Doc. LVII n. 4-A-bis


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RELAZIONE DI MINORANZA

Onorevoli Colleghi! - 1. Le condizioni della finanza pubblica e l'eredità delle precedenti manovre finanziarie.

Il Documento di programmazione economico-finanziaria 2005-2008 è stato presentato al Parlamento con un ritardo notevole rispetto a quanto previsto dalle vigenti disposizioni legislative. L'esame e la discussione parlamentare risultano così compromessi ed il Parlamento è, di fatto, esautorato dall'esercizio delle proprie funzioni rivelandosi impossibile incidere ed approfondire temi fondamentali per le strategie di sviluppo dell'Italia. La compressione dei tempi di discussione sconta, inoltre, anche l'impossibilità per il Parlamento di tenere nella debita considerazione le indicazioni provenienti da importanti audizioni, dal momento che esse termineranno in tarda serata, e comunque in un orario tale da impedire ai relatori, di maggioranza e di minoranza, di valutare compiutamente i contenuti.
Le linee guida del Dpef testimoniano la necessità, finalmente avvertita, di ricostruire attorno all'esecutivo una reputazione di credibilità. Seguono i temi della competitività e dello sviluppo. Non vorremmo passare per uccelli del malaugurio - siamo tutti sulla stessa barca - ma rileviamo l'estrema aleatorietà delle intenzioni dell'esecutivo, il quale affida temi così importanti ad una mera elencazione degli obiettivi e continua ad addebitare unicamente alla bassa crescita economica degli anni 2001/2003, la non realizzazione del programma di interventi e riforme previste nel programma di legislatura.
In realtà, per smontare il castello di carta costruito dalla maggioranza sulla questione delle responsabilità, basta analizzare la voragine dei conti pubblici, che man mano sta venendo a galla, e fare qualche passo indietro per capire perché siamo arrivati ad un disavanzo tendenziale 2005 pari al 4,4 per cento del Pil (ma secondo alcuni siamo già al 5 per cento) e, di conseguenza, alla necessità di una manovra correttiva di almeno 24 miliardi di euro (quasi 50.000 miliardi di vecchie lire). Una cifra gigantesca che ci riporta indietro nel tempo quando, al contrario di oggi, la stretta sui conti pubblici non arrivava all'improvviso e al seguito di campagne pubblicitarie all'insegna del «tutto va bene, i conti sono in ordine».
Interessa ora capire come è arrivato il Governo al risultato del 4,4 per cento di deficit per il 2005. La risposta non è unica. Innanzitutto attraverso il ricorso massiccio ad entrate una tantum che nel 2002 e nel 2003 migliorando i dati sull'indebitamento - per un valore pari, rispettivamente, all'1,5 per cento del Pil e al 2 per cento del Pil - hanno permesso di coprire lo stato reale dei conti; poi non riuscendo a controllare la dinamica della spesa corrente che ha registrato, in soli due anni, un notevole incremento pari ad 1,5 punti percentuali di Pil; infine, fornendo previsioni di crescita sempre troppo ottimistiche e poco credibili nonostante tutti i principali istituti economici proponessero dati al ribasso.
L'inaffidabilità e l'incapacità di adottare adeguate politiche economiche di rilancio da parte del Governo risulta in tutta


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la sua evidenza analizzando le manovre di finanza pubblica che fino ad oggi si sono succedute.
In sintesi il quadro che si delinea guardando all'ultimo triennio è quello di un Paese in cui sono notevolmente diminuite le entrate ordinarie (-1 per cento) e tributarie (-1,4 per cento), è cresciuta la spesa corrente (+1,5 per cento), sono aumentate le entrate una tantum ed è diminuita la spesa per interessi. Emerge, in conclusione, un dato: nel nostro Paese entrate straordinarie e risparmi da interessi sono andati a finanziare incrementi duraturi di spesa corrente primaria, allontanando il momento del risanamento strutturale.

1.1 Il conto della gestione Tremonti.

Dopo tre anni di legislatura, il Governo Berlusconi ci consegna, quindi, un Paese più povero e meno competitivo con un deficit che, per il 2005, punta al 4,4 per cento. Un risultato sconfortante se si pensa che il centrosinistra lasciò il governo con un indebitamento all'1,8 per cento.
Il dato sul deficit è, inoltre, reso più grave dal fatto che, nel frattempo, si è riusciti anche a dimezzare l'avanzo primario, passato dal 5,8 per cento del 2000 al 2,4 per cento previsto per il 2004 e che, in mancanza di interventi, è previsto ridursi al lumicino di un misero 0,8 per cento nel 2005. Il dato è così importante perché meglio di ogni altro esprime la corretta gestione dei conti pubblici essendo la differenza tra entrate ed uscite al netto di interessi. In pratica indica se il Governo ha speso più di quello che avrebbe potuto fare e, per questa strada, ha intaccato i risparmi, le risorse accantonate. Niente di diverso da quello che ciascuna famiglia fa redigendo il proprio bilancio domestico, in cui decide quali spese si possono fare, quali è opportuno rimandare e, infine, quali bisogna tagliare in relazione alle proprie entrate. Purtroppo il Governo ha mostrato, sotto questo aspetto, un'incapacità politica di assumersi la responsabilità di decidere riduzioni di spesa e, peraltro, non ci è riuscito nella prima parte della legislatura quando, di solito, è più appropriato usare una politica di contenimento.
Ora il Dpef ci presenta il conto e chiarisce che recuperare quote di avanzo primario non sarà così semplice e per arrivare all'accettabile livello del 4,8 - vicino ai livelli del 2000 - ci vorranno almeno quattro anni.
Infine il debito. Dopo essere diminuito di 11,4 punti percentuali dal 122,6 al 111,2 nei cinque anni del governo di centrosinistra, nei tre anni di governo di centrodestra è diminuito di appena tre punti percentuali.
L'elevato livello del debito pubblico italiano è una delle cause principali di ristagno dell'economia italiana. Rispetto al prodotto il debito pubblico italiano è il più alto fra tutti i paesi Ocse, ad esclusione del Giappone e si discosta notevolmente dalla media europea (70,5 per cento del Pil).
Il debito comprime la crescita demotivando e deprimendo la propensione ad investire: le promesse al mondo produttivo di diminuzione della pressione fiscale, se non si incide sul debito, sono destinate ad apparire irrealistiche.
In pratica il divario esistente con i concorrenti europei su fisco, infrastrutture e oneri sociali, già oggi esistente, non diminuirà se non si mette subito mano allo stato precario delle pubbliche finanze riducendo il peso del debito e recuperando per quella strada margini di manovra operativa.
Il Dpef su questo aspetto è chiaro: propone un piano di dismissioni pubbliche enorme, di oltre 100 miliardi di euro (!), per raggiungere il fatidico obiettivo della parità con il Pil al 2007.
La vastità dell'intervento non può che suscitare dubbi ed incredulità e, comunque, si registra l'ennesimo slittamento, dal 2005 al 2007, dell'obiettivo fondamentale del debito a livello 100.


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1.2 Le manovre di finanza pubblica 2002-2004.

Sin dal suo primo Dpef, nel luglio 2001, il Governo ha fatto affidamento su misure di finanza una tantum, rinunciando ad intervenire in modo strutturale sulla spesa corrente. Il risultato è stato fallimentare: le entrate si sono rivelate in molti casi solo virtuali, mentre la spesa pubblica complessiva primaria è aumentata di circa 2 punti percentuali di PIL in pochi anni. La fiducia nella finanza creativa del Ministro dell'economia ha costretto il Governo a rivedere in continuazione i propri obiettivi di finanza pubblica, sistematicamente sovrastimati.
La tabella sottostante offre la misura del fenomeno e, in particolare, è importante notare come solo alla fine, quando ormai non era proprio più possibile mistificare la realtà dei dati, il Governo rivedeva notevolmente al ribasso i propri obiettivi programmatici.
Questa volontà di non affrontare la realtà dei fatti ricorrendo a massicce dosi di una tantum ha rappresentato il paravento dietro il quale il deterioramento dei conti pubblici è avvenuto in tutta tranquillità, mentre i mercati ed il Paese venivano rassicurati sul fatto che tutto procedeva per il meglio.

Tabella (valori in % di PIL)

 
Indebitamento netto
Saldo primario
Crescita reale PIL
Debito
I DPEF
luglio 2001
Program-
matico
Consun-
tivo
Program-
matico
Consun-
tivo
Program-
matico
Consun-
tivo
Consun-
tivo
DPEF 02-06
(Manovra 2002)
0,5 2,3 5,5 3,5 3,1 0,4 108,0
RPP 2002
0,5   5,3   2,3    
Nota di aggiornamento
0,5   5,3   2,3    
Trimestrale di
cassa
0,5   5,1   2,3    
Giugno 2002
        1,3    
Settembre 2002
2,1   3,8   0,6    
 
II DPEF
luglio 2002
             
DPEF 03-06
(manovra 2003)
0,8 2,4 5,1 2,9 2,9 0,3 106,2
Aggiornamento
1,5   4,5   2,3    
Trimestrale di
cassa
2,3   3,2   1,1    
Luglio 2003
2,3   3,0   0,8    
Settembre 2003
2,5   2,8   0,5    
 
III DPEF
luglio 2003
  Tendenziale   Previsione   Tendenziale Program-
matico
DPEF 04-06
(manovra 2004)
1,8   3,1   2,0    
Aggiornamento
2,2   2,9   1,9    
RTC
2,9   2,2   1,2    
Commissione Ue
Primavera 2004
3,2*       1,2    
Luglio 2004
2,9** 3,5   2,4 1,2 1,4 106
* Senza manovra correttiva D-L 168/2004;
** Con manovra correttiva di circa 6 decimi di punto percentuale dal D-L 168 e da ulteriori provvedimenti amministrativi per circa 2 miliardi.


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A) Il Dpef per il 2002: il momento delle promesse.

Il primo Dpef del governo Berlusconi sintetizzava la propria filosofia nello slogan: «Dal declino allo sviluppo». Il declino era rappresentato dagli ultimi anni di governo del centrosinistra e dai seguenti dati: 1999, Pil +1,6 per cento; 2000, +2,9 per cento. Al contrario loro promettevamo «un balzo strutturale e permanente nei ritmi di sviluppo» per portare «l'Italia a realizzare tassi di crescita superiori al 3 per cento per l'intera legislatura», in altre parole un vero sviluppo. Queste le cifre dello sviluppo: 2001, +1,8 per cento; 2002, +0,4 per cento; 2003, +0,3 per cento.
Naturalmente non è colpa del Governo se il ciclo economico mondiale stava subendo, a partire dall'estate del 2000, un rallentamento, tuttavia dalla Tabella si evince in modo chiaro l'estrema lentezza nel modificare le prospettive di crescita (dopo quasi un anno, quando già tutti i maggiori istituti economici avevano cambiato da tempo le percentuali di crescita relative al nostro Paese il Governo rimaneva convinto degli obiettivi fissati) e gli obiettivi programmatici indicati nel Dpef 2002-2006.
Pertanto si è praticato per più di un anno l'immobilismo di fronte ad un contesto economico mutato e, soprattutto, si sono applicate le ricette economiche ritenute valide nel luglio 2001, ma che già nel settembre 2001 non lo erano più.
Il Dpef 2002-2006 prospettava, prescindendo da qualsiasi valutazione tecnica di fattibilità, una crescita per il 2002 del 3,1 per cento, la riduzione di un punto percentuale l'anno per tutta la legislatura della pressione fiscale (dal 42,4 per cento al 36,2 per cento) prospettava, infine, un rilevante impegno di legislatura per l'emersione dell'economia in nero mediante: il condono tombale, lo sgravio di imposte e contributi correnti, la riduzione dell'IRPEG dal 36 per cento al 25 per cento, la riduzione dell'aliquota contributiva a fini pensionistici (dal 32 per cento al 23 per cento), l'abolizione dell'IRAP, la riforma dell'Irpef.
Il Dpef conteneva, infine, l'impegno a ridurre la spesa pubblica al netto degli interessi di 6 punti percentuali di Pil e ad azzerare il deficit nel corso del 2003.
La manovra veniva attuata principalmente attraverso interventi una tantum pari ai due terzi dell'intera manovra. Si prevedevano, quindi, interventi di rilancio per l'economia per 18.448 miliardi di lire, al lordo di effetti indotti per 2.777 miliardi di entrate fiscali, nell'ambito di un intervento complessivo per 33.200 miliardi di lire, di cui 15.000 rivenienti da alienazioni immobiliari. Gli interventi avevano un modesto grado «strutturale», cioè una limitata capacità di incidere a lungo termine sugli equilibri della spesa e delle entrate pubbliche. Le misure temporalmente limitate erano prossime al 70 per cento del totale dell'intervento, più di 23.000 miliardi. La percentuale di interventi una tantum previsti nella finanziaria 2002 (tra le quali cartolarizzazione, sommerso, rivalutazione beni, rientro dei capitali) era sensibilmente superiore rispetto alle percentuali contenute nelle manovre degli anni passati.
L'avanzo primario programmatico si doveva attestare a 131.800 miliardi di lire (5,3 per cento del PIL), la spesa per interessi scendere al 5,8 per cento del PIL (144.500 miliardi di lire) e l'indebitamento netto collocarsi allo 0,5 per cento del PIL, in linea con quanto stabilito nel patto di stabilità.
Tuttavia, il primo anno di legislatura non è andato come il Governo si attendeva. Perso del tempo prezioso in dispute e provvedimenti ad personam - ricordiamo l'allentamento del rigore nei confronti del falso in bilancio - i tentativi messi in atto per far approvare provvedimenti di sgravio - come ad esempio la Tremonti-bis - senza copertura con l'idea che essi si autofinanziassero con gli effetti endogeni sul prodotto interno lordo ha fatto sì che il disavanzo 2002 riuscisse a scendere con estrema difficoltà, rispetto al livello 2001, attestandosi ad un 2,3 per cento contro lo 0,5 per cento programmato. Il risultato è stato comunque il frutto di uno strumento, il «tagliaspese»,


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che bloccando a fine anno i pagamenti ha prodotto un effetto positivo, sull'indebitamento netto pari a circa lo 0,2 per cento del Pil. Tuttavia, come rilevato anche dalla Corte dei conti, lo strumento del «tagliaspese» non funziona poiché rimanda solo i pagamenti che si scaricano sull'anno successivo riproponendo lo stesso problema di contenimento.
Inoltre l'esecutivo mostrò la propria, pericolosa, difficoltà nell'assumersi precise responsabilità in merito al contenimento ed eventuale riduzione di spesa corrente. Tale incapacità sarà il de profundis dei conti pubblici italiani.

B) Il Dpef 2003. Dalle promesse alle scommesse: gli obiettivi dimezzati.

Il Dpef, presentato nel luglio 2002, segnava l'abbandono delle promesse elettorali e indicava una strada fatta di scommesse in relazione alla riforma del fisco, della previdenza, del mercato del lavoro. Si riaffermava l'obiettivo centrale della stabilità finanziaria e venivano rivisti al ribasso tutti gli obiettivi di sgravi fiscali fissati nel precedente Dpef. In particolare veniva ricalibrata la discesa della pressione fiscale (al 39,8 per cento anziché al 36,2 per cento) per mezzo punto l'anno anziché un punto come previsto nel programma di governo. Per di più il nuovo obiettivo veniva a coincidere con la riduzione che il centrosinistra aveva indicato nel proprio programma elettorale.
Stessa sorte seguivano tutte le altre promesse: i contributi sociali non sarebbero più stati ridotti di 10 punti percentuali, bensì di circa 0,5; l'IRPEG non sarebbe più scesa al 25 per cento ma solo al 33 per cento; la abolizione dell'IRAP era rimandata ad anni futuri e, per il 2003, si disponeva una riduzione di soli 500 milioni di euro; l'obiettivo di riduzione della spesa corrente passava dai 6 punti percentuali indicati nel Dpef 2002 ai 3,3 punti. Infine l'impegno ad azzerare il disavanzo nei conti pubblici slittava dal 2003 al 2005.
Nonostante l'esperienza fallimentare del primo anno, l'esecutivo dimostra di non aver imparato la lezione e continua a fornire prospettive di crescita per il 2003 al 2,9 per cento, assolutamente non supportate da nessuna previsione tecnica che le possa giustificare.
Di nuovo c'era un ragionamento che prevedeva che la riduzione delle imposte (primo modulo della riforma fiscale) sostenendo la domanda aggregata avrebbe determinato una dinamica positiva in relazione al mercato del lavoro. Tale effetto avrebbe quindi stimolato anche l'aumento dell'offerta aggregata e quindi del prodotto potenziale.
Per quanto riguarda i risparmi di spesa corrente il Dpef indicava in maniera precisa solo quelli derivanti dagli acquisti di beni e servizi - per il 2003 il risparmio atteso era di 3,7 miliardi di euro - sovrastimando il dato. Per il resto non conteneva nessuna specifica voce di spesa soggetta a riduzione, fornendo solo i saldi di parte corrente e capitale, gli interessi e le entrate fiscali.
In pratica il documento non diceva in che modo, dopo aver ridotto le tasse, intendeva operare per ridurre il disavanzo se attraverso un aumento delle entrate o attraverso una riduzione delle spese correnti.
La manovra per il 2003 veniva attuata, ancora una volta, attraverso misure una tantum con una incidenza sull'indebitamento netto pari al 2 per cento del Pil. Si fecero concordati e condoni, cartolarizzazioni e dismissioni ordinarie, si estese lo scudo fiscale.
Il dato di fondo della performance macroeconomica della crescita 2003 è risultato deludente, e attestandosi allo 0,3 per cento è il peggior risultato dal 1993.
Tuttavia, l'elemento di maggior allarme era rappresentato dalla notevole crescita delle spese correnti al netto degli interessi (+5,8 per cento) e dal crollo delle entrate tributarie ordinarie che, al netto degli effetti delle sanatorie, diminuivano, in particolare per quel che riguarda le imposte dirette, dello 0,9 per cento.


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L'indebitamento rimaneva incollato al 2,4 per cento solo grazie alla riduzione delle spese per interessi, mentre l'avanzo primario continuava la sua discesa attestandosi al 2,9 per cento, dimezzandosi rispetto al 2000 e distanziandosi notevolmente dal picco conseguito nel 1997, quando aveva superato il 6 per cento del Pil. Il deterioramento dell'avanzo primario segnalava l'accelerazione delle diverse componenti della spesa non incise adeguatamente da interventi strutturali di contenimento.
Il saldo corrente (differenza tra entrate correnti e spese correnti) tornava ad essere negativo dopo cinque anni di avanzi (il saldo se positivo indica le risorse che possono essere destinate a spese di investimento, se negativo indica le quote di spese correnti cui è necessario provvedere tramite indebitamento) e il divario tra entrate correnti e spese correnti era il chiaro sintomo delle profonde difficoltà di riequilibrio strutturale dei conti pubblici.
La Corte dei Conti, nella Relazione sul Rendiconto generale dello Stato per l'anno 2003, segnala che «se si analizza il consuntivo dei risultati 2003 sotto il profilo qualitativo, depurando i saldi non solo dagli effetti del ciclo economico ma anche da quelli di misure a carattere transitorio se ne deduce che il saldo di bilancio che meglio esprime le condizioni di fondo della finanza pubblica non avrebbe segnato alcun sostanziale miglioramento tra il 2002 ed il 2003 restando, in entrambi gli anni, su un valore (come rapporto tra indebitamento e Pil) non distante dal 4 per cento.»

C) Il Dpef 2004. Un documento privo di strategia che rinuncia ad incidere sul cambiamento.

La sessione di bilancio 2004, iniziava con il fardello di un'eredità pesante, con un indebitamento che, depurato dagli artifici contabili, tendeva al 4 per cento, con una crescita che continuava a mancare, una spesa corrente ormai palesemente fuori controllo. Una situazione da affrontare senza ulteriori indugi. Inoltre veniva sempre più in luce l'evidente connessione esistente tra il deterioramento dei saldi di finanza pubblica e la ridotta crescita economica. Infatti, l'Italia, nell'ultimo triennio, ha drenato le enormi risorse derivanti dalle entrate straordinarie e dai risparmi da interesse verso un permanente incremento di spesa corrente primaria e non verso il risanamento dei conti o verso politiche di sviluppo e recupero competitività del sistema Paese.
La situazione si è posta in questi termini, con evidenza plastica, sul finire del 2003, quando, appunto si redigeva il Dpef per l'anno successivo. Il criterio di giudizio principale che deve essere utilizzato nella valutazione del Documento è quindi quello della sua aderenza alle esigenze di cambiamenti strutturali capaci di invertire la tendenza al declino dell'economia italiana. Il giudizio sotto questo punto di vista è negativo. Non solo il Documento non raccoglieva nessuno dei contenuti dell'accordo per lo sviluppo firmato tra i sindacati e la Confindustria, rinviandone l'approfondimento ad una incerta sessione di concertazione autunnale, ma era del tutto privo di qualsiasi strategia di politica economica e di sviluppo. Mancava la centralità, sia in termini di indicazione strategica che di individuazione di risorse, delle politiche di ricerca, di formazione e di sviluppo dell'innovazione, che costituiscono elemento fondamentale per una ripresa di competitività del nostro sistema produttivo.
Dominava un alto grado di incertezza nelle indicazioni relative alle politiche per l'incentivazione industriale, strette tra gli annunci di radicali cambiamenti (eliminazione di tutti gli incentivi in capitale e loro trasformazione in contributi in conto interessi) e le pragmatiche decisioni del CIPE che si adeguava alle preferenze imprenditoriali.
Insufficienti erano anche le strategie finanziarie per il rilancio degli investimenti nelle infrastrutture. Come documentato dall'ANCE, dal 2001 al 2003, in contraddizione con gli impegni presi, il Governo non aveva in alcun modo contrastato l'inversione di tendenza, al ribasso,


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nella dinamica degli stanziamenti per infrastrutture.
Il Documento di programmazione economica e finanziaria nella valutazione degli scenari macroeconomici di riferimento pur abbandonando la propaganda degli anni passati continuava ad essere ancora distante dalla realtà.
Ci siamo trovati ancora una volta in presenza di un eccesso di stima.
Secondo il Documento di programmazione la crescita del PIL 2004 poteva essere stimata al 2 per cento, in relazione al rafforzamento del quadro internazionale ed al rafforzamento della domanda interna.
Il Governo sosteneva che la crescita nel 2004 si sarebbe basata essenzialmente sulla domanda interna, ipotizzando un incremento dei consumi nell'ordine del 2 per cento e degli investimenti per il 2,5 per cento; scontato il mancato contributo delle esportazioni.
Le ipotesi, di per sé non del tutto irrealistiche, apparivano di difficile realizzazione perché sganciate da qualsiasi strategia di sviluppo e soprattutto perché mancavano quelle politiche di incentivazione e di redistribuzione del reddito, necessarie per sostenere la domanda interna. Infatti le famiglie italiane arrivavano all'appuntamento 2004 dopo due anni di calo del reddito disponibile, risultato particolarmente accentuato nel 2002, e rispetto al quale non era facile immaginare inversioni di breve periodo. Era inoltre trascurato l'effetto dell'inflazione sulla evoluzione dei consumi interni.
Il quadro programmatico di finanza pubblica, contenuto nel Dpef, indicava degli obiettivi raggiungibili mediante una manovra quantificata in circa 16 miliardi di euro, composta per un terzo da interventi di carattere permanente e per due terzi da nuove manovre una tantum.
Il cuore della strategia del Dpef era particolarmente deludente.
Anzitutto non era credibile l'ammontare della manovra. In secondo luogo la manovra era vaga ed indeterminata nei suoi contenuti. Come a suo tempo rilevato dalla Corte dei Conti, «il DPEF mancava vistosamente proprio alla funzione principale che, nelle presenti difficili condizioni di finanza pubblica, avrebbe dovuto svolgere: quella di esplicitare le condizioni di compatibilità economico finanziaria di medio periodo del disegno riformatore, eventualmente rimodulandone tempi e contenuti in relazione ad un'aggiornata ricognizione delle risorse disponibili». Senza questa operazione, continuava la Corte, il quadro programmatico risulta «scritto a matita», perché non contiene la cosa più importante, e cioè «la quantificazione dei costi della attuazione delle leggi delega» (in particolare riforma fiscale, riforma della scuola, mercato del lavoro).
Anche in seguito, ossia in occasione del dibattito sulla manovra finanziaria 2004, la Corte dei Conti ha continuato ad insistere sull'inaffidabilità delle misure correttive predisposte in relazione agli obiettivi indicati nei documenti programmatici. Cosa che si è puntualmente verificata e che, dopo più di dieci anni, riporta l'Italia al tempo delle «manovrine» estive, inutili per lo sviluppo e non risolutive per la stabilizzazione dei conti pubblici.

D) La fine delle illusioni: il ritorno delle manovre di primavera.

La necessità di una manovra correttiva dei saldi di finanza pubblica per il 2004, lungamente smentita dagli esponenti del Governo, è stata la condizione posta dalla Commissione europea al fine di evitare l'avvio della procedura di infrazione per eccesso di deficit nei confronti dell'Italia.
Il decreto correttivo dei saldi di finanza pubblica presentato dall'esecutivo, lungi dal costituire un intervento risolutivo, rappresenta la sconfitta della politica economica del Governo di centro destra che, dopo essersi nascosto per più di un anno dietro le questioni di fiducia sui provvedimenti rilevanti per le scelte di politica economica dell'Italia, continua ad evitare un serio dibattito sullo stato reale dei conti pubblici ponendo, anche in questa occasione, l'ennesima questione di fiducia.


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In particolare, il provvedimento intende incidere per 7,4 miliardi di euro e 5,7 miliardi di euro rispettivamente sul saldo netto da finanziare e sull'indebitamento netto per il 2004.
La correzione, utile ai fini del rispetto dei parametri di Maastricht, dell'ordine di circa mezzo punto percentuale di PIL può essere ricondotta a quattro aree principali di intervento:
1) riduzione di incentivi alle imprese e alle aree sottoutilizzate per un ammontare di 1,25 miliardi di euro;
2) riduzione di stanziamenti di spesa dei Ministeri per 3,8 miliardi di euro;
3) riduzione di spesa per le Regioni, gli enti locali e le amministrazioni diverse dallo Stato;
4) maggiori entrate per 1,9 miliardi di euro a carico di assicurazioni, banche, enti non commerciali, seconda casa, marche da bollo.

Il provvedimento solleva, comunque, molti dubbi, non chiariti dal Governo, sia per l'effettiva realizzabilità delle misure predisposte (minori spese/maggiori entrate) sia per la totale mancanza di una prospettiva politico-economica che rischia di pregiudicare le azioni future in relazione a strategie di sviluppo e di rilancio competitivo del Paese. Infatti tutti i tagli di spesa sono una tantum, ossia relativi al solo 2004, mentre sono le nuove entrate ad avere carattere strutturale.
Inoltre per il rispetto dei parametri di Maastricht dovranno aggiungersi, alle misure previste nel decreto-legge, ulteriori provvedimenti amministrativi per reperire circa 2 miliardi di euro.
Resta tuttavia ancora in ombra quali saranno i tempi ed i comparti di spesa che subiranno un taglio così rilevante che, da solo, rappresenta il 30 per cento della manovra correttiva totale che resta, tutt'ora, indeterminata.

2. I problemi di competitività del sistema produttivo italiano.

Secondo gli economisti la ripresa economica mondiale si sta già arenando e anche l'economia degli Stati Uniti sta rallentando. In particolare i più recenti reports delle grandi banche d'affari mondiali indicano, per la seconda metà dell'anno in corso, il rallentamento della crescita in atto nell'economia mondiale e un aumento dell'inflazione.
Il verificarsi del secondo punto potrebbe avere riflessi molto negativi sull'economia europea, su quella italiana in particolare, perché quasi sicuramente indurrebbe la Banca Centrale Europea a rivedere al rialzo il costo del denaro per sedare sul nascere le tendenze inflazionistiche e questo potrebbe incidere sulla timida ripresa europea.
L'impatto potrebbe essere letale per Italia che vede una congiuntura fragilissima incapace di generare sviluppo e uno stato di finanza pubblica alle prese con seri problemi di tenuta che potrebbero aggravarsi se il costo del denaro comincia a salire.
Infatti la modesta ripresa che ha interessato il nostro Paese non ha generato né nuova occupazione né nuove iniziative imprenditoriali di un certo livello, scoraggiate dalle dimensioni stesse della ripresa.
Tra il 2004 ed il 2005 l'Italia presenta i livelli di crescita più bassi dell'intera area euro. I maggiori revisori privati, nel giugno scorso, stimavano un misero 1,1 per cento nel 2004 e un 1,8 per cento nel 2005. Le previsioni non scontavano nemmeno i probabili effetti restrittivi della crescita derivanti dalla manovra di correzione dei conti pubblici per il 2004 recentemente approvata dal Parlamento né, tanto meno, la maxi correzione prevista per il 2005.
Nel primo trimestre 2004 la crescita del Pil è stata sostenuta unicamente dai consumi e dagli investimenti in macchinari e attrezzature e quelli in costruzioni.
Tutte le altre componenti del Pil sono rimaste negative. In particolare preoccupa


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il dato sulle esportazioni che hanno subito una contrazione notevole rispetto al trimestre precedente pari all'8,1 per cento e che rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente sono rimasti stabili. Ricordiamo che le esportazioni sono calate del 3,9 per cento nel 2003 e del 3,4 per cento nel 2002.
Di fronte a questi dati la carenza principale del Documento di programmazione economico-finanziaria è la genericità delle indicazioni relative alle politiche di sviluppo. Come molti commentatori hanno evidenziato la grande assente del Dpef è una strategia di politica industriale che affronti i problemi della dimensione delle imprese, della loro internazionalizzazione, della dotazione di capitale di rischio e del loro riposizionamento su livelli tecnologici più avanzati.
Ci preoccupa lo stato di salute della nostra industria manifatturiera e, più in generale, la situazione di crisi che sta vivendo il modello industriale italiano. Infatti i settori maggiormente in crisi sono proprio quelli tradizionali del Made in Italy come il cuoio ed il tessile. E non ci sono altri settori emergenti che possono attutire la perdita di quote di mercato mondiale.
L'Italia ha urgente bisogno di una cura che rinvigorisca la componente strutturale di domanda estera che si riconquista attraverso la crescita di competitività dei prodotti Made in Italy.
L'Italia ha, inoltre, un problema di offerta e, più precisamente, di produttività insufficiente. I problemi connessi all'offerta, di fatto, bloccano il Paese e non rendono possibile saltare sul treno della pur debole ripresa in maniera effettiva.
L'economia italiana sta dimostrando una notevole difficoltà di reazione ai cambiamenti economici che, negli ultimi anni, stanno interessando l'economia mondiale ed europea.
Il rischio più immediato sembra, al momento, connesso al fatto che la necessità di un risanamento dei nostri conti pubblici assorba parte della crescita potenziale del Paese allontanandoci ancora di più dagli altri concorrenti europei e provocando un ulteriore ridimensionamento delle quote di mercato detenute dalla nostra economia.
Inoltre, negli ultimi anni, il blocco nei processi di liberalizzazione e di privatizzazione, il mancato adeguamento infrastrutturale, l'assenza di qualsiasi sistematica iniziativa di policy a favore dell'innovazione hanno rafforzato posizioni di rendita e hanno fatto emergere la debolezza strutturale del nostro sistema delle imprese. La crisi della FIAT e dell'Alitalia, gli scandali Cirio e Parmalat esprimono emblematicamente i problemi che affliggono il nostro sistema produttivo.
Oggi, ci troviamo a dover di nuovo gestite problemi macroeconomici associati a problemi microeconomici altrettanto rilevanti. Inoltre, mentre nel passato potevamo arginare parte dei problemi ricorrendo alle svalutazioni della lira, la moneta unica rende impossibile ricorrere agli strumenti macroeconomici per sostenere l'economia italiana.
In questo contesto le nostre poche grandi industrie tradizionali si rivelano, di fatto, incapaci di guidare il cambiamento non riuscendo a produrre innovazione e non investendo sui nuovi comparti innovativi della tecnologia dell'informazione e della comunicazione; d'altra parte anche il legislatore non riesce a disegnare nuove politiche che, riducendo le aree di rendita economica esistenti, incentivino gli imprenditori a fare scelte innovative.
I problemi dell'economia italiana, resi più gravi dal nanismo dimensionale della quasi totalità delle imprese non finanziarie e da un modello di specializzazione sempre più lontano dalle frontiere dell'innovazione, hanno un bisogno urgente di politiche economiche che creino «esternalità» positive per il sistema delle imprese.
Il dato più indicativo del sistema industriale italiano è, dunque, la presenza al suo interno di una prevalenza di micro imprese basate su una struttura proprietaria famigliare, che pone vincoli stringenti agli investimenti innovativi perché privilegia l'indebitamento di breve termine e gli

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investimenti sostitutivi di lavoro. Inoltre la crescente marginalità delle nostre grandi imprese riversa l'intero peso della crescita del Paese sui sistemi di piccolo-media impresa.
L'estrema debolezza del sistema industriale italiano si riflette con esiti devastanti anche nel sistema delle piccole e medie imprese che risulta notevolmente indebolito in relazione agli stessi fattori di competitività con in più delle aggravanti: la dimensione e la frammentazione produttiva impediscono l'imporsi di esternalità tipiche della nuova «tecnologia dell'informazione e della comunicazione» quali i servizi di gestione finanziaria e l'utilizzo di innovazioni 'trasversali'. In pratica il sistema di piccola e media impresa dimostra un scarsa capacità ad investire in ricerca e sviluppo proprio a causa delle proprie dimensioni.
La combinazione fra le debolezze delle grandi e delle piccole imprese italiane fa emergere un quadro estremamente preoccupante del nostro apparato produttivo e, di conseguenza, del nostro sistema economico.
Come già hanno sottolineato alcuni economisti le difficoltà della grande e della piccola impresa italiana sono fortemente collegate. Infatti è a partire dagli anni '70 che il perno dell'economia italiana è costituito dal sistema dei cosiddetti «distretti», ossia piccole imprese operanti in specifiche aree territoriali che, allora, fondavano la propria competitività su dinamiche tutte interne al distretto. Oggi la competitività si fonda, invece, su fattori esterni legati, appunto, alla tecnologia dell'informazione e della comunicazione.
Tali fattori esterni per incidere nel tessuto produttivo italiano delle piccole e medie imprese, avevano ed hanno bisogno di un grande impegno da parte delle industrie più importanti del panorama italiano, poiché solo loro sarebbero in grado di produrre e diffondere innovazione all'intero sistema produttivo, e di risposte legislative adeguate in merito a materie di diritto dell'economia come la tutela del risparmio e il diritto fallimentare.
L'obiettivo è quello di attrarre capitali internazionali ed indurre gli investitori istituzionali a investire nell'economia italiana concentrando le iniziative sugli investimenti in «ricerca e sviluppo» e sui processi innovativi, andando al di là della mera erogazione di fondi o della concessione di sgravi fiscali e puntando, invece, alla realizzazione di un'efficiente rete di centri pubblici di ricerca in grado di raccordarsi con le esigenze e le iniziative delle imprese private.

3. Il Dpef 2005: il deterioramento dei conti pubblici.

Il nuovo Documento di programmazione economico-finanziaria 2005-2008 segnala l'abbandono della retorica e della propaganda di Governo offrendo un contesto macroeconomico abbastanza realistico in cui collocare le future azioni di governo. Gli obiettivi che si intende perseguire sono condivisibili, ma il grave stato in cui ormai versano i conti pubblici e la perdita di competitività del sistema Paese, su cui fa luce lo stesso Documento, rende il tutto poco più che una scommessa. Che sia così lo afferma lo stesso Documento quando segnala che i risultati dipendono dal «comportamento di 60 milioni di persone, libere di scegliere e di determinare per questa via lo sviluppo dell'economia.» La frase indica la difficoltà dell'esecutivo a governare i processi economici e sociali in atto, ed il timore di non riuscire più ad incidere sulle aspettative di quella gente che ha continuamente deluso in questi ultimi tre anni. Inoltre poiché nel Documento, come vedremo di seguito, il capitolo sulla correzione strutturale dei conti pubblici è ancora «scritto a matita» - poiché non è indicato da dove arriveranno le risorse - il timore è quello di una riduzione di spesa pesante centrata su comparti fondamentali del Welfare italiano che potrebbe aprire la strada a gravi tensioni sociali.


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3.1 Il quadro macroeconomico programmatico 2005-2008.

Il Dpef prevede che, per rispettare i parametri di Maastricht, nel 2005 servirà una manovra finanziaria pari a 24 miliardi di euro. Alla manovra correttiva si dovrà aggiungere, sempre nel 2005, la copertura per 6,5 miliardi di euro per attuare parte della riforma fiscale Ire ed Irap.
Si tratterà di una manovra pesante, sul tipo delle manovre che servirono in passato all'Italia per evitare la bancarotta. Una manovra che, tra l'altro, può rosicchiare diversi punti percentuali di crescita del Pil e, quindi, avere effetti restrittivi per l'economia del Paese.
Dei 24 miliardi della manovra correttiva due terzi saranno strutturali (17 miliardi) ed un terzo (7 miliardi) derivante da misure straordinarie.
La parte strutturale dovrebbe essere costituita da riduzioni consistenti della spesa pubblica e, lo stesso Ministro, indica un percorso difficile lastricato di scelte impopolari e dolorose. Tuttavia le intenzioni di voler ridurre strutturalmente la spesa pubblica si scontrano con un problema di realizzabilità. Il decreto legge n. 168 del 2004, correttivo dei saldi di finanza pubblica 2004, ha fatto emergere grandi difficoltà di compressione di alcuni comparti della spesa corrente della pubblica amministrazione. Dunque è impensabile che i 17 miliardi arrivino solo da una riproposizione delle misure di contenimento già intraprese nel decreto legge n. 168 del 2004 o da riduzioni attraverso atti amministrativi. Resta, nonostante tutte le rassicurazioni date dall'esecutivo, il timore di tagli feroci agli unici capitoli di spesa in grado di fornire un gettito così elevato: sanità, previdenza, welfare, trasferimenti alle autonomie.
Le manovra correttiva si traduce negli obiettivi illustrati nella tabella sottostante e risultano centrati su una correzione dell'indebitamento di 1,7 punti percentuali (dal 4,4 per cento tendenziale al 2,7 per cento programmatico); su una riduzione del debito dal 106 per cento del 2004 al 104,1 del 2005 e al 98,1 del 2008; su un aumento dell'avanzo primario che, comunque, tornerebbe a livelli accettabili (4,8 per cento) solo nel 2008, ossia, tra quattro anni.
La crescita prevista per il 2005 è pari al 2,1 per cento, 0,2 punti percentuali in più rispetto al tendenziale (1,9 per cento) per effetto delle misure di sviluppo e rilancio competitivo che il Dpef associa, come priorità, accanto alla correzione strutturale dei conti pubblici.

Quadro programmatico di finanza pubblica
(Valori in % di Pil)

 
2004
2005
2006
2007
2008
Avanzo primario* 2,4 2,6 3,3 4 4,8
Interessi
5,3 5,3 5,5 5,7 6
Indebitamento netto*
-2,9 -2,7 -2,2 -1,7 -1,2
Indebitamento strutturale
-2,3 -2,2 -1,9 -1,5 -1,1
Indebitamento strutturale al netto una tantum
-3,1 -2,7 -1,9 -1,5 -1,1
Fabbisogno settore statale
-4,6 -4,2 -3,9 -3,1 -3,2
Debito/Pil
106 104,1 101,9 99,3 98,1
Crescita Pil reale
1,2 2,1 2,2 2,3 2,3
Pil (miliardi di euro)
1.350 1.409 1.472 1.537 1.605
* I saldi 2004 scontano l'impatto per 2.000 milioni di euro di misure amministrative da adottare.


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Confrontando i dati esposti con gli obiettivi indicati nel precedente Dpef risulta che tutti i valori appaiono rivisti in senso peggiorativo. In particolare la previsione programmatica relativa all'indebitamento netto 2005 risulta peggiorata dell'1,5 per cento. Stessa sorte per le stime programmatiche dell'avanzo primario che, il precedente Dpef, collocava vicino al 4 per cento già a partire dal 2005.
In pratica il raggiungimento del pareggio di bilancio non rappresenta più uno degli obiettivi di medio-termine del Governo e, per il 2006, anno del close to balance è previsto un indebitamento ancora al 2,2 per cento.

Il Dpef 2005-2008 in sintesi

 
2004
2005
2006
2007
2008
Deficit tendenziale (% Pil)
3,5 4,4 4,3 4,2 4,0
Pil-crescita tendenziale
1,4 1,9 2,0 2,1 2,1
Le manovre correttive
Totale manovre (mln di euro)
7.500
24.000
13.700
7.300
6.000
-strutturali
1.800
17.000
     
  - - (17.000)
(17.000)
(17.000)
  - - 13.700
(13.700)
(13.700)
  - - - 7.300
(7.300)
-una tantum
5.700
7.000
- - -
Gli obiettivi programmatici
Deficit (% del Pil)
2,9 2,7 2,2 1,7 1,2
Avanzo primario (% del Pil)
2,4 2,6 3,3 4,0 4,8

3.2 Gli obiettivi politici ed economici del documento.

A) La correzione di conti pubblici.

Il Dpef 2005 indica come obiettivo primario la credibilità finanziaria. In pratica il Governo non può che confermare lo stato di deterioramento dei conti pubblici e affermare la volontà di procedere ad un profondo risanamento finanziario al fine di correggere strutturalmente i conti pubblici. Non avendo saputo governare l'andamento della spesa pubblica né utilizzare sapientemente le entrate straordinarie si trova ora stretto in una tenaglia: da un lato deve sostituire le una tantum con misure permanenti per aggiustare il deficit, dall'altro deve ridurre in maniera strutturale anche la spesa corrente. Inoltre, per far tornare a crescere l'avanzo primario, dilapidato in un paio d'anni, ed incidere così sulla riduzione del debito, deve mettere in campo una dismissione del patrimonio pubblico dalle dimensioni irrealizzabili.
Il Dpef non indica l'evoluzione programmata delle entrate e delle uscite, ma parla di «decisioni impopolari e scelte dolorose» per preparare il Paese al taglio di comparti di spesa relativi al welfare, alla sanità, alla previdenza per correggere strutturalmente i conti pubblici. Infatti anche se, al momento, il Dpef non reca traccia di tali intenzioni, anzi afferma che tali comparti di spesa non saranno toccati, alcuni documenti elaborati dai tecnici del Ministero dell'economia e pubblicati, in parte, su alcuni giornali affermano il contrario. In particolare risulterebbe che il Governo ha elaborato una griglia di possibili interventi in relazione alle seguenti misure: riduzioni di trasferimenti ad imprese pubbliche; trasferimento dei trattamenti di fine rapporto all'INPS; abolizione e riduzione ad una delle finestre per le


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pensioni di anzianità; stretta sulle pensioni di invalidità; pedaggi sul 20 per cento delle strade statali gestite dall'ANAS; potenziamento della CONSIP; estensione del condono fiscale; aumento dei tickets sanitari; aumenti delle accise (benzina, tabacchi); tagli agli investimenti per le opere pubbliche, riordino delle aliquote per la tassazione delle rendite finanziarie, ed altre ancora.
Il Dpef indica come prioritario, accanto alla correzione strutturale dei conti, la riduzione del debito pubblico che, secondo le indicazioni del Documento dovrebbe attestarsi ad oltre il 114 per cento (1.824,6 miliardi di euro) nel 2008 in assenza di interventi correttivi.
Si programma quindi un percorso di riduzione per effetto del quale il debito dovrebbe attestarsi, nel 2008, al 98,1 per cento del Pil.
Nel 2004 il rapporto debito/Pil dovrebbe, invece, attestarsi al 106 per cento con una riduzione di 0,2 punti percentuali rispetto al 2003 (106,2).
Il Dpef non fornisce, tra l'altro, il quadro analitico degli andamenti tendenziali del rapporto.
La riduzione del debito pubblico è interamente affidata ad un programma di dismissioni mobiliari ed immobiliari di proprietà pubbliche per un valore annuo pari a circa 25 miliardi di euro, per un totale di 106,4 miliardi in cinque anni.
Il programma non appare credibile né in relazione al livello di dismissioni annue né, tantomeno, in relazione al livello totale da realizzare nel quinquennio. Troppe sono le variabili connesse all'andamento dei mercati. Inoltre i governi di centrosinistra, in una situazione dei mercati ben più favorevole, riuscirono a privatizzare in cinque anni proprietà pubbliche per 75 miliardi di euro. Il Dpef prospetta invece una dismissione di oltre 100 miliardi di euro in quattro anni e in presenza di condizioni di mercato incerte.
È probabile che, alla fine, a comperare le partecipazioni e le proprietà pubbliche sarà lo stesso Ministero dell'economia attraverso la Cassa Depositi e Prestiti.

B) Gli interventi per lo sviluppo.

Maggiore crescita del prodotto potenziale e maggiore crescita del prodotto effettivo costituiscono il secondo obiettivo del documento.
Il Dpef elenca quali saranno gli interventi utilizzati per il rilancio della crescita: investimenti in infrastrutture materiali ed immateriali, con particolare riguardo alla ricerca ed all'innovazione tecnologica, elevazione del potere d'acquisto e il contenimento dei prezzi, introduzione di una fiscalità differenziata per le zone a ritardo di sviluppo, riforma fiscale Ire ed Irap, lotta al sommerso. Essi costituiscono la premessa perché possa aumentare la potenzialità di crescita del sistema economico e il suo sviluppo effettivo. L'obiettivo e gli interventi appaiono condivisibili, ma non sono sorretti da alcun dato tecnico che ne avvalori l'evidenza empirica sia in relazione alla praticabilità sia soprattutto agli effetti che si intende ottenere.
Inoltre l'obiettivo di crescita del Pil per l'anno 2005, pari al 2,1 per cento (0,2 decimi di punto percentuale in più rispetto al tendenziale) è in contrasto con le misure di correzione dei conti pubblici contenute nel Dpef in quanto esse non potranno che provocare un effetto restrittivo della ripresa economica ben superiore alla scossa che si intende dare all'economia attraverso le misure di sviluppo programmate.
È lo stesso Governo che, indirettamente, ammette tale possibilità quando afferma che la manovra correttiva per i conti del 2004, pari a soli 7,5 miliardi di euro ha sottratto alla crescita tendenziale del Pil 0,2 punti percentuali (dall'1,4 per cento all'1,2 per cento). Quindi la prossima manovra correttiva per 24 miliardi di euro dovrebbe ridurre di almeno 3 decimi di punto la crescita tendenziale prevista per il 2005 (dall'1,9 all'1,6).
Per quel che riguarda il merito degli interventi previsti per il rilancio della crescita rileviamo che si tratta più di buoni propositi che di impegni effettivi e che essendo il Dpef un documento programmatico pluriennale è agevole indicare


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obiettivi e programmi che, comunque, nella maggior parte dei casi, rimangono privi di qualsiasi aggancio temporale.
Per quel che riguarda la riforma fiscale il documento abbandona il pensiero tremontiano della riduzione delle tasse che si autofinanzia, ma non muta l'obiettivo che si intende perseguire con tale misura: un rilancio dei consumi e, per questa strada, un incremento del Pil. Su tale aspetto manteniamo intatti i nostri dubbi anche alla luce di quanto è successo con il primo modulo della riforma fiscale che è passato quasi del tutto inosservato nelle tasche degli italiani. Il Dpef prevede un taglio delle imposte pari ad un punto percentuale di Pil in due anni (13 miliardi).
La riduzione dovrebbe riguardare sia l'Ire che l'Irap nella seguente composizione: 4,5 miliardi di riduzione dell'Irap e 1,5 miliardi per l'Ire per il primo anno, il resto solo per la riduzione dell'Ire nel 2006. Ma queste sono solo prime ipotesi dato che la maggioranza non ha ancora deciso come procedere.
Dopo che condoni, scudi fiscali e concordati hanno ingenerato negli italiani la convinzione di un'assoluta impunità fiscale, hanno eroso il gettito delle entrate ordinarie e, infine, ampliato l'esercito degli evasori fiscali, sarebbe, comunque, opportuno abbandonare l'idea di una riduzione generalizzata delle tasse che agevolerebbe in maniera sensibile solo i più abbienti e indirizzare le risorse a strumenti di welfare mirati sulla famiglia ed a strumenti che intervengano in modo selettivo sulla ricerca e sullo sviluppo.
Inoltre bisognerebbe riprendere seriamente i controlli e le verifiche per combattere l'evasione fiscale e recuperare ulteriori margini di manovra.
Infine il Dpef reca una serie di interventi con l'obiettivo di recuperare competitività e incentivare lo sviluppo. Fanno parte di questo terzo obiettivo un pacchetto di riforme economiche e sociali da attuare nell'immediato (sistema degli ammortizzatori sociali, tutela del risparmio, settore energetico, sistema ambientale, università e ricerca scientifica) ed un altro, ancora da predisporre, relativo alla liberalizzazione e privatizzazione dei servizi, alla riforma delle professioni ed alla riforma della Legge fallimentare.
Seguono i «Programmi Paese» di natura strategica che avranno il compito di rilanciare il sistema imprenditoriale italiano. Il Governo si impegna, poi, a rilanciare i distretti operanti in settori strategici ed a razionalizzare il sistema degli incentivi alle imprese.
Del pacchetto di proposte che danno corpo al terzo obiettivo «competitività» l'unico dato certo è quello relativo alla razionalizzazione degli incentivi alle imprese di cui ci è stato fornito già un assaggio di quello che il Governo intende con il termine «razionalizzazione» nella manovra correttiva contenuta nel decreto-legge n. 168 del 2004: tagli degli incentivi alle imprese (cfr. paragrafo sul Mezzogiorno).
Infatti l'impegno di procedere ad una riforma degli ammortizzatori sociali, dando per scontato che si voglia migliorare la situazione italiana e creare una rete di protezione efficiente per i lavoratori, si scontra con la riduzione delle risorse, consumatasi in questi giorni, finalizzate, appunto, alla riforma degli ammortizzatori sociali. Tali risorse, rimaste «parcheggiate» per ben due anni, erano il frutto dell'impegno sottoscritto tra il Governo ed i sindacati (ad eccezione della CGIL) con il Patto per l'Italia nel 2001. Le risorse complessivamente impegnate erano pari a circa 750 milioni di euro, ma in questi due anni nessuna riforma governativa è intervenuta per utilizzarle nella direzione concordata. Ora, dopo che il decreto salvadeficit ha tagliato le risorse di 470 milioni a vantaggio del Ministero della Difesa, rispunta l'impegno di procedere alla riforma degli ammortizzatori sociali. Una riforma onerosissima per cui già le risorse impegnate nel 2001 erano largamente insufficienti.
Singolare risulta, poi, l'impegno di attuare una riforma per la tutela del risparmio. Il provvedimento di riforma giace in Parlamento da quasi un anno e il Governo, che alla Camera conta su una maggioranza parlamentare notevole, ha dirette

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responsabilità sull'odissea e sull'insabbiamento che il provvedimento ha subito.
Infatti l'urgenza di una riforma del sistema, impressa dagli scandali nostrani Cirio e Parmalat, si è ben presto esaurita, e tutto è stato rinviato al futuro.

C) Gli interventi per il «Mezzogiorno».

Il Documento di programmazione economico-finanziaria per il 2005 non lascia presagire nulla di buono per il Sud. Infatti se da un lato si rimarca la volontà di procedere ad una riforma fiscale che mette in discussione l'equità sociale del Paese, dall'altro si interviene operando una riduzione degli incentivi alle imprese.
Entrambe le misure hanno ripercussioni notevoli nel Mezzogiorno. La riforma fiscale perché così come è strutturata concentra i benefici sui redditi alti, mentre nel Sud risiede l'80 per cento dei contribuenti con redditi fino a 15.000 euro (quelli totalmente ignorati dalla riforma); la razionalizzazione degli incentivi alle imprese perché, anche in questo caso, le aziende del Mezzogiorno beneficiano dell'80 per cento degli incentivi che si intende ridurre.
Inoltre il Documento fa capire che a pagare non saranno solo le imprese, ma anche le infrastrutture.
Il Dpef ipotizza, quindi, per le risorse aggiuntive del Fondo aree sottoutilizzate «la sola attuazione degli stanziamenti già deliberati» e per le risorse ordinarie «l'attuazione dei provvedimenti esistenti». In pratica si blocca tutto in attesa che si avvii il nuovo sistema di incentivazione con il Fondo rotativo.
In relazione alla crescita, dal quadro tendenziale 2004-2008, emerge che il Sud crescerà, nel 2004, solo di 1 punto percentuale di Pil, un risultato preoccupante, inferiore al dato nazionale (1,2 per cento) che evidenzia che il percorso di sviluppo del territorio meridionale è stato bloccato e, quindi, sta ripartendo il divario con il centro-nord.
Per quanto riguarda la razionalizzazione degli incentivi si intende costituire «un Fondo rotativo per il sostegno degli investimenti delle aziende finalizzato alla concessione di crediti agevolati» che dovrà garantire «un volume di investimenti pari almeno a quello degli anni precedenti, ma con minori oneri a carico del bilancio della Pubblica Amministrazione.»
In pratica si prevede un finanziamento pubblico sotto forma di prestito agevolato e un finanziamento bancario a tassi di mercato erogato dallo stesso istituto che valuterà le iniziative agevolabili. Solo dopo che la banca valuterà positivamente il progetto scatterà il finanziamento pubblico. In altre parole dovrà essere il soggetto privato ad assumersi attraverso la concessione del credito il rischio principale.
A riguardo è fondamentale capire quale sarà l'effettiva disponibilità delle banche ad assumersi oneri così rilevanti e quali saranno le ricadute economiche vista la scarsa propensione di concedere finanziamenti per investimenti che non siano coperti da sufficienti garanzie reali.
Infine, la misura, catalogata come strumento di sviluppo, in realtà è una misura di risparmio che avrà effetti restrittivi per l'economia del Mezzogiorno e, di conseguenza, dell'intero territorio nazionale.

4. Osservazioni conclusive e Proposte.

Onorevoli colleghi! Il DPEF 2005 - 2008 può essere considerato, nella sua estensione letteraria e contenutistica, una operazione ben riuscita di marketing politico. A ben guardare, però, i dati in esso contenuti legittimano conclusioni del tutto opposte a quelle che vengono offerte.
Partendo dal trittico «Credibilità, competitività, sviluppo», va innanzitutto osservato che l'unica credibilità su cui il Dpef sembra in effetti scommettere è quella degli investitori esteri, operazione che si persegue attraverso la tentata diminuzione del livello del debito.
Ora, prescindendo da ogni considerazione su quale credibilità possa avere un Paese che nel giro di tre mesi «tira fuori» un disavanzo tendenziale da capogiro, le


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perplessità, di fronte a questo modo di procedere, sono d'obbligo, perché in assenza di considerazioni più complessive e del coinvolgimento reale di fattori economici ulteriori, il rischio è che la esclusiva politica di bilancio si traduca in un puro salasso per l'economia nazionale e per le sue potenzialità di crescita.
Sempre in materia di credibilità, poi, risulta assai poco credibile, per non dire che è falso, il tasso di inflazione programmato per il triennio. Fermandosi al 2005, l'obiettivo dichiarato dell'1,6 per cento per tale anno richiederebbe che da agosto alla fine del 2004 il tasso scendesse al 2 per cento, e che da gennaio a dicembre dell'anno prossimo la percentuale si assestasse sul livello anzidetto dell'1,6: la performance appare del tutto improbabile! Anche perché non risulta spiegato come sia possibile ottenere una variazione in diminuzione del livello generale dei prezzi nel mentre si prevede e si teorizza una crescita del PIL e dunque una certa ripresa dell'economia reale.
Nel merito va detto che, se si vuole una vera glasnost dei conti, occorre allora andare fino in fondo. Ciò vuol dire che se il livello di inflazione si attesterà, come è presumibile, su tassi superiori all'1,6 per cento, il freno alla crescita nominale della spesa pubblica per consumi e trasferimenti si trasformerà in un fattore depressivo della domanda interna e dunque in una riduzione reale. Se, all'opposto, quel tasso dovesse essere ritenuto verosimile, allora la diminuzione del reddito reale disponibile per una parte dei percettori di redditi fissi, in specie dei lavoratori e pensionati, diventerebbe una conseguenza inevitabile: e infatti dall'esame del Dpef, a ben vedere, si rileva come la crescita economica ipotizzata per il triennio 2005-2008 dipenda molto più dall'aumento degli investimenti che dalla dinamica della domanda interna, vale a dire dall'aumento del reddito disponibile delle famiglie. Ma, considerato che l'effettivo fattore di crescita degli investimenti nel nostro Paese è tuttora ritenuto il livello della domanda estera, vale a dire il trend della domanda mondiale, appare piuttosto rischioso scommettere sugli investimenti esteri per l'afflusso in Italia di nuovi capitali e per la crescita della nostra produzione. Anche perché con l'avvento dell'euro non sono consentite manovre monetarie funzionali alla dinamica import-export. A conferma dello scarso appeal della nostra economia per gli operatori economici del «Resto del mondo», si può osservare del resto che nello stesso Dpef il saldo ipotizzato nel prossimo triennio per la bilancia dei pagamenti risulta in costante disavanzo, nella dimensione di un meno uno per cento all'anno.
A questo punto, non si comprende bene dove vada a finire la dichiarata «credibilità» dei discorsi che vengono avanzati: nei numeri presentati dal documento, infatti, molto poco se non nulla delle cose dette accade! Si tratta di un Dpef di scarsa trasparenza democratica, nel quale si scopre un tendenziale del disavanzo che viaggia verso un tasso del quattro e mezzo per cento mentre si interviene con una manovra «a freddo», che peraltro non sembra promettere una reale inversione di tendenza nella dinamica di sviluppo del Paese.
Come detto all'inizio, nonostante la ben riuscita operazione di marketing politico, i dati osservabili nel Dpef non autorizzano le conclusioni a cui lo stesso documento perviene. In particolare, il trend ipotizzato per le grandezze macroeconomiche non porta a confidare nella possibilità che l'Italia possa recuperare, almeno parzialmente, le quote di mercato mondiale perse negli ultimi anni.
Dalla genericità dell'approccio e dall'ottimismo non spiegato che pervadono il documento, non si comprende appieno, dunque, quale sia l'effettivo dato di innovazione strategica, e di capacità di governo, che il Governo si assegna nel fronteggiare la situazione economica e finanziaria a cui il Paese è pervenuto. Tenuto conto della condizione depressiva dei grandi aggregati di spesa interna, emerge piuttosto dal Dpef il solito schema, di una crescita economica trainata dalle esportazioni, in una situazione che peraltro, tenuto conto dell'avvento dell'euro, non consente

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nemmeno più quelle operazioni di ordine valutario che si facevano in passato. Il modello, insomma, risulta ancora quello dell'attesa del treno della domanda mondiale, che si pensa di agganciare pur nella consapevolezza di carenze strutturali che consentono di beneficiare solo in parte della sopravvenuta condizione favorevole (e pur sapendo che l'Italia ha la caratteristica non felice di emulare le performance economiche degli altri Paesi - in particolare Francia e Germania - velocemente quando essi cadono, rimanendo sempre qualche passo indietro quando gli stessi crescono).
«Dietro le parole del Dpef nulla», abbiamo detto forse con qualche eccesso di enfasi ma senza mistificare la realtà. L'operazione presentata è quella di un «salvataggio», mentre il modello sottoposto è il solito: di un'economia italiana agganciata a quella francese ed a quella tedesca, a loro volta agganciate a quella statunitense ed asiatica. Con una inflazione programmata molto poco verosimile ed una misura della credibilità di fatto centrata sui tassi a cui vengono, all'estero, collocati i titoli del debito pubblico: la nostra tende, così, a diventare una «repubblica fondata sui mercati dei bond»! Ma quello degli interessi sul debito non può diventare il criterio esclusivo che connota la politica economica pubblica. Ci vuole ben altro.
La verità è che, dinanzi ad un tendenziale del quattro e mezzo per cento da «brivido», la situazione del Paese, aggravata dal governo Berlusconi, risulta molto preoccupante. E richiede ben altre reazioni che quelle, con tante belle parole, adombrate nel Dpef. Così hanno fatto del resto, senza ricorrere ad operazioni di marketing, proprio i Paesi a noi più vicini, vale a dire Francia e Germania, procurando effetti sull'economia reale sicuramente apprezzabili.

La necessità di cambiare passo e modificare strategia.

Dinanzi alla situazione appena descritta, sarebbe necessario procedere in ben altro modo, sia sul piano della trasparenza democratica dei conti che sul piano degli interventi volti a riavviare un reale processo di sviluppo del Paese. Per ben operare, dovremmo modificare in profondità i canoni del passato e favorire un modello di sviluppo in cui la domanda e la produzione interna siano certamente sostenute dalle politiche pubbliche e rappresentino, insieme, la dimensione e la soglia quantitativa per favorire la competitività e le esportazioni.
Per ottenere questo risultato, occorrerebbe procedere con creatività e fantasia, favorendo una vera e propria innovazione di sistema che fosse guidata dal sano principio di utilizzare al meglio le poche risorse che abbiamo a disposizione.
Un primo principio a cui ispirarsi potrebbe essere quello di affrontare in modo selettivo i fattori di crisi. Utilizzando, in particolare, la leva fiscale in considerazione del fatto che, per dir così, mentre la politica monetaria viene fatta a Francoforte, quella fiscale è tuttora domestica, e nelle sue varianti può essere, appunto, selettiva.
La politica fiscale dovrebbe essere selettiva rispetto alle diverse e differenti aree del Paese: essa dovrebbe rispondere alla domanda su quali siano i settori di crisi e le classi di reddito che nel Paese meritano attenzione, sapendo che tante piccole «risorse mirate» aiutano il Paese più di quanto faccia una politica di intervento «a pioggia», peraltro quasi sempre più dispendiosa oltre che più inefficace. Senza trascurare, oltretutto, che la selezione dei punti ove esistono più questioni risulta del tutto coerente con l'obiettivo di rilanciare la domanda interna, in virtù del fatto che la propensione ai consumi è senz'altro più sviluppata ai livelli di reddito più bassi.
Un secondo indirizzo che andrebbe assunto attiene alla necessità, oramai, di prendere il toro per le corna in materia di delocalizzazioni.
Occorre preliminarmente domandarsi, infatti, di quale sviluppo intendiamo parlare nel momento in cui persiste un ampio strato dell'economia del Paese che è «sommersa», mentre molte nostre imprese


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vanno all'estero. Perché, in altri termini, le imprese italiane vanno in Cina o in Polonia e non vanno al Sud? Si tratta solo di una questione di costo del lavoro oppure vi sono questioni ulteriori che vanno finalmente affrontate, come quella del «governo del territorio» e, più in profondità, quella di una realtà economica e sociale che «invecchia», e dunque manifesta scarso appeal nei confronti di società più giovani che si affacciano sullo scenario mondiale?
Sembra maturo il tempo per ricercare un nuovo equilibrio tra localizzazione interna e localizzazione estera degli insediamenti produttivi, sia pure senza pensare a nuove forme di protezionismo. Meccanismi di reciprocità economica e commerciale e strumenti innovativi vanno, insomma, ricercati affinché le imprese italiane si localizzino in Italia e non all'estero. Nella vicina Francia, per fare un esempio, tra le misure di bilancio previste per il 2005 ve ne sono anche alcune volte a frenare il processo di delocalizzazione delle imprese. Una politica economica ed industriale lungimirante dovrebbe sin da ora, anche nel nostro Paese, cimentarsi in questo esercizio.
Una terza questione pure di rilievo che andrebbe affrontata concerne la questione della capitalizzazione delle imprese. Abbiamo infatti un capitalismo che, salvo ammirevoli eccezioni, da un lato non dispone di risorse proprie e dall'altro, quando le ha, le porta all'estero. Come peraltro abbiamo un sistema creditizio che ben poco concorre ad irrobustire il tessuto industriale del Paese, in particolare nella tensione necessaria verso la conquista della grande dimensione da parte delle piccole e medie imprese.
Una politica economica illuminata, anche in questo caso, dovrebbe cercare le linee-guida per favorire la rinascita del capitale di rischio nel Paese e la creazione di condizioni strutturali autenticamente favorevoli per l'accesso al credito dal parte delle imprese.
Un quarto filone che un Dpef lungimirante dovrebbe prendere in seria considerazione concerne il mantenimento del tenore di vita dei cittadini, a partire da quelli che si trovano in maggiore difficoltà. Sempre la vicina Francia, nel bilancio per il 2005, prevede misure per aumentare i salari più bassi. La programmata riduzione delle aliquote sulle imposte delle persone fisiche in Italia, di cui il Dpef fa parola, si muove in modo solo apparentemente simile, perché il meccanismo del quoziente familiare elimina in Francia le distorsioni distributive che in Italia continuano invece a permanere. E la famiglia, come è risaputo, rappresenta un soggetto di primaria importanza nella dinamica dei consumi, e dunque nella capacità di movimentare la crescita della domanda interna.
Il mantenimento (!) del potere d'acquisto di lavoratori e famiglie andrebbe peraltro accompagnato, sin da subito, da misure volte a realizzare il principio della equità sociale. La preoccupazione di ridurre il rapporto fra debito pubblico e Pil è, infatti, di fondamentale importanza ma non può essere separata dal vincolo dell'equità dei sacrifici e dalla concreta prospettiva della parità di opportunità.
Mettere mano al sistema di welfare, dunque, rappresenta una pre-condizione necessaria a completare il trittico «Credibilità, competitività, sviluppo» con il principio dell'equità sociale, anche al fine di ridare vita, così, ad una rinnovata prassi di concertazione sociale, certamente utile per tentare un rilancio del sistema.
Per finire, il Dpef 2005-2008 si rivela, al di là delle apparenze «estetiche», un documento tradizionale e poco innovativo, e per la prima volta domanda sacrifici solo per promettere di conservare l'esistente. Esso è scritto tutto all'interno dell'unica preoccupazione del Debito e del Disavanzo. Ma la solidità patrimoniale di un Paese è un presupposto necessario ma non sufficiente per il suo sviluppo.
Avere sollevato il velo di una finanza pubblica disastrata in questi tre anni può essere apprezzabile nella misura in cui dire la verità, cioè fare il minimo che si deve, assurge a livello di merito! Non

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vorremmo però che, a questo punto, subentrasse una sorta di «complesso di colpa» che portasse a trascurare l'esigenza, altrettanto importante, di riavviare il processo di sviluppo dell'economia reale: il nostro futuro, infatti, dipende non solo dalla solidità patrimoniale dello Stato, ma anche dalla solidità patrimoniale delle imprese!
Dall'esame del Documento questa prospettiva non traspare! Che è come dire del rischio di pensare a rimedi che alla lunga si rivelino peggiori del male.
Ma sulla prospettiva «alla lunga» confidiamo nel giudizio del Paese!

Lino DUILIO,
Relatore di minoranza.