibile di praticamente tutti gli indici economici da quando il centrodestra è al governo del paese.
Abbiamo provato, viceversa, a confrontare i risultati delle politiche del centrosinistra con quelli del centrodestra:
Nel DPEF si afferma che il debito si è ridotto dal 110,9 per cento nel 2001 al 106,6 per cento nel 2004. In realtà il debito era il 122,6 per cento nel 1996 e si era ridotto al 110,9 nel 2001, mentre è previsto crescere nuovamente al 108,2 nel 2005 (sempre che vadano in porto dismissioni per 15 miliardi di euro negli ultimi mesi dell'anno).
Nel DPEF si afferma che «il tasso di disoccupazione è sceso dal 10,1 per cento del 2000 all'8 per cento del 2004» e che «dal 2001 ad oggi gli occupati sono aumentati di circa 1.100.000 unità». In realtà, il tasso di disoccupazione era pari all'11,2 per cento nel 1996 e al 9,1 per cento nel 2001. Il numero degli occupati è aumentato di 1.276 mila unità nel periodo 1996-2001 e di 800 mila unità dal 2001 al 2004.
La crescita zero.
La parola che il Presidente del Consiglio non voleva pronunciare è stata detta dall'Ocse. Le previsioni allarmanti sull'economia del nostro Paese e sui nostri conti pubblici coinvolgono anche istituti governativi italiani come l'Istat e l'Isae.
L'Ocse calcola un Pil per l'anno 2005 con il segno meno (-0,6 per cento): non accadeva da 12 anni.
Altri istituti hanno pronosticato la «crescita zero». Per l'Isae (che dipende dal MEF) il Pil sarà pari a -0,1 per cento; per il ref., «anche un valore negativo sembra possibile»; per il Centro studi di Confindustria, «i dati sono peggiori delle peggiori previsioni...va a picco la propensione all'acquisto dei beni durevoli»; per il centro studi di Banca Intesa, «la crescita 2005 sarà probabilmente negativa»; così i ricercatori di Unicredit che hanno azzerato la previsione di crescita del Pil 2005.
Ma il ristagno in realtà dura da 4 anni: 2001, + 1,8 per cento; 2002, + 0,4 per cento; 2003, + 0,3 per cento; 2004, +1,2 per cento.
Il Mezzogiorno è tornato dopo 7 anni (escludendo il 2000) a crescere meno del resto del paese: lo 0,8 per cento nel 2004 rispetto all'incremento dell'1,4 per cento del Centro-Nord e dell'1,2 per cento dell'insieme dell'Italia. A determinare tale rallentamento - secondo Svimez - la forte riduzione del tasso di crescita dei consumi finali interni.
Nella classifica della competitività dei diversi sistemi-paese, l'Italia, in un solo anno ha perso due posizioni slittando in 53o posizione (Germania e Francia sono rispettivamente al 23o ed al 30o posto). Negli ultimi 4 anni - afferma il rapporto Ocse - la competitività delle merci italiane è peggiorata del 25 per cento in termini di costo del lavoro relativi, contro perdite di
Nel DPEF il Governo ha ritenuto di dover aggiungere una tabella con una previsione ancora più ottimistica di crescita del Pil pari al 2,5 per cento. Potremmo dire che manca l'ipotesi più realistica e di maggior consenso pari allo 0,9-1 per cento di crescita.
Invece, le previsioni di crescita, a partire da quelle relative all'anno in corso, sono tutte più pessimistiche rispetto a quanto ipotizzato dal DPEF:
A. da un indagine del Sole-24Ore si desume che per l'87 per cento degli imprenditori
Le ragioni della perdita di competitività.
Le retribuzioni sono cresciute poco in termini reali. Semmai è troppo alto il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup). Negli ultimi cinque anni il costo del lavoro per unità di prodotto in Francia e in Germania è diminuito, da noi è cresciuto di oltre il 12 per cento. Il Clup in Italia nel 2004 è aumentato del 2,3 per cento rispetto allo 0,9 per cento della Francia e alla diminuzione dell'1,3 per cento registrata in Germania. L'Ocse prevede, per il 2005, un aumento del Clup in Italia del 3,9 per cento a fronte di un 1,3 per cento in Francia e di una probabile diminuzione tedesca.
Negli ultimi cinque anni la produttività in Germania è aumentata del 10 per cento, in Francia del 12 per cento, in Italia è diminuita di quasi un punto e mezzo.
Le variazioni nella produttività totale dei fattori, che offrono una misura sintetica dei miglioramenti nell'efficienza produttiva - sottolineano in un loro documento R. Costi e M. Messori - sono state preoccupanti: se fra il 1993 e il 2002 in Italia questo indicatore è aumentato in media di circa l'1 per cento all'anno, nei primi anni del Duemila la sua dinamica è stata addirittura negativa.
Infine, non si può non sottolineare il peso del cuneo fiscale e contributivo: fatto «100» il salario netto, il costo medio per l'impresa è - incluso l'Irap - pari a 193, inferiore a quello tedesco (208), pari a quello francese (193), ma superiore a quello della Gran Bretagna (145).
Si noti infine che, fra il 1996 e il 2004, la quota delle esportazioni italiane nel commercio mondiale è passata dal 4,8 per cento al 3,8 per cento a fronte di una quasi invarianza nella quota delle esportazioni francesi e di un incremento di circa 1/2 punto percentuale di quelle tedesche.
Esportazioni: quote di mercato
(percentuali)
Francia | |||||
Germania | |||||
Giappone | |||||
Italia | |||||
Regno Unito | |||||
Stati Uniti | |||||
Paesi avanzati | |||||
Paesi emergenti |
Nota: stime
Fonte: Elaborazione su dati IMF-DOTS
L'insoddisfacente dinamica delle nostre esportazioni ha pesato negativamente sul tasso di crescita del PIL italiano. Il consuntivo Istat del primo trimestre 2005 segna un deficit di 4.520 milioni: il peggior risultato dal 1991 (2004, passivo di 2.711 milioni di euro). Gli analisti della Fondazione
Il deficit.
La nuova stima per il 2005, è pari al 4,3 per cento del Pil, rispetto al 2,9-3,5 per cento della trimestrale di cassa di aprile, calcolata assumendo la crescita pari allo zero e con misure una tantum pari allo 0,4 per cento del Pil (5,4 miliardi di euro). L'avanzo primario si riduce ulteriormente allo 0,6 per cento. Il deficit tendenziale per il 2006 è previsto pari al 4,7 per cento. In seguito alle revisioni Istat e Eurostat, il deficit è stato rivisto al rialzo per il 2001 (3,2 per cento), il 2002 (2,7 per cento), il 2003 (3,2 per cento) e il 2004 (3,2 per cento). Un deficit fuori linea con continuità, il che spiega l'apertura della procedura per disavanzo eccessivo. L'Ecofin ha approvato la Raccomandazione della Commissione che prevede un Piano di rientro biennale al disotto del 3 per cento entro il 2007, attraverso una correzione del 1,6 per cento del Pil (26,3 miliardi di euro) da attuarsi almeno per lo 0,8 per cento (11,4 miliardi) nell'anno 2006 e per lo 0,8 per cento nel 2007 (14,8 miliardi). Il deficit programmatico diventerebbe pari al 3,8 per cento per il 2006, del 2,8 per cento nel 2007, e del 2,1 per cento nel 2008, nel 2009, del 1,5 per cento.
Il rapporto deficit/Pil - secondo il Centro studi ref. - dovrebbe assestarsi quest'anno al 4,6 per cento, leggermente al di sopra delle stime del governo, ma il prossimo anno lo stesso indicatore dovrebbe raggiungere, secondo le previsioni del ref., il 5,8 per cento. Da questi dati risulta - si legge nel rapporto del ref. - «una bassa probabilità di conseguimento del target del 3 per cento nel 2007 e un'eredità pesantissima nei conti pubblici trasmessa al prossimo governo».
Il debito.
Il debito è in crescita dopo anni in cui era in discesa. Nel 2005 sarà del 108,2 per cento contro il 106,6 per cento del 2004. In realtà, senza correzioni in corso d'anno, il debito sarà pari a 109,3 per cento del Pil (1.510 miliardi). Privatizzazioni per 15 miliardi dovrebbero ridurre il debito a fine 2005 a 1.495 miliardi e dunque, appunto, a 108,2 per cento del Pil.
La Banca d'Italia ha comunicato che a fine aprile il debito era pari a 1.514,6 miliardi di euro, 13,5 miliardi in più rispetto al mese di marzo e 58 miliardi in più (+ 3,98 per cento) rispetto al dato dell'aprile 2004.
La crescita del debito tra 2004 (106,6 per cento - 1.440 miliardi di euro) ed il 2005 dovrebbe dunque essere pari a circa 70 miliardi di euro. L'avanzo primario è ridotto allo 0,6 per cento del Pil; mentre con i governi di centrosinistra raggiungeva il 5 per cento. Il fabbisogno è previsto pari a 65 miliardi contro i 50 del 2004 ed a fronte dei 44 miliardi previsti. Il rientro prevede privatizzazioni per 15 miliardi all'anno per scendere al 107,4 per cento
Il fabbisogno.
Lo scorso DPEF vedeva il deficit di cassa (a legislazione vigente) crescere ogni anno per raggiungere nel 2008 quota 96 miliardi di euro. Il nuovo DPEF mostra un fabbisogno che, sempre a legislazione vigente, rimane stabile o piega spontaneamente verso il basso. Nel 2009 è, infatti, previsto pari a 63,6 miliardi (65,7 nel 2008, oltre 30 miliardi in meno rispetto alla stima di un anno fa). Nel 2005 è previsto pari a 65,19 miliardi (era previsto dal DPEF 2005-2008 per quel anno pari a 83 miliardi di euro). Nulla apparentemente giustifica il fenomeno poiché entrambe le rilevazioni sono a legislazione vigente, e non risulta siano state prese misure per abbattere il deficit di cassa più del disavanzo delle Amministrazioni. Nel DPEF si sostiene peraltro che «La dinamica del debito è collegata all'evoluzione del fabbisogno di cassa che è previsto scendere sotto il valore dell'indebitamento netto, sia per gli effetti sulla manovra sia per l'andamento previsto di alcuni aggregati di finanza pubblica, quali la spesa per interessi, i debiti pregressi della ASL e i debiti di imposta, nonché una riduzione dei crediti dell'Italia nei confronti della UE.». Sono leciti alcuni dubbi riguardanti il futuro della spesa per interessi, i debiti delle ASL nonché i debiti d'imposta. Questo ha indotto la Corte dei conti a sostenere che «desta sorpresa la proiezione del dato relativo al fabbisogno di cassa» e pertanto «sarebbe fondamentale disporre di più analitiche informazioni circa le motivazioni che hanno indotto ad accogliere, nel DPEF, una proiezione »tendenziale« di fabbisogno così favorevole. Non è agevole ricostruire l'insieme di fattori che possono giustificare un così radicale mutamento di stime, non sembrando sufficienti quelli riferibili alle riclassificazioni imposte da Eurostat, alla sostanziale eliminazione delle
Eppure i conti non tornano.
Mettendo a confronto, come ha fatto la Cgil, i quadri tendenziali e programmatici del DPEF con le cifre contenute nei rapporti di consenso dei tre principali Istituti di ricerca economica (ref., Prometeia, Cer), emerge uno smaccato tentativo del Governo di «truccare» i tendenziali per costruire un quadro programmatico falsamente rispettoso delle raccomandazione della Commissione Europea. Emerge un rilevante scostamento soprattutto per la spesa corrente che è sottostimata rispetto alle previsioni ref., Prometeia, Cer, per circa 10 miliardi di euro nel 2006 e per circa 16 miliardi nel 2007. La sottostima, rileva lo studio della Cgil, è particolarmente vistosa per il pubblico impiego, cioè è largamente concentrata nella voce Redditi da lavoro dipendente ( meno 8.008 milioni di euro nel 2006 e meno 10.411 nel 2007).
Secondo il DPEF la spesa per «redditi da lavoro dipendente della pubblica amministrazione» scende dai 157.838 milioni di euro del 2005 ai 154.450 milioni del 2006. I tre centri studi citati stimano viceversa un aumento di 7 miliardi. Le ipotesi sono dunque due: o il Governo non ha conteggiato gli aumenti contrattuali oppure intende licenziare qualche decina di migliaia di dipendenti pubblici. Il DPEF si limita a prevedere una riduzione dello 0,5 per cento del personale ed a valutare le retribuzioni pubbliche incorporando gli effetti connessi alla corresponsione dell'indennità di vacanza contrattuale, secondo l'attuale cadenza biennale prevista.
Dubbi anche sull'entità della manovra di rientro in rapporto al Pil. Una manovra dell'1,6-1,8 per cento del Pil (0,1 per cento annuale deriverebbe da una diminuzione dei tassi di interesse sul debito) divisa in due anni non consente di abbattere il deficit 2007 al 2,8 per cento, ma lo lascerebbe sopra il 3 per cento.
L'atmosfera di ottimismo da parte del governo sulle prospettive dei conti pubblici italiani e sulle nuove possibilità che si aprono per la politica di bilancio a seguito della revisione del Patto di stabilità e crescita non è giustificata. La revisione del Patto sembra andare a vantaggio di paesi come la Germania e la Francia, paesi con un debito pubblico relativamente basso che potranno così superare la soglia del 3 per cento del disavanzo senza incorrere in sanzioni. Al contrario, la politica economica e fiscale italiana non può non fare i conti con i gravissimi squilibri di fondo della finanza pubblica in un quadro economico generale tendenzialmente recessivo.
L'incidente della mancata certificazione da parte di Eurostat dei dati contabili presentati dall'Italia in Europa per il 2004 dimostra la necessità di rendere più trasparente e omogenea la contabilità dei diversi aggregati (Stato, Settore statale, Amministrazioni pubbliche, l'ultimo dei quali costituisce il conto di riferimento dei trattati europei) e di conseguenza di risolvere la questione del divario fra fabbisogno e indebitamento.
Ma c'è anche da tenere presente la natura delle operazioni poste in essere dal governo in questi anni. Le misure adottate sono state, infatti, o non strutturali, fatte di condoni e una tantum; o dubbie e pericolose, come le famigerate operazioni di finanza creativa. Se talvolta sono effettivamente servite a generare effetti di cassa (ma frequentemente solo anticipando al presente incassi futuri), spesso queste operazioni sono servite esclusivamente a mascherare poste di bilancio e ritoccare i conti di fronte alla Commissione europea. Sono così arrivate le bocciature da parte di Eurostat, che ha rivisto in peggio i dati di finanza pubblica a causa della riclassificazione: delle cartolarizzazioni immobiliari Scip2; dell'anticipazione all'erario da parte dei concessionari d'imposta; dei finanziamenti di Ispa all'Alta velocità, considerati da Eurostat come debito delle pubbliche amministrazioni.
La recente Raccomandazione europea è piuttosto generosa nei confronti dell'Italia per quanto riguarda le previsioni di crescita. Infatti, come le previsioni di crescita per la zona euro sono state riviste al ribasso - a causa del caro petrolio - fino all'1,6 per cento per il 2005 e al 2,1 per cento nel 2006, così quelle dell'Italia sono state fissate a zero per l'anno in corso e all'1,5 per cento per il prossimo. Il differenziale di crescita dell'Italia rispetto all'area euro dovrebbe quindi passare dall'1,6 per cento allo 0,6 per cento in un anno: una previsione benevola ma probabilmente di difficile realizzazione.
La manovra per il 2006.
Oltre ai dati già riferiti, la manovra dovrebbe (ma è lecito dubitarne) avvenire senza misure una tantum, con la riduzione delle spese (in particolare delle Autonomie) e con il recupero dell'evasione. In realtà, per quest'ultimo aspetto la formula è ambigua in quanto viene scritta come «ampliamento della base imponibile», termine che pur lasciando invariate le aliquote può preludere ad un aumento della tassazione (per lo più indiretta).
La manovra per il 2006 dovrebbe ammontare a 11,5 miliardi di euro, escludendo però le eventuali risorse necessarie per lo sviluppo e l'alleggerimento del carico tributario.
Cinque linee guida sono indicate nel documento:
maggiori investimenti nelle opere pubbliche;
liberalizzazione dei mercati e semplificazione della burocrazia;
meno tasse;
tutela del potere d'acquisto delle famiglie (tasso d'inflazione programmato: 1,6 per cento; quella reale nel 2004: 2,2 per cento);
maggiore qualità dei conti pubblici (misure strutturali, controllo della spesa corrente).
La suddivisione delle risorse non è chiara:
alcune indiscrezioni prevedono un 4 miliardi per la riduzione dell'Irap nel 2005 (togliendo un terzo del costo del lavoro dall'imponibile), 1-1,5 miliardi per ridurre il cuneo fiscale per artigiani e piccole imprese, qualche spicciolo per il caro-affitti o per gli assegni familiari.
altri propendono per una riduzione dell'Irap per il 2005 limitato a 1,5 miliardi (togliendo una parte dei contributi dalla base imponibile) e 4-5 miliardi per finanziare e completare le opere pubbliche già cantierate, investimenti che avrebbero il vantaggio di funzionare da moltiplicatore (la cosiddetta «riscoperta di Keynes» con cui i media hanno titolato i pezzi sull'incontro del Ministro dell'economia con il Governatore).
Preoccupa la genericità delle coperture (lotta all'evasione, tagli alle spese) che dovrebbero, specie per quanto concerne i risultati della lotta all'evasione, essere contabilizzati a consuntivo. Il rischio vero è quello di spese in deficit solo formalmente coperte della cui copertura sostanziale si dovrà fare carico il prossimo Governo.
La lotta all'evasione dovrebbe rendere circa 3 miliardi ed altrettanti deriverebbero dal taglio dei trasferimenti alle Autonomie. Infine altri 3 miliardi verrebbero da interventi di razionalizzazione sui ministeri ed altri enti pubblici e delle loro spese correnti (consumi intermedi). Rimane ancora indefinito il piano per incrementare l'Iva ed, in alternativa, una maggiore tassazione sulle rendite finanziarie.
Per la tutela del potere d'acquisto delle famiglie, oltre a non meglio precisate misure per il controllo delle tariffe e dei prezzi di alcuni servizi, si accenna alla detrazione delle spese sostenute per gli affitti, ma anche per l'energia ed i trasporti. Non si capisce, peraltro, come si possa intervenire con la deduzione delle spesa per l'affitto dall'imponibile Ire a favore di famiglie a basso reddito e dunque incapienti fiscalmente.
Sembra accantonato il tema del «quoziente familiare», sostanzialmente perché troppo costoso. Lo stesso Isae aveva infatti calcolato un costo dai 3,7 ai 18 miliardi di euro. L'ipotesi principale ipotizzava uscite per 7,8 miliardi con un beneficio per le famiglie che andrebbe dai 750 ai 1.500 euro.
Il tetto del 2 per cento.
Per l'aggiustamento di carattere strutturale del bilancio pubblico, il DPEF prevede il rafforzamento e il miglioramento della regola del 2 per cento. La regola sarebbe resa più aderente alle singole situazioni e sarebbero tenute in considerazione le priorità connesse a specifiche situazioni. Dovrebbero inoltre essere introdotti meccanismi di carattere premiale per le amministrazioni più virtuose.
La regola del 2 per cento è stata introdotta con la legge finanziaria per il 2005. Questa regola è stata presentata come mutuata dall'esperienza inglese, tanto da parlare di «metodo Gordon Brown», dal nome del Cancelliere dello Scacchiere, e costituisce un primo tentativo di seguire un approccio top-down (la decisione sul totale della spesa deve precedere le scelte allocative). Ma questo approccio richiede un sistema pluriennale di programmazione della spesa che contenga informazioni sulle tendenze del bilancio in assenza di nuove decisioni politiche.
In realtà, c'è un equivoco di fondo, che sia possibile ridurre la spesa, magari non sacrificando i servizi erogati ai cittadini, senza fare scelte allocative esplicite, senza cioè scegliere quali aree devono ridursi e quali crescere. Così il ruolo che emerge per l'autorità di bilancio dalla regola di una crescita uniforme della spesa pubblica al 2 per cento, è fissare un obiettivo puramente finanziario, un tetto alla spesa, lasciando ai centri di spesa, peraltro spesso privi di margini reali di autonomia, il compito di aggiustarsi. Presumendo che questo processo di aggiustamento porti all'individuazione e all'eliminazione degli sprechi.
L'utilizzo dello strumento DPEF da parte del Governo.
La fissazione del DPEF come vincolo per la successiva legge finanziaria ha dato un contributo importante al risanamento finanziario realizzato dal nostro paese. Eppure, grazie all'operato dell'attuale Governo, da anni il DPEF è una scatola vuota dai contorni non ben definiti. Così, come ogni anno, si è riaperta la discussione sull'utilità dello strumento DPEF. «Documento da seminario» l'ha definito l'ex ministro Tremonti, che ritiene essenziali soltanto il Programma di stabilità europeo e la legge finanziaria (ma le cifre del DPEF sono quelle di riferimento per i programmi di stabilità europei).
Dal DPEF 2006-2009 emerge un quadro molto diverso da quello che veniva proposto fino a pochi mesi fa. Con l'ultima legge finanziaria le previsioni ufficiali davano il disavanzo 2005 al 2,7 per cento del PIL (e quello 2004 al 2,9 per cento), mentre la Trimestrale di cassa (fine aprile, poco meno di tre mesi fa) stimava un disavanzo 2005 compreso tra il 2,9 per cento e il 3,5 per cento.
Molte sono le cause di un peggioramento così rilevante: sopravvalutazione degli interventi di contenimento delle spese e di aumento delle entrate decisi in finanziaria, tagli di imposte effettuati senza coperture, pratiche contabili discutibili che non hanno superato il vaglio di Eurostat, ottimismo delle ipotesi macroeconomiche.
Come sono cambiate le previsioni per il 2005 da settembre ad oggi.
Indebitamento AA. PP. (per cento PIL) | |||
Avanzo primario AA.PP (per cento PIL) | |||
Debito pubblico (per cento PIL) | |||
PIL reale (crescita) |
Dalla ricostruzione dei DPEF degli ultimi anni emerge quanto segue:
Luglio 2001. Il primo DPEF di legislatura vedeva il Pil 2001 attestarsi al 2,4 per cento. Convinzione del Governo era che la spinta propulsiva che sarebbe derivata dalle sue politiche avrebbe consentito di conseguire un tasso di crescita costantemente superiore al 3 per cento. Ci si affidava alla riedizione della legge Tremonti, all'abolizione totale della tassa sulle successioni, al rientro dei capitali dall'estero, alla promessa di ridurre al 23 e 33 per cento le aliquote personali sul reddito, al contenimento della spesa corrente per circa l'1 per cento del Pil l'anno (impegni, questi ultimi due, non mantenuti). I risultati: la crescita si è fermata all'1,8 per cento, con il deficit che le recenti riclassificazioni Eurostat hanno collocato al 3,2 per cento del Pil.
Luglio 2002. A fronte di una previsione contenuta di crescita (1,3 per cento), il Governo rinviava agli anni successivi una ripresa consistente (tra il 2,9 e il 3 per cento). «Dopo il brusco rallentamento, la situazione oggi è caratterizzata da un forte miglioramento delle prospettive». Gli obiettivi erano ambiziosi: riformare il sistema fiscale, il mercato del lavoro, la previdenza, la funzione pubblica con la trasformazione dei ministeri in centri di responsabilità. I risultati: Pil 2002 allo 0,4 per cento, 2003 allo 0,3 per cento, con il deficit al 2,7 per cento nel 2002 e al 3,2 per cento nel 2003-2004. Il debito è risultato nel 2002 al 108,3 per cento del Pil, al 106,8 per cento nel 2003 e al 106,6 per cento lo scorso anno. A consuntivo, il primo modulo della riforma Irpef ha riguardato i redditi fino a 25mila euro, con la no tax area a quota 7.500 euro. L'obiettivo di una crescita 2003 al 2,9 per cento è stato largamente disatteso, è stata approvata la riforma del mercato del lavoro, mentre quella delle pensioni ha visto la luce nel 2004 (ma gli effetti a regime si avranno solo dal 2008).
Luglio 2003. Si rilanciava sulle riforme dell'istruzione, del lavoro e delle pensioni, sul potenziamento delle infrastrutture, condizione ritenuta indispensabile per ridare competitività all'intero sistema economico. Per effetto delle misure proposte dal Governo, il Pil sarebbe cresciuto del 2 per cento nel 2004, «con un'accelerazione progressiva nell'arco del triennio successivo». I risultati: lo scorso anno il Pil è cresciuto dell'1,2 per cento e quest'anno si prevede crescita zero, come documentato dal DPEF attuale.
Luglio 2004. Era il primo predisposto da Domenico Siniscalco. C'erano le ennesime revisioni al ribasso della crescita e al rialzo del deficit per l'anno in corso ma, al solito, si rinvia il miracolo agli anni successivi.
Se questo è il quadro ben si comprendono i dubbi sull'utilità di uno strumento destinato comunque a divenire sorpassato al momento della presentazione della Legge finanziaria. Eppure l'idea di un abbandono dello strumento DPEF non è molto convincente. Al contrario, non ci si dovrebbe limitare ai saldi di bilancio, ma si dovrebbe prestare maggiore attenzione all'andamento dei principali aggregati di entrata e di spesa, sia per l'anno in corso, che costituisce la base per le previsioni delle tendenze future, sia per il piano triennale/quadriennale programmatico. Ad esempio, non c'è attualmente nel Dpef una seria analisi sulla previsione tendenziale della spesa sanitaria o di quella pensionistica, né tanto meno una indicazione sulla previsione programmatica. Invece, solo dopo una disamina dei livelli delle principali voci di spesa e di entrata e delle relative variazioni è possibile formulare un giudizio sul governo, in merito all'attuazione delle sue politiche di settore, allocative e distributive, rispetto al quadro programmatico di legislatura.
Inoltre, sarebbe necessario fornire maggiore considerazione al quadro tendenziale e programmatico delle Amministrazioni pubbliche disaggregato per settori istituzionali. E questo per ragioni legate al delicato rapporto fra finanza pubblica e nuovo assetto costituzionale. Non bisogna dimenticare, ragionando di DPEF, Bilancio e Finanziaria, che gli ultimi due riguardano il bilancio dello Stato, il quale non esaurisce più il complesso della finanza pubblica. Parlamento e Governo centrale non sono gli unici centri decisionali, mentre cresce (o dovrebbe crescere) l'autonomia in materia di entrate e di spese attribuita a Regioni e a enti locali. Il nuovo quadro richiede pertanto di rivedere l'intero modello di costruzione della politica di bilancio, anche prevedendo un coinvolgimento maggiore di questi enti nelle scelte che li riguardano. In concreto, il DPEF potrebbe diventare il documento che stabilisce e regola i rapporti tra finanza centrale (inclusi gli enti di previdenza) e amministrazioni locali. Conseguentemente, a giugno-luglio si avrebbe il quadro generale delle Amministrazioni pubbliche, distinto tra amministrazione centrale ed enti di previdenza da un lato e amministrazione locale dall'altro, all'interno del quale Stato centrale e governi regionali e locali possano fare in settembre le proprie scelte di bilancio. Si potrebbe così restituire al DPEF la funzione originaria, di esperienza progettuale del governo discutendone ampiamente in Parlamento ma anche interloquendo con gli altri attori economici sulle reale situazione del paese, al contempo contribuendo a risolvere le tensioni createsi con l'attuale modello (ossia quello con il quale le regole per la finanza decentrata vengono decise dal governo centrale nella legge finanziaria).
1. Le privatizzazioni.
A. L'Italia nel corso degli anni 90 ha compiuto un'imponente opera di privatizzazione di beni e imprese in mano allo Stato o ad altri enti pubblici. Le dimensioni delle privatizzazioni italiane sono state imponenti, anche perché sino al 1992 lo Stato deteneva una quota significativa del sistema produttivo e finanziario nazionale. Nel 2004 l'Italia ha proseguito l'opera di privatizzazione, favorita anche dall'andamento positivo dei mercati azionari.
B. Il prezzo dell'energia elettrica per usi industriali è sensibilmente superiore alla media europea, nonostante l'avvio della c.d. «borsa elettrica». All'ingrosso, la media aritmetica dei prezzi ufficiali dell'elettricità sul Mercato elettrico italiano tra il 1/4/2004 e il 31/12/2004 è stato pari a 50 euro/MWh, mentre nella maggior parte delle borse europee si attesta sui 30 euro/MWh (fonte: Autorità garante per l'energia).
Analoghe considerazioni possono compiersi riguardo al prezzo del gas, sulla base di un'indagine conoscitiva realizzata congiuntamente da GCM e AEEG nel 2004. Il differenziale di costo del gas in Italia rispetto ad altri paesi europeo (fino al 20 per cento in più per i consumi industriali, secondo un'indagine Prometeia) appare singolare: in Italia opera di fatto un solo soggetto, l'ENI, che è sia l'unico produttore che il principale importatore di gas, il quale ha costi di approvvigionamento sensibilmente inferiori a quelli di altri operatori e questo anche grazie al calmiere al prezzo delle infrastrutture imposto da AEEG. Di conseguenza, il differenziale di costo del gas dev'essere attribuito quasi esclusivamente a extra-profitti monopolistici di ENI.
C. Un discorso a parte meritano le autostrade. In questo settore, infatti, lo scostamento tra privatizzazione e liberalizzazione è stato particolarmente marcato. Attualmente, la rete autostradale italiana è gestita per l'86 per cento a pedaggio da 24 società concessionarie, tra le quali la più importante è Autostrade s.p.a., che gestisce il 52,5 per cento del sistema autostradale nazionale (esclusi i raccordi).
Il sistema concessorio delineato dalla l. 498/1992 ha creato evidenti sacche di rendita alle società di gestione, grazie anche alla scarsa deterrenza delle sanzioni per inadempimenti e all'assenza di un'autorità indipendente di controllo, nonostante la rete autostradale rappresenti uno dei più tipici monopoli naturali. Nei cinque anni 1999-2003, infatti, le concessionarie autostradali hanno incassato 16,7 miliardi di euro da pedaggi (al netto di Iva e Fondo di garanzia), ma hanno fatto investimenti per soli 3,7 miliardi. Nel caso della società Autostrade, ad esempio, coi
D. Dietro molte delle operazioni ora descritte abbiamo visto la Cassa Depositi e Prestiti. Essa, infatti, rappresenta ormai un singolare ibrido: per metà banca degli enti pubblici e locali, per metà holding depositaria di partecipazioni strategiche dello Stato.
Il d.l. 269/2003, come si ricorderà, ha trasformato l'originaria Cassa Depositi e Prestiti da ente pubblico in una s.p.a., le cui azioni sono detenute per il 70 per cento dal Tesoro e per il 30 per cento dalle fondazioni di origine bancaria (che per sottoscrivere le azioni hanno ottenuto la garanzia di un alto dividendo privilegiato tutelato dal diritto di recesso).
La Cassa, però, è venuta accumulando progressivamente partecipazioni in imprese strategiche, le quali pertanto sono in tale maniera indirettamente controllate dal Tesoro. Il problema è che la Cassa dovrebbe detenere partecipazioni sia nelle società che gestiscono le reti (ossia Terna e Snam), sia nei produttori di energia elettrica e gas (ENEL e ENI): se questo avvenisse, come ha rilevato l'AGCM, svanirebbe l'obiettivo di rendere la gestione delle reti indipendente dai produttori monopolisti e, quindi, si rischierebbe di mettere a repentaglio le prospettive di apertura del mercato in tali settori.
Più in generale, occorre stabilire in maniera chiara quali saranno gli obiettivi strategici della Cassa, che attualmente mostra una natura ancipite: in parte banca dei comuni, in parte holding pubblica.
2. Le infrastrutture.
L'allegato Infrastrutture al DPEF, con toni propagandistici ed autocelebrativi dipinge un quadro trionfalistico che non corrisponde nel modo più assoluto alla realtà. Infatti, tutti i dati sul reale stato degli investimenti infrastrutturali indicano infatti una situazione di estrema difficoltà ed un vero e proprio crollo degli investimenti pubblici negli ultimi 2 anni.
Il DPEF 2003-2006 conteneva un elenco di 21 opere prioritarie del programma approvato, per un costo complessivo di 83.347 milioni di euro e una spesa prevista nel triennio 2002-2004 di 22.543 milioni di euro. Alcune delle 21 opere selezionate risultano suddivise in ulteriori interventi facendo salire a 31 il numero degli interventi individuati nel DPEF 2003
Il successivo DPEF per gli anni 2004-2006-2007 aveva individuato 91 opere, tra le quali venivano ricomprese quasi tutte le opere già inserite nel primo elenco, tranne le opere già cantierate o prossime all'apertura dei cantieri.
Il DPEF 2005-2008 forniva, a tre anni dall'avvio del programma, un primo bilancio dei risultati e un aggiornamento della delibera CIPE del 21 dicembre 2001. Individuava, inoltre, ulteriori 20 opere, alcune già ricomprese nel Programma opere strategiche, altre completamente nuove, che vanno ad aggiungersi alle 91 inserite nel DPEF 2004-2007. Il costo di queste opere ammonta a 5,4 miliardi di euro e sarà finanziato, oltre che con i fondi per la legge obiettivo, anche con quelli per le aree sottoutilizzate o facendo ricorso a forme di partenariato pubblico privato.
Il Ministro Siniscalco era intenzionato a rilanciare le «grandi opere» nel DPEF, utilizzando gli investimenti come leva per lo sviluppo. In pratica, però, non viene esplicitato il finanziamento a disposizione per gli interventi del Programma Infrastrutture strategiche.
Il Governo, varando la Legge Obiettivo per le grandi opere (L. 433/2001) che avrebbe dovuto dare il via ad un grande piano di investimenti ed accelerare la realizzazione delle opere, aveva dato l'impressione di una grande attenzione al tema. Eppure, a distanza di quattro anni dalla sua approvazione è possibile tracciare un bilancio che si rivela tutt'altro che positivo, come risulta da un'indagine
Il Programma delle infrastrutture strategiche, approvato dal CIPE il 21 dicembre 2001, prevedeva 250 interventi per un costo complessivo del piano stimato in 126 miliardi di euro. Questo importo è stato recentemente ricalcolato dal Ministero delle infrastrutture in 196 miliardi di euro, mentre una stima del Cresme e dell'Ufficio Studi della Camera arriva addirittura a circa 232 miliardi, con un incremento dell'84 per cento. Fino ad oggi il Cipe ha approvato 79 interventi ricompresi nel programma della Legge obiettivo, per complessivi 52 miliardi di euro. Ma, secondo la Corte dei Conti, i finanziamenti disponibili a fine settembre 2004 superavano di poco i 19 miliardi di euro, con un fabbisogno residuo di 177 miliardi. Quel che è peggio è che sempre alla stessa data gli interventi «cantierati» delle grandi opere deliberate dal Cipe (ossia quelli dove i lavori sono effettivamente in corso) ammontavano a un importo di 3,4 miliardi di euro (che con l'Iva e le spese generali arrivano a un lordo di 4,4 miliardi) il 18 per cento del totale. Sempre a quella data i pagamenti effettivi in base allo stato di avanzamento dei lavori assommavano a 379 milioni di euro, pari al 10,9 per cento di tutti gli interventi cantierati.
In sostanza, mentre aumentano i costi si riducono le risorse. L'effettiva realizzazione della spesa resta infatti scandita dagli impegni assunti nei bilanci pubblici e dai pagamenti effettuati alle imprese.
Inoltre, oggi sappiamo che i nuovi finanziamenti per il 2005: 250 milioni provenienti dai residui di spesa delle leggi finanziarie 2002 e 2004 e 700 milioni destinati, con il decreto competitività, al Sud, per un totale di un miliardo di euro mentre il ministro Lunardi aveva indicato in 7,5 miliardi i finanziamenti urgenti per le sole opere prioritarie.
Così, la Legge Obiettivo si è dispersa fra 228 opere e 358 interventi di difficile realizzazione per la sovrapposizione di competenze, tanto che è stata inventata la figura dei commissari ad acta allo scopo di sostituire gli organi statali e sollecitare gli enti locali («L'attività di tali Organi si è concentrata sui profili di mediazione tra i vari enti pubblici coinvolti nella concertazione, mentre permangono perplessità circa la efficacia di queste figure monocratiche in termini realizzativi delle infrastrutture» ha commentato la Corte dei Conti).
Le conclusioni della Corte dei conti in merito all'indagine sullo stato di attuazione della Legge Obiettivo sono impietose:
allo slancio iniziale non ha fatto seguito capacità progettuale, sia in termini tecnici che economico-finanziari;
ne sono derivate disfunzioni nella definizione dei progetti e nella quantificazione delle risorse occorrenti. Emerge una forte sproporzione tra fabbisogno finanziario e risorse effettivamente disponibili;
l'inclusione nel programma di una serie di infrastrutture molto numerosa ha prodotto un effetto di finanziamento «a pioggia», con una distribuzione di risorse insufficiente al raggiungimento dei singoli obiettivi che lo compongono:
l'ampia inclusione nel programma di opere vecchie e nuove ha stimolato istanze locali a risolvere le situazioni di stallo preesistenti scaricandone l'onere sulla parte pubblica;
il project finance non è allo stato attuale conforme alle aspettative: banche e imprenditori da un lato declinano l'assunzione di rischi diretti, preferendo il tradizionale modello di accollo degli stessi alla Pubblica Amministrazione; dall'altro sono scoraggiati dalla complessità delle procedure amministrative e dalla incertezza sui tempi e sugli esiti;
lo stato di avanzamento dei progetti e delle realizzazioni è lento e disomogeneo;
lo stato di avanzamento delle opere è assolutamente marginale;
Ma è possibile guardare al fallimento della politica del Governo (a dispetto delle promesse fatte nel famoso «Contratto con gli italiani») anche valutando la reale consistenza delle dotazioni disponibili per interventi infrastrutturali nell'ultima legge finanziaria. Secondo lo studio Ance-Agi, la riduzione delle risorse per il 2005 è pari al 14,2 per cento rispetto al 2004 in termini reali, così come nel 2004 era stata del 16 per cento inferiore all'anno precedente. Nel periodo 1996-2000 la crescita media annua degli stanziamenti per infrastrutture era stata invece del 12,6 per cento. Il risultato è che il livello delle dotazioni di competenza stimato nel 2005 si riduce ai livelli osservati del 1998.
Anche sul fronte dei bandi di gara per i lavori pubblici la situazione è in netto peggioramento: secondo il monitoraggio Cresme-Il Sole 24 Ore, negli ultimi tre mesi il prezzo dei maxibandi ha perso valore fino a toccare la quota minima di giugno, con soli 37 avvisi superiori ai 5,1 milioni (-40 per cento rispetto a giugno 2004) per un importo di 780 milioni (-43 per cento).
Per quanto riguarda le politiche abitative e le città, non è chiaro se già con la prossima finanziaria si procederà a una ripartizione dei fondi disponibili fra grandi opere e città: per ora nel DPEF non c'è ripartizione fra i due programmi di intervento, nonostante fosse prevista proprio dalla norma sulla legge obiettivo per le città.
Ma non sono previsti neanche interventi per il Fondo sociale per le locazioni, che dovrebbe essere considerato uno dei perni delle politiche di Welfare per le famiglie a basso reddito interessate da una situazione di grave disagio ed emergenza, né misure tese a stabilizzare e rendere definitiva la positiva esperienza delle agevolazioni fiscali (IRPEF e IVA ) per le ristrutturazioni edilizie.
3. L'ambiente.
Per quanto riguarda le politiche ambientali, il DPEF non contiene né una parte esplicitamente dedicata all'ambiente, né indirizzi di politica economica e finanziaria coerenti con una strategia di sostenibilità ambientale dello sviluppo. Il riferimento generico alle problematiche ambientali sembra ignorare l'entrata in vigore del Protocollo di Kyoto e le misure puntuali da adottare.
È stata completamente ignorata, intanto, la disposizione di cui all'articolo 3, comma 2-ter, del decreto-legge n. 316 del 2004, che obbliga il Governo a inserire annualmente nel Documento di programmazione economico-finanziaria un aggiornamento, predisposto dal Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, sentiti gli altri Ministri interessati, sullo stato di attuazione degli impegni per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, in coerenza con gli obblighi derivanti dall'attuazione del Protocollo di Kyoto e sui relativi indirizzi, indicando in particolare le proposte di modifica e di integrazione del Piano nazionale di assegnazione delle quote di emissioni che si rendano necessarie.
Lo stesso documento di programmazione non considera, come invece sarebbe necessario, grandi priorità nazionali: la difesa del suolo per la prevenzione di frane e alluvioni , il piano nazionale per la lotta alla siccità e alla desertificazione; il potenziamento e l'ammodernamento delle reti idriche soprattutto al Sud.
4. I trasporti.
Ancora una volta (siamo al quarto anno consecutivo) è assente ogni risorsa destinata all'economia marittimo-portuale. Infatti le misure dedicate al sostegno alla cantieristica e all'armatoria sono esclusivamente quelle approvate nella precedente legislatura (ultime le leggi 51/01 e 88/01), mentre vanno in scadenza al 31/12/05 i
Inoltre il DPEF ignora incredibilmente la situazione del servizio postale nazionale e la politica adottata da Poste Italiane che con decisioni unilaterali sta realizzando un piano di progressiva chiusura e depotenziamento degli uffici postali periferici, che rischia di mettere in discussione l'universalità stessa del servizio postale nazionale.
Il DPEF certifica e annuncia il crack del Governo sulle politiche dei trasporti.
Bisognerebbe, invece, prevedere:
misure di sostegno alla cantieristica e all'armatoria, alla ricerca e all'innovazione nel campo navale e della logistica nonché a sostegno della formazione dei lavoratori;
un serio e rigoroso programma di investimenti pubblici per i porti, l'autonomia finanziaria delle Autorità Portuali, la necessaria semplificazione delle procedure per rendere spendibili in tempi brevi i finanziamenti, nonché per assicurare il dragaggio dei fondali dei porti. Occorre rilanciare la collaborazione con le Regioni e gli Enti Locali e realizzare concretamente le intese istituzionali di programma già firmate con le Regioni e completamente disattese dal Governo.
Per le Ferrovie dello Stato SpA occorre invertire nettamente la china intrapresa in particolare sul trasporto delle merci e sul trasporto regionale a partire da un deciso intervento di acquisizione di nuovo materiale rotabile, da un programma di potenziamento dei treni pendolari e regionali, da un'efficace manutenzione del materiale e degli impianti nonché per la sicurezza.
La sicurezza della circolazione stradale è impegno prioritario vista la drammatica «strage» che si consuma sulle strade ed è un impegno europeo ridurre, entro il 2010, del 40 per cento gli incidenti stradali. A questo riguardo, oltre alle altre azioni indispensabili sulla educazione alla sicurezza stradale, sulla introduzione di nuovi sistemi di sicurezza sugli autoveicoli è decisivo intervenire sulle strade e autostrade. In questi anni le risorse per il «Piano Nazionale sulla sicurezza stradale» sono state drasticamente tagliate fino ad essere annullate. Per gli anni 2006-2009 questo Piano va rifinanziato. Va istituita «l'Agenzia Nazionale per la Sicurezza Stradale» così come vanno individuate risorse immediate e durature per la Motorizzazione Civile che oggi, sia a livello centrale (CED) che periferico è allo stremo.
Per il trasporto aereo va sostenuto il processo di risanamento e di sviluppo delle compagnie aeree italiane attuando gli accordi siglati con le parti sociali. Occorre altresì che ENAC, ENAV SpA e A.N.S.V. siano messi in grado di svolgere i compiti loro attribuiti dotandoli delle necessarie risorse finanziarie per la garanzia della sicurezza della navigazione aerea e per il proseguimento del piano di potenziamento e ammodernamento degli aeroporti nazionali.
Per Poste Italiane occorre prioritariamente ridare dignità, diritti e tutela ai
In questo quadro occorre ridefinire in modo chiaro responsabilità e compiti delle Autorità di regolazione, dando così strumenti sanzionatori adeguati e chiedendo decisioni tempestive e adeguate alla velocità del cambiamento e alla opportunità di introdurre e diffondere la innovazione in forma diffusa.
Infine occorre ridefinire la priorità dell'assegnazione delle risorse: è inutile riferirsi all'Agenda di Lisbona, disquisire sui livelli di competitività del sistema paese se si tagliano risorse, si cancellano opportunità, si penalizzano i ricercatori, si puniscono le università. Occorre davvero un grande cambiamento di qualità.
5. Il turismo.
Il turismo ha perso importanti quote di mercato, l'Italia è passata dal secondo al quinto posto nella graduatoria mondiale. Come risposta il Governo ha ridotto drasticamente le risorse destinate ai Sistemi Turistici Locali e alle imprese, sovrapponendosi all'azione delle Regioni e dei Comuni.
L'opposizione ha più volte messo in mora il Governo su questioni centrali quali lo sviluppo del settore, il taglio delle risorse per la promozione del turismo sui mercati internazionali e di quelle per l'innovazione delle imprese. È necessario, invece, prevedere: l'armonizzazione dell'IVA turistica in ambito europeo e la riduzione dell'aliquota dal 20 al 10 per cento per tutte le imprese turistiche; l'estensione del credito d'imposta per l'incremento dell'occupazione ai datori di lavoro del settore; la defiscalizzazione degli oneri sociali in favore delle aziende a carattere stagionale; la reintroduzione del credito d'imposta per l'acquisto di determinati beni strumentali; la deducibilità delle quote di ammortamento per le spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento degli immobili adibiti ad attività turistica; il sostegno per l'acquisizione, da parte degli operatori, della struttura immobiliare nella quale esercitano l'attività alberghiera; la deducibilità dell'IVA sui costi sostenuti per i cosiddetti «viaggi d'affari»; l'aumento della dotazione finanziaria del Fondo per il cofinanziamento dell'offerta turistica.
Riguardo al settore balneare prima il Governo ha colpito gli operatori con aumenti del 300 per cento dei canoni di concessione, evitando di occuparsi della forte quota di evasione e di elusione presente nel settore, poi ha proposto una sorta di modello «Las Vegas» centrato sullo sviluppo dei casinò e sul ruolo dei privati. Al contrario, si tratta di utilizzare strumenti legislativi già esistenti come le Società di Trasformazione Urbana, per riqualificare le località turistiche da un punto di vista urbanistico promuovendo un uso moderno ed efficace di beni demaniali rilevanti quali i lungomare per dare ai turisti servizi sempre più qualificati ed aumentare la raggiungibilità delle nostre località grazie ad accordi commerciali che abbattano le tariffe di trasporto.
6. Le politiche sociali.
Riguardo alle politiche sociali, il DPEF 2006-2009 si caratterizza per una serie di manifestazioni di intenti non corredate da alcun riferimento in termini di risorse che di fatto rendono del tutto vuote tali dichiarazioni. Si è, quindi, di fronte all'assenza di indicazioni sia in termini di risorse sia in termini di programmazione in settori centrali per la nostra società come la salute e il welfare.
Questo è tanto più grave se si considera che il rapporto spesa sociale/PIL continua ad essere inferiore rispetto al rapporto esistente in tutti gli altri paesi europei. È, invece, indispensabile porre le premesse fin d'ora affinché nella prossima finanziaria il rapporto spesa sociale/PIL possa adeguarsi alla media europea.
In merito alla sanità, continuano ad essere disattesi gli impegni in termini di attribuzione di risorse in favore delle Regioni con grave disagio a danno delle strutture sanitarie e dei cittadini. Il rinnovo del contratto nazionale per il settore della sanità nel pubblico impiego è avvenuto solo per il primo biennio con quattro anni di ritardo sulla base della forte mobilitazione della categoria che resta in attesa della definizione del secondo biennio. Le proteste per il mancato rinnovo contrattuale non riguardavano esclusivamente rivendicazioni di natura economica ma soprattutto la difesa del SSN, contro il rischio di disarticolazione del sistema in 21 servizi sanitari diversi, come prevede il DDL sulla riforma costituzionale che secondo la maggioranza dovrebbe essere approvato entro questa legislatura.
Inoltre, il disegno di legge sulla devolution, imposto da una parte della maggioranza di fatto cancella i Livelli essenziali di assistenza sostituendoli con i «livelli minimi» minando l'universalità e l'unitarietà del SSN su tutto il territorio nazionale.
Nel DPEF viene ignorato il problema della riqualificazione dell'offerta sanitaria pubblica soprattutto nel Mezzogiorno, nonostante si segnalino casi quotidiani di forte deficit nelle strutture ospedaliere nelle regioni meridionali. Così come nessun riferimento si riscontra in materia di politica di investimenti per la sanità e la sua innovazione tecnologica e informatica.
Per quanto riguarda il personale, nel DPEF non viene posto il problema relativo all'emergenza infermieristica lasciando immutate le ragioni delle difficoltà tuttora presenti a partire dalla mancanza di personale, così come per il quinto DPEF consecutivo non viene menzionato il problema dei medici specializzandi nonostante gli impegni e le promesse reiterate.
Ancora, manca nel Documento ogni riferimento all'integrazione sociosanitaria, prevista dal decreto legislativo n. 229/99, essenziale per affrontare complessi problemi quali quelli legati alla disabilità, alla psichiatria, alla urgente problematica degli anziani non autosufficienti e alla fragilità dell'anziano, al recupero delle persone tossicodipendenti. Per questi ultimi non si fa alcun accenno alla destinazione di risorse finanziarie alla qualificazione dei servizi e delle strutture a partire da quelle pubbliche. Anche per la salute mentale si riscontra l'assenza di qualsiasi indicazione per la cura delle persone e l'assistenza e il sostegno alle famiglie, quando importanti strutture di assistenza si trovano in grave difficoltà perché impossibilitate ad operare per l'assenza di adeguate risorse.
Per le politiche familiari il DPEF si limita a generici richiami ai servizi dell'infanzia e alla tutela del potere d'acquisto, ignorando le vere priorità delle famiglie italiane in termini di servizi e prestazioni sociali. Così, non vi è alcun riferimento alla volontà di completa attuazione agli obblighi previsti dalla legge quadro sull'assistenza n 328/2000 attraverso l'emanazione dei decreti legislativi i cui termini sono ampiamente scaduti.
I tagli perpetrati sistematicamente in questi quattro anni ai danni dei bilanci degli enti locali colpiscono indiscriminatamente il welfare sociale e l'assistenza alle fasce deboli della popolazione, bambini, anziani e disabili. Il Governo, nonostante
Nonostante fosse uno dei perni del famoso «contratto», non si fa cenno alla necessità di aumentare le pensioni minime per tutti gli aventi diritto esclusi da una normativa farraginosa e iniqua introdotta ad inizio di legislatura con la finanziaria del 2002.
Si continua a ignorare il grave (e destinato ad inasprirsi) problema della non autosufficienza e della istituzione del Fondo nazionale per tutelare gli anziani ultrasessantacinquenni.
7. Il fisco.
Le politiche fiscali.
Il DPEF 2006-2009 prevede, sotto vari profili, un esteso utilizzo della leva fiscale, sia in funzione di stimolo alla crescita e ai consumi, attraverso la riduzione del carico tributario sul prodotto e sul lavoro, sia in funzione di aggiustamento strutturale dei saldi, attraverso il recupero della base imponibile derivante da politiche di contrasto del sommerso e dell'evasione fiscale. Per altro verso, il documento di programmazione esclude espressamente il ricorso ad inasprimenti di aliquote fiscali, precisando a tal proposito che «per modificare la struttura del bilancio e ridurre il disavanzo senza aumentare le aliquote occorre recuperare questa base imponibile con una politica credibile, coerente e costante nel tempo».
Questo richiamo alla credibilità e coerenza delle politiche fiscali, se non manifestamente paradossale, deve ritenersi quanto meno intempestivo, in quanto giunge solo con l'ultimo DPEF della legislatura, al termine di una stagione politica segnata da una lunghissima serie di condoni e sanatorie, avviata dall'operazione di regolarizzazione di patrimoni illegalmente detenuti all'estero o sommersi per circa 70 miliardi di euro, ammettendoli al pagamento di un'imposta all'aliquota irrisoria del 2,5 per cento e culminata in un condono edilizio e in un condono fiscale tombale.
Per altro verso, i moduli di riforma dell'IRPEF non sono riusciti a compensare la drastica diminuzione del potere d'acquisto dei ceti popolari, anche perché la parte più significativa degli sgravi fiscali sono stati concentrati a vantaggio dei redditi più alti. Ad un anno dalle elezioni appare ormai evidente come la riduzione delle tasse, considerata centrale nell'ambito della politica economica del Governo, così come prospettata nella legge delega di riforma del sistema fiscale, sia ormai poco più di un feticcio elettorale.
Anche la credibilità del riferimento alle politiche per il contrasto dell'illegalità e del sommerso deve necessariamente valutarsi alla luce degli esiti delle misure sin qui adottate. Il Governo, dopo quattro anni di condoni fiscali e sanatorie, che hanno alimentato la cultura dell'evasione e premiato i contribuenti disonesti, sembra avere riscoperto improvvisamente i temi dell'evasione fiscale, definita nel DPEF «sport nazionale», prevedendo di recuperare un maggiore gettito valutato in 3 miliardi di euro. Tuttavia il DPEF, al di là dei proclami non definisce gli strumenti e le modalità con i quali il Governo intende procedere per assicurare il raggiungimento degli obiettivi prefissati. Il rischio è che nella finanziaria per il 2006 si ripetano norme illusorie che prevedano il recupero di gettito superiore a quello effettivamente si potrà conseguire.
Quanto alla costanza nel tempo delle politiche fiscali del governo, le imprese e i contribuenti ne hanno avuto da ultimo evidenza con il decreto-legge n. 106 del 2005 (Disposizioni urgenti in materia di entrate), con il quale il Governo, per il fine dichiarato di salvaguardare il gettito dell'acconto IRAP per l'anno in corso, ha finito per comprimere alcuni dei diritti in
Uno dei punti qualificanti delle politiche fiscali per il rilancio dell'economia ipotizzato dal Governo è costituito dallo sgravio IRAP sul costo del lavoro, per il quale il DPEF 2006-2009 indica espressamente la necessità di una copertura in via strutturale dell'intervento, senza tuttavia indicare nello specifico né la graduazione temporale dello sgravio, né le politiche finanziarie per farvi fronte.
Inoltre, a fronte di una manovra di aggiustamento integralmente demandata a ulteriori riduzioni della spesa corrente delle pubbliche amministrazioni e a recuperi di base imponibile, il DPEF 2006-2009 prevede una riduzione della pressione fiscale, tra il 2005 e il 2006, pari addirittura ad un punto percentuale: dal 41,3 per cento del 2005 si passerebbe al 40,3 per cento del 2006. Sembrerebbe, dunque, che la riduzione attesa della pressione fiscale sconti anche il supposto allargamento della base imponibile, che a sua volta non può finanziare soltanto la riduzione delle imposte, dovendo concorrere anche all'aggiustamento dei saldi e al rientro del deficit; in tal senso, mancando qualunque indicazione circa gli effetti sulla pressione fiscale di ciascuna delle politiche in esso delineate, il DPEF non fornisce alcuno strumento per valutare l'attendibilità della riduzione stimata.
Nel merito delle politiche di alleggerimento del carico tributario proposte dal documento di programmazione, non può che rilevarsi come la necessità di eliminare gli oneri impropri che gravano sul costo del lavoro, sia da tempo al centro della proposta programmatica alternativa del centrosinistra, assieme ad altre misure fiscali pure accennate nel DPEF 2006-2009; tra queste, in primo luogo, le misure per il contenimento dei prezzi del petrolio e suoi derivati, attraverso idonee forme di sterilizzazione degli aumenti, e il sostegno fiscale alle famiglie nell'accesso ai servizi per l'infanzia e agli affitti.
Insomma, anche per quanto riguarda le politiche fiscali il Documento di programmazione economica presentato dal Governo si presenta sostanzialmente come una «scatola vuota», priva di indicazioni e strategie concrete.
La lotta all'evasione
Il nuovo vessillo del Governo è la lotta all'evasione. Il fallimento evidente di tutti gli slogan precedenti ha spinto tecnici e politici del Governo a cercare una nuova campagna pubblicitaria (ed un nuovo capro espiatorio, colpevole del collasso della nostra finanza pubblica).
La prima perplessità sorge guardando a quanto è accaduto negli ultimi tre anni, in netto contrasto con il neo-obiettivo: sono stati disposti ben 15 condoni fiscali mentre all'amministrazione finanziaria sono stati tagliati 370 milioni di euro di risorse.
Drammatico è anche il fatto che da questa lotta senza quartiere all'evasione si dà per scontato di ricavare 3 miliardi euro (nel solo 2006), quasi un terzo della copertura dell'intera manovra finanziaria.
Il DPEF dedica, pur all'interno di un paragrafo espressamente dedicatogli, poche righe alla questione, ma la sua importanza è sottolineata dall'inserimento di una «mappatura» geografica (e per settori di attività) del fenomeno del sommerso, che «comporta evasione fiscale, sottrae risorse al bilancio pubblico e distorce la concorrenza».
In materia di tasse e contributi bisogna guardare all'ultima analisi prodotta dall'Agenzia
La media del lavoro irregolare in Italia è del 13,4 per cento del totale degli occupati, come dire che un lavoratore su dieci non esiste per l'Inps, l'Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza; nel Mezzogiorno la quota arriva ad un lavoratore su quattro.
Una recentissima indagine dell'Unioncamere mette in luce il fallimento di tutte le leggi che hanno puntato contro il lavoro sommerso. Della famosa legge «Bossi-Fini», in materia di regolarizzazione dei lavoratori immigrati, l'indagine parla come di un provvedimento con finalità più vicine all'ordine pubblico che all'emersione, dati i risultati.
Il fallimento più grande sarebbe da ascrivere alla legge 383 del 2001, a proposito della quale, dal Rapporto IRES 2005 sull'economia sommersa, risulta che il numero di lavoratori che hanno effettivamente usufruito dei piani di emersione di cui alla legge n. 383 del 2001 sarebbe pari ad appena 4.000 unità, a fronte delle 900.000 unità stimate dal governo nella relazione tecnica di accompagnamento al provvedimento; ancora più vistoso è il fallimento degli obiettivi in termini di gettito, giacché le entrate confluite nel fondo di cui all'articolo 1, comma 8, della medesima legge n. 383, ammonterebbero ad appena 26 milioni di euro, contro i previsti 9.000 miliardi di lire prospettati allora dal Governo.
Ciò dovrebbe far riflettere: la lotta all'evasione non può essere ridotta ad una saltuaria e contingente caccia «spietata» (sono le parole del ministro Siniscalco: «i controlli torneranno spietati») per rastrellare quattrini al bisogno, ma è frutto di un percorso virtuoso che si crea nel tempo, guardando ad instaurare fiducia, trasparenza, procedure certe e costanti, in pratica un clima «politicamente» favorevole alla legalità.
Per quanto riguarda gli studi di settore si segnala, soprattutto oggi, in un periodo di forte recessione, la polemica al riguardo: la predisposizione degli studi di settore avviene diverso tempo prima della loro applicazione (almeno due anni) e, dunque, sono sempre in ritardo rispetto all'evolversi del sistema economico.
La revisione che verrà applicata al 2005, infatti, è stata effettuata utilizzando dati che fanno riferimento agli anni 2001/2002, anni in cui per la gran parte dei settori la recessione non c'era. L'adeguamento che oggi viene richiesto spiazza molti settori, il cui quadro economico è, nel frattempo, completamente mutato. Questo soprattutto in merito al costo delle materie prime, che sono alla base della stima dei ricavi, e che risultano oggi nettamente superiori.
La revisione degli studi di settore, inaugurata dalla finanziaria per il 2005, riguarda 57 settori (tra i quali quello dell'autotrasporto), 650.000 contribuenti e determinerà, in molti casi, incrementi rilevanti degli importi richiesti (tra il 4 e l'8 per cento in più rispetto allo scorso anno, con punte del 13 per cento per alcuni settori, tra i quali la meccanica e l'edilizia leggera).
L'Italia sembra essere l'unico paese in Europa che affida il servizio della riscossione a soggetti totalmente estranei all'amministrazione pubblica, sostiene costi molti più elevati, vede affluire nelle sue casse cifre risibili.
I dati al riguardo non sono recenti (sono precedenti all'introduzione dell'euro), ma sono chiarissimi: in Francia la riscossione costa 1 franco ogni 36 riscossi, in Germania 1 marco ogni 71 riscossi, in Spagna 1 peseta ogni 77 riscosse, in Italia
Le rendite.
È indubbio che esista in Italia un problema legato alla rendita. Mentre i redditi da capitale (soprattutto finanziari) sono aumentati molto più dell'inflazione i redditi da lavoro sono aumentati come l'inflazione, generando uno sviluppo diseguale fortemente aggravato dalle politiche fiscali regressive del Governo.
L'ipotesi di un intervento sulla tassazione delle rendite finanziarie è emerso a più riprese negli ultimi tempi, anche su proposta di qualche ministro e allo scopo di finanziare la riduzione dell'Irap, ma in materia non sembra esserci consenso all'interno del Governo, soprattutto per i timori connessi all'aggravio del prelievo sui titoli di Stato e alla fuga di capitali.
Con la scadenza dei termini per esercitare la delega prevista dalla legge di riforma n. 80 del 2003 il Governo ha rinunciato all'omogeneizzazione, prevista all'articolo 3, dell'imposizione di tutti i redditi di natura finanziaria indipendentemente dagli strumenti giuridici utilizzati per produrli, la convergenza del regime fiscale sostitutivo su quello proprio dei titoli del debito pubblico e un regime differenziato di favore fiscale per il risparmio affidato ai fondi pensione, ai fondi etici e a casse di previdenza privatizzate. A meno di novità nella prossima finanziaria, la politica della maggioranza rimane quella che ha portato all'abolizione del credito d'imposta sui dividendi e la generalizzazione della cedolare secca su di essi al 12,5 per cento; nonché l'inclusione nella base imponibile dell'Irpef, per il 40 per cento del loro ammontare, di dividendi e plusvalenze derivanti da partecipazioni qualificate, all'esenzione per i non residenti, all'abolizione dell'equalizzatore. Nei primi tempi, per la tassazione dei proventi da risparmio si era ipotizzata una omogeneizzazione al 12,5 per cento, poi a un livello del 19 per cento per poi non farne nulla.
In realtà, una differenziazione del prelievo per interessi relativi a titoli a medio e lungo termine rispetto agli impieghi a breve non ha ragioni plausibili sotto il profilo economico ed equitativo, perché significa una discriminazione ingiustificata a danno dei percettori degli interessi dei depositi e delle altre passività bancarie e perché la sofisticazione attuale rende inutile ogni distinzione (visto che è sempre possibile trasformare la natura del proprio reddito a scopo elusivo).
L'individuazione di un'aliquota intermedia attorno al 20 per cento è un obiettivo realistico e molto prossimo all'ipotesi iniziale della riforma Visco del 1998 (19 per cento). L'argomento secondo cui l'innalzamento dell'aliquota potrebbe comportare fughe di capitali non sembra particolarmente rilevante, visto che l'illecita detenzione di capitali all'estero è pesantemente sanzionata e interessa principalmente redditi sottratti al fisco oppure illegalmente formati. Inoltre, la direttiva europea prevede che anche le piazze finanziarie tradizionalmente interessate da esportazioni di capitali applicheranno una imposta sugli interessi del 15 per cento (che salirà al 20 per cento nel 2008 e al 35 per cento dal 2011). Del resto finora il differenziale fra un prelievo del 12,5 per
Per quanto riguarda gli immobili, con il riconoscimento ai Comuni della possibilità di richiedere all'Agenzia del territorio di intervenire sulla sperequazione degli estimi catastali che derivi da un classamento antiquato, il Governo si proponeva di contrastare l'elusione e di favorire la perequazione. In realtà, ancora una volta si tratta di provvedimenti estemporanei e non strategici, perché continua a mancare la riforma complessiva del sistema estimativo dei fabbricati e perché è assente dalla politica del Governo un progetto complessivo di riforma sulla fiscalità della casa.
8. Il lavoro.
Le politiche.
Nonostante il grande rilievo dato a parole, l'azione del Governo in materia di lavoro è stata e continua ad essere assolutamente inadeguata, se non negativa. Nel DPEF mancano idonee risorse per il rinnovo dei contratti del Pubblico Impiego, per coprire lo scarto tra inflazione programmata e inflazione reale per il pregresso e per i contratti pubblici in fase di rinnovo, per affrontare anche il problema dei rapporti di lavoro precari all'interno della pubblica amministrazione. Nella generica lotta al sommerso non si prevedono provvedimenti di sostegno per le imprese e per i lavoratori che emergono dal lavoro nero, per favorire la piena e buona occupazione, in modo particolare rivolti alle aree del Mezzogiorno di basso sviluppo.
Colpisce l'assenza di attenzione a tutte le tematiche riguardanti i lavoratori. Così, ancora una volta, non si prevedono:
strumenti adeguati di sostegno per contrastare l'aumento del costo della vita e la oramai costante perdita di potere d'acquisto dei salari dei lavoratori dipendenti e delle pensioni;
la restituzione del fiscal drag, di nuovo indebitamente trattenuto dal governo a danno dei lavoratori dipendenti e dei pensionati;
misure atte a favorire la conciliazione tra la vita lavorativa e la vita familiare, dando piena applicazione a quanto previsto dalla normativa sui congedi parentali e prevedendo nuovi strumenti di sostegno;
la previsione di politiche di sviluppo dei servizi alla persona e alla famiglia e di politiche di «conciliazione» volte ad incrementare gli asili-nido e a rendere più elastici gli orari degli uffici pubblici e di molti servizi;
la previsione di risorse per potenziare il sistema della prevenzione e dei controlli e per accrescere il livello di tutela e di sicurezza nei luoghi di lavoro.
Così, a tutt'oggi, non è definito un sistema di tutele per tutte le forme di lavoro, graduato secondo le loro caratteristiche e il loro bisogno effettivo di protezione, nel quale la formazione diventi un diritto fondamentale per i nuovi lavoratori da esercitare anche individualmente. Invece, è questione irrinunciabile il reperimento delle risorse necessarie per la realizzazione di una vera ed estesa riforma degli ammortizzatori sociali, che non si limiti a proporre un aumento dell'indennità di disoccupazione per i lavoratori che già ne godono, ma preveda l'estensione delle tutele sociali a categorie di lavoratori che ne sono attualmente prive, quali ad esempio i lavoratori parasubordinati o i lavoratori in imprese sotto i 15 dipendenti.
In particolare, per le lavoratrici e i lavoratori impegnati in forme di lavoro «atipico» è indifferibile l'estensione di alcuni essenziali diritti connessi alla maternità (copertura figurativa a fini pensionistici del periodo di maternità; assenze facoltative, permessi retribuiti per allattamento, diritto ad allontanarsi in caso di malattia, assenze facoltative per il padre).
La realtà dietro i numeri sull'occupazione.
Nel 2004 il numero di occupati rispetto al 2003 è aumentato di circa 200 mila unità e il tasso di disoccupazione è diminuito, passando dall'8,4 per cento all'8 per cento. Eppure, il tasso di occupazione è diminuito (dal 57,5 per cento al 57,4 per cento) e così il tasso di attività (dal 62,9 per cento al 62,5 per cento).
Analogamente, secondo l'ultima Rilevazione sulle forze di lavoro dell'Istat, nel primo trimestre 2005 il numero di occupati è cresciuto dell'1,4 per cento rispetto a un anno prima, mentre nello stesso periodo il numero delle persone in cerca di occupazione è diminuito del 4,2 per cento (-89 mila unità).
Anzitutto, ancora una volta la crescita degli occupati è dovuta al forte aumento della popolazione residente (+1,2 per cento nel trimestre) determinato dall'incremento dei cittadini stranieri registrati in anagrafe. Al netto di questi effetti demografici, il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni è aumentato di pochissimo rispetto a un anno prima.
Il calo delle persone in cerca di occupazione (registrato anche nel trimestre precedente) è dovuto al ritiro dal mercato del lavoro per l'effetto scoraggiamento di migliaia di disoccupati, in particolare donne e lavoratori del Mezzogiorno. Nel primo trimestre 2005 è aumentato anche il numero degli inattivi in età compresa tra 15 e 64 anni rispetto a un anno prima (+81.000 unità). L'incremento delle non forze di lavoro ha nuovamente riguardato in misura preponderante la componente femminile del Mezzogiorno (+98.000 unità). Bisogna anche sottolineare che la crescita dell'occupazione rimane un fatto prevalentemente settentrionale.
Nonostante i nuovi occupati, ci allontaniamo da Lisbona, l'obiettivo che conta per chiudere il divario in reddito pro capite rispetto agli Stati Uniti. Il tasso di occupazione, ossia il rapporto tra occupati e popolazione in età lavorativa, è diminuito. Era al 57,4 per cento per il 2004 ed è ora al 57,1 per cento. Secondo i parametri di Lisbona, dovremmo arrivare al 70 per cento entro il 2010. Un miraggio.
Inoltre, è necessario ricordare che a fronte di una crescita dell'occupazione si è registrata una diminuzione della crescita del prodotto. Siamo quindi di fronte a un fenomeno di occupazione senza crescita. Una possibile spiegazione: la crescita dell'occupazione è dovuta all'aumento di posti di lavoro a bassa qualifica e a basso valore aggiunto.
Quali sono i motivi di fondo di questo trend di medio periodo dell'occupazione italiana?
Riforme del mercato del lavoro. Gli esponenti della Casa delle libertà attribuiscono la crescita dell'occupazione all'introduzione delle nuove tipologie contrattuali avvenuta con la legge n. 30 del 2003. Ma la stessa (a maggior ragione se si tiene conto dei decreti attuativi) incide sui dati solo per il 2004, mentre la crescita si è verificata costantemente nel corso dell'ultimo decennio.
Incentivi all'occupazione ed emersione del lavoro sommerso. Il credito d'imposta per le assunzioni (Visco) si è rivelata la misura più efficace per fare emergere il lavoro sommerso specie nel Mezzogiorno. Insieme alla sanatoria degli immigrati irregolari.
Gli immigrati. Secondo Confindustria (Flussi migratori - rapporto presentato dalla Luiss al Convegno dei giovani imprenditori del 9 marzo 2005), negli ultimi 10 anni c'è stata una crescita sostenuta dell'immigrazione:
Nel 1992: 649 mila permessi di soggiorno;
Nel 2003: oltre 1,5 milioni di permessi.
Da segnalare anche come a fronte di un aumento dell'occupazione aumenti anche il ricorso agli ammortizzatori sociali: a febbraio le ore di cassa integrazione ordinaria autorizzate per gli operai dell'industria, secondo i dati Inps, sono state il 17,5 per cento in più rispetto all'anno precedente.
9. L'agricoltura e la pesca.
Non solo nel DPEF non viene prevista nessuna misura precisa per il comparto dell'agricoltura e della pesca, ma addirittura in esso il Governo non dà alcuna indicazione che lasci intravedere una qualche strategia politica nei confronti di questo settore.
Per quanto riguarda l'agricoltura, si registra un totale disinteresse per:
il potenziamento delle imprese agricole in termini strutturali (dimensioni, organizzazione, risorse finanziarie, capitalizzazione) così da renderle capaci di stare sul mercato in modo competitivo;
il sistema della ricerca sui prodotti, sui processi e di mercato, finalizzata a costruire un efficace sistema di orientamento produttivo e di penetrazione dei mercati;
il mantenimento del presidio umano sul territorio montano, collinare e di pianura, tramite la garanzia per gli operatori un reddito dignitoso attraverso anche incentivi che valorizzino la multifunzionalità dell'agricoltura intesa come settore di produzione di alimenti, di fibre e di energia, ma anche come comparto preposto alla conservazione dell'ambiente rurale e del territorio;
l'esportazione dei nostri prodotti, incentivando momenti di aggregazione dell'offerta, fornendo alle associazioni dei produttori gli strumenti necessari per la conoscenza dei mercati esteri, assistendo le imprese nell'affrontare questi mercati e garantendone i crediti.
Sarebbe, invece, necessario prevedere la messa a regime delle norme fiscali riguardanti il settore agricolo, la revisione del sistema previdenziale che allinei i costi contributivi per le imprese agricole alla media europea e con una particolare attenzione per le aree svantaggiate nonché il recupero dei Patti territoriali, della altre forme di programmazione negoziata e dello strumento del credito di imposta per gli investimenti strutturali delle imprese agricole ed agroalimentari.
Ma vi sono anche aspetti più generali - che però incidono profondamente sul comparto agricolo - su cui il Governo è inadempiente. In particolare per quanto riguarda l'allineamento dei costi di produzione,
Per quanto concerne il settore della pesca è importante mantenere le norme agevolative già adottate dalla legge finanziaria per il 2004 finalizzate a garantire i livelli occupazionali e i benefici fiscali e previdenziali previsti dagli articoli 4 e 6 della legge 27 febbraio 1998, n. 30, al fine di contenere la perdita di posti di lavoro derivante dall'aumento dei costi di esercizio, in particolare del carburante e, più in generale, dalla crisi dei mercati. Infatti, il settore ittico sta attraversando una crisi accentuata dal caro gasolio.
Inoltre sarebbe necessario affrontare con una logica di più lungo periodo le questioni relative al comparto della pesca. È essenziale sviluppare pratiche responsabili di produzione e commercializzazione dei prodotti ittici, anche prevedendo appositi benefici finanziari per gli ammodernamenti tecnologici necessari. La tutela del consumatore deve essere un obiettivo centrale, per il cui raggiungimento sono fondamentali l'implementazione di un insieme di strumenti e norme per la validità dei sistemi di rintracciabilità e etichettatura dei prodotti alimentari e il coordinamento e la razionalizzazione delle attività di controllo e vigilanza, con particolare riguardo alla tutela dei marchi di qualità, e il potenziamento e la qualificazione delle risorse umane dedicate a tali funzioni.
10. La finanza pubblica locale.
Nel DPEF il Governo ha annunciato che anche la manovra per il 2006 conterrà - ancora una volta - norme di modifica delle regole del patto interno.
Questi continui aggiustamenti, oltre a disorientare gli enti che sono tenuti a rispettare il patto, impediscono una seria programmazione territoriale e sono, di per sé, un ostacolo alla competitività, che, in particolare per la pianificazione degli investimenti, ha bisogno di un «quadro di certezze».
Il limite all'incremento della spesa delle pubbliche amministrazioni e degli enti decentrati che nella finanziaria 2005 ha sostituito, per questi ultimi, la definizione dell'obiettivo in termini di disavanzo, si è rivelata una tecnica di contenimento della spesa molto rudimentale e scarsamente efficace: infatti, con la fissazione di un rigido vincolo, si riducono i margini di manovra per le autonomie locali, perché non è possibile intervenire sulle entrate per mantenere il disavanzo al livello degli anni precedenti; taglia la spesa in modo indifferenziato, senza distinguere tra spese «buone» e spese «cattive»; prende a riferimento la spesa del passato di un periodo limitato, e con un automatismo del tutto casuale premia l'ente che nel periodo di riferimento ha speso di più; occorre tener presente che, se la spesa di parte corrente è, generalmente, piuttosto stabile, quella in conto capitale è molto variabile; in ogni caso restano penalizzati gli enti che, nel triennio 2001-2003, per esigenze di programmazione hanno rinviato gli investimenti, registrando così un livello contenuto di spesa in conto capitale; sospende la spesa solo temporaneamente, con il rischio di «fiammate» successive al blocco, devastanti per l'equilibrio delle amministrazioni; infatti, «taglia» gli stanziamenti, ma non influisce sull'attività amministrativa «a monte» della spesa; la spesa esploderà quindi non appena il tetto sarà rimosso; come specificato dalla Circolare del Ministero delle Finanze n. 4/2005, ai fini della valutazione del rispetto del patto, si tiene conto sia degli impegni di spesa, sia dei pagamenti effettuati: paradossalmente, proprio le amministrazioni più efficienti, con un indice di «realizzazione» della spesa elevato, che hanno erogato più risorse a fronte di interventi conclusi, rischiano la sanzione per violazione del patto; è un sistema
11. Le politiche del Governo per il Mezzogiorno: né competitività né crescita.
Quanto alle politiche del Governo per ridurre il divario territoriale, secondo il rapporto SVIMEZ, presentato di recente, nel 2004 il PIL del Mezzogiorno è cresciuto dello 0,8 per cento, a fronte di una crescita media dell'Italia dell'1,2 per cento; se si esclude il 2000, erano sette anni che la dinamica di crescita del Mezzogiorno non era inferiore a quella del resto del Paese; il divario di prodotto per abitante si mantiene superiore ai quaranta punti percentuali, cui corrisponde in termini monetari una differenza di oltre 10.000 euro: l'incremento del divario Nord-Sud verificatosi nel 2004, sebbene di solo due decimi di punto, è un fatto che non si registrava dalla metà degli anni '90.
A determinare tale differenza, secondo la Svimez, sono una più accentuata riduzione della spesa pubblica nelle regioni meridionali: questa si è ridotta, nel 2004, a meno di un terzo rispetto all'anno precedente e si unisce al deciso rallentamento della spesa delle famiglie meridionali , in particolare della spesa per consumi primari e non durevoli.
Sul mercato del lavoro, il Mezzogiorno, dopo aver creato nel corso del triennio 2000-2002 di espansione dell'occupazione ben 350 mila posti di lavoro aggiuntivi, nell'ultimo biennio manifesta perfino difficoltà a mantenere lo stock di occupazione creato nel periodo precedente: tra il 2002 e il 2004 gli occupati sono calati di 48 mila unità; e questo nonostante il positivo andamento della produttività dell'area: nel periodo 1996-2004 la produttività è aumentata al Sud cumulativamente del 9,4 per cento, quasi il doppio dell'incremento nel resto del Paese (4,6 per cento)
Nonostante l'evidente fallimento delle politiche di sviluppo territoriale degli ultimi quattro anni, il Governo, nel DPEF, «si impegna a proseguire nella strategia di sviluppo territoriale avviata» e quindi a confermare le misure introdotte con la Finanziaria 2005 e con il cosiddetto «Piano
Il DPEF 2006-2009 - l'ultimo di questa legislatura - rappresenta una vera e propria presa d'atto del fallimento della politica economica del governo di centro-destra. A quattro anni dal DPEF del 2001 - che prometteva di guidare l'economia nazionale «dal declino allo sviluppo» - il quadro macrotendenziale a legislazione vigente (a «riforme» attuate, come da programma) è il seguente: nel 2005 la crescita del PIL è nulla o negativa; le esportazioni nette (specchio delle capacità competitive del Paese) si mantengono in area negativa e non trovano compenso nell'andamento della domanda interna, dove i consumi delle famiglie crescono pochissimo, mentre gli investimenti fissi lordi calano; la produttività (misurata sul PIL) cade ulteriormente, mentre l'andamento del Costo del Lavoro per Unità di Prodotto fa registrare una crescita superiore a quella media dell'area dell'Euro; dopo anni di costante miglioramento (la tendenza positiva è in atto dal '97) il tasso di disoccupazione peggiora (+0,1), mentre quello di occupazione smette di crescere.
Le difficoltà del nostro Sistema-Paese non sono congiunturali. Infatti il ciclo economico internazionale è positivo.
Le cause strutturali sono note. Si è posto l'accento - alternativamente o congiuntamente - sui limiti dimensionali delle imprese e sulla loro eccessiva specializzazione in attività tradizionali e a bassa crescita nei mercati internazionali, sulla debolezza della concorrenza, sull'invecchiamento della popolazione e sui suoi effetti per il mercato del lavoro, sulle rigidità nel mercato dei diritti proprietari, sull'insufficiente spesa in «ricerca e sviluppo», sull'inadeguata formazione delle risorse umane, sulle carenze infrastrutturali (materiali e immateriali), sulla mancanza di politiche economiche efficaci, e così via.
La politica economica dei prossimi anni deve essere orientata alla crescita e al recupero delle capacità competitive del Paese, allo sviluppo, innanzitutto. Nel 1992, l'Italia ha corso un serio rischio di collasso finanziario. Per tutti gli anni 90, la priorità della politica economica è stata quindi la stabilità. Questo obiettivo è stato conseguito con l'ingresso nell'area dell'Euro. Ora, una corretta gestione della finanza pubblica - orientata a ridurre il volume globale del debito, mantenendo un elevato avanzo primario e valorizzando il patrimonio pubblico, stimato pari al 137 per cento del PIL - deve essere considerata una componente essenziale della politica economica orientata alla crescita e ad un più elevato grado di equità e coesione sociale.
La stagnazione/recessione di questi anni non è un segno del declino ineluttabile: gravata dal peso delle mancate riforme, l'economia italiana può tornare a crescere, facendo leva su quattro risorse fondamentali:
a) lavoratori con alta professionalità;
b) i giovani e i loro cervelli;
c) il risparmio delle famiglie;
d) l'elevato numero di medie imprese capaci di «fare sistema» con quelle artigiane e piccole per competere con successo sul mercato globale.
Questi quattro fattori dinamici, opportunamente combinati da un'autorità politica che mostri di essere consapevole delle difficoltà e di avere un progetto per l'Italia,
Spetterebbe alla politica fiscale esercitare la sua funzione anticiclica e stimolare l'economia. Ma i conti pubblici sono pessimi .
E, dunque, data l'attuale situazione dei conti pubblici, come bisognerebbe procedere ?
Occorre tracciare una manovra di aggiustamento dei conti pubblici a medio termine e di rilancio della nostra economia.
Lo sviluppo.
In Italia, il rapporto tra patrimonio e Pil è pari a 8 volte , il maggior rapporto tra paesi industriali. Lo stesso Montezemolo ha osservato come «in questa situazione il valore annuale della rendita si avvicina paurosamente al reddito da lavoro». È questa una delle principali cause del declino.
I profitti si realizzano in un mercato competitivo quasi perfetto, le rendite si realizzano in un mercato molto imperfetto e poco competitivo, come quello immobiliare o degli ordini professionali chiusi o dei pedaggi autostradali o delle tariffe delle utilities. Per questo non si può più rimandare l'avvio di un processo di apertura e di maggiore concorrenzialità dei mercati chiusi e caratterizzati da situazioni di monopolio.
Inoltre, come è noto, la maggior parte delle rendite finanziarie sono tassate con aliquota fissa del 12,5 per cento, gli utili d'impresa con l'aliquota del 33 per cento, che, aggiunta all'Irap porta la tassazione quasi al 50 per cento sugli utili. Soffriamo di nanismo industriale anche per questo. L'autofinanziamento con crescita dell'impresa industriale è impedito da livelli di tassazione quasi doppi rispetto alla media europea, che è del 30 per cento e con tendenza a calare.
Sono chiare le priorità che la politica economica deve darsi per innalzare la competitività sistemica dell'Italia e accentuarne il tasso di innovazione qualificata.
Occorre attuare politiche volte alla realizzazione dei due binomi dell'innovazione: il binomio «innovazione e servizi» - potendo investire il campo non solo dei servizi alla produzione, ma anche quello dei servizi alla persona, alla collettività, al territorio, tutti ad alta femminilizzazione - che può essere alla base dell'innalzamento del tasso di attività femminile, e il binomio «innovazione e formazione» che può rappresentare il motore della valorizzazione delle risorse dei giovani e degli adulti disoccupati sopra i 45 anni.
La qualità della ripresa deve puntare sulla produttività dei fattori, sulla crescita degli investimenti, sull'innovazione, sulla ricerca e la crescita dimensionale delle imprese e dell'occupazione.
Vanno investite risorse aggiuntive e crescenti anche con la riconversione dei fondi attualmente destinati ai trasferimenti in conto capitale alle imprese, secondo i criteri previsti dalla Legge finanziaria del 2005 - in progetti di ricerca delle Università e dei Centri Pubblici di ricerca. In questo quadro, favorire fiscalmente la creazione di associazioni e consorzi tra piccole imprese e l'università.
La robustezza della ripresa dipende anche da una più equa distribuzione del reddito, in particolare del carico fiscale e contributivo. Perciò è necessario rivedere il carico fiscale sulle rendite parametrandolo agli standard dei paesi europei, sia ai fini del riequilibrio e dell'equità fiscale, che a quello di un recupero di risorse da destinare allo sviluppo ed in particolare alla promozione delle politiche e degli obiettivi fissati dalla Conferenza intergovernativa di Lisbona: ricerca, formazione, innovazione, infrastrutturazione immateriale, invecchiamento attivo, formazione continua, innalzamento del livello di partecipazione alla forza di lavoro, a partire dalle giovani donne.
Con riferimento alle politiche ambientali, vanno realizzati interventi per la difesa del suolo, la bonifica dei siti inquinati, l'ottimizzazione della gestione dei rifiuti, nonché previsti adeguati incentivi per l'innovazione tecnologica e la ricerca applicata alle fonti energetiche rinnovabili, in modo da promuovere l'uso efficiente delle risorse energetiche e lo sviluppo delle fonti rinnovabili, nel rispetto degli impegni sottoscritti con il Protocollo di Kyoto.
Dobbiamo valutare attentamente le opere da realizzare dal punto di vista della loro sostenibilità
ambientale e della loro funzionalità, definendo un Piano infrastrutturale con priorità per il Mezzogiorno e la realizzazione delle autostrade del mare:
rafforzando i porti italiani e le attività di logistica ad essi connesse, così da sfruttare la vocazione dell'Italia - del Sud e delle Isole in particolare - come naturale piattaforma logistica distesa nel Mediterraneo, di nuovo al centro dei crescenti traffici dell'economia globale;
puntando alla ottimizzazione delle reti ferroviarie ed idriche, allo sviluppo delle telecomunicazioni e delle energie alternative, alla difesa del suolo e al recupero dei centri storici delle città meridionali.
Va altresì modificata la legge che regola il fenomeno dell'immigrazione, gravemente penalizzante per il sistema economico.
Si devono realizzare celermente le riforme che «non costano»:
la semplificazione amministrativa, che significa efficienza della PA, rapidità e certezza dei processi decisionali, introduzione di tutte le innovazioni tecnologiche (ITC) per rendere tempestivi gli adempimenti ed efficiente il sistema di concessioni ed autorizzazioni;
la tutela del risparmio e trasparenza (falso in bilancio)
la gestione delle crisi di impresa (riforma «sostanziale» della legge fallimentare: il Governo introduce invece poche modifiche «surrettizie»)
la liberalizzazione delle professioni;
l'informatizzazione della giustizia civile (sull'esempio del Tribunale di Bologna) per accelerare i processi e ridurne i costi.
È importante inoltre predisporre strumenti per favorire l'innovazione e la ricerca. Per aumentare le spese in ricerca delle imprese la leva fiscale può essere utile strumento soltanto se adeguata nell'ammontare e strutturale, in modo da consentire una adeguata programmazione. Per questo le iniziative tipo TecnoTremonti non sono adatte a raggiungere un serio obiettivo. Occorre, invece, prevedere agevolazioni alle imprese, automatiche ed immediatamente utilizzabili, per le spese in ricerca, innovazione e alta formazione.
Per quanto riguarda l'impegno pubblico, è utile definire alcuni progetti di eccellenza, per lo sviluppo della ricerca e la qualificazione del nostro sistema industriale.
Per favorire la crescita dimensionale delle imprese è importante agevolarne le aggregazioni, nelle diverse modalità possibili, dall'utilizzo di servizi all'accesso al credito, all'innovazione e alla ricerca, alle strutture di distribuzione e di commercializzazione, all'export e all'apertura di nuovi mercati. È possibile favorire la crescita dimensionale delle imprese anche attraverso l'utilizzazione di meccanismi fiscali agevolativi per la loro capitalizzazione, riequilibrando così il favore fiscale verso l'indebitamento a scapito dell'utilizzo del capitale proprio.
Prevedere un apposito pacchetto di misure urgenti per il rilancio e la qualificazione dell'offerta turistica del nostro Paese può tornare utile come intervento con effetti positivi ed immediati sul ciclo economico.
Non si può peraltro non rilevare come l'attuale Governo abbia smantellato lo strumento del credito d'imposta per le assunzioni, strumento efficace e già in vigore che non avrebbe fatto perdere il tempo oggi necessario per avere una nuova autorizzazione da parte della Commissione di Bruxelles. Occorre ripristinare - nelle aree dell'obiettivo 1 - i crediti d'imposta automatici per le assunzioni aggiuntive a tempo indeterminato, anche privilegiando il settore primario e manifatturiero, l'occupazione femminile e la produzione di servizi esposti alla concorrenza internazionale. Anche le risorse dei fondi strutturali europei per le aree sottoutilizzate vanno utilizzate prioritariamente per progetti interregionali, con l'intervento sussidiario dello Stato, finalizzati a creare le condizioni strutturali dello sviluppo. Il Governo deve sostenere in sede europea la necessità di continuare a dedicare risorse a favore delle zone coinvolte in processi di ristrutturazione industriale.
Infine, ma non ultimo per ordine d'importanza, l'impegno affinché le risorse per una lotta rigorosa alla criminalità organizzata siano sufficienti. Riteniamo utile prevedere incentivi, anche monetari, per inviare nelle aree di maggiore incidenza del fenomeno i quadri migliori della pubblica amministrazione, della magistratura, delle forze di polizia.
Per un sistema più equo ed efficiente.
Nella stagnazione dell'economia italiana stanno avvenendo trasferimenti di reddito di una entità senza precedenti negli ultimi dieci anni. Questo apre due problemi:
quello dell'efficienza: non c'è una domanda adeguata per la ripresa;
quello dell'equità: le rendite ed i profitti continuano a crescere in percentuale della ricchezza prodotta.
Siamo di fronte, quindi, a una redistribuzione alla rovescia.
Anche il confronto con il resto d'Europa conferma la sensazione diffusa di «declino relativo» delle retribuzioni. E il fenomeno non sembra limitato soltanto all'ultimo biennio, anche se si è certamente accentuato con la stagnazione economica. La moderazione salariale ha probabilmente giocato un ruolo. La sostanziale e lunga stagnazione dei salari reali potrebbe anche contribuire a spiegare la crescita occupazionale degli ultimi anni: essa avrebbe reso progressivamente più conveniente impiegare tecniche di produzione a maggiore intensità di lavoro. In ogni caso, non si può più affermare che sia solo una questione di crescita economica, emerge anche un problema di redistribuzione dei redditi, con l'incremento della quota dei profitti e delle rendite sul reddito nazionale che dura da oltre un decennio, non bilanciato dalla crescita degli investimenti fissi.
La mancata restituzione del drenaggio fiscale ha aggravato la situazione.
Un fenomeno analogo a quello dell'erosione del potere d'acquisto delle retribuzioni, anche se dipendente da altri fattori, ha interessato le erogazioni previdenziali. Lo confermano i dati dell'Inps dai quali risulta che oltre 8 milioni e mezzo di pensionati vivono con un reddito inferiore a 750 euro mensili. Più della metà non raggiunge i 516 euro.
I consumatori hanno percepito una inflazione molto più elevata di quella registrata dall'ISTAT. La percezione è sicuramente influenzata da fattori soggettivi che la amplificano. È anche vero, però, che l'inflazione rilevata ha alcune distorsioni che ne attenuano la dinamica (basti pensare che il paniere Istat assegna alla spesa per la casa un peso del 9 per cento). Le principali criticità dell'attuale rilevazione riguardano la mancata rilevazione in molti comuni, la scarsa qualità in molti altri, alcune scelte di rilevazione e di
Proponiamo di procedere ad una revisione del cosiddetto secondo modulo di riforma dell'Ire predisposto con la legge finanziaria per il 2005, eliminando gli ingiustificati sconti fiscali per i redditi alti, ed utilizzando le risorse così recuperate per:
intervenire per eliminare, anche gradualmente, gli oneri impropri che gravano sul costo del lavoro;
aumentare le agevolazioni fiscali relative ai carichi familiari;
aumentare la dotazione del Fondo affitti per aiutare i nuclei familiari in maggiore difficoltà;
restituire il fiscal drag.
Non è più rinviabile la costruzione di un sistema universale di ammortizzatori sociali, che estenda gradualmente la sua rete protettiva a tutti i lavoratori italiani, rafforzandone gli interventi mirati alla formazione; né tanto meno la predisposizione di un sistema di garanzie, anche previdenziali, per i lavoratori precari.
Occorre trovare le risorse per finanziare un intervento di sostegno delle famiglie più povere con figli minori e anziani non autosufficienti.
Vogliamo finanziare e realizzare un programma straordinario di costruzione di alloggi «per giovani», così favorendo la mobilità sociale e quella territoriale, oltre che un più rapido affrancamento dalla dipendenza economica nei confronti della famiglia di origine.
Infine, è necessario prevedere risorse adeguate per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego.
Il riassetto della finanza pubblica.
Si è ampiamente trattato il tema del dissesto della finanza pubblica. Data la situazione, bisognerebbe operare una drastica inversione di rotta rispetto agli indirizzi di politica economica e sociale seguiti negli ultimi quattro anni, finalizzata al rinnovamento del Paese, alla realizzazione di un più competitivo «Sistema-Italia», alla promozione di una maggiore coesione e equità sociali.
Il Governo dovrebbe, a nostro avviso, rivedere completamente, il DPEF secondo le linee-guida di questa relazione di minoranza, e, inoltre, integrarne il testo:
1. introducendo tutte le informazioni e gli obiettivi previsti dalla legge n. 468 del 1978, specificando le politiche settoriali previste e i rispettivi attesi risultati, con particolare riferimento alle misure di correzione, così da consentire una più puntuale verifica degli impatti effettivi della manovra di finanza pubblica delineata dal DPEF;
2. inserendo nel DPEF un resoconto puntuale sullo stato di attuazione degli impegni per la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, in coerenza con gli obblighi derivanti dall'attuazione del Protocollo di Kyoto e sui relativi indirizzi, come previsto dall'articolo 3, comma 2-ter, del decreto-legge n. 316 del 2004, indicando in particolare le proposte di modifica e di integrazione del Piano nazionale di assegnazione delle quote di emissioni che si rendano necessarie.
Il Governo, d'altro canto, non dovrebbe sottrarsi a una manovra di aggiustamento dei conti pubblici, senza interventi una tantum ed invertendo la tendenza alla caduta dell'avanzo primario, al fine di accelerare la riduzione dello stock del debito.
Ma essa dovrà essere realizzata senza ridurre il volume della spesa sociale in rapporto al Pil.
Invece, i proventi delle dismissioni debbono essere destinati alla riduzione del debito accumulato e per politiche di sviluppo, anche al fine di evitare una valutazione negativa dei mercati nei confronti della crescita del nostro debito, dopo anni di sua regolare diminuzione, valutazione che avrebbe inevitabili riflessi negativi sul servizio del debito e sui nostri saldi di finanza pubblica.
Va definito di concerto con il sistema delle autonomie regionali e locali un accordo per la gestione della finanza territoriale che non sia modificabile né in corso di anno, né ad ogni Legge finanziaria, né sulla base di scelte unilaterali del governo centrale, restituendo l'autonomia impositiva al sistema delle autonomie regionali e locali, e modificando, di concerto con le autonomie, i criteri di cui al decreto legislativo n. 56 del 2000.
È necessario riconoscere agli enti locali e territoriali risorse autonome, costituite da tributi ed entrate proprie e da compartecipazione a tributi erariali, assicurando integrale copertura delle funzioni pubbliche trasferite ed un efficace meccanismo di perequazione che metta a disposizione adeguate risorse finanziarie anche alle realtà dotate di base imponibile limitata per capacità tributaria o dimensione demografica.
Agli enti decentrati vanno destinate risorse aggiuntive, ulteriori e speciali, per contribuire alla rimozione degli squilibri economico-sociali sul territorio e la realizzazione di interventi per la coesione e la solidarietà sociale, l'effettivo esercizio dei diritti della persona, il conseguimento in tutto il territorio dei livelli essenziali di servizi, il miglioramento della qualità e dell'accesso ai servizi, l'esercizio dei diritti civili.
Si devono prevedere risorse adeguate per la sicurezza del territorio nazionale, la prevenzione e la lotta al terrorismo.
Infine, va ribadita l'intenzione di adempiere pienamente agli impegni internazionali assunti e relativi alla cooperazione allo sviluppo, alle emergenze sanitarie, all'abbattimento del debito dei Paesi in via di sviluppo.
MICHELE VENTURA,
Relatore per la minoranza.