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PARTE PRIMA
Quadro d'insieme delle principali tematiche oggetto di indagine; prospettive e proposte.
Premessa.
La legge n. 339 del 31 ottobre 2001, istitutiva della Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, prevede, all'articolo 1 comma 2, che la Commissione riferisca al fine dei suoi lavori, al parlamento, sull'attività svolta. Un primo resoconto dei lavori effettuati durante i primi due anni di attività della Commissione è già stato fatto con la trasmissione alle camere, il 28 luglio 2004, del documento XXIII n. 9 «Relazione alle camere sull'attività svolta». La Commissione ha continuato i suoi lavori effettuando missioni conoscitive nelle regioni italiane, approfondendo temi specifici riguardanti aspetti rilevanti del ciclo dei rifiuti ed organizzando momenti di confronto pubblico al fine di favorire la comunicazione tra diverse competenze, esperienze e prospettive. A tal fine si e avvalsa, ai sensi dell'articolo 6 della legge istitutiva, del supporto e delle competenze tecniche di consulenti e collaboratori che hanno fornito un contributo essenziale all'attività d'indagine della Commissione.
Nello svolgimento della propria attività istituzionale la Commissione ha effettuato 31 missioni, di cui tre all'estero, durante le quali sono state sentite oltre 1000 persone e sono stati svolti sopralluoghi presso siti d'interesse. Si sono tenute 178 sedute plenarie della Commissione nel corso delle quali si è proceduto all'audizione di oltre 460 persone. Sono stati organizzati cinque convegni: il 22 ottobre 2002 a Roma un convegno sul tema «Indagine conoscitiva sulle discariche abusive», in collaborazione con il Corpo Forestale dello Stato; il 1o aprile 2004 a Salerno un convegno sul tema della qualificazione giuridica del termine «rifiuto», in collaborazione con l'Università degli Studi di Salerno; il 16 luglio 2004 a Venezia un convegno sulle bonifiche dei siti inquinati, in collaborazione con l'Università Ca' Foscari di Venezia; il 16 novembre 2004 a Roma un convegno internazionale sulle prospettive nella lotta al traffico illecito di rifiuti in Europa e in Italia ed infine il 1o e 2 dicembre 2005 a Napoli un convegno sull'emergenza rifiuti in Campania.
Alla conclusione dei suoi lavori la Commissione ha approvato nove documenti: nella seduta del 18 dicembre 2002 il documento sui commissariamenti per l'emergenza rifiuti; nella seduta del 16 aprile 2003 il documento sull'attuazione della direttiva 2000/53/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai veicoli fuori uso; nella
1. Il ciclo integrato dei rifiuti: il quadro, le tecnologie, le prospettive.
Promozione della prevenzione e della minimizzazione dei rifiuti; rafforzamento della capacità delle istituzioni nella gestione degli stessi; massimizzazione del recupero e del riciclaggio; riduzione delle quantità da avviare a smaltimento.
Sono questi gli obiettivi fondamentali del ciclo integrato di gestione dei rifiuti cui dovrebbe tendere l'interesse di tutti gli attori coinvolti a partire dal mondo politico e istituzionale chiamato ad assumere decisioni che agevolino tale percorso, fino ad arrivare agli operatori del settore e a tutti i cittadini affinché si sviluppi un impegno comune e costante finalizzato a ridurre l'impatto che la produzione dei rifiuti o una loro cattiva gestione può provocare sull'ambiente e sulla salute.
Appare chiaro che un sistema così composto necessita anche di un modo nuovo di pensare le politiche industriali, quelle economiche e quelle fiscali nel nostro Paese.
1.1. Il ciclo integrato dei rifiuti: panoramica regionale.
Anche al termine dell'attuale legislatura, la prioritaria ed al contempo amara considerazione è che non si è, oggi, nella possibilità di affermare di avere superato le gravi situazioni di criticità presenti in molte delle nostre regioni, criticità che - per alcune regioni meridionali - assumono caratteristiche di estrema gravità e di vera e propria emergenza.
2. L'istituto del Commissariamento straordinario in materia di rifiuti: attualità e sviluppi.
Come sopra si è osservato, l'esperienza di molte regioni, relativamente al ciclo dei rifiuti, è stata segnata dal ricorso al Commissariamento.
3. L'adattamento dell'ordinamento italiano al diritto comunitario.
Questa commissione ha ritenuto di dover svolgere un'articolata ed approfondita riflessione sullo stato di attuazione del processo di adeguamento del diritto interno a quello comunitario.
3.1. Il ruolo delle Regioni nell'attuazione degli atti normativi comunitari non direttamente applicabili; la competenza regionale in tema di rifiuti.
Questa Commissione già si è soffermata in precedenza (si veda, in particolare, la Relazione alle Camere sull'attività svolta, approvata il 28 luglio 2004) sulla complessiva situazione dell'adeguamento del diritto interno al diritto comunitario, con particolare riferimento alle ricadute sulle competenze del legislatore nazionale e sull'intero sistema della tutela dei diritti.
Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, occorre dire che l'esercizio del potere sostitutivo da parte dello Stato trova il suo fondamento costituzionale anche nell'articolo 120, laddove si afferma che il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni e degli altri enti locali in casi di mancato rispetto della normativa comunitaria, nel rispetto del principio di sussidiarietà e di quello di leale collaborazione. La disciplina ordinaria del potere sostitutivo è stata posta invece dall'articolo 8 della legge n. 131 del 2003, che prevede le seguenti fasi:
Per quanto riguarda, invece, l'attuazione delle direttive in via regolamentare, bisogna dire che già con il decreto del Presidente della Repubblica 616/77 era stato riconosciuto alle Regioni un generale potere di attuazione: tale provvedimento attribuiva ad esse tutte le
3.2. Le novità in tema di attuazione del diritto comunitario introdotte dalla legge 4 febbraio 2005, n. 11, recante «Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione Europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari».
La legge n. 11 del 2005 ha recentemente abrogato la cosiddetta legge «La Pergola», sostituendone interamente il testo e apportando alcune novità di rilievo. In questa sede interessano principalmente le novità in sede di attuazione del diritto comunitario e, quindi, saranno tralasciate le novità più direttamente connesse alla cosiddetta «fase ascendente», relativa alla partecipazione statale e substatale nella fase di elaborazione degli atti normativi comunitari.
3.3. L'adattamento dell'ordinamento italiano al diritto comunitario in materia di rifiuti.
Appare opportuno, in questa sede, compiere una rivisitazione dell'intera materia dei rifiuti in ambito comunitario, onde stabilire lo stato dell'arte relativamente al recepimento nel diritto interno. L'intento è, per un verso, quello di segnalare le direttive in materia di rifiuti in scadenza nel 2005, verificando quali siano state recepite e quali siano da recepire ancora; dall'altro, saranno analizzate tutte le procedure di infrazione avviate dalla Commissione Europea contro l'Italia nel corso del 2005, cercando di comprendere la natura delle infrazioni contestate e le possibilità concrete di porvi rimedio.
3.3.1. L'attuazione di alcune «direttive-cardine» in materia di rifiuti.
La direttiva 75/442/CEE rappresenta il quadro legislativo di base per la gestione dei rifiuti a livello comunitario. Entrata in vigore nel 1977, è stata poi modificata dalla direttiva 91/156/CEE per tener conto dei principi guida indicati nella strategia comunitaria per la gestione dei rifiuti del 1989. Nel 1996, l'Allegato II della direttiva 75/442/CEE contenente gli elenchi delle operazioni di smaltimento e recupero è stato modificato con decisione della Commissione. Il riesame della strategia comunitaria per la gestione dei rifiuti del 30 luglio 1996 ha confermato i principali elementi della strategia del 1989 adattandola ai requisiti previsti per il quinquennio successivo.
Una prima violazione di tale direttiva da parte dell'Italia è stata accertata dalla Corte di Giustizia nel 2002, a causa del mancato inserimento, nei piani di gestione dei rifiuti, di un capitolo specifico relativo ai rifiuti di imballaggio, di cui all'articolo 14 della presente direttiva.
3.3.2. In particolare: la questione della nozione giuridica del termine "rifiuto".
Il quadro complessivo descritto nel documento approvato da questa Commissione in tema di nozione giuridica del termine rifiuto induce a considerare non più differibile l'adozione di opportuni rimedi, in grado, da un lato, di attribuire confini certi alla nozione di rifiuto in linea con la normativa e la giurisprudenza comunitaria e, dall'altro, di consentire un adeguata protezione dell'ambiente compatibile con le esigenze di sviluppo economico.
Va, inoltre, rilevato come, pur essendo ad altre finalità (si veda l'articolo 206) richiamato il meccanismo degli accordi e contratti di programma, tale procedura non viene estesa alla materia relativa alla gestione dei rifiuti, perdendo l'occasione di de-ideologizzare il tema della nozione giuridica del termine rifiuto, collegandolo ai moduli organizzativi delle imprese.
3.3.3. I procedimenti di infrazione in corso contro l'Italia avviati nel 2005 per violazione della normativa europea sui rifiuti.
I primi due procedimenti di infrazione in tema di rifiuti sono stati avviati dalla Commissione Europea nei confronti dell'Italia per violazione della direttiva 75/442/CEE sui rifiuti in generale e per violazione della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi: sono decisioni del 16 marzo 2005, prese sulla base dell'articolo 228 del Trattato CE e, quindi, relative all'inadempimento di obblighi scaturenti da una precedente sentenza di condanna già emessa dalla Corte di Giustizia nei confronti dell'Italia. Si tratta, in particolare, di due lettere di messa in mora nei confronti dell'Italia: la prima fa riferimento sia alla violazione della direttiva sui rifiuti in generale, sia alla violazione della direttiva sui rifiuti pericolosi e scaturisce dalla decisione 1998/2024 della Commissione che aveva avviato il primo procedimento di infrazione: in particolare, la violazione contestata si riferisce al fatto che la legge italiana non determina i quantitativi massimi di rifiuti che possono essere trattati dagli impianti di trattamento nell'ambito delle cosiddette «procedure semplificate di recupero»: sulla base di questa lacuna, la legge italiana, secondo la Commissione, potrebbe consentire anche ad impianti di grandi dimensioni di beneficiare di una procedura semplificata di autorizzazione al trattamento, contrariamente a quanto stabilito dalle direttive richiamate.
3.3.4. Le priorità.
Dal complesso delle considerazioni svolte nella relazione, si possono ricavare le seguenti priorità, al fine di meglio garantire la corretta applicazione del diritto comunitario relativo alla materia dei rifiuti:
4. La bonifica dei siti inquinati.
Con lo sviluppo e la crescita dei sistemi di produzione, avvenuti nella prima metà del secolo scorso, si è avuta una crescita altrettanto rapida della pressione esercitata dagli uomini sui sistemi naturali e sulle risorse della Terra.
4.1. I piani regionali di bonifica dei siti contaminati.
Uno dei primi atti legislativi in tema di bonifica di siti inquinati è rappresentato dalla legge n. 441/87 che imponeva alle Regioni di elaborare i Piani Regionali di Bonifica, al fine di avere un quadro complessivo ed esaustivo delle aree e dei siti inquinati disseminati sul territorio nazionale.
A disciplinare nel dettaglio alcune fasi è intervenuto il decreto ministeriale n. 471 del 1999. Nello specifico il decreto ministeriale all'articolo 17 disciplina l'individuazione dell L'anagrafe, identificata dapprima nel decreto Ronchi (articolo 17) e poi nel decreto ministeriale n. 471 del 1999 (articolo 17) deve contenere, sulla base dei criteri definiti dall'APAT, sia l'elenco dei siti da bonificare, sia l'elenco dei siti sottoposti ad interventi di bonifica e ripristino ambientale con misure di sicurezza, di messa in sicurezza permanente nonché degli interventi realizzati nei siti medesimi.
4.2. Il piano nazionale di bonifica.
Le attività di indagine conoscitiva su cui la Commissione parlamentare di inchiesta si è impegnata in questa XIV legislatura, per acquisire dati e conoscenze e prospettare, ove possibile, soluzioni alle problematiche riscontrate, hanno riguardato anche lo stato di attuazione del «Piano Nazionale» approvato con il ricordato decreto ministeriale n. 468 del 2001.
Al fine di dare puntuale attuazione al disposto legislativo dell'articolo 1 della legge n. 426 del 1998 che prevede che i Siti di Interesse Nazionale siano perimetrati con decreto del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del Territorio, sentiti i Comuni territorialmente interessati, si è attivato un complesso sistema di consultazione con gli Enti locali che ha consentito finora di definire con decreto tutti i 49 perimetri dei siti di interesse nazionale.
4.3. Esame ed approvazione degli elaborati progettuali.
Per l'esame e l'approvazione degli elaborati progettuali relativi agli interventi di messa in sicurezza d'emergenza, di caratterizzazione, di bonifica e ripristino ambientale, la Direzione Generale per la Qualità della Vita ha fatto ricorso alle procedure previste dall'articolo 14 della legge n. 241 del 1990.
Sempre in tema di bonifiche vanno ricordate le iniziative, intraprese dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio relative a:
4.4. Prospettive.
Il notevole inquinamento delle principali matrici ambientali (aria, acqua superficiale, acqua sotterranea e suolo), provocato nel passato da notevoli carenze nel campo della gestione dei rifiuti e del controllo
Il miglioramento del grado di conoscenza nel campo delle aree e dei siti industriali inquinati a livello nazionale rappresenta il punto chiave nella gestione sostenibile del problema delle bonifiche anche in virtù dell'elevato numero di situazioni presenti nel Paese e della grande varietà di tipologie di inquinamento che possono essere riscontrate sul territorio (siti di smaltimento abusivo di rifiuti, siti industriali dismessi, etc.).
5. I consorzi: bilanci e prospettive.
Il decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (meglio conosciuto come Decreto Ronchi), di «Attuazione delle direttive n. 91/156 sui rifiuti, n. 91/689 sui rifiuti pericolosi, n. 94/62 sugli imballaggi e rifiuti di imballaggi», ampiamente rivisitato dal decreto legislativo 8 novembre 1997, n. 389 (detto anche Decreto Ronchi-bis), si è sforzato di dare un ordine più organico e sistematico in materia dei rifiuti, facendo grossa 'pulizia' della normativa preesistente. Con la nuova normativa il legislatore richiama, in particolare, il generale impegno dei soggetti pubblici o privati, coinvolti nella gestione dei rifiuti non solo ad incentivare il recupero dei rifiuti mediante la rigenerazione e produzione di energia, ma anche ad operare in termini di sensibilizzazione e di prevenzione. In questo senso l'articolo 3, decreto legislativo n. 22 del 1997, prevede che: «le autorità competenti adottano, ciascuna nell'ambito delle proprie attribuzioni iniziative dirette a favorire, in via prioritaria la prevenzione e la riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti»(...), «mediante (...)la promozione di strumenti economici (...), azioni di informazione e di sensibilizzazione dei consumatori».
5.1 La gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggi: il sistema CONAI.
Nell'ultimo triennio il sistema CONAI ha ottenuto risultati che possono essere definiti soddisfacenti: alla fine del 2004 il sistema consortile ha raggiunto un risultato di recupero complessivo dei rifiuti di imballaggio pari al 62,6% del totale dell'immesso al consumo. Tale risultato costituisce un valore superiore rispetto alle previsioni effettuate lo scorso anno e all'obiettivo di recupero complessivo stabilito dalla direttiva europea per il 2008.
5.2. Il contributo di riciclaggio dei rifiuti di beni in polietilene previsto dal consorzio POLIECO.
Nell'ambito delle attività che la Commissione ha svolto sui Consorzi, è stata considerata di particolare rilievo la questione, sollevata da alcune imprese del settore, relativa al loro assoggettamento al contributo obbligatorio previsto dallo statuto del Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni in polietilene (POLIECO).
A ciò va aggiunto che successivamente alla contestazione di violazioni da parte della Guardia di Finanza, alcuni soggetti hanno pagato l'imposta e le relative sanzioni chiudendo così il contenzioso, altri hanno presentato ulteriore ricorso, ancora non definito, altri ancora hanno usufruito della possibilità loro concessa di condonare le violazioni fiscali.
Diventa quindi indispensabile una rapida riflessione normativa che consenta un percorso di rientro, concordato fra le parti e agevolato, per quelle aziende tenute al contributo, con contestuale puntualizzazione ed eventuale estensione delle esclusioni.
Per quanto concerne il contenzioso, sono state avanzate ipotesi di sanatoria per i contributi pregressi e per i soggetti non ancora iscritti che preveda la copertura per tutto l'anno 2004 con contestuale abbandono delle vertenze.
3. Le imprese che esercitano le attività proprie delle diverse categorie di consociati indicate nel comma 2 partecipano al Consorzio nella categoria prevalente secondo i criteri e le modalità determinati con apposito regolamento.
5. I consorziati di cui al comma 2, lettera a), b) e d) possono partecipare al Consorzio anche tramite le loro associazioni nazionali di categoria.
Non tutti i produttori di beni in polietilene sono, però, assoggettati a tale contributo; il richiamato articolo 48 del decreto legislativo n. 22 del 1997, esclude dalla gestione consortile gli imballaggi, così come definiti dall'articolo 35, lettere a), b), c) e d), i beni di cui all'articolo 44 e i rifiuti di cui agli articoli 45 e 46 sempre dello stesso decreto legislativo n. 22 del 1997.
In particolare:
6. Il delitto ambientale: possibili percorsi futuri per una effettiva tutela penale dell'ambiente.
Il quadro degli strumenti giuridici apprestati a livello di Unione Europea per la repressione del crimine ambientale era fino a poco tempo fa costituito dalla decisione quadro del 27 gennaio 2003, 2003/80/GAI, in materia di tutela penale dell'ambiente, con la quale era stato stabilito l'obbligo per gli Stati Membri di criminalizzare nel proprio diritto interno le condotte dolose che, violando le prescrizioni del diritto comunitario dell'ambiente, ledono o mettono in pericolo la salute umana od il bene ambiente. L'esame dei contenuti di tale strumento giuridico è stata già affrontata nel documento approvato da questa Commissione in data 21 luglio 2004.
7. Il sapere ambientale: l'accesso alle informazioni, la raccolta e la circolarità dei dati.
Da tempo si è raggiunta la consapevolezza, anche sulla scia di opportuni interventi comunitari, fra i quali spicca la Convenzione di
La prefettura competente estende gli accertamenti pure ai soggetti, residenti nel territorio dello Stato, che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell'impresa e, anche sulla documentata richiesta dell'interessato, aggiorna l'esito delle informazioni al venir meno delle circostanze rilevanti ai fini dell'accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa».
Si presentano indispensabili, ad avviso di questa Commissione, taluni interventi che mirino a neutralizzare le condotte fraudolente sopra enunciate.
8. La criminalità ambientale transnazionale.
La Commissione ha dedicato particolare attenzione alla dimensione transnazionale della criminalità ambientale, nella consapevolezza che la tutela dell'ambiente, per poter essere realmente efficace e duratura, non può che assumere connotazioni planetarie.
La Commissione ha rivolto una particolare attenzione alla situazione dei rifiuti industriali. La mancanza, in molte regioni, di impianti adeguati al trattamento dei rifiuti pericolosi ed il costo elevato dello smaltimento degli stessi favoriscono nel settore lo sviluppo di forme illecite di smaltimento ed il conseguente inquinamento di ampie zone del territorio nazionale. La pericolosità per la salute umana di tali rifiuti è stata più volte posta in evidenza, di fronte alla Commissione, dai rappresentanti dell'Istituto superiore di sanità.
1.1. L'indagine svolta dalla Commissione sul flusso dei rifiuti speciali in uscita dal sito industriale di Porto Marghera.
L'obiettivo dell'indagine è consistito nell'individuazione, partendo dalla verifica dei sistemi esistenti per la gestione dei fenomeni considerati, delle forme di gestione integrata delle singole competenze per verificare il determinarsi di positivi effetti sinergici tesi ad
L'attività di analisi è stata completata con una serie di controlli su strada, finalizzati all'ispezione di automezzi impegnati nel trasporto di rifiuti speciali pericolosi e non ed in uscita dai maggiori siti d'interesse presenti nell'area industriale di Porto Marghera (VE).
1.2. I risultati dell'indagine.
La definizione di rifiuto, l'attribuzione del CER corretto, la determinazione della pericolosità o non dello stesso sono momenti fondamentali per la corretta gestione del rifiuto stesso; sono queste fasi iniziali che possono pregiudicare l'iter di smaltimento o di recupero e innescare l'attività illecita.
1.3. Prospettive e percorsi di riforma.
Il quadro normativo di riferimento in materia di gestione dei rifiuti è stato modificato nella sua struttura generale con la legge di delega ambientale.
2. I rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche.
Sebbene le nuove tecnologie rappresentino un fattore di rapido sviluppo e di forte espansione economica e sociale delle società industriali, il loro ritmo di crescita e il loro breve ciclo di vita, hanno dato luogo ad un altrettanto rapido accrescimento della quantità di rifiuti da essi prodotti. L'industria elettronica rappresenta, di fatto, il settore produttivo in maggior espansione nel mondo e, conseguentemente, anche gli scarti del settore sono quelli che segnalano il più rapido aumento se confrontati ad altre tipologie di rifiuti.
3. I rifiuti radioattivi; in particolare i preparati radiferi utilizzati in ambito sanitario.
Il problema della gestione e messa in sicurezza del materiale radioattivo ha costituito ulteriore ambito di analisi della Commissione, anche e soprattutto per la sua stringente attualità.
Vi è da dire, inoltre, che non si ha contezza dell'effettiva distribuzione del materiale poiché diversi preparati radiferi sono stati acquistati privatamente nel corso degli anni da medici o da strutture sanitarie sia pubbliche che private che svolgevano attività di radioterapia.
(1) Bomba Sporca (R.D.D. - Radioactive Dispersal Devices): dispositivo non convenzionale costituito dall'insieme di una sostanza esplosiva e una fonte radioattiva in modo tale da unire ai danni dell'esplosione convenzionale quelli derivanti dalla necessaria contaminazione dell'atrea.
3.1. Prospettive operative e di riforma normativa.
Dal momento che sul territorio sono distribuiti anche preparati radiferi dei quali non si conosce l'esatta collocazione, occorrerebbe individuare uno strumento normativo che favorisca l'emersione, il ritrovamento e la successiva messa in sicurezza delle predette sorgenti orfane, nel prevalente interesse alla tutela della salute dei cittadini ed alla sicurezza nazionale.
La gestione dei veicoli ha costituito oggetto di specifico approfondimento da parte della Commissione, con particolare riferimento al percorso di adeguamento del diritto interno alle disposizioni comunitarie in materia.
5. La criminalità ambientale: modus operandi, strategie investigative, prospettive di contrasto e prevenzione.
Gli elementi acquisiti dalla Commissione, nel corso delle missioni e delle audizioni, confermano la grande attenzione della criminalità, organizzata e non, nei confronti del sistema del ciclo integrato dei rifiuti.
Sullo sfondo di quelle che possono definirsi delle vere e proprie holding criminali c'è spesso una Pubblica Amministrazione «disattenta» nell'attività di rilascio delle autorizzazioni ambientali ed inefficiente nelle successive fasi di controllo amministrativo, se non, in alcuni casi, collusa con gli eco-criminali.
Occorre, inoltre, evidenziare anche che, nonostante i sequestri di diversi siti di sversamento eseguiti nel marzo e nell'aprile del 2003 (siti gestiti dal gruppo PELLINI, IGEMAR e POZZOLANA FLEGREA), l'attività illecita degli indagati non è cessata tanto che, sempre secondo quanto prospettato dagli inquirenti:
Dalle indagini svolte dai Carabinieri è emerso che anche tutti i certificati di analisi dei rifiuti esibiti al momento dei controlli del NOE sono risultati falsi.
Il giro di affari ha proporzioni davvero notevoli: i rifiuti gestiti abusivamente negli ultimi tre anni ammontano a circa un milione di tonnellate, con conseguente giro di affari per 27 milioni di euro, con 750.000 euro di evasione dall'Ecotassa.
Le specifiche attività ispettive sono state oggetto di diretto riscontro anche attraverso l'esecuzione di controlli incrociati presso gli inceneritori utilizzati dagli operatori del settore, consentendo di rilevare che consistenti carichi di rifiuti, cartolarmente destinati all'incenerimento, erano invece «dirottati» presso discariche abusive.
In genere, dunque, dai mirati controlli effettuati, è emerso che la gestione del rifiuto è accompagnata da condotte finalizzate anche alla sottrazione all'imposizione fiscale di importi elevatissimi con la conseguente creazione di ingenti disponibilità finanziarie extrabilancio, potenzialmente destinabili alle più svariate attività illecite che, in contesti criminali qualificati, si concretizzano in atti di corruzione, usura, riciclaggio.
6. Le nuove tecnologie a supporto dell'attività di investigazione in materia ambientale: gli strumenti geofisici per l'individuazione di rifiuti sepolti e per lo studio dell'inquinamento sotterraneo.
Come già descritto, le attività illecite dello smaltimento dei rifiuti, siano essi speciali, pericolosi o urbani sono presenti su molte parti del territorio nazionale. Tali attività, svolte senza il minimo accorgimento di protezione del sottosuolo, possono comportare seri danni ambientali interessando in primo luogo le risorse idriche sotterranee.
Nel contesto dell'analisi dei circuiti della criminalità organizzata transnazionale in materia di rifiuti, la Commissione ha dedicato un particolare approfondimento alla vicenda Somalia.
8. Le navi «a perdere» e la vicenda dello spiaggiamento della «Rosso».
Nel quadro dell'attenzione rivolta dalla Commissione alle movimentazioni illecite transfrontaliere di rifiuti, una considerazione particolare deve essere rivolta ai traffici che hanno utilizzato la via marittima.
1. I rifiuti speciali. Tabelle e grafici riguardanti l'indagine svolta dalla Commissione sul flusso dei rifiuti speciali in uscita dal sito industriali di Porto Marghera.
La grande quantità di rifiuti speciali prodotti ed in uscita dal sito di Porto Marghera ha reso problematico uno studio completo; infatti, nel solo anno 2002 risultano prodotti circa 910 mila tonnellate di rifiuti di cui 68 mila circa sono rifiuti pericolosi. Quasi il 66 per cento di tutti i rifiuti prodotti nell'area, come si evince dalle tabelle 1 e 2, equivalenti a circa 600 mila tonnellate hanno come destinazione la regione Veneto.
Tabella 1. Indicazione dei quantitativi in tonnellate dei rifiuti speciali (pericolosi e non pericolosi) prodotti a Porto Marghera e descrizione della loro destinazione.
Tabella 2. Indicazione dei quantitativi in percentuale dei rifiuti speciali (pericolosi e non pericolosi) prodotti a Porto Marghera e descrizione della loro destinazione
Nell'esame del flusso extraregionale, evidenziato dalla tabella precedente, è importante segnalare che l'Emilia Romagna riceve il 10 per cento dei rifiuti prodotti nell'area di Porto Marghera, percentuale che sale a quasi 23 per cento se consideriamo solo i rifiuti pericolosi, mentre la Lombardia ne riceve il 7 per cento, di cui il 21 per cento di rifiuti pericolosi. Il Friuli-Venezia-Giulia risulta destinatario di una quota del 6 per cento del totale, equivalente a 54.645 tonnellate, di cui 53.910 di rifiuti non pericolosi.
Dei rifiuti prodotti nell'area di Porto Marghera e che rimangono nella regione Veneto il 41 per cento sono destinati al recupero, il 33 per cento sono smaltiti in discarica, l'8 per cento sono trattati, il 5 per cento sono inceneriti ed infine il 13 per cento finisce in centri di stoccaggio regionali.
La figura 2 illustra le percentuali di smaltimento nelle diverse regioni italiane dei rifiuti prodotti nell'area sotto analisi.
L'impossibilità di procedere ad uno studio completo del flusso dei rifiuti prodotti nell'area di Porto Marghera, dovuta sia alla complessità della produzione dei rifiuti che alla sua quantità, ha convinto il Gruppo di lavoro a delimitare il campo di analisi.
2. Protocollo per l'istituzione di una banca dati a fini epidemiologici.
Premesso che, ai sensi dell'articolo 1 della legge istitutiva 31 Ottobre 2001, n. 399, la Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse ha, fra gli altri, i compiti di svolgere indagini atte a far luce sul ciclo dei rifiuti e di proporre soluzioni legislative e amministrative ritenute necessarie per rendere più coordinata e incisiva l'iniziativa dello Stato, delle regioni e degli enti locali, in un settore, qual è quello dei rifiuti, strettamente connesso alla salute dei cittadini;
a trasmettere a questa Commissione ogni utile elemento informativo concernente le attività di indagine svolte con riferimento all'area ricompresa nel territorio dei comuni di Aversa, Capodrise, Casagiove, Casal di Principe, Caserta, Castel Volturno, Marcianise, San Cipriano d'Aversa, Santa Maria Capua Vetere, San Nicola la Strada, Villa Literno, Afragola, Arzano, Caivano, Casoria, Frattamaggiore, Giugliano in Campania, Marano di Napoli, Marigliano, Melito di Napoli, Mugnano di Napoli, Pomigliano d'Arco, Sant'Antimo, Volla, avendo cura di indicare, laddove possibile, la tipologia di rifiuto interessata dall'attività illecita, nonché di precisare il regime di pubblicità gravante sugli atti, al fine di consentire a questa Commissione l'adozione degli opportuni provvedimenti diretti al mantenimento del regime di segretezza.
Gli interventi sul sistema produttivo dovranno prevedere, innanzitutto, azioni incentivanti finalizzate ad una generale riconversione dei modi di produzione.
Un vero e proprio processo di sviluppo economico-industriale su base ecologica, finalizzato:
Un nuovo modo di promuovere lo sviluppo, dunque, che indirizzi il mondo delle imprese verso sistemi produttivi nuovi, tecnologicamente avanzati, più rispettosi dell'ambiente ed in grado di sfruttare il fattore ecologico di competitività del mercato.
Insomma, le imprese che aiutano l'ambiente devono essere aiutate prevedendo, ad esempio, l'inserimento di un parametro, legato alle «performance ambientali», fra gli indicatori di qualità di una impresa che voglia accedere a bandi pubblici o a sostegni economici finalizzati al rilancio dello sviluppo e dei consumi.
Si crea, in tal modo, una discriminante importante a vantaggio di quelle imprese che utilizzano sistemi di gestione e di produzione ambientalmente sostenibili o di quelle che hanno intenzione di farlo.
La normativa ambientale, dunque, deve lasciare spazio a nuove prospettive di sviluppo indirizzando le imprese verso modelli eco-sostenibili.
Anche in materia di politica fiscale devono «entrare in gioco» altre novità: prevedere, ad esempio, oltre ai già utilizzati eco-incentivi per la rottamazione, dei «bonus fiscali», sotto forma di crediti di imposta, a favore di imprese che rispondono a specifiche condizioni, tra cui il rispetto dei parametri delle prestazioni ambientali (emissioni nell'aria, nell'acqua e nel suolo; norme di sicurezza, ecc.)
E ancora, l'inserimento nel quadro ordinamentale di elementi di «fiscalità ambientale» sulla base del principio (che impernia la filosofia del decreto sui rifiuti) «chi inquina paga».
Non si tratta di caratterizzare questo principio in maniera punitiva, ma quale forma di reinvestimento di parte del reddito d'impresa derivato dall'utilizzo di un bene comune: l'ambiente.
Non si tratta nemmeno, ovviamente, di aumentare il carico impositivo delle imprese ma di spostare e meglio utilizzare quanto queste già versano nelle casse dello Stato.
Un prelievo sui consumi di materia-energia, in maniera differenziata e secondo parametri di «contabilità ambientale», accompagnato da una riduzione degli oneri sociali, diverrebbe un serio incentivo alla prevenzione e alla riduzione dei rifiuti alla fonte e alla creazione di nuove possibilità occupazionali.
L'inserimento di tali meccanismi ed un efficace sistema di controlli sul rispetto delle regole rappresentano, tra l'altro, una forma di garanzia per tutte quelle imprese che sfruttano il «fattore ecologico» come forma di concorrenza leale.
L'altro processo del ciclo, finalizzato a favorire la riduzione dello smaltimento finale dei rifiuti, è quello legato alle attività di recupero, riutilizzo e riciclaggio.
È necessario porre un'attenzione particolare a questo processo, indicando gli obiettivi di raccolta differenziata (così come già oggi prevede la normativa vigente) e, in particolare gli obiettivi di effettivo recupero di materiale. Molto spesso infatti puntare solamente alla separazione dei rifiuti, conduce inevitabilmente a ritenere la raccolta differenziata una modalità di gestione del rifiuto, invece che il primo anello della catena dell'effettivo recupero. La conseguenza, che si è potuta constatare anche in questi ultimi anni di vigenza del decreto legislativo 22/97, è stata che anche molti amministratori hanno
interpretato il raggiungimento di elevatissimi valori di raccolta differenziata come atto conclusivo (e non iniziale) di una corretta gestione dei rifiuti, mentre non è un mistero che flussi consistenti di materiali raccolti per via differenziata vengono conferiti ai termovalorizzatori insieme al rifiuto indifferenziato (ad es. la plastica) o, peggio ancora, finiscono in discarica.
Sono ormai noti gli effetti economici ed occupazionali che una corretta gestione dei rifiuti può produrre nella società: lo sviluppo dei sistemi di recupero e di riciclaggio sposta il ciclo di gestione dei rifiuti verso attività caratterizzate -sia in fase di raccolta che in fase di trattamento- da un'alta intensità di lavoro; sia sul piano ambientale che su quello economico-occupazionale possono dunque scaturire benefici di notevole portata con riduzione di costi di investimento e aumento dell'occupazione sia diretta sia nell'indotto.
Queste analisi, tra l'altro, indicano la correttezza del cammino intrapreso; perderebbe una parte importante del suo valore, infatti, il tentativo per il risanamento economico del Paese se non si tenesse in giusta considerazione una delle componenti più importanti del debito pubblico: quella che, seppur difficilmente quantificabile in termini strettamente monetari, riveste un peso notevole nel complesso del quadro economico nazionale. Quella parte del debito, cioè, di cui è creditrice la natura e i cui costi ricadono sull'intera collettività; basti pensare alla ricaduta in termini di danno ambientale (e quindi di costi da sostenere per risanare) di tutte quelle attività che, se non legate a modelli di sviluppo eco-compatibili, si riversano in maniera disastrosa (e molto spesso luttuosa) sull'ambiente.
Occorre non sottovalutare alcuno degli obiettivi indicati tenendo presente tuttavia, che non serve usare scorciatoie rischiando di saltare passaggi fondamentali e, tra questi, in particolare, la ricerca del consenso e il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini (e in primo luogo quello alla salute) ai quali, la legge per prima, deve continuare a chiedere la partecipazione attiva all'interno del sistema.
Le istituzioni, a tutti i livelli, sono chiamate a svolgere una funzione politica e amministrativa attiva e responsabile, per cui è richiesta una avanzata capacità di progettazione e di governo al fine di stimolare, di concordare, di sostenere le azioni positive dell'imprenditoria (produzione, commercio, smaltimento), di dare una puntuale e chiara informazione alle popolazioni, di definire qualità, costo e controllo del sistema.
Da ultimo e comunque nella misura più residuale possibile, la fase terminale di questo sistema deve prevedere l'utilizzazione di diversi sistemi di smaltimento, privilegiando tuttavia quelli finalizzati al recupero di materia, energia e calore e limitando l'abbandono in discarica ai soli rifiuti inerti o resi tali da processi di lavorazione.
Ancora oggi, purtroppo, l'interramento in discarica dei rifiuti rimane il sistema più diffuso per il basso costo di impianto e di esercizio in raffronto agli altri sistemi. La discarica non consente l'eliminazione del rifiuto ma, semplicemente, il suo confinamento e concentrazione in determinate aree da tenere sotto controllo.
Se la sicurezza di questo sistema può essere più o meno certa nel caso di rifiuti organici biodegradabili (in ordine ai quali rimane aperta
una questione di merito tecnico) è, invece, sicuramente dubbia nel caso di rifiuti ad alta persistenza: in questo caso è difficile garantire il controllo, la stabilità e la tenuta delle barriere per i tempi lunghi richiesti.
L'altro sistema di smaltimento, che sebbene in crescita rimane residuale rispetto alla discarica, è rappresentato dall'incenerimento dei rifiuti. Tale processo può avvenire sia per termodistruzione dei R.S.U. tal quali, sia in impianti a recupero e dopo opportuni procedimenti di raccolta e/o selezione dei rifiuti. Da entrambi può essere ricavata energia ma un'attenzione a parte meritano senz'altro i sistemi che prevedono, in co-combustione, l'uso degli impianti a recupero sviluppati negli ultimi anni e che utilizzano frazioni merceologiche dei rifiuti preselezionate: compost e C.D.R. (Combustibile Derivato da Rifiuti).
Anche queste metodologie di smaltimento hanno i loro aspetti positivi e negativi e, in particolare, per quanto riguarda i secondi (legati essenzialmente all'impatto ambientale che gli impianti di termovalorizzazione possono avere), la discussione nel mondo scientifico è ancora aperta.
È anche per questo che è necessario il rilancio delle attività di ricerca e lo sviluppo di nuove e avanzate tecnologie che garantiscano prima di tutto la salute dei cittadini e la tutela dell'ambiente.
L'intero modello integrato di gestione, se attuato in modo coerente, sarà in grado di raggiungere questi risultati. Cercare di realizzarlo scegliendo strategie operative che mirino all'integrazione tra i vari strumenti tecnologici e tra i diversi metodi di recupero deve essere la strada maestra.
A tale scopo deve essere garantita la più ampia informazione e la partecipazione dei cittadini a tutte le scelte di indirizzo (tecnologia impiegabile, localizzazione degli impianti, ecc.).
Solo attraverso questi strumenti, d'altro canto, è possibile creare consenso intorno alle politiche ambientali superando dubbi, sfiducia e, soprattutto, contrarietà a tutto quello che «non finisce nel giardino degli altri».
Bisogna, in definitiva, aprire il ciclo dei rifiuti, farlo comunicare con la realtà, renderlo davvero integrato, ma non solo rispetto a sé stesso, calarlo nel complessivo contesto sociale ed economico; interrogandosi su quali risultati la gestione complessiva del sistema può produrre tali da essere ecologicamente sostenibili e in linea con le peculiarità del tessuto economico e produttivo.
La presenza di una forte domanda di materiali plastici da parte delle imprese potrebbe indurre, ad esempio, a modulare la differenziazione in ragione, appunto, delle esigenze di mercato. Si tratta, in buona sostanza, di non concepire la raccolta differenziata in maniera avulsa dall'intero sistema produttivo, ma di rovesciare la prospettiva, deducendo da quest'ultimo le priorità da assegnare alla prima.
L'obbligo, recentemente introdotto per le pubbliche amministrazioni, di acquistare il 30% dei propri beni attingendo dal recupero ambientale, impone di tener conto di tale significativo ulteriore sbocco finale, conformando opportunamente le operazioni di riciclo.
Il carattere variegato delle province italiane, quanto a caratterizzazione antropica e a morfologia produttiva, potrebbe, poi, consigliare di diversificare le scelte gestionali, quanto alle tecniche da impiegare ed alla dimensione dell'impiantistica, rendendo così il sistema partecipato dal basso, modulare ed elastico.
Sarebbe sbagliato concentrare tutti gli sforzi verso scelte mirate al raggiungimento di uno o di alcuni soltanto degli obiettivi del sistema; questo può funzionare solamente se tutti i processi che lo compongono vengono utilizzati sulla base delle convenienze collettive che saranno individuate di volta in volta e territorio per territorio con un'attenzione particolare alle esigenze di sostenibilità ambientale e garanzia di sicurezza della salute e della qualità della vita dei cittadini. Ma soprattutto, il sistema è destinato a riuscire solo se ci sarà l'apporto di tutti gli attori interessati: istituzioni, mondo produttivo e società civile.
Il dato sicuramente più preoccupante, e dal quale occorre partire al fine di fornire utili e concrete indicazioni per le future strategie di intervento, emerge analizzando la situazione nella quale versano le Regioni meridionali (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia) tuttora sottoposte a commissariamento.
Ed invero, la delega di poteri straordinari per qualità, natura e durata, unitamente alla specificità dei poteri normativi attribuiti agli stessi Commissari straordinari nelle predette Regioni (istituto sul quale in seguito verranno svolte considerazioni di prospettiva), se da un lato hanno indotto l'autorità amministrativa a limitare «l'esercizio generale delle funzioni amministrative relative alla gestione dei rifiuti», dall'altro hanno rafforzato la grave circostanza che in talune Regioni - in tema di gestione del ciclo dei rifiuti - ciò che doveva essere emergenziale, circoscritto e «straordinario» (anche in ordine alla durata temporale), è diventato pressoché stabile ed «ordinario», il tutto con notevole ripercussione anche sulle tensioni economico-sociali da esso scaturenti.
L'aspetto fondamentale e grave che questa Commissione ha rilevato nel compimento dei lavori tutti, dalle numerosissime audizioni svolte, nonché dalle missioni effettuate, anche al di là dei confini nazionali, è sicuramente costituito dal fatto che le maggiori e più preoccupanti criticità riguardano proprio quelle Regioni all'interno delle quali la criminalità organizzata è più presente e radicata.
La considerazione appena svolta induce a pensare, ancora una volta, che la frattura economica e sociale esistente tra le regioni centro-settentrionali e quelle meridionali viene in risalto più che mai
nella delicata problematica dei rifiuti, generando l'amara situazione che nelle regioni del centro nord la questione della gestione dei rifiuti appare - per facta concludentia - assai meno delicata e critica rispetto alla realtà meridionale.
Basti pensare, da un lato, a regioni come il Friuli Venezia-Giulia la quale, eccezion fatta per poche e specifiche emergenze ambientali legate ad alcune singole realtà industriali operative e/o dimesse, non presenta situazioni di particolare criticità, grazie anche alla sensibile attenzione dell'autorità giudiziaria nell'attività di monitoraggio del territorio; sicché l'attenzione è da rivolgere soprattutto nei confronti di fenomeni imprenditoriali deviati.
O, ancora, a regioni come la Lombardia e la Liguria le quali, seppure presentando diverse peculiarità (anche, ad esempio, in ordine alla percentuale di raccolta differenziata che si attesta intorno al 35% in Lombardia ed intorno al 15% in Liguria), non presentano particolari o gravi criticità, per avere compiuto passi significativi nell'adeguamento alla normativa nazionale e comunitaria, nell'avvio delle attività di bonifica, nello studio e nella ricerca attenta di soluzioni concretamente adottabili in ordine alla risoluzione delle problematiche presenti; attività che vanno comunque tutte di pari passo con uno scrupoloso monitoraggio da parte degli organi deputati al controllo del territorio e da parte dell'autorità giudiziaria e delle forze di polizia, attente all'individuazione di possibili anomalie in ordine alla gestione del ciclo dei rifiuti.
Particolare attenzione la Commissione ha, poi, rivolto al Piemonte ed alla Basilicata, sia per la presenza in entrambe le regioni di impianti di stoccaggio di materiali radioattivi, sia per il fatto che si tratta di territori caratterizzati da un'ancora incompleta attuazione dei piani in materia di ciclo integrato dei rifiuti.
Per quanto concerne la Basilicata, regione dalla non notevole estensione territoriale e dalla non elevata intensità demografica, va rilevato che, sebbene non versi in stato «emergenziale», merita una particolare attenzione sia perché ubicata a ridosso di due importanti e critiche realtà regionali come quella campana e quella pugliese, sia perché al centro di una delicata vicenda attinente la gestione e lo smaltimento dei rifiuti pericolosi e radioattivi.
L'analisi delle peculiarità presenti sul territorio della predetta regione, non può prescindere dall'analisi - prioritaria - del fenomeno dello smaltimento dei rifiuti radioattivi, analisi che ha preso decisivo impulso a seguito delle dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia, precedentemente inserito all'interno di una locale organizzazione criminale di stampo mafioso.
Il timore - purtroppo fondato - che la terra lucana sia stata una realtà oggetto, nel corso degli ultimi anni, di un'attività di sversamento di rifiuti cd. pericolosi, ed in particolar modo, di rifiuti radioattivi, costituisce fonte di elevata preoccupazione, soprattutto se si parte dal dato che ci si trova di fronte ad una situazione che, eccezion fatta per l'appena richiamato aspetto, non presenta come detto elementi di particolare criticità.
Ferma restando la necessità di approfondimento in ordine a tutto quanto in tema di sversamento di rifiuti radioattivi, necessità ancora
più sentita se si considera la circostanza - di estrema gravità - di una specifica e più elevata incidenza di fenomeni tumorali su soggetti residenti nelle zone che ci occupano, gli stimoli e gli impulsi per il raggiungimento di più lusinghieri risultati in ordine a tutto quanto inerente il ciclo dei rifiuti deve necessariamente partire - anche in questo caso - da una ancora più incisiva attività di monitoraggio e repressione delle attività criminali ed illecite connesse ad esso ciclo.
Il costante e capillare controllo del territorio, anche a mezzo dell'utilizzo di specifiche e sofisticate tecniche di controllo (quali ad esempio la videosorveglianza delle vie di accesso alla Regione), unitamente ad un maggiore ricorso alla raccolta differenziata, attestata su percentuali che possiamo definire basse se non mortificanti, sono gli elementi dai quali muovere per addivenire ad un controllo più o meno organico di tutto ciò che è inerente il ciclo, la raccolta e - da ultimo - lo smaltimento dei rifiuti tutti.
Proprio su quanto appena argomentato è singolare il fatto che, in alcune zone nelle quali sono stati effettuati concreti progetti mirati alla diffusione della cultura della raccolta differenziata, si è raggiunti la lusinghiera percentuale del 35%.
Elemento quest'ultimo che impone una necessaria (ed al contempo amara) riflessione: dovrebbero essere sicuramente più incisive le politiche di educazione ambientale - delle quali si parlerà anche più avanti - al fine di far attecchire in modo maggiore la cultura della raccolta differenziata in una popolazione, come quella meridionale, altamente recettiva ma non sempre compulsata nel modo più opportuno.
L'assunzione e la contestuale maggiore qualificazione professionale del personale addetto ai controlli in seno all'agenzia regionale di protezione ambientale contribuisce, nel caso di specie, a definire un quadro generale non sicuramente di eccellenza.
Venendo poi all'esame della Regione Piemonte, l'analisi della questione del ciclo dei rifiuti passa necessariamente per due aspetti fondamentali: il primo legato all'intensità demografica ed un altro, ancor più rilevante, legato alle attività produttive che attualmente si svolgono o che, soprattutto, sono in fase di deindustrializzazione.
Quello della dismissione di impianti industriali, particolarmnete connesso alla fase di acuta crisi economica che investe il territorio nazionale tutto ed in particolare quello piemontese, è comunque aspetto da tenere sotto costante monitoraggio, anche per il particolare tipo di rifiuti da esso scaturente.
Da un'analisi generale emerge comunque un quadro di complessiva normalità.
Sicuramente auspicabile è la chiusura di quelle discariche a cielo aperto (e per ciò non di peculiarità esclusiva delle regioni meridionali) ancora presenti ed operanti.
Senz'altro importante appare, in quest'ottica, la costruzione - che dovrebbe terminare entro il primo semestre dell'anno 2010 - di un termovalorizzatore che dovrebbe servire una significativa fetta della popolazione.
Ma, messo da parte questo aspetto, livelli quantomeno di concreta efficienza sono presenti sia per ciò che concerne gli aspetti autorizzativi sia per ciò che concerni quelli delle verifiche e dei controlli.
Già presente ed intensa appare comunque l'attività - posta in essere dalla forze dell'ordine tutte - di monitoraggio del territorio e di verifica e repressione degli illeciti compiuti frutto, come già detto, di comportamenti slegati da più ampi ed organizzati fenomeni criminali.
Sempre alta è anche l'attenzione delle associazioni ambientaliste presenti sul territorio, attività che deve comunque mantenersi perennemente desta alla luce del sempre più intenso fenomeno di deindustrializzazione di cui sopra.
Situazione per taluni aspetti contraddittoria deve essere registrata per la Regione Toscana; ed invero, a fronte dei buoni risultati della raccolta differenziata e dell'efficienza del sistema impiantistico, vanno considerate le difficoltà relative sia al trattamento e al recupero dei rifiuti speciali pericolosi che all'individuazione dei siti per l'impiantistica in un territorio di alto pregio, per l'agricoltura di eccellente qualità e le rinomate attività produttive, nonché la situazione di allarme quanto all'insediamento ed all'operatività, sul territorio regionale, di numerose società di intermediazione nel settore dei rifiuti, vero motore dei traffici illeciti lungo l'intera penisola (come più avanti si illustrerà dettagliatamente).
Rimanendo nell'ambito dell'intreccio rifiuti-criminalità, e muovendo dal fatto che il rapporto tra «il ciclo dei rifiuti» e «le attività illecite» è, nella maggior parte dei casi, molto profondo se non addirittura intimamente intrecciato ed indissolubile, va rilevato come tuttora le regioni che presentano un elevato tasso di criminalità siano anche quelle in cui la cultura della protezione e del rispetto delle tematiche ambientali è particolarmente bassa, sicché le criticità in tema di gestione dei rifiuti sono particolarmente elevate ed i problemi ad esse inerenti di complessa risoluzione.
Sul punto, basti pensare che in regioni quali la Sicilia, Campania e Puglia, la percentuale di raccolta differenziata si attesta su valori minimi, mentre, di contro, elevatissima è l'attenzione degli ambienti criminali locali in ordine allo smaltimento ed al trattamento dei rifiuti nonché alla movimentazione ed alle opere di bonifica.
Né può dirsi tranquilizzante la situazione della Sardegna, e non solo per gli insufficienti risultati nella raccolta differenziata.
In particolare, deve registrarsi come solo di recente si sia proceduto alla costituzione dell'A.R.P.A., peraltro con dotazione personale e strumentale ancora inadeguata, soprattutto se si considera l'insediamento sul territorio di attività industriali pericolose per l'ambiente e la salute delle popolazioni residenti.
Capitolo a parte viene costituito dalla problematiche e dalle gravi criticità presenti e diffuse nella Regione Calabria (che riveste un ruolo fondamentale anche in ordine alle problematiche di criminalità ambientale transnazionale) e, soprattutto, nella Regione Campania che ha formato oggetto di una approfondita analisi della Commissione.
Criticità talmente gravi da far affermare - con sconfortante serenità - che, spesso, senza un'azione incisiva ed efficiente dell'Autorità
Giudiziaria e degli organi di polizia giudiziaria, la risoluzione delle problematiche connesse alla gestione del ciclo dei rifiuti diventa, per queste regioni, sempre più difficile.
Per ciò che concerne la Regione Campania, deve necessariamente prendersi atto del preoccupante e costante stato di gravità in ordine alla gestione tutta del ciclo dei rifiuti, partendo dal profilo programmatorio, passando per quello gestionale e sanitario, per poi arrivare a quello criminale.
L'aspetto sicuramente più preoccupante è costituito dal fatto che, nonostante l'attribuzione di poteri straordinari ed «in delega» attribuito ai Commissari ed ai Vice- Commissari che si sono succeduti nel tempo, ancora lontano appare il raggiungimento di risultati non di eccellenza quanto di apprezzabile sufficienza.
La non diffusa cultura della raccolta differenziata, e, soprattutto, l'elevato interesse delle ecomafie in ordine a tutto ciò che attiene al ciclo dei rifiuti, rendono la situazione regionale campana altamente critica e, come appena detto, ancora lontana dagli standards di efficienza e qualità auspicati con l'avvio del Commissariato Straordinario.
Soffermandoci sull'aspetto della pervasività criminale, risultati concreti ha portato l'intensificarsi dei controlli della Prefettura di Napoli in tema di rilascio della certificazione antimafia; ampiamente significativo è, poi, il dato relativo allo scioglimento dei comuni per infiltrazioni camorristiche, nella misura in cui -nella maggior parte dei casi- si tratta di inquinamento che ha riguardato soprattutto il settore dei rifiuti.
La Commissione ha potuto constatare, proprio con riferimento alla Prefettura del capoluogo campano, come un'attenta ricognizione delle situazioni, unitamente all'impiego di strumenti di analisi fondati sulla raccolta di dati provenienti da fonti istituzionali diverse, consenta di conseguire apprezzabili risultati sul terreno della impermeabilizzazione ai condizionamenti provenienti dal circuito criminale di stampo mafioso.
Del pari, vanno salutati con grande apprezzamento l'adozione del «protocollo di legalità» in materia di appalti, in uno all'intensificarsi dei controllo dell'Autorità Giudiziaria e delle forze di polizia tutte; iniziative che hanno comunque contribuito a limitare l'ingerenza della criminalità mafiosa in una regione - come quella campana - nella quale i sodalizi criminali esercitano tuttora una diffusa egemonia territoriale; un'egemonia tanto preoccupante da indurre questa Commissione, in precedenti relazioni, a prospettare l'opportunità di predisporre un'operazione, modulata strutturalmente secondo la già sperimentata «Operazione Primavera», che veda l'impegno delle forze di polizia, coordinate dall'autorità prefettizia ed eventualmente supportate dall'ausilio di presidi di forze armate, ove ciò fosse in qualche modo imposto dalla necessità di garantire efficacia all'azione.
Sul versante delle negatività, va, ancora, segnalato il dato relativo alla raccolta differenziata, dato che assume rilevanza fondamentale se si considera che la Regione, commissariata da dodici anni, è ben lontana dal raggiungimento di quegli obbiettivi che consentirebbero di ridurre fortemente le problematiche e le criticità presenti.
Altra regione che stenta ad uscire dall'emergenza e, soprattutto, a recuperare una normalità amministrativa e gestionale è quella calabrese.
Se, per un verso, come illustrato nella specifica relazione territoriale, i poteri delegati al Commissario Straordinario hanno consentito di programmare tutti gli impianti tecnologici con il sistema del project financing, per altro, l'andamento delle gare di appalto inerenti lo smaltimento dei rifiuti, con particolare riferimento alla realizzazione dei depuratori, appare caratterizzato da preoccupanti anomalie, oggetto di recenti quanto eclatanti indagini della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, a seguito delle quali sembra di poter affermare come il commissariamento non si sia dimostrato in grado di impedire il pernicioso connubio tra malavita e mala-amministrazione.
Non solo.
Deve essere rilevato, inoltre, come i poteri derogatori attribuiti al Commissariato per fronteggiare e risolvere la situazione di emergenza siano stati utilizzati, secondo quanto emerso a seguito delle audizioni dei magistrati inquirenti, per l'assegnazione diretta, senza procedure di evidenza pubblica, di opere e servizi a società miste nella cui compagine societaria si registra la presenza di soggetti che hanno ricoperto e tuttora ricoprono incarichi nell'ambito della struttura dell'ente regionale e del commissariato; così determinando un'allarmante confusione di ruoli fra controllati e controllori.
La realtà che ne deriva, messa peraltro in risalto dalla locale sezione della Corte dei Conti, è quella di opere mal realizzate e peggio ancora gestite, di finanziamenti deviati dalle finalità pubblicistiche, di un ambiente -soprattutto quello marino- pericolosamente privato di adeguati strumenti di protezione.
Il panorama delle situazioni regionali induce a ritenere che - nonostante le enormi differenze e le peculiarità presenti in ogni singola regione - gli strumenti per ottimizzare e rendere efficiente il ciclo della gestione dei rifiuti, contrastando al contempo in modo incisivo le attività illecite ad esso connesse, abbiano una serie di massimi comuni divisori.
Per addivenire ad un quadro di eccellenze pressoché unitario, appare opportuno intensificare in primo luogo le azioni di controllo e repressione svolte dagli organismi di polizia giudiziaria, secondo talune direttrici, normative ed operative, che più avanti verranno dettagliatamente esposte.
Di pari passo, va promossa un'intensa attività di addestramento e qualificazione del personale degli enti pubblici preposto alle attività di ispezione e di controllo.
Altrettanto auspicabile è l'incremento, anche sotto forma di diffusione ed assegnazione di convenienti bonus familiari, della raccolta differenziata, partendo anche dall'insegnamento - sin dalle scuole di istruzione primaria - dell'educazione ambientale, nella consapevolezza che l'autentica svolta nella protezione dell'ambiente non può che passare attraverso una crescita culturale.
Infine, una particolare riflessione deve essere rivolta alle Agenzie Regionali per la Protezione dell'Ambiente, il cui funzionamento si
presenta sempre più come una delle condizioni perché l'intero sistema dei rifiuti a livello regionale produca risultati soddisfacenti.
Deve essere rilevato, infatti, come, proprio nelle regioni che hanno manifestato le maggiori criticità, debba registrarsi la presenza di Agenzie o di recente istituzione (come è il già menzionato caso della Sardegna), o non pienamente efficienti (tanto da richiedere il supporto di agenzie di altre regioni, come nel caso del tutorato fra ARPA Emilia Romagna e ARPA Campania) o di non sicura affidabilità operativa (come nel caso dell'agenzia calabrese o di quella veneta), tanto da suscitare perplessità, quanto all'attendibilità dei risultati dell'attività di controllo, a seguito di quanto viceversa emerso da accertamenti svolti sugli stessi insediamenti da parte delle autorità giudiziarie.
Diviene, pertanto, indispensabile, adottare opportuni strumenti amministrativi ed adeguate dotazioni strumentali, al fine di garantire alle agenzie, per un verso, l'assegnazione di personale di elevata professionalità e l'utilizzazione delle migliori tecnologie, e, per altro, l'efficacia e l'affidabilità degli interventi attraverso un più penetrante sistema di controlli interni.
La Commissione ha a lungo riflettuto sull'istituto del Commissariamento straordinario per l'emergenza di rifiuti, sia in sede di approvazione di ben due documenti specifici, sia in occasione della redazione delle Relazioni riguardanti le singole Regioni nelle quale l'istituto eccezionale ha avuto modo di essere più che sperimentato.
Debbono essere ribadite tutte le perplessità e le critiche per le situazioni di anomala ordinarietà della gestione commissariale.
È evidente a tutti come continuare ad assegnare ad un organo di Governo, poteri extra-ordinem in riferimento a gestioni pubbliche di ambito regionale e subregionale, rappresenti un ulteriore incentivo alla de-responsabilizzazione, anche politica, degli enti ed organi che in base alla ripartizione di competenze debbono occuparsi della materia dei rifiuti. Inoltre la gestione con poteri straordinari e deroghe consentite, rende «pigri» i meccanismi procedurali che debbono essere svolti a regime.
Una riflessione sulle politiche ambientali oltre il commissariamento richiede, pertanto, in primo luogo, uno sforzo per determinare i confini temporali dell'intervento commissariale.
Ragionare dell'oltre significa, in altri termini, individuare il dies ad quem dell'azione del Commissariato, essendo quest'ultimo intimamente connesso alla straordinarietà della situazione, ed alla temporaneità dell'istituto.
Diversamente, si fa - secondo quanto illustrato nella relazione per la Campania - del Commissariato un'istituzione che tende a stabilizzarsi e quindi a preoccuparsi più della propria autosussistenza che
delle finalità per le quali era stato istituito, con la conseguenza di atrofizzare gli organi supportati.
Sicché, analizzare le prospettive di superamento, significa innanzitutto, riflettere sulle politiche di riabilitazione, cioè di transizione dal regime straordinario a quello ordinario.
Se il commissariamento è espressione di un intervento sussidiario, esso deve avere come scopo non la sostituzione tout court e sine die dell'ente in difficoltà, bensì quello di affrontare una situazione di emergenza che, per il suo carattere di straordinarietà, supera l'ambito localistico, e, al contempo, ripristinare le condizioni perché l'ente supportato possa ritornare ad operare nell'ordinarietà.
Si è, in altri e più chiari termini, dinanzi ad una sorta di protesi che sostituisce taluni organi della pubblica amministrazione nell'esercizio - e non nella titolarità originaria (che rimane in capo all'organo sostituito) - di determinate funzioni; il commissariamento realizza quel coordinamento che non si è realizzato fisiologicamente, accentrando in un unico soggetto tutte quelle competenze che, seppur distribuite fra organi diversi, presentano una connessione quanto agli obiettivi complessivi, quegli stessi obiettivi il cui mancato raggiungimento giustifica l'intervento commissariale.
Come ogni intervento protesico, l'azione del Commissariato non può che mirare, dunque, pena lo snaturamento dell'istituto stesso, a far recuperare all'articolazione supportata la propria funzionalità; non può, non deve essere durevole, ma va tolta quando non è più necessaria e va accompagnata e seguita da un'adeguata terapia di riabilitazione.
Sicché, ragionare di politiche oltre il commissariamento, significa in primo luogo riflettere sulle politiche di riabilitazione, cioè di transizione dal regime straordinario a quello ordinario.
Orbene, la constatata dilatazione dell'istituto commissariale, a dispetto della sua stessa natura, comporta non pochi problemi anche per l'individuazione delle terapie di riabilitazione più appropriate.
In linea generale, è auspicabile che il rientro nel regime ordinario avvenga senza soluzione di continuità, pervenendo alla ricomposizione fisiologica di quella dicotomia gestione-titolarità tutte le volte in cui, venendo meno la straordinarietà e l'urgenza, il peso della gestione possa essere adeguatamente sopportato dal titolare. Occorre quindi procedere ad un «passaggio controllato» alle competenze ordinarie, con la consapevolezza che il percorso intrapreso verso un ciclo integrato di raccolta e di smaltimento, anche a ragione dei protocolli di intesa e delle concertazioni che hanno già coinvolto gli enti locali nella gestione commissariale, possa essere in grado di fronteggiare quelle prime difficoltà della gestione ordinaria, senza mandare «in fibrillazione» il sistema. Le politiche ambientali oltre il commissariamento se, per un verso, sono politiche di riabilitazione, per altro, non possono neppure prescindere dalle coordinate tracciate dal commissario quanto meno per la fase iniziale dell'ordinarietà; tali coordinate, infatti, esprimono quel patrimonio di cognizioni che, proprio perché formatosi in epoca di emergenza, valgono a meglio orientare gli interventi ordinari.
Si tratta, dunque, per un verso, di non disperdere tale bagaglio tecnico-normativo, e, per altro, di anticiparne il più possibile la condivisione.
Oltre il commissariamento, infine, non può che esserci la naturale riespansione del disegno costituzionale che, anche a seguito delle modifiche conseguenti alla legge nr. 3 del 2001, vuole il rispetto delle autonomie dei diversi livelli di governo delle comunità locali, come condizione dell'operatività ordinaria del principio di sussidiarietà: solo una distinzione chiara fra competenze, poteri di coordinamento ed interventi sostitutivi consentirà di non ritenere più l'azione sussidiaria come inscindibilmente collegata alla straordinarietà e, quindi, al commissariamento.
Questa è la cornice in cui inserire gli interventi legislativi che, da ultimo, hanno segnato l'esperienza commissariale in Campania, non senza aspetti contraddittori.
In tale ottica, ad esempio, va rilevato che il decreto legge nr. 14 del 2005, recante misure per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania, presentava un rischio: quello di dilatare ulteriormente l'ambito dei poteri commissariali mediante l'attribuzione al Commissario delegato di poteri sostitutivi non solo nei confronti di enti pubblici ma anche nei riguardi di soggetti privati.
La dicotomia gestione - titolarità che caratterizza i rapporti fra commissario e soggetti sostituiti finiva, pertanto, con l'interessare non più soltanto un ambito strettamente pubblicistico, ma anche i rapporti contrattuali in cui è parte la pubblica amministrazione, tutte le volte in cui gli stessi incidevano su ambiti rilevanti ai sensi della legge n. 225 del 1995 in materia di protezione civile.
E tuttavia non può non risultare evidente come questo ampliamento dei poteri del Commissario rendesse ancor più problematica la temporaneità dell'intervento commissariale.
Sicché, è stato valutato favorevolmente il cambiamento di rotta adottato nel decreto legge n. 245 del 2005, nel momento in cui vengono previsti, in relazione al procedimento di formazione della volontà del Commissario, significativi interventi degli enti locali nella direzione di una decisione il più possibile partecipata e condivisa.
Ed infatti, l'istituzione di una Consulta regionale per la gestione dei rifiuti, presieduta dal Presidente della Regione, cui sono chiamati a far parte i presidente delle province nonché i rappresentanti dei comuni interessati ad una equilibrata localizzazione dei siti per le discariche e lo stoccaggio dei rifiuti trattati, costituisce indubbiamente tappa significativa di un'exit strategy dal Commissariamento, per il suo significato di istituzione-ponte, chiamata cioè a preparare la transizione verso la riespansione del regime ordinario, ed, in qualche modo, ad allenare gli enti locali a fronteggiare le proprie competenze e responsabilità.
Resta, indubbiamente, il nodo - ineliminabile, come già si è osservato nella Relazione sulla Campania, fino a quando perdurerà il regime commissariale (il cui dies ad quem è fissato al 31 maggio 2006) - dell'esclusione dalla fase decisoria degli enti locali che, peraltro, vengono chiamati a contribuire forzosamente, pena la riduzione dei trasferimenti erariali.
Si tratta di un nodo da sciogliere al più presto.
Da sempre, e da tutti, sembra esserci l' «intenzione di disfarsi» di un istituto, creato per fini ben diversi e strutturato in funzionalità con tali scopi temporanei. Occorre passare dalle intenzioni ai fatti: «disfarsi» dei Commissari straordinari e delle conseguenze delle gestioni straordinarie protratte nel tempo, per porre mano ad una politica integrata, con senso di responsabilità per tutti gli enti od organi, attori a pieno titolo nella gestione quotidiana del ciclo dei rifiuti.
È un nodo, in definitiva, che rischia di strozzare lo stesso circuito di partecipazione democratica: è evidente, infatti, che l'avere concentrato in un unico centro decisionale tutte le fasi del processo di formazione della volontà della pubblica amministrazione, necessariamente estromettendo dal percorso ogni iniziativa popolare, riduce i cittadini ad inerti spettatori, ostracizza il confronto, mortifica la crescita civile di un intero territorio.
Gli approfondimenti relativi alla nozioni di rifiuto ed alla protezione penale dell'ambiente costituiscono gli ambiti nei quali questo organismo bicamerale di inchiesta ha considerato doveroso richiamare l'attenzione del legislatore e di tutti gli operatori del settore.
Questi e molti altri ancora sono, come è ovvio, i temi che hanno richiesto, in tale prospettiva, particolare esame e in relazione ai quali vengono illustrati gli aspetti problematici e, soprattutto, prospettate le principali direttrici di riforma.
Un ulteriore versante, tuttavia, che merita di essere adeguatamente esplorato è quello relativo alle competenze regionali.
Le limitazioni di sovranità cui lo Stato italiano ha acconsentito con la ratifica dei Trattati istitutivi delle Comunità Europee si impongono, infatti, parallelamente anche alle Regioni, nelle materie di loro competenza: il diritto comunitario, invero, è indifferente rispetto alla ripartizione interna dei poteri effettuata a livello costituzionale
nell'ordinamento italiano. La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza 126/96 ha avallato l'idea secondo cui lo Stato italiano, nell'attuazione del diritto comunitario, deve rispettare il suo fondamentale impianto regionale senza derogare alla normale ripartizione delle competenze.
Per questa ragione, il potere di dare attuazione a norme comunitarie non direttamente applicabili può dirsi spettante anche ad enti sub-statali nelle materie di loro competenza: tale principio, tuttavia, va contemperato con il costante indirizzo giurisprudenziale della Corte di Giustizia Europea secondo cui è allo Stato nel suo complesso ad essere attribuita la responsabilità per eventuali violazioni del diritto comunitario. Ne deriva che, da un lato, deve essere riconosciuto alle regioni un ruolo nell'attuazione delle norme comunitarie, mentre dall'altro è necessario conservare in capo allo stato centrale degli strumenti di controllo e di esercizio del potere in via sostitutiva per evitare l'insorgere di responsabilità sul piano comunitario: la situazione, ad esempio, di cronica emergenza della Regione Campania continua ad essere fonte di procedure di infrazione per lo Stato italiano (come più diffusamente illustrato, relativamente ai rifiuti da imballaggio, nella specifica relazione territoriale).
Il primo riconoscimento della facoltà regionale di dare attuazione ad atti comunitari è contenuto nella legge n. 183 del 1987 all'articolo 13, successivamente trasposto nell'articolo 9 della legge n. 86 del 1989 (legge «La Pergola»): secondo tale disposizione era attribuita, alle sole Regioni a Statuto Speciale, la facoltà di dare attuazione alle raccomandazioni ed alle direttive comunitarie nelle materie di loro competenza esclusiva, ancor prima che fosse intervenuta una legge statale indicante i principi non derogabili dalla normativa regionale. Qualora una legge statale di tal tipo fosse intervenuta successivamente, le Regioni speciali erano tenute ad adeguarsi alle norme di principio ivi contenute.
Successivamente, una più ampia apertura alle istanze regionali è stata concessa con l'approvazione dell'articolo 13 della legge n. 128 del 1998 (la legge comunitaria 1995-97) che ha riformulato l'articolo 9 della legge «La Pergola»: con tale disposizione sia le Regioni ordinarie che quelle speciali possono immediatamente dare attuazione alle direttive comunitarie nelle materie di competenza concorrente o esclusiva. È riservata allo stato la possibilità di emanare in via preventiva, con la legge comunitaria o con qualunque altra legge, disposizioni di principio non derogabili cui le successive leggi regionali di attuazione devono conformarsi. Se la legge nazionale di recepimento è successiva rispetto alle leggi regionali di attuazione, allora, in materie di competenza concorrente, le disposizioni di principio regionali devono ritenersi implicitamente abrogate; mentre, in materie di competenza esclusiva, le Regioni sono tenute ad adeguarsi alle disposizioni di principio inderogabili contenute nella legge nazionale di recepimento.
Il tema della partecipazione delle Regioni all'attività normativa comunitaria ha trovato una sua sistemazione anche a livello costituzionale con l'approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 che ha riformato il Titolo V della Parte II della Costituzione.
In particolare, il comma 5 del nuovo articolo 117 della Costituzione introduce i tre principi che disciplinano la partecipazione regionale:
la partecipazione regionale alla cd. «fase ascendente», cioè all'iter procedurale che porta alla formazione di determinati atti comunitari, attraverso l'attività di alcuni organi rappresentativi delle autonomie regionali e locali;
la previsione di una loro partecipazione alla cd. «fase discendente» del diritto comunitario, vale a dire all'attuazione del diritto comunitario secondo le modalità poste dalla legislazione ordinaria antecedente e rispettando la ripartizione delle competenze effettuata a livello costituzionale;
la previsione di una legge organica da parte dello stato che disciplini sia le modalità di esercizio della potestà legislativa per l'attuazione della normativa comunitaria che il relativo potere di intervento sostitutivo.
su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro per le Politiche Comunitarie e del Ministro competente per materia viene assegnato all'ente interessato un congruo termine per adottare i provvedimenti dovuti o necessari per porre fine alla violazione della norma comunitaria;
scaduto il termine, il Consiglio dei Ministri, sentiti l'organo interessato e ancora su proposta degli stessi soggetti, adotta i provvedimenti necessari. Alla riunione del consiglio partecipa anche il Presidente della regione interessata;
il Consiglio dei Ministri può concretizzarsi o nell'emanazione di un atto normativo o regolamentare oppure nella nomina di un commissario ad acta. Le norme così emanate sono cedevoli, divengono cioè inapplicabili in caso di successivo intervento regionale di attuazione, e trovano applicazione solo nel territorio delle Regioni che non abbiano provveduto; l'intervento in via sostitutiva dello stato, inoltre, deve avvenire previo parere espresso dalla Conferenza Stato-Regioni, nel rispetto del principio di leale collaborazione.
funzioni amministrative derivanti dall'applicazione della normativa comunitaria, subordinando però l'esercizio di tali funzioni al previo recepimento con legge dello stato nella quale venivano indicate le norme di principio inderogabili e quelle di dettaglio che avrebbero trovato applicazione in caso di inerzia delle Regioni.
L'attribuzione alle Regioni di un tendenzialmente generale potere di esercizio delle funzioni amministrative, nel corso degli anni '90, anche nelle materie di incidenza comunitaria, ha rappresentato una costante di tutti i provvedimenti di conferimento di funzioni amministrative ad esse. Con la riforma del Titolo V, Parte II della Costituzione, alle Regioni è stato attribuito il potere regolamentare in tutte le materie di competenza esclusiva o concorrente: per cui ad esse, senz'altro, spetta la facoltà di attuare le direttive comunitarie in via regolamentare, ferma restando la generale possibilità di esercizio del potere sostitutivo, secondo le modalità viste, da parte dello Stato.
La lettera s) del comma 2 dell'articolo 117 menziona, peraltro, la «tutela dell'ambiente» quale materia di competenza esclusiva dello stato; inoltre, il successivo comma 3 menziona la materia «tutela della salute» tra quelle di legislazione concorrente.
In particolare, per ciò che concerne, quindi, la fase «discendente», l'articolo 10 della legge n. 11 del 2005 disciplina la situazione dell'urgenza nell'attuazione di un obbligo di fonte comunitaria: ovvero, nel riconfermare lo strumento della "legge comunitaria", secondo quanto già disposto dalla legge «La Pergola», quale mezzo di adeguamento dell'ordinamento italiano agli obblighi comunitari, il legislatore ha previsto l'ipotesi di adattamento d'urgenza, qualora gli obblighi statali di adeguamento necessari a fronte di atti normativi dell'UE o di sentenze della Corte di Giustizia abbiano un termine di adempimento anteriore rispetto alla data di presunta entrata in vigore della legge comunitaria. Nella stessa ipotesi, qualora l'adempimento sia di competenza regionale, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per le Politiche Comunitarie informano gli enti interessati della necessità di provvedere e assegnano un termine per l'esercizio delle proprie competenze, chiedendo, ove necessario, che della questione sia investita la Conferenza Permanente per i rapporti tra Stato e Regioni: in caso
di inadempimento regionale, sono proposte al Consiglio dei Ministri le opportune iniziative affinché siano attivati i poteri sostitutivi statali di cui agli articoli 117, comma 5 e 120 della Costituzione.
Un primo problema di adattamento della direttiva 75/442/CE si è posto, come già si è detto (e come ulteriormente si osserverà infra) in relazione alla definizione della nozione di 'rifiuto', operata attraverso l'articolo 14 del decreto-legge n. 138 del 2002, convertito nella legge n. 178 del 2002.
Un ulteriore profilo di inadempimento si è verificato in relazione all'obbligo di elaborare piani di gestione dei rifiuti: nel 2002, infatti, la Corte di Giustizia, con la sentenza 24 gennaio 2004, Causa C-466/99, ha condannato l'Italia per non aver mai attuato piani sui rifiuti. Nei confronti dell'Italia, successivamente, è stata avviata un'ulteriore procedura di infrazione, ai sensi dell'articolo 228 del Trattato CE, per non aver ottemperato agli obblighi scaturenti dalla citata sentenza della Corte.
In relazione agli articoli 3, 5 e 11 della direttiva, all'Italia è stato imputato di non aver fornito maggiori dettagli in relazione ai piani regionali di smaltimento dei rifiuti, sulle strategie messe in campo per la prevenzione e il recupero, sulla effettiva autosufficienza nello smaltimento degli stessi e in relazione ai criteri di dispensa dalle autorizzazioni da concedere ai sensi degli articoli 9 e 10 della direttiva.
Mentre la direttiva 75/442/CEE definisce il quadro normativo della politica comunitaria in materia di gestione dei rifiuti di ogni genere, la direttiva 91/689/CEE contempla strumenti di gestione e monitoraggio più rigorosi per i rifiuti pericolosi. La direttiva 91/689/CEE ha sostituito la direttiva 78/319/CEE relativa ai rifiuti tossici e nocivi.
Occorre registrare, innanzitutto, che non si sono registrati problemi particolari in merito alla ricezione nell'ordinamento nazionale di tutti gli aspetti della definizione comunitaria di rifiuto pericoloso. Il decreto legislativo 22/97 contiene, inoltre, nell'allegato D, un elenco dettagliato di tali rifiuti, aggiornato successivamente per ottemperare alle decisioni 2000/532/CE e 2001/118/CE, che hanno ampliato l'elenco dei rifiuti pericolosi introducendo il metodo della classificazione.
In relazione all'articolo 2 della direttiva, la normativa italiana dispone che i rifiuti pericolosi possano essere smaltiti in discarica solo se accompagnati da un formulario di identificazione. Il gestore della discarica è quindi tenuto a verificare che in base alle caratteristiche indicate nel formulario di identificazione il rifiuto possa essere conferito in discarica e che le caratteristiche dei rifiuti conferiti corrispondano a quelle riportate nel formulario di identificazione. Sempre il decreto Ronchi vieta, all'articolo 9, di miscelare categorie diverse di rifiuti pericolosi ovvero rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi in assenza di un'autorizzazione regionale in tal senso, a condizione che ciò non comporti un pericolo per la salute dell'uomo e che non possa recare pregiudizio all'ambiente.
Quanto all'articolo 3 della direttiva, deve segnalarsi che l'Italia ha notificato norme che consentono di applicare deroghe per alcuni rifiuti pericolosi ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 2; tali norme sono state approvate con la decisione 2002/909/CE della Commissione.
Con riferimento all'articolo 4 della direttiva, l'articolo 20, comma 1, lettera c) del decreto legislativo n. 22 del 1997 delega i controlli periodici alle province, che possono stipulare apposite convenzioni con organismi pubblici con specifiche esperienze e competenze tecniche in materia. Nell'ambito delle loro competenze le province sottopongono a controlli periodici gli stabilimenti e le imprese che smaltiscono o recuperano rifiuti. Non viene chiarito, tuttavia, se siano disposti controlli periodici dei produttori di rifiuti pericolosi.
La direttiva 94/62/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio persegue due obiettivi principali: tutelare l'ambiente e garantire il funzionamento del mercato interno. Per questo la direttiva istituisce misure destinate, in via prioritaria, ad impedire la generazione di rifiuti di imballaggio e, come principi fondamentali aggiuntivi, misure tese al riutilizzo o al riciclaggio degli imballaggi e ad altre forme di recupero dei rifiuti di imballaggio per ridurre, dunque, lo smaltimento finale di tali rifiuti.
Si tratta in particolare di misure riguardanti:
la prevenzione: misure nazionali e promozione delle norme (articolo 4);
il riutilizzo: provvedimenti nazionali (articolo 5);
gli obiettivi di recupero e riciclaggio da conseguire entro il 30 giugno 2001 (articolo 6): recupero: tra 50 e 65%; riciclaggio: tra 25 e 45%;
la Grecia, l'Irlanda e il Portogallo sono autorizzati a conseguire tali obiettivi entro il 31 dicembre 2005 (in questi casi, entro il 30 giugno 2001 deve essere recuperato il 25% dei rifiuti);
l'istituzione di sistemi di restituzione, raccolta e recupero da parte degli Stati membri in base ad alcuni criteri (articolo 7);
l'istituzione di una marcatura nell'ambito di una direttiva futura (non ancora adottata) e l'adozione di un sistema di identificazione mediante la procedura di comitato (decisione 97/129/CE) (articolo 8);
i requisiti essenziali, che consentano la libera circolazione degli imballaggi nel mercato interno, e l'incentivo alla normazione da parte della Commissione (articoli 9, 10 e 18);
la definizione di valori limite per i metalli pesanti contenuti negli imballaggi (articolo 11);
l'adozione di sistemi d'informazione e formati per la presentazione dei dati attraverso la procedura di comitato (decisione 97/138/CE149), (articolo 12);
l'informazione degli utilizzatori (articolo 13);
gli strumenti economici: misure nazionali (articolo 15);
gli obblighi riguardanti la comunicazione delle informazioni e le relazioni (articolo 17).
Per ciò che concerne l'articolo 4, è ancora il decreto Ronchi a istituire un programma generale di prevenzione per ridurre la produzione di rifiuti da imballaggio: tale programma deve individuare anche le misure necessarie per aumentare la percentuale dei rifiuti di imballaggio da destinare al riutilizzo.
In relazione all'articolo 7 della direttiva, in Italia esistono sei consorzi settoriali, per la carta, la plastica, il legno, il vetro, l'acciaio e l'alluminio, che cooperano nell'ambito del CO.NA.I., il consorzio nazionale. Tutti questi consorzi sono retti da statuti approvati da decreti congiunti dei ministeri dell'Ambiente e dell'Industria. Il CO.NA.I. organizza un sistema integrato di restituzione in collaborazione con le amministrazioni pubbliche. A tal fine nel 1999 è stato sottoscritto un accordo quadro con l'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI); i sei consorzi settoriali preparano i loro contributi al programma annuale per la prevenzione e la gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio, che individua, tra l'altro, le misure necessarie per conseguire gli obiettivi di recupero e
riciclaggio fissati e determina obiettivi specifici per materiale ogni cinque anni.
Riguardo all'articolo 6 e agli obiettivi di recupero e riciclaggio, occorre dire che l'Italia, pur collocandosi all'interno delle forbici indicate come obiettivi, ha ottenuto risultati inferiori rispetto alla maggior parte dei paesi UE. Da segnalare, inoltre, che l'Italia risulta essere tra i maggiori produttori di imballaggi sia pro capite che per unità di PIL.
Già si è sottolineato come prioritaria deve essere considerata, in primo luogo, la sollecitazione di interventi in sede comunitaria al fine di addivenire alla formulazione di una direttiva più dettagliata (e quindi self executing) ed oggetto di condivisione da parte di tutti i paesi aderenti all'Unione: circostanza tanto più significativa ove si consideri il processo di ampliamento dei confini dello Stato Europeo. Una disciplina unitaria, che accomuni tutti gli Stati, è di grande utilità, sia per garantire omogeneità nella tutela dell'ambiente, sia per evitare discriminazioni tra le imprese operanti nei diversi Stati dell'Unione Europea e tentazioni di allocare attività pericolose per la salute dell'uomo in paesi caratterizzati da legislazioni più permissive.
Analoghi problemi di definizione e, quindi, di estensione della nozione giuridica di 'rifiuto' si sono presentati anche in altri paesi, quali il Lussemburgo, l'Austria ed il Regno Unito, tutti orientati verso una definizione di rifiuto tendente ad escludere alcune categorie di essi dall'ambito di operatività della direttiva. Nel caso del Regno Unito, la Commissione ha deciso di adire la Corte di Giustizia (Causa C-62/03) perché l'Environment Protection Act del 1990 prevede l'applicazione della direttiva ai soli rifiuti 'controllati', definiti in senso più restrittivo rispetto all'articolo 1 della direttiva 75/442/CEE, semplicemente come «rifiuti domestici, industriali e commerciali o qualsiasi rifiuto di questo tipo».
Per quanto attiene al versante interno, va registrata la situazione che si è venuta a creare a seguito della sentenza della Corte di Giustizia dell'11.11.2004 (C 475/02, Niselli).
In particolare, il giudice comunitario ha affermato che è ammissibile e non contrasta con le finalità della direttiva 75/442 «un'analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha intenzione di disfarsi ai sensi
dell'articolo 1, lett.a, 1o comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari».
Ne deriva la affermazione della illegittimità comunitaria dell'articolo 14 del decreto-legge n. 138 del 2002, perché i materiali che non sono utilizzati in maniera certa e richiedono una previa trasformazione sono semplici sostanze di cui i detentori si sono voluti disfare, che «devono tuttavia conservare la qualifica di rifiuti del processo di trasformazione cui sono destinati».
La questione che si è posta, all'attenzione innanzitutto della Corte di Cassazione, è quella relativa all'efficacia, nel nostro ordinamento, della citata sentenza comunitaria.
Orbene, è stato osservato in dottrina che a tale pronunzia non può conseguire la disapplicazione dell'articolo 14 da parte del giudice nazionale, dal momento che tale potere-dovere riguarda le sole ipotesi di contrasto tra una norma interna ed una comunitaria dotata di efficacia diretta; poiché nel caso di specie, la sentenza della Corte di Giustizia interviene su una direttiva non self executing, e poiché le sentenze della Corte Comunitaria hanno la stessa efficacia delle disposizioni interpretate, ne deriva che non può attribuirsi alle pronunzie del giudice comunitario efficacia diretta, rimanendo al giudice nazionale solo la strada del ricorso innanzi alla Corte Costituzionale.
Cosa che ha fatto di recente la Procura Generale presso la Corte di Cassazione, davanti alla III sezione penale della Suprema Corte, domandando «la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma successiva (l'articolo 14, n.d.e.), avente natura di norma di interpretazione autentica di disposizioni già pacificamente in vigore ed altrettanto pacificamente applicate alla luce della normativa comunitaria».
Sicché, quanto al versante giurisprudenziale, si attende una pronunzia chiarificatrice e, si spera, definitiva della Consulta.
Il panorama legislativo interno ha, tuttavia, registrato, su tale tema, l'intervento del decreto legislativo recante norme in materia ambientale, in attuazione della legge-delega 15 dicembre 2004, n. 308.
Si tratta di un intervento che, con specifico riferimento alla nozione di rifiuto, desta non poche perplessità.
In particolare, va osservato:
a) in relazione alla categoria di sottoprodotto (escluso dalla nozione di rifiuto), la certezza dell'utilizzazione è affidata alla mera dichiarazione del produttore, senza la previsione di idonei meccanismi di controllo;
b) per le materie prime secondarie proprie delle attività siderurgiche e metallurgiche, si prevede, solo per i fornitori stranieri, l'obbligo di iscriversi all'Albo Gestori Ambientali; analogo obbligo non viene introdotto per le imprese italiane, con evidente violazione dei principi comunitari in tema di concorrenza;
c) per la spedizione transfrontaliera di rifiuti, si introduce una deroga, difficilmente compatibile con le vigenti previsioni comunitarie ed internazionali, per i rottami ferrosi.
La strada della soluzione condivisa e concordata sotto forma di accordo di programma era già prevista, peraltro, dagli articoli 4, 25 e 42 del decreto Ronchi.
Tale soluzione si collega, peraltro, al Sesto Programma di azione per l'ambiente - «Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta» adottato dal Parlamento e dal Consiglio d'Europa nel 2002, che ha introdotto una nuova strategia che pone in relazione gli obiettivi della tutela dell'ambiente con gli aspetti economici.
Si tratta di una prospettiva - quella cosiddetta dello sviluppo sostenibile - che è stata, in questi anni, interpretata - e giustamente - nel senso dell'esigenza di sostenere quelle forme di iniziativa economica privata che fossero in linea con la salvaguardia della salute e dell'ambiente.
Ma vi è un altro versante, in larga parte inesplorato, che merita di essere considerato, soprattutto per la sua valenza prospettica; ed è quello relativo all'ambiente come risorsa fondamentale del processo produttivo.
Molteplici sono gli aspetti che fanno dell'ambiente un fattore direttamente incidente sulle attività produttive.
In questa sede mette conto porre in evidenza come la salvaguardia della salubrità delle condizioni ambientali costituisca un presupposto indispensabile per attribuire affidabilità alla produzione che utilizza quelle risorse, sia come materia prima del ciclo produttivo che come ambito di insediamento.
La facilità d'accesso alle informazioni in materia ambientale e, soprattutto, la loro capillare diffusione hanno aggiunto un ulteriore variabile alle condizioni che regolano il mercato: la qualità ambientale della produzione e dei servizi offerti.
Le vicende relative alle ricadute produttive dell'influenza aviaria, o, quelle relative ai rischi per l'intera catena trofica segnalati nel rapporto dell'ICRAM per l'area di Bagnoli, costituiscono allarmanti richiami alla necessità, per le imprese, di vedere nell'ambiente una condizione essenziale per la propria sopravvivenza, anche finanziaria.
In altri termini, le imprese che si troveranno ad investire nella tutela ambientale, in tecnologie pulite, in aderenza con il progresso scientifico e tecnologico, si troveranno ad investire anche in un futuro sociale ed economico che ne potrà accrescere la competitività.
Gli investimenti contro l'inquinamento appaiono oggi alquanto costosi; ma sono sopportabili e tanto più lo saranno quanto più lo sviluppo tecnologico ne ridurrà i costi.
Se l'ambiente è una risorsa per l'impresa, allora bisogna che si consenta all'impresa di modulare il proprio rapporto con l'ambiente secondo parametri anche di economicità.
Dunque, non più un solo paradigma di rapporto, autoritativamente imposto; bensì, più schemi, a seconda della tipologia e
dimensione delle imprese, sui quali ritagliare l'intero sistema delle autorizzazioni e dei controlli.
Questa è, ad avviso della Commissione, la road map per addivenire ad una soluzione ragionevole anche in relazione alla questione della nozione di rifiuto.
Occorre ridare alle imprese l'opportunità, controllata e monitorata, di definire le coordinate concrete del programma imprenditoriale in relazione anche alla tutela dell'ambiente dove ha scelto di operare; se l'impresa comprenderà l'importanza dell'ambiente per la valorizzazione del proprio prodotto, custodirà gelosamente il ruolo di protagonista delle politiche ambientali.
La seconda lettera di messa in mora, notificata all'Italia, sempre con una decisione del 16 marzo 2005, è il prosieguo di un procedimento avviato per la prima volta con decisione della Commissione 1999/4797 e già sfociata in una sentenza di condanna della Corte di Giustizia: si contesta la violazione delle medesime direttive per il caso di tre discariche illegali di rifiuti pericolosi ubicate in un ex sito industriale a Rodano (Milano): non risulta, infatti, che lo Stato italiano abbia provveduto ad eliminare i rifiuti in questione né ad avviare la bonifica del sito.
Il 5 luglio del 2005 si registra un nuovo avvertimento della Commissione all'Italia sulla questione delle 'procedure semplificate di recupero'.
Un'altra decisione risalente alla stessa data, di chiusura del caso aperto con la decisione 1998/4916, è stata quella relativa alla
violazione della direttiva 98/101/CE su batterie e accumulatori contenenti certe sostanze pericolose. Questa decisione fa il paio con un'altra importante decisione di chiusura di un caso aperto dalla precedente decisione 2002/5192, adottata dalla Commissione sempre alla stessa data: si tratta del caso della discarica di Malagrotta, in ordine alla quale era stato inviato un ammonimento dal momento che i gestori della discarica, in fase di esaurimento, non avevano presentato un piano di riassetto, come previsto dalla direttiva 75/442/CEE.
Con un'altra decisione del 5 luglio, la Commissione ha invece inviato all'Italia un parere motivato, sulla base dell'articolo 226 del Trattato CE, in relazione a un caso aperto dalla lettera di messa in mora contenuta nella precedente decisione 2002/2284 e relativo alla mancanza di alcuni piani regionali di smaltimento dei rifiuti, previsti come obbligatori dalla direttiva 75/442/CEE sui rifiuti in generale.
Sempre alla stessa data, la Commissione ha deciso per il ricorso alla Corte in relazione a un caso di presunta violazione della direttiva 2000/53/CE, relativa ai veicoli fuori uso: tale procedura era iniziata con un primo ammonimento espresso con la decisione 2003/2204.
Altri due pareri motivati hanno interessato sfavorevolmente l'Italia lo scorso 5 luglio, per presunte violazioni di due direttive, la 2002/95/CE e la 2002/96/CE, relative, rispettivamente, alla restrizione dell'uso di certe sostanze pericolose negli apparecchi elettrici ed elettronici e ai rifiuti derivanti da apparecchi elettrici ed elettronici: si trattava di due procedimento aperti con due primi ammonimenti presi, rispettivamente, con decisione 2004/0935/CE e 2004/0936/CE.
Infine, nell'ottobre del 2005, la Commissione Europea ha deciso di procedere contro l'Italia ed altri Stati membri per undici casi di violazione della normativa ambientale. Dieci dei casi in oggetto riguardano la mancata trasmissione di informazioni fondamentali sull'inquinamento atmosferico, la protezione della natura, la gestione dei rifiuti, la valutazione di impatto ambientale e le biotecnologie.
Uno solo, tra gli undici procedimenti di infrazione avviati, riguarda un'ipotesi di violazione diretta di normativa comunitaria, mentre gli altri dieci si riferiscono all'inottemperanza dell'obbligo di informazione, da parte dello Stato italiano, nei confronti della Commissione Europea, indipendentemente, quindi, dal riscontro di un puntuale contrasto tra l'attuazione del diritto comunitario e la normativa europea in tema ambientale. La Commissione ha deciso di inviare al governo italiano un parere motivato complementare, per il modo in cui l'Italia ha applicato la direttiva comunitaria 85/337/CEE, così come modificata dalla direttiva 97/11/CE, sulla valutazione dell'impatto ambientale (VIA) rispetto alla realizzazione delle «infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale», di cui alla legge 443/2001 (cd. «legge obiettivo») e successivi decreti delegati. La normativa italiana prevede una procedura di valutazione dell'impatto ambientale relativa al progetto preliminare differenziata e semplificata per i progetti definiti 'strategici', procedura che, secondo la Commissione, non garantisce sufficientemente che la VIA sia aggiornata qualora un progetto sia modificato rispetto a quello iniziale.
La direttiva VIA impone alle autorità di esaminare l'impatto ambientale di progetti di infrastrutture importanti e di consultare la popolazione prima di decidere se autorizzare la realizzazione. Essa deve essere interpretata nel senso che la VIA sia aggiornata in caso di modifiche apportate un progetto, che possano cambiarne significativamente l'impatto complessivo rispetto alla versione iniziale. In questo senso, dunque, la normativa italiana richiamata configurerebbe una violazione degli obiettivi posti dalla direttiva VIA.
Le altre procedure di infrazione avviate riguardano una presunta mancanza di cooperazione con la Commissione nonché la materia dei rifiuti; relativamente a quest'ultima si segnalano:
due casi riguardanti l'incenerimento di rifiuti, casi sollevati, rispettivamente, con decisioni della Commissione 2005/4084 e 2004/5143; il primo riguarda il progetto di un grande inceneritore (con una capacità di 240 000 t/anno) a Ischia Podetti (Trento), di cui non è stato valutato l'impatto su tre siti di interesse comunitario posti nelle vicinanze; l'altro riguarda un impianto per l'incenerimento di combustibile derivato da rifiuti (CDR) a Corteolona (Pavia), con una capacità di 60 000 t/anno, costruito in violazione della direttiva comunitaria sulla valutazione di impatto ambientale;
un caso riguardante la gestione dei rifiuti di imballaggio nella Regione Campania, che, come sopra si è detto, non ha istituito sistemi di restituzione e raccolta dei rifiuti in conformità ai requisiti della direttiva comunitaria sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio;
infine, un caso, sollevato con la lettera di messa in mora espressa con decisione 2005/2004, relativo alla gestione dei rifiuti del sito industriale Zanussi di Conegliano Veneto (Treviso).
già si è detto della centralità - anche culturale ed economica - delle soluzioni da adottare per definire il tema della nozione giuridica di rifiuto;
per ciò che concerne l'obbligo di predisposizione dei piani di gestione dei rifiuti, ex direttiva 75/442/CE, appare indispensabile implementare le forme di cooperazione con le istituzioni comunitarie, fornendo adeguate e dettagliate informazioni sui piani regionali di smaltimento dei rifiuti, onde vanificare le procedure di infrazione in atto contro l'Italia ed adeguare i piani alla normativa europea;
in relazione alla tematica dei rifiuti da imballaggio, di cui alla direttiva 94/62/CE, è necessario inserire nei piani di gestione dei rifiuti un capitolo specifico relativo ai rifiuti di imballaggio, anche per la particolare rilevanza che il problema assume in Italia, paese che
risulta essere tra i maggiori produttori pro capite di tale tipologia di rifiuti;
altri aspetti nodali sono rappresentati dai veicoli fuori uso e dai rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, su cui la Commissione ha svolto specifici approfondimenti.
Nonostante gli ultimi decenni del XX secolo siano stati caratterizzati dall'accelerata innovazione tecnologica, dal miglioramento degli impianti industriali nonché da un rinnovato quadro normativo e regolamentare cresciuto di pari passo con la coscienza collettiva di salvaguardia e di tutela del bene ambientale e della salute, molte attività umane continuano ancora oggi a causare un notevole impatto nelle diverse matrici ambientali (aria, acqua, suolo e sottosuolo) attraverso le emissioni atmosferiche e idriche e, in particolare attraverso la produzione e lo smaltimento dei rifiuti.
Sebbene tale pressione sull'ambiente si manifesti durante tutto il ciclo di vita di un prodotto: reperimento delle materie prime, effettuazione del processo produttivo, distribuzione, vendita e consumo, lo smaltimento finale dei rifiuti e, in particolare di quelli industriali, rappresenta l'indice più significativo dell'impatto che l'attività umana può avere in un determinato contesto territoriale.
Fra il 1997 e il 2002, in Italia ed in molti altri Stati membri dell'Unione europea è stato registrato un forte aumento della produzione dei rifiuti derivanti dalle attività economiche, fra cui l'industria manifatturiera, quella mineraria, il settore edile (costruzione e demolizione) e l'agricoltura. In linea generale, le attività di tipo industriale sono responsabili di circa il 75% dei rifiuti prodotti, mentre il restante 25% deriva dalle attività di origine domestica. Dai dati pubblicati nel Rapporto Rifiuti 2004 (Fonte: APAT, ONR), nel 2002 in Italia sono stati prodotti circa 92,1 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, di cui 49,3 milioni di tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi, 4,9 milioni di tonnellate di rifiuti speciali pericolosi, 37,3 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzione e demolizione e circa 401 mila tonnellate di rifiuti non determinati (per i quali non è stato possibile stabilire la categoria di attività produttiva (NACE) o il Codice dell'Elenco Europeo di appartenenza).
Al problema della produzione fa seguito quello della gestione e, in particolare, dello smaltimento finale di tali quantità di rifiuti che non sempre, purtroppo, avviene in maniera corretta se non addirittura illegale e criminale. È questo tipo di attività la causa principale della contaminazione e dell'inquinamento di vaste aree del territorio il recupero delle quali è diventato uno dei problemi ambientali di maggiore rilevanza sociale, economica e politica.
Tali situazioni infatti, oltre a rappresentare un pericolo per l'ambiente, lo sono anche per la salute umana, in quanto le sostanze che contaminano i suoli, il sottosuolo e le risorse idriche migrano facilmente attraverso i differenti comparti dell'ambiente fino a raggiungere la catena alimentare e di conseguenza il bersaglio a più elevata criticità: l'uomo.
Il problema delle bonifiche è quindi strettamente connesso con quello della gestione dei rifiuti, ed è in questo contesto che i lavori della Commissione d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti hanno posto una particolare attenzione a tale tematica, affrontandola sia in riferimento alle attività poste in essere dalle Regioni attraverso la redazione dei Piani Regionali di Bonifica, previsti dalla Legge 441/87, sia in riferimento alle attività definite dal «Piano Nazionale di Bonifica e Ripristino Ambientale» di cui all'articolo 1, della legge 426 del 1998, senza peraltro trascurare le molteplici segnalazioni e denunce provenienti in ordine a situazioni di degrado e di abbandono di aree del territorio ove, molto spesso, sono state verificate attività di illecito smaltimento.
Tale atto è stato perfezionato nel corso degli anni, prima con il Decreto del 16 maggio 1989, che lo ha integrato con la definizione di specifici criteri e linee guida per la redazione dei piani stessi, e poi con l'emanazione del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n.22, che viene considerato il documento cardine anche per quanto riguarda la pianificazione territoriale delle attività di bonifica dei siti inquinati.
Nello specifico, il c.d. Decreto Ronchi norma non solo i contenuti dei Piani ma anche le competenze delle Pubbliche Amministrazioni.
In merito ai
a) l'ordine di priorità degli interventi, basato su un criterio di valutazione elaborato dall'ANPA (oggi APAT);
b) l'individuazione di siti da bonificare e delle caratteristiche generali dell'inquinamento presente;
c) le modalità degli interventi di bonifica e di risanamento ambientale, che privilegino prioritariamente l'impiego dei materiali provenienti dalle attività di recupero dei rifiuti urbani;
d) la stima degli oneri finanziari;
e) le modalità di smaltimento dei materiali da asportare.
L'ordine di priorità degli interventi deve individuare secondo l'articolo17, comma 12, del decreto legislativo n. 22 del 1997:
a) gli ambiti interessati, la caratterizzazione e il livello degli inquinanti presenti;
b) i soggetti cui compete l'intervento di bonifica;
c) gli enti di cui le regione intende avvalersi per l'esecuzione d'ufficio;
d) la stima degli oneri finanziari.
A nove anni dall'emanazione del decreto legislativo n. 22 del 1997, con un percorso molto lento e faticoso, tutte le Regioni hanno definito il proprio piano di bonifica anche se molti dei documenti approvati risultano oggi da aggiornare se non addirittura da rielaborare.
Attualmente, come risulta da un lavoro predisposto dalla Direzione Qualità della Vita del Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio, solo per 11 Regioni (Basilicata, Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Toscana, Provincia di Trento, Umbria e Veneto) si può parlare di un Piano Regionale di Bonifica
Più in generale, comunque, l'analisi dei Piani regionali, evidenzia una carenza di informazioni specifiche; la maggior parte dei Piani, inoltre, è stata redatta seguendo interpretazioni individuali ed i contenuti sono stati integrati con una serie di informazioni di carattere generale o bibliografico che, a volte, non rispecchiano la reale situazione regionale.
Tali criticità tuttavia, sono riconducibili soprattutto ad una carenza di carattere normativo e regolamentare laddove risulta di difficile interpretazione, ad esempio, la definizione stessa di «sito contaminato» riferito all'illecita attività di abbandono dei rifiuti.
Proprio questa criticità ha fatto si che molti Piani Regionali siano sovra o (più spesso) sotto-dimensionati rispetto alla realtà e che, in
ogni caso, non rispondano alla funzione per la quale sono stati pensati.
D'altro canto, la principale fonte di conoscenza della condizione in cui versa il territorio sotto il profilo dell'inquinamento di determinate matrici ambientali è rappresentata proprio dai Piani Regionali di Bonifica.
È auspicabile, in tal senso, prevedere una periodicità, almeno biennale, nell'aggiornamento dei Piani anche al fine di monitorare l'andamento dell'inquinamento e del ripristino ambientale del territorio degradato dai fenomeni di contaminazione.
È necessario inoltre, portare a compimento la realizzazione dell'anagrafe prevista dalla normativa, in modo di avere un quadro omogeneo sullo stato di inquinamento del territorio. L'anagrafe, tra l'altro, potrebbe essere a sua volta inserita in una banca dati a livello europeo, finalizzata ad identificare le tipologie di siti inquinati più diffuse, le priorità d'intervento, i sistemi adottati per la messa in sicurezza e la bonifica dei siti, al fine di un proficuo scambio delle esperienze effettuate nei diversi Paesi comunitari.
Le numerose audizioni dei rappresentanti delle istituzioni nazionali e locali, delle imprese, del mondo del lavoro e dei cittadini coinvolti dalle e nelle predette attività, nonché le missioni che la Commissione ha ritenuto di svolgere in alcuni dei siti inseriti nel piano (si ricordano, a tal proposito, le missioni svolte presso la Fibronit di Bari, nella zona industriale di Taranto, nell'area di Bagnoli, nella zona industriale di Porto Marghera, nel sito di Cengio) rappresentano la volontà comune di tutti i parlamentari membri, di porre al centro degli interessi istituzionali una tematica fortemente legata alle politiche di risanamento, di sicurezza, di sviluppo, e di sostenibilità ambientale che, come si è detto, denunciano ancora forti ritardi.
Se si considera che i cinquanta siti di interesse nazionale inseriti nel Piano sono situati nel territorio di tutte le Regioni; che oltre venti milioni di cittadini italiani vivono o lavorano nelle vicinanze di questi siti e, in tal senso, direttamente interessati, ovvero, indirettamente coinvolti dalla necessità che risorse pubbliche vengano investite nelle azioni di risanamento, si può ben comprendere quanto queste problematiche debbano trovare risposte soddisfacenti nell'azione politica ed amministrativa della classe dirigente del Paese.
Operare le iniziative volte al risanamento ambientale di questi territori, al recupero di intere aree industriali, alla riconversione di tali aree anche a fini produttivi diversi, significa, tra l'altro, recuperare i cittadini ad una maggiore fiducia nei confronti della politica e delle
istituzioni in genere; ma significa anche recuperare gli stessi cittadini ad un nuovo rapporto di fiducia verso il mondo imprenditoriale, a volte compromesso proprio da fatti di inquinamento e di abuso nei confronti di quel bene di proprietà comune che è l'ambiente.
Tali iniziative possono rappresentare tutto questo nonché, possono essere, se si superano ritardi e condizionamenti anche di carattere politico che, a volte, ne rallentano il corso, occasione per la creazione di nuove opportunità di lavoro, per lo sviluppo di attività di ricerca e di crescita di un tessuto economico produttivo basato sui servizi alle imprese e ai cittadini.
Il Piano Nazionale di Bonifica avviato nel 2001 può rappresentare un passo importante nel senso fin qui indicato anche se, ad avviso della Commissione, debbono essere fatti ulteriori sforzi da parte di tutte le realtà istituzionali pubbliche e imprenditoriali private che vi sono coinvolte, soprattutto nel senso di dotarlo di nuove e maggiori risorse economiche e, ove possibile, di meccanismi procedimentali più rapidi che ne snelliscano l'impianto burocratico.
In tal senso appare molto positivo il ricorso alle procedure previste dall'articolo 14 (Indizione delle Conferenze di Servizio) della legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo svolto dalla Direzione della Qualità della Vita del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio.
Alla data del 17 gennaio 2006, per tutti i 50 siti inseriti nel Piano, risulta già effettuata l'attività di perimetrazione delle aree interessate dai progetti.
Le attività del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio nel campo delle bonifiche sono essenzialmente: la definizione dei criteri per l'individuazione dei siti inquinati di interesse nazionale, per la messa in sicurezza, per la caratterizzazione e per la bonifica e il ripristino ambientale dei siti medesimi con particolare riferimento a suolo, sottosuolo, falda, acque superficiali e sedimenti, aggiornamento e attuazione del Programma Nazionale di Bonifica (decreto ministeriale n. 468 del 2001) e formazione del piano straordinario per la bonifica e il recupero ambientale di aree industriali prioritarie, ivi comprese quelle ex estrattive minerarie.
Negli otto anni trascorsi dall'emanazione dell'articolo17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Decreto Ronchi), il quadro normativo disciplinante le attività di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati si è definito:
sotto il profilo tecnico, attraverso l'emanazione del decreto ministeriale n. 471 del 1999 «Regolamento recante criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 e ss. mm. e ii.»;
sotto il profilo dell'individuazione dei siti di maggiore criticità con l'identificazione di 49 siti: 14 siti dall'articolo 1 della legge n. 426 del 1998, 3 siti dall'articolo 114 della legge n. 388 del 2000 - Finanziaria 2001, 23 siti con il «Programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale» di cui al decreto 18 settembre 2001, n. 468, 9 siti dall'articolo 14 della legge 31 luglio 2002, n. 179 «Disposizioni
in materia ambientale». Da notare che gli interventi da considerare sono in realtà 50 atteso che i siti di Gela e Priolo (sito unico nella legge n. 426 del 1998) rappresentano due realtà geografiche ben distinte;
sotto il profilo finanziario attraverso lo stanziamento ed il conseguente riparto disposto dal decreto ministeriale n. 468 del 2001 di circa 1.060 MLD di vecchie lire.
Tale sistema può ben dirsi esteso anche al lavoro di questa Commissione che, ad esempio, anche a seguito di audizioni di amministratori locali, ha ritenuto utile rappresentare al Ministero dell'Ambiente, l'opportunità di estendere l'area perimetrale interessata dalle attività di bonifica del sito nazionale dell'Agro Aversano ad alcuni territori dei comuni di Acerra, Nola, Marigliano, Mariglianella, Brusciano, San Vitaliano, Visciano, Saviano, Cicciano, Tufino, Casamarciano, Comiziano, Roccarainola e Cimitile.
Tale iniziativa, oltre ad aver raccolto il favore delle amministrazioni e delle comunità locali, è stato recepita dal Ministero dell'Ambiente con l'adozione del decreto di riperimetrazione dell'area in questione.
Pertanto, si sono svolte ripetute Conferenze di Servizi, istruttorie e decisorie, per esaminare gli elaborati presentati dai diversi soggetti privati e pubblici, titolari di aree ubicate all'interno dei perimetri dei siti di interesse nazionale ed, in taluni casi, le stesse sono avvenute nelle opportune sedi regionali onde consentire una più ampia partecipazione e, conseguentemente, un migliore apprendimento dei vari profili delle singole situazioni.
Ai fini altresì del progressivo riutilizzo delle aree inquinate, si è proceduto anche per stralci relativi ad aree ove sussistono realtà di deindustrializzazione e prospettive di riuso. È stato inoltre perfezionato un sistema per «svincolare aree comprese nei perimetri per le quali siano state accertate condizioni di conformità ai limiti tabellari per le rispettive destinazioni d'uso». Analogamente è stata incrementata una specifica procedura per consentire la realizzazione di progetti
di interesse pubblico e di infrastrutture di pubblica utilità in aree comprese all'interno dei perimetri.
Da notare che, come previsto dal decreto ministeriale n. 471 del 1999 (articolo 10, comma 11) nei siti interessati, l'attuazione delle misure di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza e bonifica, avviene con modalità compatibili con la prosecuzione delle attività produttive ed in condizioni da garantire, comunque, la tutela della salute pubblica e dell'ambiente. In questa logica si sono semplificati i complessi meccanismi giuridici che governano gli interventi di dragaggio e formazione di casse di colmata in aree marittime e portuali.
Si sono tenute numerose riunioni sui siti di interesse nazionale, suddivise in:
Riunioni Tecniche sulle problematiche connesse con i Piani di caratterizzazione e i progetti preliminari e definitivi di bonifica nonché sugli interventi di messa in sicurezza d'emergenza dei suoli e delle falde, alle quali hanno partecipato i rappresentanti della Direzione, dei principali Istituti tecnico-scientifici italiani (APAT, ISS, ENEA, ICRAM, ISPESL) nonché delle tecnostrutture locali (ARPA, PMP, LIP, etc.).
Conferenze di Servizi istruttorie e decisorie, alle quali hanno partecipato i rappresentanti dei principali Istituti tecnico-scientifici italiani (APAT, ISS, ENEA, ICRAM, ISPESL), dei Ministeri della Sanità e delle Attività Produttive, delle Regioni, degli Enti Locali, delle tecnostrutture locali (ARPA, PMP, LIP, etc.), dei Commissari di Governo ove presenti, i rappresentanti sindacali, i rappresentanti dei Comitati di cittadini e delle associazioni ambientaliste.
1. censimento dei siti minerari abbandonati (articolo 22 della legge n. 179 del 2002);
2. approvazione del Piano straordinario di bonifica di aree industriali prioritarie comprese quelle ex estrattive minerarie con il Decreto interministeriale 31 luglio 2003 di approvazione del Piano di completamento della bonifica e del recupero ambientale dell'area industriale di Bagnoli;
3. mappatura della presenza di amianto sul territorio nazionale e degli interventi di bonifica urgenti (articolo 20 della legge n. 93 del 2001).
dell'inquinamento indotto dall'industria, deve indurre il Paese ad attuare efficaci strategie di gestione del problema delle bonifiche, in modo che siano ambientalmente sostenibili.
All'estero il processo è già stato avviato da tempo e ciò può costituire uno stimolo affinché anche l'Italia si impegni seriamente ad adeguare i propri sistemi di gestione a quelli adottati da altri Paesi europei ed extraeuropei.
L'Italia ha avviato questo processo relativamente da poco tempo, avendo solo nel 1989, con il ricordato decreto ministeriale del 16 maggio 1989, varato un progetto serio per la valutazione dell'entità del problema che è il presupposto per realizzare una gestione delle bonifiche orientata alla sostenibilità ambientale.
Al fine di rendere concreto il contributo delle attività di bonifica, alla scelta di uno «sviluppo sostenibile», la Commissione d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti evidenzia come sia necessario perseguire i seguenti obiettivi:
migliorare il grado di conoscenza nel campo delle aree e dei siti industriali inquinati a livello nazionale;
sviluppare e applicare le tecnologie di bonifica a basso impatto ambientale;
sviluppare attività di ricerca finalizzate alla sperimentazione sulle bonifiche e sul ripristino ambientale di ecosistemi compromessi dall'inquinamento;
sviluppare sistemi di monitoraggio e prevenzione dell'inquinamento sia del suolo che indotto nelle acque superficiali e sotterranee;
formare figure professionali ad elevata qualificazione nel campo delle bonifiche di aree e siti inquinati.
In tal senso, costituisce un'indispensabile strumento di partenza e di supporto per le attività di messa in sicurezza e bonifica dei siti inquinati, l'elaborazione di un quadro conoscitivo completo e affidabile della distribuzione e della qualità dei siti inquinati a livello nazionale.
Sarà inoltre estremamente utile ricorrere all'utilizzo di Sistemi Informativi Territoriali, che consentano la georeferenziazione dei siti e la gestione flessibile delle informazioni mediante banche dati correlate.
Lo sviluppo di attività di ricerca finalizzate alla sperimentazione sulle bonifiche e sul ripristino ambientale di ecosistemi compromessi dall'inquinamento, con particolare riferimento alle tecnologie di bonifica a basso impatto ambientale, è di fondamentale importanza
in quanto la mitigazione degli effetti dovuti all'impatto dei siti contaminati sull'ambiente impone l'utilizzo di tecnologie avanzate per l'eliminazione della fonte inquinante.
In passato, il ricorso a tecnologie di tipo chimico-fisico, hanno infatti dimostrato i loro limiti legati essenzialmente alla produzione di residui pericolosi che, a loro volta, debbono essere smaltiti ricorrendo all'utilizzo di impianti di discarica.
Anche in questo caso quindi, l'innovazione tecnologica gioca un ruolo essenziale nello sviluppo sostenibile ed in tale direzione di recente sono state sviluppate tecnologie basate sull'utilizzo di processi a basso impatto ambientale quali quelli biologici (bioremediation), che sono in grado di degradare e/o innocuizzare le sostanze inquinanti presenti sia nei siti industriali dismessi che nelle discariche di rifiuti.
Appare quindi comprensibile quanto sia necessario ed improcrastinabile dedicare sforzi e risorse alla ricerca e alla sperimentazione in questo promettente settore tecnologico attraverso l'attivazione di linee di sperimentazione sulle tecnologie innovative e a basso impatto ambientale di messa in sicurezza e bonifica di aree e siti industriali contaminati.
Al fine di attuare una vera prevenzione nel campo dell'inquinamento è necessario definire in ogni sito industriale potenzialmente contaminato l'entità e la capacità di diffusione delle eventuali fonti di contaminazione.
Il problema è strettamente collegato alla caratterizzazione delle matrici ambientali, normalmente effettuata mediante sistemi di monitoraggio e controllo. Tali sistemi debbono essere mantenuti in efficienza sia durante la fase di produzione industriale sia in quella di ripristino ambientale dopo la dismissione dello stabilimento, al fine di verificare che gli interventi adottati raggiungano l'obiettivo prefissato, costituito essenzialmente dal contenimento dell'eventuale inquinamento all'interno del sito sottoposto alle operazioni di bonifica.
Le metodologie di caratterizzazione, di monitoraggio e di controllo debbono essere classificate in funzione delle tipologie di inquinamento più diffuse sul territorio nazionale, al fine di normare e standardizzare le procedure e le tecniche da utilizzare.
Va detto, infine, che la soluzione del problema della bonifica dei siti inquinati in Italia è sicuramente condizionata dalla disponibilità di tecnici con competenza elevata e preparati ad affrontare la problematica in oggetto. Questa affermazione vale sia per il settore privato, nel quale è necessario sviluppare progetti di caratterizzazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale utilizzando le migliori tecnologie disponibili sul mercato internazionale, sia per il settore pubblico, nel quale è indispensabile valutare i risultati della progettazione elaborata dai soggetti privati.
Si ricorda, peraltro, che proprio la Pubblica Amministrazione è deputata dalle norme vigenti a perimetrare i siti inquinati e ad approvare i progetti di messa in sicurezza e/o bonifica (vedi le competenze del Ministero dell'Ambiente per i siti di interesse nazionale).
In tale contesto, appare evidente come si renda necessario dedicare cospicue risorse anche alle attività di formazione e di crescita di personale specializzato ad affrontare questa problematica.
La Commissione ha dedicato particolare attenzione alle realtà consortili (il Consorzio obbligatorio degli oli usati, il Consorzio obbligatorio per le batterie al piombo esauste e i rifiuti piombosi, il Consorzio nazionale di raccolta e trattamento degli oli e dei grassi vegetali ed animali, il Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti e dei beni in polietilene, il Consorzio nazionale recupero e riciclo degli Imballaggi a base cellulosica ed il Consorzio recupero imballaggi in legno) analizzate nella loro dinamicità, con riferimento alle numerose iniziative da essi poste in essere, nella loro efficienza nonché nel più generale quadro dei principi nazionali e comunitari.
I Consorzi obbligatori per la gestione dei rifiuti riuniscono le imprese che partecipano al ciclo di vita di alcuni materiali, dedicando particolare attenzione al loro recupero; essi si occupano anche di promuovere ed incentivare la raccolta ed il riciclo, offrendo consulenza gratuita ad aspiranti imprenditori del settore e a tutti i cittadini interessati.
La peculiarità che riguarda tali Consorzi obbligatori, è la duplice presenza di un sistema ad organizzazione privatistica, che garantisce un elevato grado di imprenditorialità, ed un sistema di tipo pubblicistico, che assicura l'indirizzo ed il controllo sull'operato del Consorzio, attraverso la partecipazione dei rappresentanti dei Ministeri dell'Ambiente e dell'Industria negli organi consortili, nonché attraverso i decreti ministeriali di attuazione per la gestione di esso, previsti dalla legge istitutiva.
In un mercato delicato come quello dei rifiuti, l'improvvisazione non paga e difatti le singole imprese, in particolare quelle di piccole
dimensioni, sono fuori dalla portata dei costi per la raccolta, il trasporto e lo smaltimento. Così un notevole contributo e aiuto nella gestione dei rifiuti, viene proprio dai Consorzi obbligatori, i quali con il capillare sistema di raccolta organizzato, ed un sistema di distribuzione equa dei costi, toccano tutto il territorio nazionale.
In sostanza, attraverso i Consorzi obbligatori, alcune imprese demandano per legge, all'organizzazione comune il potere di disciplinare attività di recupero e smaltimento, di determinati rifiuti. In questi termini ci troviamo di fronte ad un organismo nel quale convivono due esigenze contrapposte, quella di politica ambientale e salute pubblica e quella economica o di autonomia imprenditoriale, legata alla possibilità di riciclaggio.
Sia la protezione ambientale, che l'attività economica sono, come si è più volte ribadito nel corso della presente Relazione, principi tutelati dal nostro ordinamento.
Con riferimento all'operatività di siffatti principi, con particolare riguardo ai consorzi obbligatori, si impongono alcuni interrogativi.
Trattandosi, come si è detto, di consorzi che operano secondo un modello di obbligatorietà, e nel quale convivono interessi contrapposti, come si giustifica il limite alla libera iniziativa economica delle imprese che vi fanno parte? Quale sarà la corretta ponderazione degli interessi in gioco? L'esigenza di tener conto della forte connessione degli aspetti economici con la politica ambientale, venne sottolineato dalla Comunità europea, nel I Programma di Azione in materia ambientale del 22 novembre 1973: si diceva che lo sviluppo delle attività economiche nella Comunità, dipendeva dal miglioramento delle condizioni di vita attraverso la eliminazione degli inconvenienti ambientali e la salvaguardia delle risorse naturali.
Al fine di prevenire e ridurre l'inquinamento, questo ed i due successivi Programmi di Azione in materia ambientale, hanno proposto il principio «chi inquina paga». Con l'Atto unico europeo del 1986, il principio suddetto è stato previsto solennemente all'articolo 130 R, tra le linee d'azione della politica comunitaria in materia ambientale.
Alla base della norma si ribadisce l'importanza per la tutela dell'ambiente, del principio «chi inquina paga» al fine di disincentivare chi inquina, attribuendogli i costi dell'inquinamento causato; il principio, sempre in base all'articolo 130 R, viene poi ricollegato agli strumenti «dell'azione preventiva e della correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all'ambiente», privilegiandosi la prevenzione piuttosto che la riparazione dei danni già causati. La 'costituzionalizzazione' del principio «chi inquina paga» nell'ordinamento comunitario, attraverso l'articolo 130 R, ha comportato che, una volta recepito l'Atto unico europeo con la legge 23 dicembre 1986, n. 909, la 'costituzionalizzazione' riguardasse anche il nostro ordinamento.
È necessario quindi tener conto del principio comunitario, peraltro richiamato dalle leggi di istituzione dei Consorzi obbligatori, per capire il bilanciamento degli interessi presenti nei peculiari organismi.
Da quanto sopra osservato, deriva che il principio «chi inquina paga» viene fatto rientrare nel nostro ordinamento, tra i limiti posti legislativamente al diritto di cui all'articolo 41 della Costituzione.
Infatti, accanto alla proclamata libertà di iniziativa economica ex articolo 41, comma 1, si afferma al comma 2 che essa «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» pertanto «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» (comma 3). In sostanza la libertà in oggetto non è incondizionata, ma incontra dei limiti qualora si ponga «in contrasto con l'utilità sociale», addirittura in tal caso si chiede l'intervento del legislatore ad imporre programmi opportuni affinché l'attività economica «possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
Orbene, dato che la salvaguardia ambientale, che è l'obiettivo istituzionale dei Consorzi obbligatori per la gestione dei rifiuti, rientra nel concetto di «utilità sociale», consegue la incompatibilità con l'articolo 41 Cost., di qualsiasi norma ordinaria che non sia conforme al principio 'chi inquina paga'. L'obbligatorietà del Consorzio trova pertanto giustificazione, finora, nella «utilità sociale» dell'attività di raccolta e recupero di rifiuti a prevenzione dell'inquinamento, da esso svolta; mentre la limitazione dell'iniziativa economica di ciascuna impresa obbligata a partecipare è necessariamente posta affinché l'attività imprenditoriale «sia indirizzata e coordinata a fini sociali». Ciò deriva indirettamente per aver demandato al Consorzio l'organizzazione comune di gestione.
Peraltro lo stesso Decreto Ronchi nei principi generali, precisa all'articolo 2 che «la gestione dei rifiuti costituisce attività di pubblico interesse».
Riguardo l'obbligo di far parte al Consorzio obbligatorio, posto in capo alle imprese coinvolte nella gestione dei rifiuti, da più parti ci è chiesti se, in un'ottica di stampo pluralista, che comporta l'autodeterminazione e la competizione tra soggetti sociali e dove il limite costituzionale alla forme di associazione obbligatoria assume rilievo centrale, questo meccanismo violi l'articolo 18, Cost., nel suo aspetto negativo, corrispondente alla libertà di ciascun soggetto di non aderire ad associazioni. In effetti l'articolo 18 garantisce la generica libertà di tutti i cittadini di associarsi per lo svolgimento di certe attività, la cui finalità non sia vietata ad essi da legge penale; allo stesso tempo, il risvolto negativo della norma lascia liberi i cittadini nella formazione o meno di associazioni per perseguire i loro fini leciti.
Tuttavia se si ritiene, come avviene ormai pacificamente in dottrina, di dover applicare l'articolo 18 anche alla figura delle imprese consorziate, la libertà di non associazione non sarebbe violata con il meccanismo consortile obbligatorio, poiché il legislatore nell'imporre tale partecipazione adduce motivi di protezione ambientale, facendosi pertanto portatore di interessi pubblici. In sostanza in presenza di un concorso di interessi pubblici e privati, lo Stato portatore degli interessi collettivi e generali per eccellenza, è legittimato a fare dei bilanciamenti con gli altri valori costituzionali, anche a svantaggio di interessi privati come nel nostro caso, quello della libertà di associazione.
Altro problema da affrontare in materia di Consorzi obbligatori per la gestione dei rifiuti, riguarda l'aspetto del loro finanziamento.
Gli aspetti organizzativi ed economici sono elementi determinanti per il reale funzionamento dei Consorzi: l'adeguata disponibilità finanziaria rappresenta lo strumento economico che garantisce l'operato del Consorzio.
Di ricorso a strumenti economici si parlava già nell'ambito della politica comunitaria in materia ambientale. In questo caso il richiamo ai contributi, per garantire il raggiungimento degli obiettivi istituzionali consortili, trova fondamento nella direttiva n. 75/439, articolo 14 per il Consorzio obbligatorio degli oli usati, nella direttiva n. 91/157, articolo 7 per il Consorzio obbligatorio delle batterie, ed entrambe derivano dal principio generale «chi inquina paga». Le leggi di istituzione nazionali assoggettano le imprese consorziate al pagamento di contributi al Consorzio, per finanziare i costi sostenuti nello svolgimento delle attività consortili, conformemente al principio secondo cui si fanno ricadere sul responsabile dell'inquinamento, i costi necessari per evitarlo o ridurlo. Sul terreno aziendale la raccolta si traduce in un costo per gli operatori, così si pone un vincolo di destinazione agli strumenti economici, nella fattispecie i contributi sulle quantità degli oli immessi al consumo per il Coou, il sovrapprezzo per il Cobat ed i contributi di riciclaggio per il Consorzio nazionale degli oli vegetali, che è di finanziamento al Consorzio obbligatorio.
Un esame complessivo del sistema induce a registrare, accanto ad indubbie positività, alcune inefficienze dovute, probabilmente, alla posizione monopolistica dei consorzi.
Deve costituire, pertanto, motivo di adeguato approfondimento, sia a livello legislativo che imprenditoriale, l'eventualità di una graduale trasformazione degli attuali consorzi da obbligatori in volontari, per un verso aprendo l'esperienza consortile ai benefici della concorrenza e, per altro, facendo attenzione a che ciò non comporti facili scorciatoie fondate sull'impropria quanto perniciosa equivalenza tra volontarietà e riduzione dei costi di sostenibilità ambientale.
Non deve essere esclusa, in definitiva, la percorribilità di una linea di tendenza mirante a consentire e ad alimentare sempre più estese forme consortili od associative in competizione con l'istituzione obbligatoria.
A fronte di un aumento dell'immesso al consumo oramai stabilizzato intorno all'1% annuo, la crescita del recupero è stata superiore,
determinando una drastica riduzione del ricorso alla discarica. Rispetto a qualche anno fa, quando in discarica finivano i due terzi dei rifiuti di imballaggio, la situazione si è rovesciata; secondo le ultime stime il tal quale «non trattato» è ormai sceso ampiamente sotto il 60%.
Il riciclo continua a costituire la quota più importante del recupero complessivo, confermando anche per il 2004 un incremento di circa il 7% in più rispetto allo scorso anno. Si passa da 5.926.000 di tonnellate del 2003 ai 6.371.000 tonnellate del 2004, che rappresentano il 53,7% del totale dell'immesso al consumo, una percentuale vicina all'obiettivo da raggiungere per il 2008 (55%).
Nell'arco del periodo 1998-2004 i volumi di imballaggio riciclati provenienti da raccolta differenziata sono cresciuti di oltre 1,5 volte passando dal 28% al 40% del totale riciclato. Il riciclo degli imballaggi industriali è cresciuto nello stesso periodo di oltre il 58%. Il recupero energetico si attesta all'8,9% del recupero totale.
Dall'analisi di questi dati appare evidente come il raggiungimento del 35% di raccolta differenziata sull'intero territorio nazionale è senz'altro vincolato alla raccolta dei rifiuti di imballaggio, i quali tuttavia da soli non garantiscono il raggiungimento dell'obiettivo fissato dalla normativa vigente (decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22), nei confronti del quale diventa indispensabile la raccolta differenziata non solo delle frazioni merceologiche similari, ma anche della frazione organica.
Allo stesso tempo, appare in modo evidente che l'obiettivo di una sempre maggiore riduzione dell'utilizzo della discarica può essere raggiunto solo attraverso una gestione integrata dei rifiuti, cioè raggiungendo un equilibrio fra tutte le fasi previste dal sistema.
Sulla base dei dati sopra esposti inoltre, può essere evidenziato che, sebbene il dato del recupero su scala nazionale sia già superiore all'obiettivo stabilito dalla nuova Direttiva imballaggi per il 2008, e quello del riciclo è solo di poco inferiore all'obiettivo complessivo da raggiungere in tale anno, il sistema, per poter funzionare necessita ancora di interventi diretti a rafforzare, in primo luogo, l'impegno delle amministrazioni locali.
In questo quadro deve essere letto l'Accordo Quadro ANCI-CONAI che ha consentito l'avvio e lo sviluppo della raccolta dei rifiuti di imballaggi, la quale, a sua volta, ha indotto la crescita della raccolta differenziata complessiva che resta comunque, a livello nazionale, lontana dall'obiettivo in ragione, da un lato, del mancato sviluppo di raccolte dedicate a determinate classi merceologiche dei rifiuti e, dall'altro, delle differenti velocità di marcia dell'intero sistema tra le tre aree geografiche del Paese.
Ad un Nord quasi ovunque in condizioni di eccellenza infatti, (con due Regioni - Lombardia e Veneto - al disopra del 40% di raccolta differenziata, dunque ben superiore al 35% previsto dalla legge) e con una raccolta di imballaggi di origine domestica dell'ordine dei 65 kg per abitante, si contrappongono un Centro e soprattutto un Sud - con le specificità delle Regioni in emergenza - ben lontani da risultati accettabili.
Il rinnovo dell'Accordo Quadro, siglato il 14 dicembre 2004, prorogato fino al 31 dicembre 2008, deve servire anch'esso, ad avviso della Commissione, a ridurre tali differenze che, oltre a rappresentare un'Italia a due velocità, rischiano di incidere pesantemente sulle dinamiche di distribuzione del reddito nazionale anche in virtù del meccanismo del contributo ambientale destinato alle comunità più virtuose.
Sebbene tale statuto e la disciplina di riferimento indichino molto chiaramente quali rifiuti debbano essere oggetto delle attività del Consorzio e quali imprese siano conseguentemente assoggettate al versamento del contributo di riciclaggio, ci sono state (e tuttora persistono) forti controversie, anche di carattere giudiziario, tra lo stesso Consorzio e alcune aziende produttrici di beni in polietilene che non ritengono di dover ottemperare agli obblighi previsti dal decreto legislativo.
In particolare, tali aziende ravvisano una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altri soggetti, lamentando la mancata inclusione dei beni da loro prodotti nelle categorie escluse dalla gestione consortile e, in particolare dalla categoria dei cosiddetti «beni durevoli».
Da parte di queste aziende viene affermato, non senza qualche ragione, che i manufatti di loro produzione, se confrontati con altri che sono esclusi dall'applicazione della normativa, hanno una durata nel tempo maggiore, producono un minore impatto ambientale e non possono essere oggetto né di raccolta differenziata né, tantomeno, di recupero.
L'esempio più spesso riportato, mette a confronto le tubazioni in polietilene utilizzate nel settore delle costruzioni con i componenti in polietilene delle autovetture (esclusi ai sensi dell'articolo 46 del decreto legislativo n. 22 del 1997); le prime hanno sicuramente una «durabilità» maggiore dei secondi, producono un minore impatto ambientale, non sono oggettivamente «raccoglibili» in modo differenziato né è possibile ipotizzarne il recupero.
Ad avviso di questa Commissione, la questione che si pone è senz'altro degna di attenzione ma, ai sensi della disciplina vigente, non vi è spazio per interpretazioni estensive della norma tendenti ad equiparare i manufatti e le attività escluse dal versamento del contributo consortile ad altri beni non menzionati; sarebbe piuttosto necessaria una modifica normativa per meglio precisare ed estendere le esclusioni.
Le esenzioni di alcune tipologie di rifiuti dal controllo esercitato dal Consorzio per i beni in polietilene non rappresentano, infatti, l'esonero dagli obblighi in materia di gestione dei rifiuti per alcune aziende, ma una coerente scelta di semplificazione amministrativa e di limitazione di aggravi economici per i produttori di quei beni (e, conseguentemente, di quei rifiuti) già assoggettati ad altri adempimenti e ad altri oneri.
In particolare, l'articolo 44 del decreto legislativo n. 22 del 1997 (nonché, tra l'altro, il decreto legislativo n. 151 del 2005 sulla gestione dei Rifiuti prodotti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche), pone in capo ai produttori dei cosiddetti «beni durevoli» la ricaduta dei costi di gestione dei rifiuti da essi derivati.
Così come l'articolo 46 e le successive norme di attuazione, definiscono gli obblighi e gli oneri di tutti i soggetti coinvolti nella gestione dei veicoli a motore e dei loro componenti.
È utile sottolineare, inoltre, l'importanza che la problematica sollevata riveste, sotto il profilo tributario.
La mancata adesione al consorzio in trattazione comporta, infatti, dal punto di vista della normativa fiscale, violazioni sia nell'ambito delle imposte dirette che in ambito I.V.A.. Tale problema non è di poco conto se si pensa che oggi in Italia esistono 5 categorie di soggetti, obbligati all'iscrizione al consorzio, al pagamento del contributo e della relativa I.V.A.; in particolare:
coloro i quali, obbligati, si sono iscritti e hanno sempre adempiuto ai propri obblighi;
coloro i quali, obbligati, si sono iscritti, hanno ricevuto controlli e una volta riscontrate violazioni al versamento del tributo, sono stati oggetto di verifica ai fini fiscali;
coloro i quali, obbligati, non si erano iscritti, hanno ricevuto controlli e una volta riscontrate violazioni al versamento del tributo, sono stati sottoposti a verifica fiscale;
coloro i quali, obbligati non si erano iscritti, hanno ricevuto controlli dalla Guardia di Finanza che ha accertato la non obbligatorietà dell'iscrizione al consorzio;
coloro i quali, obbligati non si sono iscritti.
Va inoltre chiarito che:
l'emanazione di provvedimenti consortili che contemplino procedure di sanatoria delle violazioni di cui sopra, produce effetti sostanziali evidenti con contestuali conseguenze sulle imposte connesse; si consideri, a tal fine, che l'IVA si calcola sul contributo pagato;
nei casi, invece, di adesione ad una delle procedure di sanatoria fiscale (es. concordato fiscale, condono «tombale», dichiarazione integrativa etc.), le violazioni contestate sono prive di effetti «tributari», sia sull'IVA che sulle imposte dirette a seconda delle adesioni formalizzate; permangono, tuttavia, gli effetti sui contributi e sulle sanzioni consortili evasi, nonché sulle sanzioni irrogate dagli enti locali.
D'altro canto, lo stesso Consorzio PolieCo, riconoscendo la correttezza di alcune osservazioni formulate da tali imprese, ha proposto modifiche statutarie ed ipotesi di sanatoria, tuttora oggetto di analisi e di eventuale approvazione da parte dei Ministri delle Attività Produttive e dell'Ambiente.
In particolare, per quanto riguarda lo statuto del Consorzio, sono state ipotizzate le seguenti modifiche:
onere contributivo con vincolo di destinazione alle attività istituzionali (contributo di riciclaggio) unico ed a carico del solo comparto dei trasformatori e possibilità che tale contributo venga ridotto del 50% già dal 2005; per tutti i restanti comparti, produttori di materia prima, trasportatori e riciclatori, è stato ipotizzato l'assoggettamento al solo onere di partecipazione alle spese generali e di funzionamento del consorzio (attualmente - 0,50/ton.+iva);
inserimento di disposizioni atte a consentire la «rivalsa» e cioè la trasferibilità del contributo al primo cessionario;
pariteticità, in seno al Consiglio di amministrazione, tra la filiera del bene e la filiera del rifiuto.
Il quadro normativo.
Con decreto ministeriale del 15 luglio 1998 i Ministri dell'Ambiente e dell'Industria (ora «attività produttive») hanno proceduto all'approvazione dello statuto del Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni in polietilene(*) (POLIECO). Con tale decreto ministeriale, pubblicato sul suppl. ord. alla G.U. del 12 agosto 1998, n.187, è stata data attuazione a quanto previsto dall'articolo 48 del decreto legislativo del 5 febbraio 1997, n. 22.
Lo statuto, oltre a definire lo scopo, l'oggetto sociale, i compiti e gli obiettivi del Consorzio indica, dividendole per categorie di attività, quali sono le imprese obbligate a consorziarsi e, conseguentemente, assoggettate al pagamento del contributo di riciclaggio.
(*) Per beni in polietilene - ai fini dell'assoggettazione al contributo Polieco - si intendono i beni e i prodotti interamente costituiti di polietilene oppure costituiti in prevalenza di polietilene.
La caratteristica di prevalenza va intesa non solo in senso assoluto (il polietilene è costituente del bene per una percentuale superiore al 50%), ma anche in senso relativo (componente prevalente in rapporto alle altre che costituiscono il bene; ad esempio: Polietilene = 36%, materiale A = 24%, materiale B = 18%, altri materiali = 22%).
Tra i beni vanno annoverate anche le materie prime. Si ricorda che i semilavorati (quando non siano realizzati dallo stesso produttore di materia prima) e, in generale, la componentistica e gli accessori di produzione che vanno a integrarsi in un prodotto finito, rientrano nell'ambito dei prodotti.
Si ricorda inoltre che la nozione di «bene» fornita dal Codice Civile risiede nell'articolo 810 ai sensi del quale «sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti». (tratto dal sito web di POLIECO)
In particolare, l'articolo 4 del decreto ministeriale stabilisce che:
«1. Sono obbligati a partecipare al Consorzio i produttori e gli importatori di beni in polietilene, i trasformatori di beni in polietilene, le imprese che effettuano la raccolta e il trasporto dei rifiuti di beni in polietilene, direttamente o tramite le rispettive associazioni nazionali di categoria, le imprese che riciclano e recuperano rifiuti di beni in polietilene.
2. Ai fini del presente statuto le imprese di cui al comma 1 sono distinte nelle seguenti categorie:
a) produttori e importatori di materie prime destinate alla fabbricazione di beni in polietilene;
b) i produttori e gli importatori di beni in polieti1ene;
c) le imprese che effettuano la raccolta, il trasporto e lo stoccaggio dei rifiuti di beni in polietilene o loro associazioni nazionali di categoria;
d) le imprese che riciclano e recuperano rifiuti di beni in po1ietilene.
4. Possono fare parte in qualità di soci aggregati, qualora ne facciano richiesta:
a) i raggruppamenti, formalmente costituiti, di imprese private e/o pubbliche e Consorzi anche con partecipazione pubblica, i cui scopi rientrino tra quelli del Consorzio;
b) ogni altro soggetto che svolge attività connesse direttamente o indirettamente a quelle rientranti nell'oggetto consortile, ivi compresi i rappresentanti delle associazioni nazionali di categoria o di Enti/o imprese il cui oggetto abbia diretta attinenza con quello del Consorzio.
6. Il numero dei consorziati è illimitato.»
i beni di cui all'articolo 44, sono i cosiddetti «beni durevoli» per i quali il legislatore ha previsto una specifica modalità di gestione e il comma 5 di tale articolo (sebbene «...in fase di prima applicazione ...» della normativa) ne individua chiaramente cinque «specie»:
a) frigoriferi, surgelatori e congelatori
b) televisori
c) computer
d) lavatrici e lavastoviglie
e) condizionatori d'aria;
i rifiuti di cui all'articolo 45, sono i rifiuti sanitari;
i rifiuti di cui all'articolo 46, sono i veicoli a motore e rimorchi.
La recente sentenza della Corte di Giustizia del 13 settembre 2005, nella causa C-176/03, ha annullato la decisione quadro, ma in realtà assume il significato di un rafforzamento della tutela. Infatti, il Consiglio dei Ministri dell'Unione, approvando la decisione quadro, aveva «copiato» i contenuti di una proposta di Direttiva sulla protezione dell'ambiente tramite il diritto penale, presentata dalla Commissione europea, che aveva sostenuto di avere competenza
specifica, in quanto la materia della protezione dell'ambiente, anche se mediante il diritto penale, è materia di diritto comunitario, mentre appartiene alla competenza del Consiglio, solo la tematica relativa alla cooperazione giudiziaria. La decisione della Corte di Giustizia ha dato ragione alla tesi sostenuta dalla Commissione europea: il diritto comunitario può imporre che siano stabilite sanzioni, anche penali, a tutela dell'efficacia della propria normazione.
La pronuncia della Corte è di straordinaria rilevanza. Innanzitutto, pur restando riservata agli Stati membri la scelta circa le sanzioni penali applicabili, è stata stabilita la competenza della Commissione europea a disciplinare la materia della tutela ambientale per mezzo del diritto penale, in quanto la repressione con sanzioni di tipo penale risulta «misura indispensabile di lotta contro le violazioni ambientali gravi» ed «i danni ambientali gravi». È evidente l'incisivo rafforzamento della normativa comunitaria relativa alla tutela ambientale e il decisivo «colpo di grazia» all'esclusività della materia penale in capo ai singoli Stati membri. A breve sarà predisposta la direttiva per obbligare gli Stati a criminalizzare le condotte che rechino danno e provochino pericolo per l'ambiente. Tale normativa avrà maggiore effettività anche per la possibilità di reazione da parte della Commissione europea per gli Stati che non vi daranno attuazione attraverso l'apertura di un formale procedimento di infrazione.
È da tempo che si insiste sulla necessità che gli strumenti normativi, internazionali, europei e nazionali abbiano effettività, attesa la discrasia esistente tra il sistema repressivo teoricamente predisposto e risultati conseguiti in tema di tutela dell'ambiente.
Questa Commissione ritiene - alla luce di quanto fin qui esaminato - di poter offrire delle sollecitazioni utili in materia, in relazione alla situazione del nostro Paese, affinché nei futuri interventi di modifica legislativa sulla tutela dell'ambiente tramite il diritto penale, sia posta come obiettivo l'effettività nei suoi quattro aspetti: prevenzione, contrasto, sanzioni, ripristino.
In tale prospettiva deve essere salutata con grande favore la presentazione di una proposta di legge - su iniziativa del Presidente di questa Commissione e condivisa da numerosissimi parlamentari di tutti gli schieramenti politici - diretta ad introdurre nel sistema penale una più efficace protezione dell'ambiente.
Per garantire l'effettività della prevenzione, si auspica la revisione della disciplina amministrativa di gestione delle attività economiche e produttive, nel rispetto dell'ambiente. È necessario un «reset» dei presupposti e delle fasi procedimentali che coinvolgono le autorità amministrative nel rilascio di autorizzazioni, in modo da renderle funzionali agli obiettivi dell'azione della pubblica amministrazione, nel rispetto dei criteri di speditezza nelle determinazioni e di buona amministrazione, al fine di garantire l'impermeabilità al rischio di corruzione dei pubblici funzionari che rivestano compiti di verifica, decisione e controllo di settore. Questa necessità è ancor più significativa in relazione alle attività con caratteristiche di transnazionalità. Sarebbe opportuno che gli organi con funzioni di controllo amministrativo assumano una funzione di controllori rispetto anche
ai fenomeni criminali, con particolare riferimento al crimine transfrontaliero. Inoltre potrebbe essere utile elaborare un sistema di monitoraggio della eco-governance di ogni attività di impresa, introducendo meccanismi di tipo premiali per le eco-imprese, anche in riferimento a possibili vantaggi nell'imposizione fiscale dei redditi prodotti.
Per raggiungere un'effettività delle strategie di contrasto, occorre tenere conto della peculiarità del delitto ambientale, soprattutto quando esso viene posto in essere in forma organizzata. L'associazione criminale che opera nel mercato del crimine ambientale è un'impresa che nel mercato assume in apparenza le vesti di un'impresa legale. Tale impresa criminale non solo è qualificata da una gestione manageriale della propria attività criminale (esame del rapporto tra costo del crimine e benefici) ma mira a sviluppare alte capacità di comunicazione e performance all'interno del mercato stesso (soprattutto in relazione ai traffici transfrontalieri), per «vincere» con mezzi illeciti la concorrenza delle organizzazioni imprenditoriali lecite. Inoltre si deve sempre ricordare i rischi di infiltrazione della criminalità di tipo mafioso nel settore del crimine ambientale: gli strumenti investigativi e processuali del nostro sistema dovrebbero avere piena applicazione anche in riferimento alle forme organizzate di criminalità ambientale. Dovrebbero essere affinati i sistemi per rintracciare i profitti economici, al fine del loro sequestro e confisca, in modo che la reazione dell'ordinamento possa giocare un efficace ruolo dissuasivo in generale, e non solo nei confronti dei responsabili del crimine ambientale concretamente perpetrato.
Infatti, il collegato obiettivo delle sanzioni penali effettive, deve essere posto in primo piano con un nuovo corredo sanzionatorio adeguato alla criminalità di profitto ed affittivo, con particolare riferimento alla responsabilità delle persone giuridiche, le quali beneficiano in via principale dei proventi del delitto ambientale.
Anche l'effettività del ripristino e del risarcimento dei danni assume un'importanza primaria. Occorre garantire l'adempimento dell'obbligo di risarcimento dei danni ambientali provocati (chi inquina, paga) e dell'obbligo di ripristino dello stato dei luoghi, studiando modalità di esecuzione coattiva ed incentivando, con meccanismi premiali, la spontanea ed immediata bonifica dei siti inquinati.
In ultimo, ma ultimo per elencazione e non per importanza, le politiche criminali del settore ambientale dovrebbero recuperare il ruolo della società civile e delle organizzazioni non governative, anche in riferimento alla possibilità di svolgimento di un'attività di controllo anche territoriale, a garanzia del rispetto dell'ambiente, al fine di prevenire le catastrofi ambientali, ma anche per recuperare la consapevolezza sociale della stretta correlazione esistente tra ambiente e qualità di vita comune.
Aarhus, che l'accesso alle informazioni è un aspetto di assoluta centralità per un'efficace ed effettiva salvaguardia dell'ambiente.
Indubbiamente, il superamento prima di tutto culturale di quella che è stata definita sindrome di Nimby, passa attraverso la capacità di comunicare, modulare, coinvolgere.
Comunicare, attraverso conferenze di servizi o strumenti ancora più agili, con amministratori locali ed imprese.
Modulare gli interventi ed i piani, cercando di coniugare la protezione dell'ambiente naturale con le esigenze dell'ambiente sociale e produttivo.
Coinvolgere, soprattutto, i cittadini, facendoli sentire attori di un processo più ampio, conveniente e pulito.
Tuttavia, vi è un ulteriore aspetto dell'accesso alle informazioni in materia ambientale, che riguarda, paradossalmente, i diversi apparati della pubblica amministrazione, in ordine ai quali questa Commissione ha dovuto registrare l'inadeguato funzionamento degli strumenti di coordinamento, con particolare riguardo alla circolarità delle informazioni ed alla interconnessione delle banche dati.
Non sfugge, infatti, come un'opportuna ed ampia condivisione delle informazioni raccolte da tutti gli organi investigativi ed amministrativi, sui soggetti collegati alla criminalità organizzata, sulle modalità di infiltrazione e sulle tecniche di condizionamento del ciclo dei rifiuti, possa consentire la messa a punto di un efficace coordinamento degli strumenti di prevenzione e contrasto, viceversa destinati al fallimento se lasciati all'iniziativa isolata - e per questo maggiormente esposta - dei singoli enti.
Un'attenzione particolare, anche alla luce degli elementi emersi a seguito dell'audizione del Prefetto di Napoli, è il procedimento disciplinato dall'articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica del 3 giugno 1998, n. 252, in materia di provvedimenti interdittivi antimafia adottati dall'Autorità Prefettizia.
In particolare si prevede, al comma 2, che: «Quando, a seguito delle verifiche disposte dal prefetto, emergono elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società o imprese interessate, le amministrazioni cui sono fornite le relative informazioni, non possono stipulare, approvare o autorizzare i contratti o subcontratti, né autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni e le erogazioni.
Ai fini di cui al comma 2 le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa sono desunte:
a) dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli articoli 629, 644, 648-bis, e 648-ter del codice penale, o dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale;
b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di cui agli articoli 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater della legge 31 maggio 1965, n. 575;
c) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal Ministro dell'interno,
ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia.
Orbene, l'esperienza maturata nel corso dell'istruttoria delle procedure antimafia di cui al citato decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252 ha permesso di rilevare che i soggetti gravati da provvedimenti antimafia interdittivi sono soliti porre in essere complesse procedure societarie per aggirare la normativa stessa.
In particolare i casi più frequenti riguardano:
1) il cambio della sede legale delle persone giuridiche gravate da provvedimento interdittivo antimafia ai sensi dell'articolo 10 del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252;
2) la cessione del ramo d'azienda da parte del soggetto giuridico interdetto a favore di soggetti che apparentemente risultano immuni da elementi di interdizione.
Relativamente al punto 1 appare utile prevedere le misure che di seguito si illustrano.
In primo luogo, appare indispensabile, proprio per consentire la condivisione delle informazioni, introdurre l'annotazione presso la banca dati esistente presso il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno, denominata SDI (Sistema di Indagine), con riferimento ai singoli componenti degli organi di amministrazioni ed a ciascun socio, della sussistenza dei provvedimenti antimafia interdittivi, precisando la prefettura che ha adottato il medesimo provvedimento.
Inoltre, in considerazione del fatto che ai sensi del 5o comma del medesimo articolo 10, la competenza territoriale della Prefettura, ai fini dell'istruttoria di cui alla citata disposizione, viene stabilita per le persone giuridiche in base alla provincia ove ha la sede legale la società, è auspicabile l'introduzione di opportune misure ordinamentali ed organizzative affinché, qualora tra gli amministratori ed i soci del soggetto giuridico interessato dalla procedura interdittiva, figurino persone nate o aventi la residenza o domicilio in altra provincia, le informazioni vengano richieste anche alle Questure ed ai Comandi Provinciali dei Carabinieri competenti per il territorio di tale ulteriore provincia. In tali casi, per attribuire completezza al dato informativo, occorre che le informazioni sul conto dei predetti soggetti riguardino non solo quanto previsto alle lettere a) e b) del comma 7 dell'articolo 10, sopra riportate, ma anche alla lett. c) del medesimo comma 7
(accertamenti per verificare la sussistenza di tentativi di infiltrazione o condizionamento mafioso da parte di soggetti in grado di incidere direttamente o indirettamente sulle scelte e gli indirizzi dell'organo di amministrazione o societario).
Infine, appare opportuno introdurre per le stazioni appaltanti l'obbligo di chiedere le informazioni antimafia, ai sensi dell'articolo 10, anche alla prefettura sul cui territorio provinciale risulta avere la sede secondaria o la sede operativa il soggetto giuridico oggetto delle informazioni medesime
Con riferimento al sopra enunciato punto 2, questa Commissione ha ravvisato l'indispensabilità di prevedere che, in presenza di società che hanno acquistato rami di azienda da imprese gravate da interdittiva antimafia, l'Autorità Prefettizia disponga, in relazione al comma 7, lett. c) del citato articolo 10, mirate attività di accesso e di accertamento.
È giudizio unanime della Commissione, formatosi anche a seguito delle numerose missioni svolte in loco, che le autorità prefettizie hanno rappresentato sovente, nel corso di questi anni, un efficace argine avverso fenomeni di pericolosa commistione fra finalità pubblicistiche ed interessi criminali, talora supplendo all'assenza di tempestive ed opportune iniziative di autotutela da parte degli organi di amministrazione territoriale.
È convinzione di questa Commissione, tuttavia, che l'Autorità Prefettizia non possa essere considerata l'unica interlocutrice di una tale ampia opera di riforma, culturale ed organizzativa.
Occorre che tutte le istituzioni, e soprattutto gli enti locali, vengano coinvolti in tale attività di monitoraggio, di raccolta e condivisione dei dati, soprattutto in materia ambientale, introducendo meccanismi di premialità per quegli enti che si attivano, con misure stabili ed efficaci, in tale direzione.
In tale prospettiva si inquadrano talune iniziative che la Commissione ha ritenuto di dover sollecitare e supportare, con l'obiettivo, appunto, di porre in comunicazione sensibilità e competenze diverse ma concorrenti, quale, ad esempio, la sottoscrizione, il 30 maggio del 2003, del «Patto di legalità per l'ambiente», in virtù del quale il Prefetto di Napoli, il Questore della medesima città, il Presidente della Provincia, il Presidente dell'Ente Parco Nazionale del Vesuvio ed i sindaci dei comuni di Acerra, Brusciano, Camposano, Casamarciano, Castello di Cisterna, Cicciano, Cimitile, Comiziano, Mariglianella, Marigliano, Nola, Roccarainola, San Vitaliano, Saviano, Scisciano, Tufino, e Visciano si sono impegnati a promuovere un'efficace azione repressiva dei fenomeni dell'illegalità e di contrasto dei reati ambientali, attraverso l'elaborazione di strategie comuni.
Del pari significativa è la circolarità delle informazioni fra soggetti deputati al contrasto e alla repressione degli illeciti ambientali ed organismi impegnati nello studio delle ricadute epidemiologiche di una scorretta gestione dei rifiuti.
È stato segnalato a questa Commissione, in particolare dal Corpo Forestale dello Stato, come, sia per rendere più incisiva l'attività di contrasto sia per meglio modulare le strategie di prevenzione, è
necessario migliorare la conoscenza reale dei processi produttivi delle aziende a rischio.
È necessario, a tal fine, predisporre un'adeguata banca dati che dia la possibilità di esercitare operazioni di controllo sui residui di lavorazione attraverso l'analisi di particolari indicatori quali le immissioni in atmosfera, i consumi idrici e di energia.
La conoscenza dei cicli complessi di produzione, l'obbligo dello stoccaggio dei prodotti di riciclo e riuso in aree ben definite e controllabili, le modalità e le quantità dello smaltimento e l'indicazione dei siti, sono altre importanti dati che potrebbero utilmente implementare la banca dati, per controllare efficacemente i flussi di residui e rifiuti prodotti.
A fianco di questa acquisizione è importante creare anche presso le Agenzie regionali di Protezione Ambientale o la stessa APAT un osservatorio permanente che possa avere le situazioni aggiornate delle produzioni a rischio e studiare i sistemi di controllo più appropriati.
Infine, sempre sul versante del coordinamento informativo fra tutti gli organismi variamente impegnati nella tutela dell'ambiente, la Commissione ha promosso l'istituzione di un Protocollo per la costituzione di una banca dati a fini epidemiologici, gestita dall'Istituto Superiore di Sanità ed implementata da tutte le forze dell'ordine e dagli organi di controllo delle pubbliche amministrazioni interessate.
Questa è la prospettiva oramai adottata anche in sede comunitaria ed è progressivamente sostenuta dalle istituzioni nazionali con significative aperture anche nel mondo imprenditoriale.
Per quanto attiene l'ambito comunitario, deve registrarsi come l'ambiente costituisca ormai uno dei temi centrali dell'Unione allargata.
Nel trattato costituzionale europeo, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, agli artt.1-2, si afferma: «l'Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata (...) su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente». Nello stesso Trattato Costituzionale, viene auspicata l'introduzione negli Stati membri di sanzioni adeguate per i comportamenti suscettibili di porre in pericolo siffatto bene primario.
Non solo.
Nel medesimo trattato si prevede, tra gli obiettivi della politica ambientale della Comunità, la promozione sul piano internazionale di
misure destinate a risolvere i problemi ambientali a livello regionale e mondiale. A tale scopo, il Trattato prevede la cooperazione della Comunità con i paesi terzi e con le organizzazioni internazionali competenti.
È questa una direttrice di azione che deve essere trovare, anche nelle politiche degli Stati membri, una adeguata valorizzazione, sia in termini di azioni positive - di cooperazione e collaborazione, anche nei circuiti imprenditoriali - che in termini di misure negative - di scoraggiamento e di contrasto -, nella prospettiva di indurre a considerare la tutela dell'ambiente (come aspetto del più ampio spettro dei diritti umani fondamentali) una pre-condizione per un ordinato svolgimento dei rapporti politici ed economici.
Quanto alle iniziative istituzionale di sostegno della diffusione di una cultura amministrativa e politica all'avanguardia anche in materia ambientale, merita di essere segnalata l'istituzione dell'IPED (Institute on a partnership for environmental development), l'Agenzia ONU per l'eco-formazione, sorta a seguito dell'accordo tra il Ministero dell'Ambiente e l'UNESCO siglato il 18 ottobre 2005, con sede a Trieste.
L'istituto si dedicherà specificamente alla formazione di tecnici internazionali nel settore ambientale e fungerà da sportello al quale i paesi in via di sviluppo potranno rivolgersi per ricevere servizi di capacity building ambientale, al di fuori dei normali accordi bilaterali intergovernativi e al di là degli esistenti programmi di formazione in ambito multilaterale.
Sul versante imprenditoriale, la Commissione ha salutato con grande favore la presentazione da parte della società «ECOLOG» del progetto «Clean Up Somalia».
La Società in questione ha manifestato a questa Commissione l'intenzione di promuovere il progetto sotto l'egida di strutture istituzionali, fra le quali viene individuata questa stessa Commissione d'inchiesta.
Il progetto si propone come obiettivo quello di avviare una attività risarcitoria nei confronti del territorio Somalo che ha subìto per molti anni danni molto seri connessi alle attività illecite di smaltimento di rifiuti pericolosi che sono state documentate anche dalle indagini giornalistiche sopra ricordate.
Il progetto riguarda due direttrici diverse che avrebbero come scopo, la prima, la redazione di una «mappa del rischio», che segnali i siti eventualmente individuati quali discariche dei rifiuti pericolosi e che potrebbero essere oggetto di un successivo intervento di recupero a titolo di mero «risarcimento ambientale»; la seconda, la realizzazione di un sistema «sostenibile» di gestione dei rifiuti per la città di Mogadiscio.
Lo sviluppo della prima fase di individuazione delle aree e dei siti che sono stati oggetto di smaltimento illecito, dovrebbe essere realizzata in collaborazione con l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia che ha già utilizzato le strumentazioni idonee al lavoro di ricerca di siti contaminati, nonché delle strutture del ministero dell'ambiente e della tutela del territorio.
La seconda fase vedrebbe la partecipazione delle Istituzioni nazionali e internazionali coinvolte, Parlamento, Ministeri, FAO, ecc., nella individuazione di partner pubblici o privati che mettano a disposizione le loro competenze, professionalità, mezzi e strutture per promuovere, da un lato un'attività di formazione del personale somalo (ingegneri, tecnici, operai), da impegnare nelle attività di pianificazione e operative di un sistema integrato di gestione dei rifiuti nella città di Mogadiscio e, dall'altro, nella collaborazione attiva con le istituzioni Somale preposte a tali interventi.
Vi è, poi, il profilo, finora in larga parte inesplorato, delle misure di dissuasione nei confronti di quei paesi particolarmente insensibili sul fronte della tutela ambientale.
In questi anni si è assistito all'affacciarsi sulla scena mondiale - e su quella economica, globalizzatasi - di numerosi Paesi ad economia arretrata (quali quelli africani) ovvero ad economia di mercato emergente (quali gli stati ex comunisti, la Cina, l'India); parallelamente si è registrata, proprio in questi Paesi, l'estensione preoccupante di sistemi produttivi a basso costo, con sacrificio dei diritti dei lavoratori e per il livello di salvaguardia dell'intero ecosistema, nonché l'utilizzazione di ampie zone come luoghi di stoccaggio, di smaltimento o reimpiego dei rifiuti provenienti dall'Occidente industrializzato.
A tale riguardo, una considerazione particolare, ritiene la Commissione, anche a seguito dei dati emersi in sede di audizione delle associazioni consortili interessate al recupero dei prodotti residuali, deve essere rivolta alla Cina, per le sue enormi capacità, ancora in larga parte inespresse, di espansione industriale, e, quindi, per l'elevato rischio che uno sviluppo irrispettoso dell'ambiente può presentare.
Molto si è discusso circa l'opportunità di introdurre forme di dazio sui prodotti importati dalla Cina.
Questa Commissione, senza entrare nel merito dell'opportunità o meno di tali misure e soprattutto sulla loro compatibilità con il regime di libero mercato ormai divenuto connotato essenziale non solo della Comunità Europea, ma dell'intera comunità internazionale, considera con interesse l'ipotesi di introdurre delle misure di cosiddetto dazio etico, collegate, fra l'altro, anche alla protezione ambientale come aspetto significativo di un sistema produttivo rispettoso dei diritti umani.
È indispensabile, in definitiva, passare da una fase di silenzio - anche interessato - sulle violazioni ambientali, ad una fase di denuncia e di contrasto, per la cui efficacia è necessario far leva sul mondo imprenditoriale: da un lato, scoraggiando negli imprenditori «emergenti» il ricorso a sistemi produttivi non eco-compatibili, e, dall'altra, premiando opportunamente - in sede nazionale e comunitaria - le iniziative di quegli imprenditori che, anche in chiave di tutela della concorrenzialità, intraprendano iniziative di cooperazione con le imprese di quei paesi finalizzate ad estendere know how imprenditoriali rispettosi per l'ambiente.
Approfondimenti
1. I rifiuti speciali: da Priolo a Porto Marghera.
La grave situazione d'inquinamento rilevata nell'area industriale di Priolo indusse la Commissione a recarsi in situ, già nel giugno del 2003.
In particolare, gli elementi acquisiti dalla Commissione con riferimento all'area di Priolo, testimoniano l'esistenza di fenomeni di allarmante inquinamento che hanno interessato sia le falde acquifere, che il tratto di mare che bagna le coste prossime all'insediamento (in particolare Augusta e Priolo), che la stessa atmosfera; fenomeni di inquinamento in gran parte riconducibili alla mancata adozione da parte dello stabilimento «Enichem» di idonei presidi a tutela dell'ambiente e della salute della popolazione residente.
A ciò devono aggiungersi l'inefficacia e la sostanziale evanescenza dei controlli.
Sotto tale ultimo profilo, risalta il dato acquisito dalla Commissione in occasione dell'audizione dei magistrati della Procura della Repubblica di Siracusa, e già posto in evidenza nella Relazione territoriale sulla Sicilia; in particolare, si è appreso che gli accertamenti relativi alla presenza di idrocarburi, in misura superiore a quella consentita, nella falda superficiale sottostante il comune di Priolo venivano svolti da una società cui gli inquirenti affidavano l'incarico di consulenza tecnica, dopo che gli analoghi accertamenti svolti dal LIP (Laboratorio Igiene e Profilassi) di Siracusa non avevano evidenziato anomalie.
Le esposte criticità hanno, pertanto, indotto la Commissione a promuovere un'indagine nel settore con l'istituzione di un Gruppo di lavoro per lo studio ed il monitoraggio del flusso dei rifiuti speciali, pericolosi e non.
accertare eventuali margini di intervento per un'azione più efficace nonché per individuare possibili lacune o situazioni di carenza che potrebbero agevolare, anche indirettamente, situazioni di irregolarità ed illiceità nella gestione del ciclo dei rifiuti speciali.
L'indagine della Commissione è proceduta quindi con una verifica delle situazioni ordinarie, fisiologiche, che ineriscono la gestione dei rifiuti speciali, per poi estendere l'approfondimento alle ipotesi di patologia del sistema.
Si è proceduto dunque all'individuazione, a partire dai siti ad alto rischio ambientale ai sensi della legge n. 426 del 1998, di alcuni impianti dell'industria chimico-siderurgica sui quali iniziare l'indagine. L'indagine era tesa ad effettuare un monitoraggio ad ampio raggio dei siti individuati mediante l'acquisizione di tutti i dati, i flussi informativi e gli elementi di conoscenza che fanno capo ai soggetti e alle autorità competenti in materia ed operanti in relazione ai siti indicati. A tale scopo si è proceduto, in un primo momento, a raccogliere l'informazione, attraverso un questionario rivolto alle impresse individuate, sulla gestione del ciclo dei rifiuti.
Il Gruppo di lavoro ha ritenuto opportuno, successivamente, circoscrivere il campo d'indagine, data l'estensione del ambito, ad un area tipo. È stato scelto il sito industriale di Porto Marghera allo scopo di controllare determinate tipologie di rifiuti speciali ivi prodotte che per trattamento, quantità, pericolosità e destinazione presentavano le migliori caratteristiche per uno studio tecnico-investigativo dell'intero ciclo dei rifiuti.
Per tale iniziativa la Commissione si è avvalsa dell'ausilio e delle conoscenze tecniche dei rappresentanti delle forze di polizia, impegnate a vario titolo nella tutela dell'ambiente. In particolare, ha preso parte al progetto personale del Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente, Corpo Forestale dello Stato, Corpo della Capitaneria di Porto e Polizia di Stato.
Il gruppo di lavoro è stato impegnato in una propedeutica fase istruttoria finalizzata alla raccolta della documentazione necessaria all'individuazione delle tipologie di rifiuti e degli impianti di gestione da sottoporre a controllo.
A tale scopo è stata contattata l'ARPA Veneto la quale ha fornito i dati ricavati dai MUD 2002-2003 delle società operanti nell'area industriale di Porto Marghera. L'analisi di questi dati, riportata in appendice, ha consentito di individuare sedici impianti che trattavano a vario titolo i rifiuti provenienti dall'area in questione e che sono stati successivamente controllate.
Le visite ispettive nelle aziende d'interesse sono state precedute dall'acquisizione dei MUD al fine di verificare la corrispondenza dei rifiuti prodotti a quanto riportato nella documentazione cartacea.
L'attività di controllo si è sviluppata innanzitutto nella richiesta ai responsabili degli impianti della descrizione cronologica del ciclo di trattamento dei rifiuti, e successivamente si è proceduto all'acquisizione della specifica documentazione relativa allo stato delle autorizzazioni ambientali, al titolo all'esercizio dell'impianto e altri documenti comprovanti il rispetto delle norme di carattere ambientale.
Il gruppo di lavoro ha proceduto ad un primo esame della documentazione fornita, al fine di verificare preliminarmente, in confronto con i responsabili d'azienda , lo stato degli adempimenti in materia ambientale, da completare successivamente in sede.
Gli accertamenti ambientali, indirizzati soprattutto alla verifica e riscontro della destinazione finale dei rifiuti prodotti, sono stati documentati attraverso la compilazione di apposita scheda di controllo.
La fase operativa, avviata il 7 febbraio 2005 e conclusasi il successivo 19 marzo, si è articolata secondo un protocollo operativo comune, strutturato in modo da omogeneizzare l'azione di controllo delle forze di polizia operanti, che hanno cooperato nelle attività ispettive e nella raccolta dei dati e delle informazioni necessarie allo studio e al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
La fase operativa si è sviluppata in:
un'attività preventiva organizzata sull'osservazione, per la durata di almeno due giorni, e conseguente registrazione degli estremi dei numeri di targa dei vettori d'interesse in entrata ed in uscita dalle aziende da sottoporre ad attenzione. Il terzo giorno si è proceduto all'ispezione a sorpresa del carico di almeno due camion per verificare la rispondenza dei rifiuti con quanto riportato sul Formulario d'identificazione (FIR) ed al prelievo, a cura dei tecnici delle Arpa locali, di campioni da sottoporre, poi, ad analisi di laboratorio. La suddetta ispezione ha riguardato i mezzi in uscita per i siti di stoccaggio e trattamento, quelli in entrata per i siti di discarica o smaltimento;
un'attività successiva sviluppata all'interno dell'azienda con ulteriore campionamento dei rifiuti ivi trattati, in particolare per i siti di discarica e di recupero. L'accertamento è stato poi completato dalla redazione dell'apposita scheda di controllo ambientale, nonché da una dettagliata relazione inerente:
l'assetto societario dell'azienda;
le autorizzazioni ambientali, tipologia dell'impianto e idoneità dello stesso al trattamento dei rifiuti;
la quantità, tipologia e provenienza dei rifiuti trattati;
la verifica di quanto precedentemente osservato e quanto riportato nei registri di carico e scarico e nei FIR presenti in azienda;
i costi sostenuti dall'azienda per il trattamento e/o smaltimento dei rifiuti;
l'eventuale e successiva destinazione dei rifiuti.
Le pattuglie, composte da personale del Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente, Corpo Forestale dello Stato e Polizia dello
Stato, unitamente ai tecnici dell'ARPAV, sono state collocate, in ore diverse della giornata, in punti strategici situati nelle immediate adiacenze dell'area interessata, in modo da poter intercettare i vettori provenienti sia dai siti industriali che dalle macroisole sottoposte alle attività di bonifica.
In particolare, le verifiche eseguite con la collocazione di 4 posti di controllo nella zona a sud di Marghera hanno consentito di controllare il flusso dei rifiuti prodotti nelle macroisole di Fusina, del Nuovo e Vecchio Petrolchimico. Da queste aree, infatti, provengono i rifiuti prodotti dalle locali aziende chimiche, terre e rocce originate dallo scavo dei terreni contaminati e le acque reflue emunte dalle falde inquinate.
I flussi in uscita dalla macroisola Portuale e quella della Prima Zona Industriale, da cui provengono rottami ferrosi, acque reflue, materiali provenienti da attività di demolizione, sono stati monitorati con la collocazione nell'area a nord di Marghera di 3 posti di controllo.
Durante le attività, sono stati controllati complessivamente circa duecento mezzi, di cui 26 trasportavano rifiuti in genere.
È opportuno porre in evidenza che, nella prima giornata, non sono stati individuati carichi di terre e rocce contaminate, in quanto l'ARPAV (Agenzia Regionale Protezione Ambiente Veneto) ha riferito che, momentaneamente, nelle macroisole interessate dalle operazioni di bonifica non erano in corso attività di scavo e movimentazione delle terre in argomento. A riscontro di quanto esposto, si procedeva ad effettuare una ricognizione a campione nei confronti di due distinte aree oggetto di bonifica, site nella macroisola Portuale e quella della Prima Zona Industriale, potendo constatare appunto l'assenza di qualsiasi attività di lavorazione (scavo e/o deposito).
Infine, si evidenzia che a conclusione di tali attività di controllo non emergevano violazioni alle vigenti normative ambientali.
Infatti, anche nella presente attività sono stati riscontrati casi in cui il codice di identificazione del rifiuto non sempre corrisponde a quello che per caratteristiche dello stesso deve essere attribuito.
Una migliore determinazione degli elementi identificativi e delle condizioni di tracciabilità dei vettori, nelle varie modalità di trasporto dei rifiuti, consentirebbe, senza dubbio, una efficacia attività di prevenzione degli illeciti.
Sarebbe opportuno, quindi, introdurre una nuova contabilità dei rifiuti attraverso l'utilizzazione di sistemi di gestione e trasmissione automatica dell'informazione.
Nella stessa ottica di semplificazione e riduzione della movimentazione dei rifiuti si inserisce la necessità di creare centri di inertizzazione di sufficiente capienza e connesse discariche per particolari tipologie di rifiuti a livello regionale, ciò al fine di evitare che il trasporto dei rifiuti verso destinazioni lontane possa rendere assai complicato la tracciabilità degli stessi e comportare uno smaltimento contrario alle norme.
Dallo studio sono emersi, inoltre, i lunghi tempi di reazione delle Arpa regionali nella fase delle analisi. In molti controlli le Arpa hanno comunicato gli esiti delle analisi a distanza di molti mesi e solo a seguito di continui solleciti. Una deficienza, che le Agenzie hanno spiegato con carenza di personale e di risorse, che potrebbe essere eliminata o attenuata con il trasferimento di know-how da una Agenzia all'altra.
Nel presente lavoro è stata utilizzata una metodologia che ha permesso di indagare il flusso dei rifiuti nella sua complessità; infatti, sono stati controllati i vettori in uscita dal sito industriale produttore di rifiuti, ispezionate le società individuate quali destinatarie e comparata la documentazione acquisita con quanto riscontrato.
Questa metodologia è trasferibile per lo studio di altri siti o agglomerati industriali, sia per attività di mero monitoraggio, sia per attività investigative da parte della magistratura inquirente e degli organismi investigativi.
L'uso indiscriminato del territorio ha comportato la necessità di recuperarlo attraverso l'avvio di costose procedure dirette alla messa in sicurezza e alla successiva bonifica delle aree interessate. Il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio ha, infatti, individuato ben 50 siti di interesse nazionale, coincidenti nella maggior parte dei casi con i grossi poli industriali nati nel dopo guerra ed attualmente in via di dismissione. In questo settore diventa, infatti, fondamentale l'attività di prevenzione diretta a vigilare che le ingenti quantità di rifiuti speciali in uscita dai siti di bonifica, estremamente pericolosi in quanto ricchi di metalli pesanti, quali cadmio, nichel, mercurio, vengano correttamente trattati e decontaminati. A tal proposito, potrebbe essere utile estendere la metodica, impiegata nel presente lavoro, per una migliore sorveglianza sulla corretta esecuzione degli interventi di bonifica di determinati siti di interesse nazionale e ad evitare che la movimentazione di milioni di tonnellate di tali rifiuti speciali possa attrarre gli appetiti di organizzazioni criminali o di imprenditori senza scrupoli.
L'attività di prevenzione e controllo potrebbe essere, inoltre, facilitata da una più completa e funzionale circolarità informativa tra gli organi deputati alle procedure di verifica. Infatti, è stato accertato che per il sito di Porto Marghera (VE), esiste tra il NOE di Venezia e l'ARPAV - Dipartimento Provinciale di Venezia -Servizio Rischio Industriale e Bonifiche- un continuo flusso informativo relativo alla destinazione delle «terre da scavo» e «acque di falda», originate dalle operazioni di drenaggio delle acque del sottosuolo eseguite per la messa in sicurezza di emergenza. In particolare, l'ARPAV, all'atto dell'avvio a smaltimento dei rifiuti provenienti dal sito di bonifica, richiede all'Agenzia di destinazione territorialmente competente, di
esperire le opportune verifiche amministrative (autorizzazioni, F.I.R.) e tecniche (analisi di laboratorio) per accertare il corretto smaltimento dei rifiuti. La predetta comunicazione viene, altresì, inoltrata per conoscenza al locale NOE Carabinieri, che di conseguenza predispone un immediato riscontro sulla destinazione dei rifiuti e sulla correttezza delle procedure di smaltimento.
Tale sinergia informativa potrebbe senz'altro essere fattivamente esportata anche in altre realtà italiane.
Inoltre, nella stessa ottica di sicurezza e prevenzione ambientale, le Prefetture - Uffici Territoriali del Governo- dovrebbero essere dotati di una cartografia georeferenziata dei siti di interesse presenti nella area di competenza, come parte di un sistema nazionale costruito con parametri ambientali standardizzati.
In materia di attuazione della norma quadro, si impongono alcuni interventi riformatori in materia di gestione dei rifiuti speciali.
1) È necessario, in primo luogo, che venga fornita una definizione di dettaglio, finora mancante nel quadro comunitario e nazionale del «trattamento dei rifiuti speciali».
La definizione delle voci trattamento e trattamento di inertizzazione e/o innocuizzazione, si rende necessaria in considerazione del fatto che i numerosi casi di illegalità nel settore dello smaltimento dei rifiuti, sono facilitati come si evince quasi quotidianamente dalle operazioni effettuate dagli organi di polizia giudiziaria, da un vuoto normativo in materia di definizione di trattamento dei rifiuti. Si è riscontrato che nei contratti di smaltimento e nelle operazioni di trattamento dei rifiuti presso aziende di smaltimento, si parla spesso di trattamenti, ma non se ne specificano quasi mai i termini e i fenomeni chimici relativi al trattamento stesso; ciò si traduce nella gran parte dei casi in finti e virtuali trattamenti (il rifiuto rimane pericoloso ai fini dell'impatto sull'ambiente anziché essere declassato e reso meno cedibile all'ambiente stesso a seguito di un efficace trattamento) per i quali tuttavia il produttore paga al gestore dello smaltimento un costo aggiuntivo proprio per la voce trattamento. Siffatta situazione ha fatto sì che il sistema di gestione dei rifiuti fosse strutturato come una rete dalle maglie larghe attraverso le quali operatori senza scrupoli si infilano per realizzare grossi affari lucrosi, complice anche un disattento controllo da parte degli organi amministrativi territoriali. Inserire nei decreti attuativi della legge di delega ambientale le due definizioni di cui sopra crea un valido presupposto affinché le norme tecniche sul trattamento introducano dei «paletti» ben precisi e diano nel contempo al controllore la possibilità di verificare l'effettuazione e l'efficacia dei trattamenti stessi.
2) Le norme tecniche sui rifiuti dovranno contenere una sezione specifica sui trattamenti di inertizzazione, innocuizzazione delle matrici chimiche presenti nel rifiuto speciale. Le tecnologie di trattamento e di inertizzazione dovranno essere puntualmente specificate dall'APAT sulla base dei codici del rifiuto e della pericolosità del rifiuto stesso. Gli operatori dovranno attenersi a tali tecnologie o a tecnologie di eguale efficacia, purché validate dall'APAT e verificate dall'organo di controllo.
3) La definizione di «ripristino ambientale».
La definizione di ripristino ambientale, nella sezione della legge attuativa che riguarderà la bonifica dei siti contaminati, dovrà essere formulata in maniera che vengano date ampie garanzie sulla reale efficacia del ripristino stesso. In ogni caso dovrà essere ben specificato che le operazioni di ripristino oltre che permettere il recupero del sito debbano altresì essere tali da ripristinare il suo originale ecosistema ad esso associato prima dell'intervento di contaminazione.
4) È necessario istituire nell'ALBO una particolare sezione dedicata alle aziende che operano nel settore delle bonifiche dei siti contaminati prevedendo che queste siano titolari di tecnologie proprie certificate o brevettate o abbiano in concessione metodologie e tecnologie validate a livello internazionale e che soprattutto non curino esse stesse la progettazione della bonifica.
5) Rafforzamento delle strutture tecniche delle ARPA.
È necessario rafforzare le strutture tecniche delle ARPA con particolare riguardo al settore dei rifiuti. I responsabili di tale settore dovranno seguire corsi di formazione particolari istituiti dal Ministero dell'Ambiente, dall'APAT e dalla Regione specificamente sul trattamento dei rifiuti, sull'insieme dei fenomeni che intervengono nel trattamento chimico, sulle tecnologie di trattamento, sulle apparecchiature utilizzate.
6) Bisogna prevedere nella norma tecnica il trattamento di trasformazione e di innocuizzazione delle matrici contenenti amianto con sistemi già presenti sul mercato, alcuni dei quali brevettati dal CNR affinché i costi di smaltimento in discarica si abbassino drasticamente e si evitino situazioni di monopolio nel settore dello smaltimento assai gravosi per i produttori di rifiuti a base di amianto. Il trattamento dovrà basarsi sul principio che il trattamento delle fibre di amianto ad alta temperatura (es. arco elettrico) trasforma le stesse in materiali non più inalabili a livello polmonare e alveolare.
7) È opportuno che il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio istituisca un sistema di controllo e verifica dei flussi industriali produttivi secondo il quale per un determinato flusso di ingresso in un sistema produttivo - costituito da materie prime, catalizzatori, solventi - si riesca a prevedere la quantità del prodotto, del rifiuto da smaltire e del materiale da riciclare, in modo da determinare un fattore teorico da verificare di volta in volta. Con tale sistema vi potrà essere un controllo più efficace sulla produzione di rifiuti speciali, controllo che presenta tuttora numerose lacune a
livello di informazioni di dettaglio in alcuni settori dell'industria. Al variare delle quantità in ingresso in un determinato ciclo industriale verificabile con fatture di acquisto dei materiali, si potrà prevedere attraverso il fattore teorico -elaborato secondo i criteri sopra indicati- la quantità di rifiuto a valle o di materiale riciclabile.
8) Nel settore dei rifiuti radioattivi occorrerà riprendere le proposte di legge presentate da maggioranza ed opposizione nel corso della XIII legislatura (su sollecitazione della Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti che aveva predisposto allo scopo un esauriente documento) in materia di siti di stoccaggio delle scorie nucleari che prevedevano la figura di un'autorità super partes (una sorta di Comunicatore) in grado di fornire alla popolazione informazioni di dettaglio e spiegazioni sulla validità della scelta di un determinato sito.
9) Occorre prevedere interventi del legislatore per qualificare meglio la figura del responsabile tecnico prevista dall'attuale normativa nelle aziende di smaltimento e spesso rivelatasi priva di requisiti di affidabilità, di capacità tecnica e di capacità organizzativa. Diviene indispensabile l'attivazione di specifici corsi di formazione da parte delle Istituzioni Tecniche dello Stato (APAT, ISS, CNR) con esami e test pratici.
Ogni anno in Europa vengono prodotte 6 milioni di tonnellate dei cosiddetti RAEE (il 4% del totale dei rifiuti urbani nell'Unione Europea) e si ritiene che il volume dei rifiuti tecnologici aumenterà di almeno il 4% ogni anno con la conseguenza che in 5 anni ne sarà generato un 20% in più e che in poco più di 10 anni la quantità sarà quasi raddoppiata. Attualmente la crescita dei RAEE supera di circa tre volte l'aumento medio dei rifiuti urbani.
In Italia, la produzione dei RAEE nel 2003 (fonte: Osservatorio Nazionale Rifiuti) è stata di 425.000 tonnellate di RAEE domestici (grandi bianchi, scalda-acqua, piccoli elettrodomestici, condizionatori, elettronica di consumo e telecomunicazione domestica) e di 89.000 tonnelate di RAEE professionali (elettronica professionale e telecomunicazione professionale), con una produzione stimata di circa 20 Kg pro-capite.
Per quanto riguarda la fabbricazione delle apparecchiature elettriche ed elettroniche, il dato riferito all'anno 2002 indica che, nel nostro Paese, sono stati immessi sul mercato 12.000 tonnellate di monitor, 12.400 tonnellate di personal computer, 1.240 tonnellate
di server e workstation, 900 tonnellate di scanner, 2.610 tonnellate di stampanti, 13.800 tonnellate di fax, copiatrici e multifunzione, 4.989 tonnellate di prodotti consumabili per stampanti (inchiostri, toner, ecc.).
Tuttavia, il vero problema dei rifiuti elettronici non è legato tanto alla loro quantità e volume, quanto piuttosto al loro potenziale impatto ambientale conseguente alla gestione del loro fine vita, per effetto delle sostanze pericolose che contengono. Il contenuto altamente tossico dei loro componenti, infatti, aggrava il rischio di impatto ambientale che una cattiva gestione di tali rifiuti può comportare per l'ambiente.
Personal computer, stampanti, telefoni, videocamere, fax, monitor, cartucce d'inchiostro e ancora, frigoriferi, lavatrici, televisori, ecc., contengono tutti sostanze estremamente pericolose quali metalli pesanti (piombo, mercurio, alluminio, rame, cadmio, cromo esavalente) plastiche di vario genere trattate con ritardanti di fiamma bromurati e ftalati, gas per il raffreddamento delle serpentine (CFC) e non solo. La maggior parte di questi elementi, se non correttamente smaltiti o riciclati possono essere causa di gravi forme di malattie per gli esseri umani e provocare danni irreparabili all'intero eco-sistema.
Un trattamento non appropriato e uno smaltimento non corretto dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche comporta la diffusione nell'ambiente di sostanze pericolose per la salute pubblica, la distruzione o comunque lo spreco di materiali che possono essere reimmessi nel ciclo produttivo, con conseguente depauperamento di risorse presenti in quantità limitata sul nostro pianeta.
L'altro elemento di grande criticità connesso alla gestione di queste tipologie di rifiuti è dato dalle attività illegali di trasferimento verso alcune aree dei Paesi in via di sviluppo.
Sebbene le istituzioni internazionali, già dal 1989 con la Convenzione di Basilea, abbiano dettato regole circa il divieto di esportazione di tali rifiuti, alcune inchieste condotte anche da associazioni ambientaliste internazionali, hanno dimostrato che ancora oggi, purtroppo, questa pratica è assai diffusa.
Nonostante la Convezione infatti, molti produttori dall'Europa, dall'Australia, dal Canada e soprattutto dagli Stati Uniti hanno continuato ad esportare i loro rifiuti in Cina e nel resto dell'Asia nascondendo questa operazione sotto l'egida del riciclaggio e del recupero di tutte quelle materie (dall'oro, alle plastiche ai metalli pesanti) di cui il mercato dell'alta tecnologia (e non solo) ha grande bisogno.
Nei paesi di importazione, mancando mezzi, strutture e risorse adeguate, il riciclaggio di questi rifiuti avviene in maniera assolutamente artigianale (dopo aver scomposto i computer le parti non riciclabili vengono bruciate all'aperto; i monitor vengono depositati, in attesa di essere smaltiti, con grave deterioramento di tutte le matrici ambientali; i residui di toner vengono raschiati a mano dalle stampanti alzando nuvole di polvere sottilissima, e così via) e a costi bassissimi (il prezzo medio per lo smaltimento di una tonnellata di rifiuti tossici nei paesi OCSE va dai 100 ai 2000 dollari, in Africa dai 2,5 ai 50. Un lavoratore cinese viene pagato in media 1,5 dollari al
giorno) esponendo i lavoratori - spesso bambini - ai pericoli di un contatto diretto con le sostanze tossiche in essi contenute e danneggiando notevolmente l'ambiente circostante. L'Asia e molti paesi del sud del mondo sono così costretti per povertà a smaltire i resti di prodotti di cui non hanno beneficiato, sobbarcandosene anche i costi ambientali.
Alcuni Paesi, peraltro, tra cui gli Stati Uniti, non hanno ancora ratificato la Convenzione di Basilea sebbene questa, ancora nel 1994, sia stata rafforzata con il «Basel Ban Amendament» che vieta definitivamente l'esportazione di rifiuti tossici dai paesi ricchi a quelli poveri, non ammettendo neanche il riciclaggio tra le motivazioni; tuttavia, finché non ci sarà un'adesione formale di un numero sufficiente di Paesi, gli obblighi posti dall'atto aggiuntivo della Convenzione non entreranno in vigore in nessuno dei Paesi OCSE.
Le impressionanti cifre relative alla produzione dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche e in particolare, i preoccupanti dati relativi ai sistemi di smaltimento in uso, hanno indotto la Commissione d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti ad una attenta analisi dei processi di gestione che regolano il mercato italiano del recupero e del riutilizzo dei RAEE e delle misure di carattere normativo che il Governo e il Parlamento hanno inteso adottare nel corso di questa legislatura con particolare riferimento al decreto legislativo di attuazione delle direttive comunitarie in materia.
Il mercato del riutilizzo e del recupero dei RAEE in Italia è ancora estremamente limitato. Ancora oggi purtroppo, oltre il 90% dei RAEE sono conferiti in discarica, inceneriti o recuperati senza trattamento preliminare, con la conseguenza che una percentuale delle sostanze inquinanti è dispersa nell'ambiente e potrebbe entrare nella catena alimentare.
La gestione dei rifiuti, al contrario, non può e non deve più essere effettuata col solo obiettivo di «buttare via» ciò che non serve più, bensì deve essere obbligatoriamente considerata come una grande opportunità di produrre nuovo valore sfruttando adeguatamente, con modalità dichiaratamente eco-compatibili, l'immensa «risorsa» di cui si dispone e che quasi mai è stata considerata come tale.
Purtroppo, però, la grande opportunità che una gestione corretta dei rifiuti può offrire alle imprese, non ha ancora fatto breccia nel mercato italiano anche in assenza di una legislazione con regole certe e atta a garantire controlli efficaci e il rispetto delle norme e dei processi di lavorazione sostenibili per l'ambiente e sicuri per la salute.
Un altro elemento di sofferenza in cui si trova il mercato del recupero e del riutilizzo corretto dei RAEE, è riconducibile all'elevato livello dei costi che una impresa deve sopportare per disporre delle attrezzature in grado di garantire determinate performance e per operare in conformità alle disposizioni di legge ed alle regole tecniche (linee guida APAT e norme CEI). Costi dei macchinari e tariffe rappresentano, molto spesso un disincentivo allo svolgimento di operazioni di corretto recupero lasciando il campo, il più delle volte, a procedimenti meno onerosi ma, sicuramente meno attenti alla qualità del risultato.
Tali metodologie sono rappresentate, in particolare, dalla cosiddetta «cannibalizzazione», che consiste nell'asportazione solo di alcuni materiali o componenti che hanno un valore commerciale (gas , metalli , compressore) e nello smaltimento in discarica di tutto il resto, e da forme di recupero «approssimativo e parziale» consistenti in procedimenti apparentemente corretti, effettuati con attrezzature solo apparentemente idonee ma che permettono solo un parziale recupero, quasi esclusivamente delle sostanze lesive.
In entrambi i casi, non esistono strumenti che consentano l'individuazione di responsabilità in ordine soprattutto all'immissione sul mercato di prodotti ri-utilizzati e al corretto smaltimento dei residui di lavorazione. In questo quadro risulta evidente come sia possibile l'inserimento nel mercato di soggetti che, abbagliati da facili guadagni e privi di scrupoli, utilizzino pericolose procedure di gestione di queste tipologie di rifiuti compresa quella, precedentemente descritta, del loro trasferimento verso le aree più povere del pianeta.
Diventa necessaria allora, una regolamentazione certa del mercato del recupero. Il trattamento dei rifiuti potrà diventare industria a condizione che il settore sia regolamentato da leggi chiare, che queste siano completate con le rispettive norme di attuazione e che l'applicazione delle regole sia costantemente verificata dagli Organismi di controllo a ciò delegati, in modo che questa risulti nei fatti uguali per tutti e la competizione sul mercato si possa sviluppare verso la ricerca del continuo miglioramento dell'efficacia ambientale e della dovuta efficienza gestionale.
Solo in questo modo si può ottenere una crescita industriale diretta ed indotta, promuovendo cioè, un crescente sviluppo aziendale dei moltissimi operatori sani presenti sul mercato, la nascita di nuove imprese nel settore, il rilancio della produzione industriale delle aziende già oggi capaci di produrre e di esportare tecnologie per il recupero e la valorizzazione della materia, l'incremento dei livelli occupazionali nazionali, il miglioramento significativo degli impatti ambientali, la creazione di valore per le imprese del nostro Paese.
Con l'emanazione del decreto legislativo n. 151 del 25 luglio 2005, che ha dato attuazione alle direttive comunitarie 2002/95/CE, 2002/96/CE e 2003/108/CE, il Governo ha cercato di avviare a soluzione alcune di queste evidenti criticità.
Le tre direttive sono finalizzate, in particolare, a ridurre (ed in alcuni casi a vietare) l'utilizzo di determinate sostanze pericolose nelle apparecchiature elettriche ed elettroniche, nonché a promuovere il reimpiego, il riciclaggio ed il recupero dei relativi rifiuti, per i quali è prescritta una rigorosa e dettagliata disciplina.
Con queste direttive si è avviata una vera e propria rivoluzione per tutto il comparto industriale, in particolare per quello elettronico, elettrico e dell'informatica.
L'adozione di tali direttive è stata imposta, come detto, dalla crescente preoccupazione dell'Unione Europea in ordine al rapido aumento e alla pericolosità dei rifiuti elettronici, oltre il 90% dei quali va attualmente in discarica senza alcun adeguato trattamento preliminare di eliminazione delle sostanze pericolose il cui utilizzo sarà bandito negli stessi apparecchi a partire dal 2006.
La Direttiva 2002/96/CE reca «(...) misure miranti in via prioritaria a prevenire la produzione di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche il loro reimpiego, riciclaggio e ad altre forme di recupero in modo da ridurre il volume di rifiuti da smaltire».
La direttiva applica il concetto della Responsabilità estesa del produttore (chi inquina paga). I produttori avranno l'obbligo di provvedere al finanziamento delle operazioni di raccolta, stoccaggio, trasporto, recupero, riciclaggio e corretto smaltimento delle proprie apparecchiature una volta giunte a fine vita. Tale responsabilità finanziaria sarà di tipo individuale, per i prodotti immessi sul mercato dopo l'entrata in vigore dei recepimenti nazionali della direttiva, e collettiva per i prodotti immessi sul mercato prima di tale data.
Nella Direttiva viene previsto un rafforzamento della responsabilità dei singoli produttori delle apparecchiature, i quali oltre ad organizzare e finanziare il recupero, la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti hi-tech dovranno anche provvedere alla progettazione secondo principi di eco-design e prevenzione.
Di pari importanza è la Direttiva «gemella» alla RAEE, la RoHS 2002/95/CE (RoHS - Restriction of the Use of Certain Hazardous Substances in Electrical and Electronic Equipment), la quale prevede che gli Stati membri dell'Unione Europea provvedano, sempre dal luglio 2006 all'eliminazione dalle apparecchiature di nuova produzione di alcune sostanze altamente nocive e, di conseguenza, alla sostituzione delle stesse con materie sicure o più sicure.
La direttiva RoHS si applicherà alle Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche che rientrano nelle categorie previste dall'allegato I A della Direttiva RAEE 2002/96/CE (grandi elettrodomestici, piccoli elettrodomestici, apparecchiature informatiche e per telecomunicazioni, apparecchiature di consumo, apparecchiature di illuminazione, strumenti elettrici ed elettronici, giocattoli e apparecchiature per lo sport e il tempo libero, distributori automatici), nonché alle lampade ad incandescenza e ai lampadari delle abitazioni, con lo scopo di limitare l'uso di sostanze pericolose nelle AEE non solo in funzione della tutela della salute umana, ma anche in funzione del recupero e dello smaltimento ecologicamente corretto di tali rifiuti; infatti, imponendo una restrizione dell'uso di tali sostanze pericolose aumenteranno con molta probabilità le possibilità e la convenienza economica del riciclaggio dei RAEE e diminuirà l'impatto negativo sulla salute dei lavoratori degli impianti di riciclaggio.
Dalla data del 1o luglio 2006 gli Stati membri provvederanno affinché le AEE di nuova produzione non contengano piombo, mercurio, cadmio, cromo esavalente, bifenil polibromurati (PBB) e/o etere di difenile polibromurato (PBDE).
I produttori delle apparecchiature, nell'impiegare tali sostanze, dovranno stabilire valori massimi di concentrazione al di sotto dei quali è tollerata la presenza delle sostanze stesse nei materiali e nei componenti delle AEE.
Entrambe le direttive condividono comunque lo stesso obiettivo di migliorare la qualità della vita, se non nel presente, almeno nell'immediato futuro.
Pertanto gli Stati membri dovranno adottare misure adeguate al fine di ridurre al minimo lo smaltimento dei RAEE come rifiuti urbani misti, per poter raggiungere un elevato grado di raccolta separata dei rifiuti elettronici stessi.
La direttiva RAEE stabiliva che gli Stati membri dell'Unione Europea avrebbero dovuto procedere al recepimento nel proprio ordinamento giuridico entro il 13 agosto 2004, data che, purtroppo, è stata rispettata solamente dalla Grecia.
Il decreto legislativo n.151, emanato con circa un anno di ritardo rispetto a quanto previsto dalle direttive, ha prorogato la data per la realizzazione di un sistema organico di gestione dei RAEE al 13 agosto 2006, al fine di garantire, entro il 31 dicembre 2008, il raggiungimento dell'obiettivo (minimo) di 4 Kg. medi per abitante di raccolta separata.
La nuova normativa prevede importanti adempimenti: impone innanzitutto limitazioni all'utilizzo di sostanze pericolose, detta principi per la costruzione e la gestione a fine vita delle apparecchiature elettriche ed elettroniche oltre a prevedere obblighi gestionali e finanziari per la gestione dei rifiuti derivanti dalle stesse apparecchiature, suddividendoli sia per tipo di provenienza, rifiuti provenienti dai «nuclei domestici» o provenienti da «utenti diversi dai nuclei domestici», che per periodo di «costruzione», distinguendo i «rifiuti storici» dai «rifiuti nuovi».
Nello schema previsto, i produttori sono responsabili, su base individuale, del finanziamento relativo ai «rifiuti nuovi», per quanto riguarda i rifiuti provenienti sia da nuclei domestici che da utenti diversi da nuclei domestici.
Gli obblighi previsti, tuttavia, interessano un'ampia pluralità di soggetti, dai produttori ai consumatori finali, ai detentori del bene giunto a fine vita; dalla Pubblica Amministrazione, agli esportatori, ai distributori e agli impianti di gestione dei rifiuti.
Le apparecchiature di nuova immissione dovranno sempre riportare il marchio identificativo del produttore ed il simbolo, rappresento dal «cassonetto mobile barrato», che evidenzi l'immissione sul mercato posteriore al 13 agosto 2006 oltre ad indicare la necessità di effettuare una raccolta separata di quelle apparecchiature elettriche ed elettroniche, in modo che sia sempre possibile individuare chiaramente il produttore ed attribuirgli le competenti responsabilità.
Lo schema previsto dal decreto RAEE prevede che i produttori abbiano l'onere della progettazione ecologica, pensando fin dall'inizio alla gestione del fine vita dei rifiuti; i consumatori potranno consegnare, senza costi, i loro beni ormai giunti a fine vita presso i distributori o presso le piazzole di raccolta ed il successivo sistema di recupero e di gestione eco-compatibile sarà finanziato dai produttori e/o dagli importatori.
Per quanto riguarda la raccolta differenziata di almeno 4 kg/anno di rifiuti hi-tech pro-capite ed al fine di assicurare una corretta gestione dei RAEE, il decreto predispone l'istituzione di un adeguato sistema informativo agli utenti di apparecchiature elettriche ed elettroniche riconducibili ai nuclei domestici ed in particolare circa: l'obbligo di non smaltire i RAEE come rifiuti urbani misti e di effettuare una raccolta separata degli stessi; i sistemi di raccolta
disponibili, nonché la possibilità di riconsegnare al distributore l'apparecchiatura dismessa all'atto dell'acquisto di una nuova; gli effetti potenziali sull'ambiente e sulla salute umana come risultato della presenza di sostanze pericolose; il significato del simbolo (il «cassonetto mobile barrato») oltre alle sanzioni previste in caso di smaltimento abusivo di tale tipologia di rifiuti.
Si richiede inoltre che i produttori forniscano informazioni in materia di reimpiego e trattamento per ogni tipo di nuove AEE immesso nel mercato entro un anno dalla data di immissione sul mercato dell'apparecchiatura.
In linea di principio, il decreto prevede che venga privilegiato il reimpiego degli apparecchi interi, mentre per quanto riguarda i RAEE inviati al trattamento vengono previste percentuali di recupero variabile da un minimo del 70% ad un massimo dell'80% in peso medio per apparecchio, a seconda della categoria di appartenenza, e percentuali di reimpiego e riciclaggio di componenti variabile da un minimo del 50% ad un massimo del 75% in peso medio per apparecchio sempre a seconda della categoria di appartenenza.
Il decreto, infine, prevede anche un sistema sanzionatorio sostanzialmente in linea con gli orientamenti comunitari.
Il decreto legislativo n. 151, nel complesso, risulta aderente agli obblighi previsti dalle direttive comunitarie; rimangono irrisolte tuttavia, alcune questioni che, nell'ambito dei lavori svolti dalla Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, sono state rappresentate da molti dei soggetti che sono stati auditi nello specifico di tali tematiche.
La difficoltà del tema ha portato ad un testo di recepimento complesso ed ancora non esaustivo nella definizione, in particolare, dei meccanismi operativi. L'organizzazione del sistema di raccolta differenziata dei RAEE, ad esempio, non è stato definito rimandando i chiarimenti sugli aspetti pratici ad una serie di successivi decreti attuativi.
Così come sono stati rimandati all'emanazione di successivi decreti di attuazione altri adempimenti necessari a far funzionare l'intero sistema quali l'istituzione e le modalità di funzionamento del Comitato di vigilanza e controllo, l'istituzione e le modalità di funzionamento del Comitato di indirizzo per la gestione dei RAEE, quelle del Registro dei Produttori, nonché della costituzione del Centro di Coordinamento di tale Registro, finalizzato all'ottimizzazione delle attività di competenza dei sistemi collettivi, a garanzia di comuni, omogenee e uniformi condizioni operative.
La possibilità di far funzionare il sistema in modo efficace puntando, in particolare, a massimizzare i processi di recupero, riciclaggio e riutilizzo di queste tipologie di rifiuti, è dunque fortemente condizionata dalle scelte che si faranno con l'emanazione di questi provvedimenti attuativi.
Il ritardo accumulatosi nella fase di recepimento della direttiva comunitaria verosimilmente comporterà un sensibile differimento anche della fase operativa; la realizzazione dei previsti centri di raccolta, infatti, finirà col subire anch'essa un ritardo.
Si corre, pertanto, il rischio che l'intero sistema non riuscirà ad andare a regime con conseguente danno per l'intera filiera del recupero.
La Commissione sul ciclo dei rifiuti auspica che anche da questi provvedimenti giungano risposte concrete e regole certe, soprattutto per il mercato che ruota intorno a tali sistemi. Da questo punto di vista, infatti, il decreto legislativo n. 151 del 2005 merita di essere implementato in particolare per quello che riguarda le garanzie di qualificazione che gli operatori del settore del recupero e del riutilizzo dovranno fornire. Per intervenire in questo mercato sarà sufficiente l'iscrizione in una specifica categoria dell'Albo delle imprese di gestione dei rifiuti (un semplice adempimento amministrativo), senza che siano previste verifiche di qualità e di competenza delle imprese.
Tale impostazione appare sbilanciata a favore dell'esigenza di garantire che il mercato rimanga aperto e competitivo con il rischio, tuttavia, di una eccessiva frammentazione dello stesso e conseguente difficoltà di controllo e di garanzia circa la qualità del lavoro e delle performance messe in atto.
Altro elemento di criticità che appare utile sottolineare è dato dalla introduzione della definizione di «Apparecchiatura Usata». Tale definizione infatti, non prevista dalla direttiva, pone in capo ai distributori l'onere di decidere dell'eventuale riutilizzazione dell'apparecchiatura giunta a fine vita purché integra, nonché di ritirarla senza applicare la normativa sui rifiuti; la direttiva, al contrario, fa ricadere nel termine reimpiego il riutilizzo dei RAEE integri o dei loro componenti (ovvero: l'uso per cui erano stati inizialmente concepiti).
Il decreto legislativo n. 151 del 2005 prevede che solo dopo la valutazione sul possibile reimpiego da parte del distributore vi sia l'effettiva generazione del rifiuto che sarà quindi considerato in carico all'esercente; una tale anomala soluzione è servita solamente a superare l'impasse che si avrebbe nel considerare il distributore come un gestore di rifiuti, con la relativa necessità di possedere le obbligatorie autorizzazioni. Il rifiuto riconsegnato, infatti, dovrà essere considerato come prodotto dal punto vendita e non come ritirato da terza parte, anche se non è chiaro se permane la necessità di adempiere alla compilazione del «Registro di carico e scarico», dei formulari e del MUD oltre alle osservanze previste per il deposito temporaneo.
Di contro, tuttavia, il sistema così concepito potrebbe dar luogo all'espansione delle attività improprie di commercializzazione incontrollata di RAEE come beni, anche e soprattutto all'estero nascondendo, in alcune realtà, veri e propri smaltimenti abusivi. È pur vero che il decreto stabilisce che il reimpiego non deve costituire un'elusione degli obblighi dei produttori, in particolare quelli relativi al raggiungimento degli obiettivi di recupero, e che pertanto deve essere privilegiato il reimpiego delle apparecchiature intere, ma tali previsioni, considerata l'assenza di regole precise sulla manutenzione dei beni in questione e sulla responsabilità del distributore, appaiono insufficienti ad evitare che la prassi del reimpiego diventi un'autorizzata elusione agli obblighi previsti dalla direttiva, oltre a quelli di sicurezza, senza entrare nel merito di quelli fiscali.
L'ultima questione che appare significativo sottolineare riguarda la raccolta separata dei RAEE. Come detto, in linea con gli orientamenti comunitari, il decreto legislativo ha posto in capo ai produttori gli oneri maggiori, per lo più sotto forma di finanziamento delle operazioni lungo l'intera filiera di recupero e trattamento dei RAEE. L'unica eccezione prevista, anch'essa conforme ai principi della direttiva, è stata quella di sollevare le aziende dall'onere del finanziamento della raccolta dei rifiuti provenienti dai nuclei domestici, in quanto il ritiro gratuito dovrebbe, da solo, incentivare fortemente i consumatori a restituire i rifiuti di AEE nei luoghi adatti, designati dalle autorità competenti.
Tuttavia, sebbene le autonomie locali dispongano già delle infrastrutture di raccolta capillare e per questo dovrebbero rappresentare il più efficiente operatore per organizzare la raccolta di più flussi di rifiuti, l'auspicio della Commissione è che al di là di qualsiasi previsione normativa l'incremento della raccolta differenziata delle apparecchiature elettroniche (e non solo), divenga patrimonio comune delle istituzioni, degli operatori del settore e di tutti i cittadini chiamati anch'essi a svolgere la loro parte attiva in un processo di sviluppo economico e produttivo coerente con i principi dello sviluppo sostenibile
Infatti il numero delle fonti radiogene detenute sia in ambito industriale che in ambito sanitario è molto elevato con evidenti problemi di sicurezza sia sotto il profilo della tutela ambientale (per evitare illeciti smaltimenti), sia sotto il profilo della sicurezza pubblica (al fine di evitare un uso improprio o addirittura criminale).
Per quanto qui interessa, occorre innanzitutto precisare che il radio (Ra - 226) - un radionuclide con un tempo di dimezzamento di circa 1600 anni, caratterizzato da emissione in equilibrio con i propri discendenti, di radiazioni gamma considerevolmente penetranti - è stato usato sin dal 1920 in aghi, placche e tubi per la cura di determinati tumori.
I preparati di radio venivano assegnati inizialmente dall'Istituto Superiore di Sanità e, successivamente, dal Ministero della salute alle strutture sanitarie ove veniva praticata la cosiddetta «radioterapia».
L'impiego in Italia di preparati radiferi nella cura di patologie tumorali è cessato verso la fine degli anni '80, allorchè vennero utilizzate altre terapie più efficaci e meno pericolose ed invasive per i pazienti.
Soltanto nel 2000 il Consiglio Superiore di Sanità dichiarò ufficialmente che la metodologia terapeutica utilizzante il radio doveva essere considerata assolutamente obsoleta e che bisognava in
ogni modo reperire e recuperare il radio ancora giacente presso le strutture sanitarie.
Tuttavia detti preparati radiferi a tutt'oggi risultano in parte essere detenuti presso le strutture sanitarie assegnatarie.
Pertanto questi materiali debbono essere considerati, ai sensi dell'articolo 4, comma, lett. i) del decreto legislativo 17 marzo 1995, n.230 «rifiuti radioattivi», non essendo previsto per essi «il riciclo o la riutilizzazione».
Dal 1986 l'ENEA, attraverso la NUCLECO S.p.a., ha iniziato il recupero di detti rifiuti radioattivi non più utilizzati dalle strutture ospedaliere.
Ma nel 1997 la NUCLECO S.p.a. ha dovuto sospendere il ritiro dei preparati radiferi poiché il deposito era saturo.
In ogni caso, la NUCLECO S.p.a., su esplicita richiesta delle strutture ospedaliere hanno continuato a mettere in sicurezza i materiali radiferi che giacevano presso le strutture stesse.
Attualmente la NUCLECO S.p.a. detiene circa 74 grammi di radio e circa 7-7,5 grammi è ancora giacente presso gli ospedali.
Il Ministero della Sanità, con nota DPV. V07/3.1.2.1 H/665 del 16 aprile 1998, per meglio censire la situazione nazionale relativa alla giacenza dei preparati di radio - 226, ha trasmesso un questionario ricognitivo a tutti gli assessori della Sanità delle regioni, allo scopo di redigere una dettagliata lista delle aziende sanitarie in possesso di tali preparati.
La Commissione, come si è detto in esordio, ha svolto un'accurata ed approfondita indagine sulla problematica dei preparati radiferi, svolgendo audizioni di soggetti istituzionali, quali Istituto Superiore di Sanità, ENEA, NUCLECO S.p.a., APAT e Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente.
A seguito degli accertamenti, sono emerse specifiche criticità che di seguito si espongono:
a) I preparati radiferi sono pericolosi non solo per l'irraggiamento gamma che ne deriva, ma anche perché se non adeguatamente schermati e contenuti in appositi contenitori emettono il radon (gas radioattivo, la cui presenza negli ambienti interni costituisce la seconda causa di tumore al polmone, dopo il fumo, nel mondo).
b) I preparati radiferi sono realizzati in forme metalliche di piccolissime dimensioni e quindi difficilmente percepibili quali fonti di pericolo radiologico.
Detti preparati potrebbero essere smaltiti illecitamente, con particolare riferimento alle strutture private, considerati i costi elevatissimi della loro messa in sicurezza.
Poiché il deposito della NUCLECO S.p.a. è saturo, alcune strutture sanitarie hanno scelto delle soluzioni privatistiche per la messa in
sicurezza del radio, attraverso l'utilizzo di alcune società che prelevano il materiale per trasferirlo all'estero, senza che queste diano sufficienti garanzie di uno smaltimento lecito.
c) I sopralluoghi effettuati presso alcune strutture sanitarie hanno evidenziato l'impossibilità di rinvenire le prescritte autorizzazioni, nonché i registri di radioprotezione (registri dell'Esperto qualificato) relativi ai preparati radiferi.
Inoltre non è stato possibile ricostruire i passaggi di consegna tra i diversi esperti qualificati che si sono succeduti nel tempo al fine di garantire una adeguata e costante sorveglianza fisica dei preparati suddetti.
d) I circa 7 - 7,5 grammi di radio ancora giacenti ufficialmente presso le strutture sanitarie pubbliche debbono essere definitivamente messi in sicurezza perché posti in contenitori molto vecchi che possono rilasciare il gas radon nell'ambiente.
e) In tutto il territorio nazionale risultano distribuiti circa 30 - 40 grammi di radio di cui non se ne conosce esattamente la collocazione.
Il fatto che detti materiali radioattivi possono non essere sotto controllo rientra, a livello più generale, nel fenomeno delle cosiddette «sorgenti orfane».
f) I preparati radiferi meritano particolare attenzione per il loro possibile utilizzo per la costruzione di ordigni non convenzionali, quali la cosiddette «bombe sporche» (1).
A tal proposito, particolarmente significativa appare la Direttiva Euratom 2003/112 del 12 dicembre 2003, che incoraggia gli Stati membri dell'Unione europea ad introdurre sistemi volti all'individuazione ed al ritrovamento di eventuali sorgenti orfane, promovendo l'organizzazione di campagne di recupero. La direttiva contempla anche la possibilità di una partecipazione finanziaria degli Stati membri alle spese di recupero, gestione e messa in sicurezza.
Posto ciò si ravvisa l'opportunità di introdurre nel nostro ordinamento una norma che preveda la non punibilità del detentore o possessore di preparati radiferi se provvede a farne denuncia e
successivamente a consegnarli all'autorità di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, entro il termine di tre mesi decorrenti dall'entrata in vigore della legge.
Dovrà essere inoltre normativamente previsto che, in ogni caso, i costi per il recupero, la gestione e la messa in sicurezza debbono essere sostenuti interamente dallo Stato.
Tali previsioni consentirebbero la messa in sicurezza delle sorgenti orfane e di evitare nel contempo la soggezione dei soggetti responsabili delle sorgenti stesse alle gravose sanzioni penali previste dal decreto legislativo n.230 del 1995.
Sarebbe, inoltre, opportuno che la gestione e le messa in sicurezza di detti preparati radiferi venisse affidata esclusivamente allo Stato, al fine di evitare la possibilità di un loro smaltimento illecito, stante anche le ridottissime dimensioni dei materiali in questione.
Opportuna sarebbe anche la previsione della costruzione di idonei depositi di tipo definitivo (di cui attualmente l'Italia non dispone), in cui collocare i materiali radioattivi e il combustibile irraggiato proveniente dalle operazioni di disattivazione.
Già nella relazione sulle attività della Commissione approvata nel mese di luglio 2004, erano già state espresse alcune considerazioni in ordine al decreto legislativo n. 209, del 24 giugno 2003, di attuazione della direttiva 2000/53/CE in materia di veicoli fuori uso.
In quel contesto erano stati sollevati alcuni rilievi critici nei confronti del testo licenziato dal Parlamento e si suggerivano alcune modifiche al fine di renderlo più aderente ai principi e ai criteri indicati dalla direttiva.
Nel frattempo, la Commissione delle Comunità Europee ha avviato nei confronti dell'Italia una procedura d'infrazione (n.2003/2204) per il non corretto recepimento delle disposizioni contenute nella direttiva e, con parere motivato, ha formulato alcuni rilievi di merito.
Deve essere rilevato, peraltro, che è in fase di elaborazione un nuovo decreto legislativo che ha lo scopo di apportare modifiche ed integrazioni al decreto 209/03, tendenti a recepire tali rilievi.
Appare utile, a tale ultimo riguardo, rappresentare un giudizio sostanzialmente positivo in ordine all'articolato in corso di predisposizione, soprattutto nella parte in cui sembra recepire i rilievi formulati dalla Commissione europea nonché alcune delle considerazioni critiche che questa stessa Commissione aveva espresso in precedenza.
Si rileva, infatti, che il nuovo testo presenta un carattere innovativo in particolare per quanto attiene all'estensione delle norme applicabili ai veicoli a tre ruote soprattutto nella parte che riguarda
l'organizzazione di una rete di centri di raccolta da parte dei produttori di tali veicoli.
Vengono inoltre accolti completamente i rilievi sulla non corrispondenza della definizione di «trattamento» tra il testo vigente e la direttiva; così come vengono indicate altre modalità di organizzazione del sistema, più aderenti all'organizzazione del mercato italiano dei veicoli.
In particolare, dalle audizioni degli organi inquirenti è emerso come nessuna regione d'Italia può considerarsi fuori dalle rotte del traffico illecito di rifiuti, sia urbani che speciali. Se fino a poco tempo fa si diceva, semplicisticamente, che la Campania ed in genere le regioni meridionali erano le tappe ultime dei traffici illeciti, oggi si può affermare che si è di fronte ad un fenomeno dalle dimensioni nazionali e transnazionali.
Le numerose operazioni di polizia giudiziaria, sulle quali la Commissione ha ritenuto di portare costantemente la propria attenzione sia per aggiornare la descrizione fattuale del fenomeno che per suggerire opportuni rimedi amministrativi e legislativi, hanno evidenziato come i rifiuti si muovano non solo dal settentrione verso il Mezzogiorno, dove i rifiuti vengono smaltiti in discariche non autorizzate, cave dismesse, specchi d'acqua (si pensi ai cd. «laghetti della camorra» del litorale Domiziano, sottoposti a sequestro dal Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente ed oggetto di un recente piano di riqualificazione da parte del Ministero dell'Ambiente) o nel sottosuolo di fondi anche a destinazione agricola.
Oggi devono registrarsi anche le rotte che dal nord-ovest vanno al nord-est, che dal nord arrivano al centro e anche quelle che dal sud portano al nord, con la nascita di veri e propri cartelli di trafficanti che operano sia a livello regionale che interregionale.
A tal proposito, è emblematica l'indagine «Eldorado», condotta dal Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente e coordinata dalla Procura presso il Tribunale di Milano, che ha svelato l'illecito operare di una organizzazione criminale dedita all'illecito trasporto nelle province di Varese, Como e Milano dei rifiuti provenienti dagli impianti di tritovagliatura di Giffoni Valle Piana (SA) e di Paolisi (BN), durante la cosiddetta emergenza dell'emergenza verificatasi in Campania nel 2003. In particolare, i rifiuti in questione, invece di essere smaltiti presso siti autorizzati, venivano inviati «tal quali» in impianti per la produzione di compost per l'agricoltura o, addirittura, venivano «tombati» in buche realizzate presso cantieri edili o all'interno di insediamenti produttivi.
Le vicende giudiziarie di cui la Commissione è venuta a conoscenza dimostrano, altresì, l'esistenza di una nuova rotta che ha spostato il traffico dalla dorsale tirrenica a quella adriatica, coinvolgendo in particolare le aree interne del litorale abruzzese e molisano.
La contaminazione di zone, tradizionalmente esenti da presenze criminali, organizzate e non, è confermata dall'indagine «Mosca», condotta dal Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente, in collaborazione con il ROS, e coordinata dalla Procura presso il Tribunale di Larino (CB), nei confronti di un sodalizio criminale, operante tra Campania e Molise, nel settore del traffico illecito di rifiuti. Le indagini hanno consentito di documentare come l'organizzazione gestisse quantitativi elevatissimi di rifiuti speciali pericolosi, provenienti dal nord Italia, in particolare dal sito industriale di Porto Marghera (VE), che venivano smaltiti abusivamente in aree situate a ridosso del litorale molisano, in prossimità di greti di fiumi e torrenti, nonché in terreni coltivati, grazie anche alla complicità di locali aziende agricole, che impiegavano i fanghi contaminati come fertilizzanti. I rifiuti, quantificabili nell'ordine di migliaia di tonnellate, contenenti arsenico, solfuri, mercurio, cromo, rame, piombo e reflui ad alta tossicità, erano accompagnati nel loro tragitto da falsa documentazione, che non ne certificava il reale livello di pericolosità. Tra i beni sottoposti a sequestro ci sono anche quattro ettari di terreno, ove erano stati occultati ingenti quantitativi di rifiuti pericolosi. Il terreno, peraltro, era stato coltivato a grano, successivamente raccolto e venduto nella quantità di nove tonnellate ad un consorzio locale operante nel campo della distribuzione di genere alimentari. Il cereale, interamente sottoposto a sequestro, risultava contenere, agli esami di laboratorio, un'alta concentrazione di cromo.
I tanti traffici che ruotano attorno al ciclo dei rifiuti evidenziano il ruolo chiave svolto dai centri di stoccaggio.
Questi siti intermedi, nati per facilitare le attività di recupero, si sono trasformati in un vero e proprio serbatoio di illegalità. I predetti centri, oltre a presentare spesso un'impiantistica inidonea per eseguire quei trattamenti per i quali sono stati autorizzati, sono siti dove si procede con disinvoltura ad attività di miscelazioni tout court di rifiuti speciali pericolosi con quelli non pericolosi. L'attività illecita, inoltre, è completata dall'alterazioni e falsificazioni dei documenti di accompagnamento delle tipologie dei rifiuti, che vengono così avviati a forme di smaltimento non corrette ed in dispregio della normativa, consentendo, allo stesso tempo, una forte riduzione di costi per le imprese.
Altro anello debole della catena del ciclo della gestione dei rifiuti è quello rappresentato dai laboratori di analisi. Infatti, la declassificazione e la conseguente falsificazione delle caratteristiche reali dei rifiuti, nel transito da un centro di stoccaggio all'altro, si realizza principalmente con l'opera fraudolenta dei laboratori, che, attestando falsamente l'idoneità analitica dei rifiuti, rendono compatibile il loro smaltimento in siti all'occorrenza individuati. I cosiddetti «colletti bianchi» dell'eco-criminalità non hanno più bisogno di occultare o sversare i rifiuti in aree incustodite lontane dal controllo delle forze dell'ordine, stringendo eventualmente accordi con la locale criminalità organizzata; sfruttando la complicità del chimico di turno, che
predispone certificati analitici falsi, o con la copertura di funzionari pubblici corrotti, che rendono pressoché nulle le possibilità di un controllo preventivo di natura amministrativa, riescono a «ripulire» interi carichi di rifiuti speciali, che poi finiscono per essere smaltiti in impianti non idonei.
In sintesi, la procedura del cd. «giro bolla» si realizza secondo le seguenti fasi: i rifiuti prelevati dalla impresa produttrice giungono presso le società che dovrebbero effettuare il recupero, ma, in realtà, non sono assoggettati ad alcun tipo di trattamento (e ciò per diversi motivi: la carenza di impianti idonei, l'impossibilità di una successiva commercializzazione, il risparmio sui costi di gestione).
L'unica attività svolta consiste nel sostituire il formulario che accompagna il rifiuto con altro F.I.R. ovvero con documento di trasporto recante la nuova denominazione (ad es.: ammendante, terricciato, terre e rocce, ecc). I medesimi rifiuti ripartono, quindi, alla volta del centro finale di smaltimento, da dove poi vengono trasferiti in cave per la ricomposizione ambientale, sparsi su terreni come «compost» per l'agricoltura, utilizzati per sottofondi stradali o interrati in buche realizzate in fondi di proprietà di privati compiacenti.
Inoltre, le più recenti indagini hanno evidenziato come al «giro bolla» si sia aggiunto - come è emerso, in particolare, a seguito della audizioni dei Carabinieri del Comando per la Tutela dell'Ambiente impegnati nell'indagine «Houdini»- la pratica del «codice prevalente»: una partita ottenuta dalla miscelazione di rifiuti con codici diversi viene identificata con il CER del rifiuto presente in maggior quantità.
Ulteriore elemento di riflessione, emerso dalle attività della Commissione, è l'esistenza di soggetti e società commerciali di intermediazione, il cui compito è quello di mettere in contatto l'impresa produttrice di rifiuti con il trasportatore o lo smaltitore.
Di fatto le società di intermediazione costituiscono veri e propri motori dell'intera attività relativa allo smaltimento dei rifiuti. Per la loro natura di aziende di servizi, tali società non entrano «fisicamente» mai a contatto con i rifiuti, la loro attività riguardando, infatti, esclusivamente l'organizzazione dell'illecito circuito finalizzato allo smaltimento.
Spesso i soggetti che effettuano questo tipo di attività movimentano centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti, senza muoversi dai propri uffici.
L'indagine «Cassiopea» della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere (CE) è particolarmente sintomatica del modus operandi di tali soggetti; l'organizzazione indagata si articolava, al suo interno, in settori con specifiche specializzazioni: tra queste è interessante il ruolo dei cd. «stakeholders», cioè coloro che ascoltano e recepiscono le esigenze dell'utenza, soggetti che stabilmente hanno contatti con i responsabili ambiente e qualità di molte imprese, realizzando, di fatto, una sorta di «ecoaudit».
In linea generale, quindi, si può affermare che la gestione illecita dei rifiuti è orientata secondo due direttive principali.
La prima vede il realizzarsi di forme di inquinamento, per così dire, episodico e non organizzato; si tratta cioè, di attività poste in
essere senza la preoccupazione di munirsi dell'usbergo della norma, risolvendosi nello smaltimento di rifiuti in assenza di qualsiasi autorizzazione. Si tratta, in buona sostanza, di un comportamento volto semplicemente a fare del territorio un luogo di abbandono dei rifiuti.
L'illegalità diffusa ha motivazioni differenti che vanno dal mero conto economico alla minore sensibilità ambientale, ad arretratezze culturali che in certe zone del territorio nazionale fanno si che tante aree pubbliche siano considerate terra di nessuno.
Di particolare significato, in tale prospettiva, è, altresì, l'operazione «Terra Mia», svolta dal Corpo Forestale dello Stato e coordinata dalla Procura della Repubblica di Nola.
Gli accertamenti hanno riguardato lo smaltimento illecito di olii minerali, piombo, scorie saline, schiumature di alluminio, nonché polveri di abbattimento dei fumi degli altoforni: il tutto veniva disperso su centoventi ettari di terreno, ai confini di campi coltivati o di zone sottoposte a bonifica come i Regi Lagni. Una sorta di «triangolo dei veleni» tra i Comuni di Nola, Marigliano e Acerra, dove sono state sequestrate 25 discariche. Per tutti gli indagati l'accusa è di associazione a delinquere finalizzata al traffico e allo smaltimento illegale di rifiuti, truffa aggravata e disastro ambientale.
L'indagine è partita da uno screening del territorio in questione, che ha fatto sorgere sospetti sulle attività delle società coinvolte, in considerazione dell'assenza in Campania di discariche per lo smaltimento di alcuni degli inquinanti sopra indicati. L'esito ha confermato i sospetti: la soluzione escogitata dagli imprenditori era facile ed economica: abbandonare i rifiuti tal quali sul territorio.
La seconda direttrice, invece, passa attraverso la «simulazione» del rispetto della normativa, sicché la conseguente illecita gestione, sebbene «coperta» da autorizzazioni valide, utilizza false certificazioni attestanti la non pericolosità dei rifiuti.
Non è la sola criminalità organizzata ad operare in modo illegale.
Esistono, infatti, società commerciali che hanno come «ragione sociale» proprio la gestione illecita di rifiuti, soprattutto di origine industriale.
L'operare in dispregio delle prescrizioni normative in tema di rifiuti genera, peraltro, non solo gravissimi e spesso irreversibili danni all'ambiente, ma causa anche una catena ininterrotta di atti emulativi da parte di altre imprese che giustificano il loro operare nell'illegalità quale comportamento obbligato a difesa della loro capacità imprenditoriale.
Da un punto di vista strettamente aziendalistico, infatti, la gestione dei rifiuti derivanti dai processi produttivi rappresenta per le imprese un costo che, negli ultimi anni, si è incrementato con il crescere dell'attenzione delle istituzioni e del legislatore alla tutela ambientale. Tale tendenza ha creato effetti distorsivi nel mercato, ponendo in essere una vera e propria concorrenza sleale, il che ha indotto diffusi comportamenti emulativi.
Conseguentemente, si è accresciuta, ovunque, la propensione all'illecito smaltimento nonché la dimensione del mercato illegale gestito dalla criminalità, attratta dalla possibilità di realizzare ingenti
guadagni, anche attraverso il ricorso ad indebite percezioni di finanziamenti pubblici.
Sicché il mercato illecito dei rifiuti si presenta caratterizzato da tre tipologie fondamentali di soggetti:
le imprese che mirano a risparmiare i costi di eco-compatibilità;
le imprese che fanno dello sfruttamento illecito dell'ambiente il proprio oggetto sociale;
le imprese controllate o gestite direttamente dalla criminalità organizzata che offrono 'servizi' in materia ambientale, anche sfruttando la rete di rapporti transnazionali.
Non solo.
Come ampiamente riferito nella Relazione sulla Campania, e come da ultimo anche per l'esperienza commissariale calabrese, spesso è accaduto che la stessa struttura commissariale per l'emergenza rifiuti abbia favorito se non proprio agito da complice delle organizzazioni criminali dedite al traffico illecito dei rifiuti ed allo sfruttamento illecito delle risorse ambientali.
In tale ambito, assumono un rilievo particolare le recentissime attività di indagine coordinate dalla Procura presso il Tribunale di Napoli e svolte dal Comando Carabinieri Tutela per l'Ambiente che hanno riguardato imprese assegnatarie di appalti da parte del Commissariato, talora (come nel caso della «Resit») con collegamenti, secondo l'assunto investigativo, alla criminalità organizzata operante nell'area casertana.
Un rilievo particolare merita l'operazione denominata «Ultimo Atto».
L'attività di indagine - sfociata nell'adozione di numerose ordinanze di custodia cautelare - assume connotati di centralità nel panorama nazionale del contrasto agli illeciti ambientali, sia per lo spessore dei soggetti coinvolti, esponenti di primo piano nel campo della gestione dei rifiuti, che per il numero degli stessi (circa 100), che per il fatto di rappresentare la risultante di una esemplare sinergia investigativa che ha visto il contributo, in primo luogo, del Comando Carabinieri per la Tutela Ambiente e del Comando Provinciale Carabinieri di Napoli, nonché del Comando Provinciale della Polizia Tributaria di Napoli - per gli specifici accertamenti in campo fiscale- e della Direzione Investigativa Antimafia, per quanto concerne l'approfondimento dell'illecita attività realizzata da alcuni carabinieri.
L'attività investigativa ha portato alla luce una ben ramificata «rete» di soggetti appartenenti a diversi settori della Pubblica Amministrazione ( in particolare, organi preposti al controllo degli impianti di trattamento e recupero rifiuti ed al rilascio dei provvedimenti autorizzatori, nonché esponenti delle forze dell'ordine) che,
per anni, ha costituito un solido appoggio agli indagati nello svolgimento di diverse attività illecite, tutte poi confluite nel traffico di rifiuti, anche pericolosi (ad esempio, rifiuti contenenti diossine, amianto e sostanze cancerogene).
L'incisività e l'efficacia di tale rete di appoggio risulta vieppiù chiara se solo si considera che, secondo l'assunto degli investigatori:
uno degli indagati, risultato gestore di fatto di tutte le attività del gruppo imprenditoriale PELLINI, è un sottufficiale dei Carabinieri;
che lo stesso impianto di compostaggio, sito in Acerra e gestito dal citato gruppo imprenditoriale, oggetto di verifica favorevole da parte dei tecnici dell'ARPAC, risultava, viceversa, a seguito di controllo delle forze dell'ordine operato solo qualche giorno dopo, assolutamente carente ed inidoneo sotto il profilo tecnico per la produzione di compost. All'atto di tale ultimo controllo, peraltro, si accertava che per la produzione del «compost» erano utilizzati rifiuti contenenti diossina;
le autorizzazioni degli impianti del gruppo PELLINI sono risultate essere fondate su atti e certificazioni tecniche ed amministrative falsi formate e rilasciate da compiacenti funzionari della Pubblica Amministrazione.
nell'ottobre 2003 i PELLINI hanno ottenuto un'ulteriore autorizzazione fondata su dati falsi;
il 16.1.2004, presso il sito gestito in Giugliano dalla POZZOLANA FLEGREA, sono stati rinvenuti rifiuti speciali pericolosi;
nell'agosto del 2004, sempre nel sito di Giugliano della POZZOLANA FLEGREA S.r.l. si è sviluppato un incendio a causa delle sostanze tossiche ivi abusivamente stoccate.
Tutti i rifiuti passavano dagli impianti solo documentalmente, secondo la ben collaudata tecnica del «giro bolla».
Infatti, i rifiuti, provenienti da primarie aziende del Nord (la DECOINDUSTRIA di Cascina, la NUOVA ESA e la SERVIZI COSTIERI, entrambe in provincia di Venezia) erano oggetto di intermediazione dalle società del gruppo PELLINI (e in particolare dalle società CEPI S.a.s., RECYCLING ITALIA e ROSSI DI GARATE) e poi smaltiti nei siti nella disponibilità della POZZOLANA FLEGREA (Bacoli e Giugliano) e della IGEMAR (di Qualiano).
Nel contesto della medesima attività investigativa, degno di nota è pure il filmato effettuato dal Corpo Forestale dello Stato in data
13.10.05, che ha ripreso in diretta lo sversamento di tonnellate di rifiuti liquidi nei Regi Lagni.
Il traffico illecito oggetto delle indagini ha riguardato la gestione illecita di quantità ingenti (migliaia di tonnellate) di rifiuti pericolosi, tra cui:
rifiuti contenenti diossina;
rifiuti pericolosi aventi codice CER 190813 (rifiuto speciale pericoloso) consistente in «fanghi contenenti sostanze pericolose prodotti da altri trattamenti delle acque reflue industriali» contenente oli minerali con fase rischio R45;
rifiuti pericolosi (costituiti da code di distillazione 070701 - 070101) prodotti dalla società DECOINDUSTRIA e NUOVA ESA;
rifiuti pericolosi definiti «terre e rocce» pericolose aventi codice CER 170503 provenienti dallo stabilimento ICMI e NUOVA ESA;
amianto;
oli minerali esausti contenenti PCB;
con il conseguente abbancamento o sversamento in terreni o in lagni con la produzione del rispondente ed irreparabile danno ambientale.
Il Comando Nucleo Provinciale Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Napoli ha poi disvelato un ulteriore aspetto dell'operatività dell'associazione criminale, ovvero quello concernente gli ulteriori delitti commessi per nascondere gli utili derivanti dal traffico illecito di rifiuti posti in essere dal gruppo PELLINI; infatti, gli indagati hanno emesso (ed, in parte, anche annotato nei libri contabili) fatture false per un ammontare di diversi milioni. In particolare, solo per gli anni 2003 e 2004 e solo nelle relazioni della società PELLINI S.r.l. è stato scoperto un giro di affari di fatture false per un ammontare di quasi sei milioni di Euro.
Affrontando, più in generale, il tema del modus operandi delle organizzazioni criminali, va rilevato, in primo luogo, che, anche il settore degli appalti relativi al ciclo dei rifiuti, va registrando le medesime criticità riscontrate per la materia degli appalti in generale.
Si assiste, con sempre maggiore frequenza, alla costituzione di associazione temporanee di imprese, con capigruppo di importanti dimensioni, per struttura e capitale, e, quindi, in grado di aggiudicarsi gli appalti, che si associano a piccole imprese del luogo, solitamente vicine alla compagine mafiosa locale e, ancor più solitamente, provenienti dal settore del movimento-terra.
Del pari indicativo è il fatto che progressivamente, anche in questo settore, si assiste alla formazione di un vero e proprio monopolio, tipico di altri campi interessati dall'egemonia dei sodalizi di tipo
mafioso, quali il già citato settore del movimento-terra e il mercato del cemento.
L'intreccio fra reati ambientali e dinamiche criminali di tipo mafioso è, peraltro, emerso in modo evidente dalle principali attività di indagine compiute sia dalla Procura palermitana che dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli (con particolare, riferimento, in quest'ultimo caso, ai clan operanti nel casertano), come dettagliatamente riferito nella Relazione territoriale sulla Sicilia.
Il tradizionale controllo del territorio esercitato capillarmente dalle organizzazioni mafiose, con la disponibilità, in particolare, di cave, terreni nonché di manodopera a bassissimo costo, unitamente al collaudato know how criminale, fondato sui meccanismi della protezione interessata e sulla violenza dissuasiva, hanno costituito le naturali premesse dell'inserimento dei sodalizi mafiosi in tale mercato illegale, ponendosi come interlocutore imprenditoriale capace di gestire, in regime di incontrastato monopolio, gran parte delle attività proprie del ciclo dei rifiuti.
Se a ciò si aggiunge il notevole margine dei profitti connessi allo smaltimento illecito dei rifiuti, pari addirittura alle tradizionali fonti di arricchimento mafioso (quali il traffico di stupefacenti), diviene evidente il carattere centrale che progressivamente viene ad assumere il circuito illecito dei rifiuti nell'economia mafiosa, se, ancor più, si pone mente al fatto che la Sicilia -come ribadito dal Procuratore Grasso- «si conferma da vari anni, a primo posto per gli illeciti accertati nel ciclo del trattamento dei rifiuti».
Passando al versante delle strategie investigative, si tratta di ulteriormente affinare gli strumenti investigativi e renderli capaci di captare tutti quei segnali che, ricondotti ad unitarietà, sono in grado di ricostruire e far emergere questo fiume di illegalità, spesso in gran parte nascosto tra le pieghe di un territorio oggetto di contesa tra le istituzioni e i sodalizi di stampo mafioso.
Occorre, in sintesi, di individuare ed esaltare tutti quegli elementi carichi di significato sintomatico dell'esistenza di un più ampio contesto affaristico-criminale.
In tale prospettiva, un primo indizio rivelatore va senz'altro individuato nella disponibilità in capo alle organizzazioni criminali di cave e terreni; luoghi che maggiormente si prestano, per le caratteristiche morfologiche o antropiche, ad essere utilizzati per ospitare attività che devono rimanere celate agli occhi degli investigatori. E non si può dubitare del fatto che tali siti finiscano per coniugare entrambi gli aspetti richiesti per un sicuro smaltimento illecito dei rifiuti: la inaccessibilità naturale dei luoghi e l'impermeabilità rispetto ad interventi imprevisti e non dominabili.
Altro elemento significativo è costituito dalla migrazione di massa delle imprese dedite al movimento terra -settore tradizionalmente ricadente nel cono di interesse delle organizzazioni mafiose- verso l'albo dei trasportatori di rifiuti, con una repentina riconversione imprenditoriale giustificabile solo se rapportata al volume d'affari, evidentemente superiore a quello del movimento-terra.
Né può trascurarsi un dato eminentemente oggettivo, rappresentato dalla sproporzione fra la quantità dei rifiuti, soprattutto pericolosi,
prodotti e quello dei rifiuti smaltiti, indice del fatto che una buona parte di questi prendono strade diverse, si inabissano, utilizzando quel percorso carsico caro alle compagini criminali, soprattutto mafiose.
Dall'esperienza investigativa, è emerso, come si è detto, come i rilevanti interessi finanziari, connessi al fenomeno degli illeciti ambientali, abbiano destato l'attenzione di sodalizi organizzati, anche di tipo mafioso, comportando un deciso ampliamento del relativo scenario criminale.
Al riguardo, è opportuno ribadire la distinzione tra la generalizzata e diffusa violazione della normativa posta a tutela dell'ambiente ed il fenomeno noto come «ecomafia»: ciò non perché la prima non crei allarme sociale (anzi, per certi aspetti essa è, come già si è osservato, altrettanto preoccupante, poiché testimonia gravi carenze di senso civico e di sensibilità al problema), ma perché le strategie e gli strumenti di contrasto sono diversi.
Con riferimento alle cosiddette ecomafie non è possibile concepire strumenti di contrasto diversi da quelli adottati in materia di lotta alla criminalità organizzata tradizionalmente intesa, poiché le organizzazioni criminali sono le stesse ed assolutamente identici sono i loro «modus operandi».
Si tratta, come si è detto, di affinarli, di modularli rispetto allo specifico settore, e su questo versante merita particolare apprezzamento l'attività compiuta dai reparti investigativi specializzati nel contrasto alla criminalità organizzata dell'Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza.
Ad esempio, nel corso dell'esecuzione di interventi di natura fiscale, anche nei confronti di aziende che non rilevano sotto il profilo del rischio di «incidente rilevante», quando ciò risulti necessario sulla base di pregressa attività di «intelligence», è opportuno estendere il controllo all'osservanza delle vigenti disposizioni in materia di inquinamento e di gestione dei rifiuti di qualsiasi natura.
In tale ultima prospettiva, merita di essere segnalato il fatto che alcuni Comandi Regionali della Guardia di Finanza (Marche, Liguria, Veneto e Puglia, oltre che al Comando Reparti Speciali con sede in Roma), hanno stipulato appositi protocolli d'intesa con organismi preposti alla vigilanza dell'ambiente allo scopo di controllare l'applicazione delle norme a tutela dell'ambiente, attraverso lo scambio costante e reciproco di informazioni ed esperienze, per garantire un migliore coordinamento delle politiche ambientali e l'equilibrato sviluppo regionale per i profili sociali, economici ed ambientali.
L'illegale smaltimento da parte delle imprese, l'occulto riversamento in siti autorizzati, la gestione di vere e proprie discariche abusive hanno, infatti, come necessario corollario la sottrazione di ingenti somme all'Erario, realizzata molto spesso tramite il massiccio ricorso alla fatturazione per operazioni inesistenti.
A seguito di un sensibile incremento della pressione ispettiva da parte della Guardia di Finanza, in questo settore, è stato possibile:
riscontrare situazioni rilevanti nel comparto delle imposte sui redditi, riferibili alla non deducibilità di costi annotati nelle scritture contabili ed all'omessa fatturazione e dichiarazione di ricavi;
constatare, nel comparto dell'imposta sul valore aggiunto, rilevanti evasioni d'imposta scaturenti da omessa fatturazione di operazioni imponibili ovvero dall'annotazione in contabilità di consistenti fatturazioni per operazioni inesistenti.
Inoltre, nella maggior parte dei casi, le principali violazioni sono risultate connesse all'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti finalizzate a:
simulare destinazioni diverse dei carichi di rifiuti che, invece di essere destinati allo smaltimento e/o incenerimento, venivano, di fatto, destinati a discariche abusive;
abbattere ricavi fittizi, inseriti in contabilità per innalzare il volume di rifiuti trattati e, quindi, il costo da addebitare all'ente pubblico interessato.
La criminalità ambientale sta assumendo sempre più, come si è accennato, caratteri di transnazionalità.
Le rotte utilizzate dalle organizzazioni criminali utilizzano, con frequenza sempre maggiore, la via marittima e, quindi, le aree portuali.
I movimenti transfrontalieri illeciti di rifiuti ed i commerci di rottami di varia natura, di legnami di provenienza illegale, di specie protette di flora e fauna avvengono sovente a mezzo nave.
Ciò ha indotto la Commissione a considerare con grande attenzione l'apporto che le Capitanerie di Porto danno al contrasto di tali illeciti e, soprattutto, che potrebbero ulteriormente fornire, in presenza di interventi, anche normativi, in grado di fornire un maggiore raccordo operativo fra tale Corpo e le altre forze di polizia, anche opportunamente implementando le forme di cooperazione internazionale fra gli organi investigativi.
Il trasporto di rifiuti via mare, che si inquadra nell'ambito del trasporto delle merci pericolose, è regolamentato in ambito nazionale dal decreto ministeriale 31 ottobre 1991 n. 459, il quale definisce pericolosi i residui di una o più sostanze considerate pericolose per il trasporto marittimo, di cui alle classi del decreto del Presidente della Repubblica 9 maggio 1968 n. 1008, o per la salute e l'ambiente, elencate nel decreto del Presidente della Repubblica n. 915 del 1982, ora sostituito dal citato decreto legislativo n. 22 del 1997.
Un altro tipo di trasporto marittimo è quello 'alla rinfusa' di merci pericolose (e, tra esse, i rifiuti) su navi in possesso di idonee caratteristiche, verificate dagli organismi tecnici, e rispondenti alle prescrizioni contenute nei codici internazionali relativi al trasporto delle merci pericolose solide alla rinfusa (codice BC), liquide alla rinfusa (codice BCH e IBC) e gas liquefatti alla rinfusa (IGC), tutti richiamati dalla Solas e dall'Annesso II della già citata convenzione MARPOL.
Appare opportuno integrare, in primo luogo, la normativa nazionale con quella internazionale, rappresentata dall'IMDG code (International Maritime Dangerous Goods Code), - uno dei codici emanati dall'International Maritime Organization (IMO), riferito al trasporto delle merci pericolose in colli e contenitori, richiamato e reso obbligatorio dal 1o gennaio 2004 dalla SOLAS (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare) che l'Italia ha adottato con la legge n. 313 del 23 maggio 1980 - oltre che dall'Annesso III della Convenzione internazionale per la prevenzione degli inquinamenti marini (MARPOL).
Privo di sanzione penale è, allo stato, il dumping marino in materia di rifiuti. A tale proposito, le cronache giudiziarie e non di questi ultimi anni hanno portato alla luce molteplici casi di cosiddette «navi a perdere» (su cui più diffusamente infra), fatte affondare con il relativo carico di rifiuti, talora anche tossici e radioattivi, conclusisi con decreti di archiviazione da parte dell'Autorità Giudiziaria proprio per la mancanza di una norma penale incriminatrice nella quale poter inquadrare tali condotte.
Sul piano operativo, sembra opportuno sostenere un ampliamento della composizione delle sezioni di polizia giudiziaria all'interno delle Procure prevedendo un'aliquota di personale della guardia costiera, per meglio assicurare la tutela dell'ambiente marino.
Inoltre, le ispezioni previste nell'ambito del «Memorandum of Understanding» firmato a Parigi nel 1982 e finalizzate al controllo delle unità navali con riguardo alla sicurezza della navigazione, potrebbero essere estese tanto nei porti ove siano collocati depositi di stoccaggio, quanto sui carichi delle navi che trasportano rifiuti, al fine di verificare la corrispondenza tra i carichi stessi e la relativa documentazione di accompagnamento.
Altrettanto utile, per l'espletamento delle attività di vigilanza da parte delle Autorità, parrebbe inoltre il miglioramento della tecnologia utilizzabile per l'individuazione ed il costante monitoraggio dei vettori marittimi che trasportano rifiuti.
Sotto il profilo della cooperazione internazionale, con particolare riguardo alla regione mediterranea, sarebbe particolarmente auspicabile l'istituzione di sistemi che permettano il regolare scambio di informazioni relative ai carichi sospetti. Al riguardo, si ritiene che la Convenzione di Barcellona del 1976 - che ha tra i suoi annessi il protocollo relativo alla «Prevenzione dell'inquinamento del Mar Mediterraneo provocato dal movimento transfrontaliero dei rifiuti» - possa costituire, se ratificato da tutti gli Stati contraenti, uno strumento idoneo a far fronte a tale esigenza.
Infine, con riferimento ai poteri di controllo e sanzionatori, si ritiene opportuno esaminare la possibilità di ampliare il raggio di azione dello Stato nelle acque costiere, tenuto anche conto che la Convenzione di Montego Bay del 1982, ratificata con legge n. 689 del 1994, ha istituito le cd. «zone economiche esclusive», ossia quelle zone al di là del mare territoriale e ad esso adiacenti fino a 200 miglia marine dalle linee di base. In tali aree, gli Stati rivieraschi godono tra l'altro di poteri in materia di protezione e preservazione dell'ambiente marino, come già praticato dallo stato Francese, che nella sua zona economica esclusiva si è riservato la facoltà di obbligare - nel caso vi sia fondato sospetto di inquinamento - le navi a fare rotta verso i propri porti nazionali.
In alternativa, potrebbero quantomeno essere create zone contigue di particolare tutela, nell'ambito delle quali esercitare controlli mirati specificamente al traffico transfrontaliero di rifiuti.
E tuttavia, il pur apprezzabile sforzo investigativo delle forze di polizia sul fronte ambientale, fra le quali si segnalano in particolare il Comando Carabinieri per la Tutela dell'Ambiente, il Corpo Forestale dello Stato e la Guardia di Finanza, deve essere supportato da idonee misure normative.
Allo stato attuale, il quadro normativo in materia di tutela ambientale appare suscettibile di implementazione, ai fini di una più efficace azione preventiva.
Già si è detto della proposta di introduzione nel sistema penale di misure più efficaci di tutela dell'ambiente.
Ulteriori aspetti meritano di essere segnalati.
La criminalità ambientale è, come si è visto, criminalità di profitto.
Le misure che attualmente consentono di colpire i profitti paiono largamente insufficienti.
Il Decreto Ronchi prevede, in caso di sentenza di condanna o emessa ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale (patteggiamento), per le ipotesi di gestione e traffico illecito di rifiuti, la confisca obbligatoria del sito adibito a discarica abusiva e dei mezzi utilizzati per il trasporto-traffico di rifiuti.
La possibilità di adottare tali misure solo al termine del processo e il loro limitato ambito applicativo hanno consentito a soggetti coinvolti in reati ambientali di mantenere intatto il proprio patrimonio.
Sul punto, la Commissione ha ritenuto indispensabile condurre un particolare approfondimento, indirizzato ad individuare le forme più opportune attraverso le quali aggredire i patrimoni illeciti, sia considerando l'ipotesi di un'estensione delle misure di prevenzione patrimoniali, sia valutando un'opportuna rimodulazione di altri strumenti normativi esistenti, in primis dell'articolo 12 sexies della legge n. 356 del 1992. Infatti, la citata proposta di legge n. 5783 «Disposizioni in materia di tutela penale dell'ambiente», nel prevedere l'ingresso nel Codice Penale dei delitti ambientali con il Titolo VI-bis del Libro II, dispone, all' articolo 3, l'inclusione degli stessi delitti nella disposizione di cui all'articolo 12-sexies del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992,
n. 356, che prevede per i condannati la confisca dei patrimoni, che risultano sproporzionati rispetto al reddito, accumulati per effetto delle condotte criminali, fatta salva la prova dell'origine lecita dei beni posseduti.
Criminalità ambientale è, spesso, come si è visto, criminalità inserita in contesti di tipo mafioso, a vocazione transnazionale; deve costituire, pertanto, motivo di specifica riflessione l'introduzione di collegamenti, quanto meno per le ipotesi più gravi, con la disciplina prevista per i reati di stampo mafioso, prevedendo la competenza investigativa delle direzioni distrettuali antimafia, sulla scorta di quanto già previsto - ad esempio - per la tratta degli esseri umani, per il traffico di droga o per il contrabbando di sigarette (tutti fenomeni criminali transnazionali, al pari di molte delle manifestazioni della delinquenza ambientale).
Un sistema, dunque, armonico e coerente, non necessariamente composto da numerose fattispecie, ma ispirato a principi ed obiettivi chiari e, soprattutto, efficacemente presidiati.
Le modalità di smaltimento sono varie e spesso evolvono e si modificano: dalle discariche abusive interrate al riempimento di cave dismesse, all'impiego di terreni agricoli, allo spandimento e alla miscelazione con terreno vegetale. C'è quindi l'esigenza di localizzare tali masse interrate, di definire i limiti spaziali e la consistenza dei materiali presenti, di individuare possibili fenomeni di inquinamento in atto e di controllare la loro evoluzione nel tempo.
Le tecniche geofisiche costituiscono dei validi strumenti per l'esplorazione del sottosuolo, soprattutto in campo ambientale. Essendo metodi non invasivi, consentono di osservare dalla superficie alcuni fenomeni di inquinamento sotterraneo e di individuare stoccaggi illeciti di fusti e di rifiuti in genere, senza dover effettuare lunghi e costosi scavi per le indagini. Questi ultimi infatti vengono eseguiti solo dopo le indagini geofisiche, laddove queste abbiano evidenziato disomogeneità o anomalie nel sottosuolo stesso.
Negli ultimi anni l'impiego di queste metodologie si è molto diffuso anche grazie ai notevoli sviluppi dell'elettronica e dei software per l'elaborazione dei dati che consentono di realizzare modelli del sottosuolo in 2 dimensioni (2D) e recentemente anche in 3D. Le tecniche di indagine impiegate dalla geofisica ambientale sono molto spesso in grado di delineare un quadro generale e sufficientemente preciso delle caratteristiche di un sito inquinato a partire dalla misura di alcuni parametri fisici dei terreni interessati. L'esecuzione di
sondaggi ed il prelievo dei campioni per le analisi di laboratorio possono essere quindi eseguiti nelle aree di maggiore interesse riducendo così il numero degli stessi ed ottenendo una maggiore significatività del dato.
I metodi geofisici maggiormente impiegati in campo ambientale sono i metodi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, spesso utilizzati insieme per aumentare il potere risolutivo: la scelta di una metodologia rispetto ad un'altra è funzione del tipo di rifiuto da rilevare e dalle condizioni ambientali al contorno.
I metodi magnetici, come è noto, misurando le variazioni spaziali del campo magnetico terrestre consentono di individuare masse ferrose nel sottosuolo, ed è quindi possibile localizzare le discariche abusive, i fusti metallici interrati e definire i limiti degli ammassi di rifiuti.
L'esecuzione di rilievi magnetometrici su vaste aree può essere velocizzata mediante l'impiego simultaneo di magnetometri e ricevitori satellitari GPS (Global Positioning System), potendo determinando con elevata precisione la posizione dell'operatore in fase di prospezione. Mediante l'impiego di opportune imbarcazioni, i rilievi magnetometrici possono essere anche eseguiti su bacini o corsi d'acqua.
I metodi geoelettrici si basano sullo studio della risposta del terreno al passaggio di una corrente elettrica immessa dalla superficie. In campo ambientale viene utilizzata la tomografia elettrica, una tecnica di indagine che tramite il posizionamento di numerosi elettrodi sul terreno fornisce informazioni sulla distribuzione dei valori di resistività nel sottosuolo. Si possono così localizzare masse, settori o orizzonti anomali dal punto di vista elettrico e quindi individuare inquinanti nel terreno, studiare vecchie discariche dimesse o abusive con la definizione dello spessore e dell'accumulo di percolato, localizzare interramenti di rifiuti di varia natura (liquidi, solidi, ecc) con caratteristiche elettriche differenti dal terreno inglobante.
I metodi a induzione elettromagnetica si basano sulla misura del rapporto del campo magnetico alternato (primario) generato da uno strumento e quello secondario generato dal flusso di corrente indotto all'interno del terreno dal campo primario stesso.
I dati acquisiti, restituiti sotto forma di mappe, forniscono indicazioni sia sulla distribuzione della conducibilità nel sottosuolo che sulla presenze di sostanze metalliche.
Questa tecnica di indagine geofisica risulta particolarmente utile nell'individuare aree dove sono stati effettuati smaltimenti di materiali tossici solidi o liquidi all'interno del terreno, soprattutto quando questi ultimi non sono stati conferiti in contenitori; può fornire quindi utili informazioni per l'ubicazione dei sondaggi per il prelievo di campioni significativi.
Il Georadar è uno strumento che rientra nei metodi elettromagnetici: infatti consente di investigare il sottosuolo con impulsi elettromagnetici che propagandosi nel terreno, vengono riflessi quando raggiungono un'interfaccia tra materiali che possiedono differenti proprietà elettromagnetiche. Mediante l'impiego di antenne a diversa frequenza si può investigare il sottosuolo a varie profondità
con differente risoluzione. Il Georadar, utilizzabile anche in aree antropizzate, consente di individuare corpi anche non metallici come fusti, serbatoi, accumuli di rifiuti, di definire i limiti delle discariche sepolte e in alcuni casi di localizzare inquinanti.
Le tecniche per l'indagine del sottosuolo in campo ambientale sono impiegate da oltre 10 anni dall'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia a supporto e su richiesta delle forze di polizia che operano in difesa dell'ambiente, principalmente del Comando Carabinieri Tutela Ambiente e del Corpo Forestale dello Stato.
Le tecniche geofisiche si evolvono, si affinano e mirano sempre di più alla possibilità di seguire l'evoluzione delle attività di smaltimento illecito, come per esempio lo spandimento di materiali nel sottosuolo o addirittura il loro miscelamento con terreno vegetale.
Come Ente di ricerca, l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia trova la sua naturale collocazione nello studio e nella sperimentazione di tecniche e metodologie geofisiche anche in campo ambientale. Per ottenere una sempre migliore caratterizzazione del sottosuolo, per ampliare le possibilità di esplorazione e di controllo del territorio è necessario disporre di tecnologie all'avanguardia e sperimentare le applicazioni di nuova strumentazione.
A seguito della collaborazione tra l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e il Corpo Forestale dello Stato e su richiesta dalla Commissione Parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, nel marzo 2004 è stato realizzato un rilievo aeromagnetico in Campania impiegando un elicottero del CFS. L'obiettivo di tale campagna era infatti individuare siti sospetti con possibili interramenti di notevoli quantitativi di rifiuti ferrosi. I risultati, presentati nell'audizione del 13 ottobre 2004 sono stati l'individuazione, in alcuni comuni, di aree con presenza di anomalie magnetiche.
Il vantaggio di questa tecnica è di effettuare un primo screening del territorio, su vaste aree in tempi brevi. Da tenere presente che i risultati sono condizionati dalla quota e dalla spaziatura delle linee di volo, oltre che dall'antropizzazione delle aree sorvolate dell'elicottero. Le anomalie magnetiche individuate devono essere validate per mezzo di specifici sopralluoghi e le porzioni di territorio sospette sottoposte a rilievi geofisici a terra di dettaglio: in questo modo si avrà una maggiore definizione delle anomalie, con l'esatta localizzazione e con ulteriori informazioni sulla natura delle masse responsabili delle anomalie stesse. Se queste ultime sono legate all'interramento di rifiuti, le indagini a terra possono fornire informazioni anche sulle estensioni e sulle volumetrie dei rifiuti stessi.
Nell'ambito della collaborazione esistente tra l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e il Corpo Forestale dello Stato è in programma di mettere in campo una squadra tecnico-operativa per indagini geofisiche su tutto il territorio nazionale e l'impiego di nuovi mezzi di indagine e di controllo del territorio, con installazione di vari strumenti su elicottero.
Ma è soprattutto a terra che si cercherà di concentrare il lavoro anche utilizzando strumentazione innovativa e con la sperimentazione di nuove tecniche su casi reali per ottenere una sempre migliore caratterizzazione del sottosuolo. Per tali scopi sarebbe utile l'allestimento
di un mezzo mobile di prospezione con acquisizione anche contemporanea di differenti parametri fisici: i dati acquisiti e georeferenziati (mediante sistemi di posizionamento GPS differenziali) consentirebbero di produrre cartografie geofisiche tematiche delle aree investigate. In questo modo potrebbero essere individuati, su ampie porzioni di territorio, masse ferromagnetiche, rifiuti, fluidi anomali, scorie o più in generale materiali interrati.
Inoltre, come è ormai noto, lo studio e il controllo del territorio trae oggi un grosso vantaggio dall'impiego di foto aeree ripetute nel tempo e dall'utilizzo dei dati acquisiti da sensori (ottici o radar) su piattaforma satellitare. L'evoluzione del territorio infatti può essere monitorata «a distanza» soprattutto attraverso tecniche di telerilevamento basate su satelliti che orbitano ad una altitudine media compresa tra i 450 e gli 800 Km. Grazie al rapido evolversi delle tecnologie disponibili, negli ultimi anni le potenzialità dei sensori su satellite si sono accresciute; in particolare i sensori ottici, a partire dagli anni 2000 hanno raggiunto risoluzioni al suolo metriche o addirittura sub-metriche (la risoluzione è la capacità di distinguere due oggetti posti ad una certa distanza l'uno dall'altro). Inoltre, trattandosi di sensori che operano sia nel visibile che nell'infrarosso, consentono di identificare variazioni in alcuni parametri superficiali, quali la temperatura e l'umidità del terreno. I sensori radar SAR, invece, disponibili dal 1992, anche se a minore risoluzione, possono fornire informazioni circa i movimenti del suolo, e quindi tramite un monitoraggio nel tempo, individuare le modificazioni di porzioni del territorio.
L'utilizzo congiunto di dati radar e ottici, pertanto, allo stato attuale può fornire uno strumento molto utile alla ricerca di siti «sospetti», cioè potenzialmente interessati da interramento di rifiuti.
Su questi siti successivamente verrebbero eseguite indagini geofisiche di dettaglio a terra. Tali misure, diversificate o integrate a seconda del tipo di rifiuto da ricercare, consentirebbero di verificare l'effettiva presenza di materiali smaltiti illecitamente.
L'uso congiunto di queste tecniche di indagine quindi permetterebbe non solo l'individuazione di nuovi siti, ma anche il controllo periodico del territorio nel tempo con la possibile individuazione di nuove attività di scavo e/o interramento.
Le ulteriori acquisizioni della Commissione su questo fronte hanno in larga parte confermato quanto prospettato nella Relazione sulle attività svolte da questo organo d'inchiesta al luglio del 2004.
Numerosi sono gli elementi che inducono a ritenere ampiamente dimostrato il fatto che quel paese africano sia stato utilizzato come terminale di traffici di rifiuti, a partire dalla fine degli anni ottanta.
Quella è l'epoca in cui l'ing. Vittorio Brofferio, impegnato nella realizzazione per conto della LOFEMON (Lodigiani-Federici-Montedil) della strada di collegamento fra Garoe e Bosaso, nel nord del paese africano, riferisce dell'interesse, di gruppi locali e soggetti stranieri, a sfruttare tali lavori per interrare dei containers.
Si tratta di testimonianza che questa Commissione considera attendibile, sia perché non ha trovato smentite in altri tecnici pure impegnati per i medesimi lavori (l'ing. Keller, ad esempio, nel corso dell'audizione resa alla Commissione, si è limitato a riferire di non ricordare di aver discusso con Brofferio di tale vicenda); sia perché, in quella zona, una successiva spedizione giornalistica - che si è avvalsa anche della strumentazione magnetometrica per la rilevazione di materiale ferroso nel sottosuolo (tecnica sopra ampiamente descritta quanto a fondamento scientifico e attendibilità dei risultati) - ha consentito di acquisire informazioni, da parte di lavoratori locali assunti dalle imprese italiane, secondo cui effettivamente, nel periodo sopra indicato, erano stati trasportati rifiuti scaricati nei porti somali.
«Il nostro percorso - ha riferito Luciano Scalettari alla Commissione - si è snodato dalla città posta al confine occidentale del Puntland, Galcaio, fino a Bosaso, posta sul mare. Durante il tragitto abbiamo raccolto (...) alcune testimonianze. Nella prima parte del viaggio è stata particolarmente utile la guida di un capocantiere che ci ha indicato alcuni luoghi a suo avviso sospetti. (...) Ci ha portato, così, in quello che abbiamo definito «campo base», una località in cui era presente una fossa, vicina al campo base italiano del consorzio Lofemon, che aveva realizzato un tratto di strada di circa 260 chilometri da Garoe a Bosaso. In questo sito abbiamo effettuato due misurazioni - rettifico, sulla base delle indicazioni non del capocantiere, che abbiamo incontrato dopo, ma di un commerciante somalo, che aveva a che fare con quella strada -, in una delle quali abbiamo riscontrato la presenza di materiale ferroso (...).
Nella zona di Gardo abbiamo incontrato il capocantiere (...), signor Mire, che ci ha condotto in due frantoi, nei quali si macinavano pietre e pietrisco utilizzati per il fondo stradale. Uno di questi due siti, dopo le misurazioni, ha dato una risposta piuttosto significativa alle nostre ricerche, indicando una presenza rilevante di materiale ferromagnetico.(...)
Infine, la terza e forse più importante testimonianza l'abbiamo raccolta a Bosaso, dove abbiamo potuto incontrare - ancora una volta attraverso il capocantiere, che è riuscito a rintracciare i suoi dipendenti - due autisti di camion, che ci hanno raccontato di aver seppellito del materiale in due località, in diverse buche, e ci hanno accompagnato in quei luoghi.
Si tratta di due torrenti, secchi per gran parte dell'anno, che si riempiono di acqua solo nella stagione delle piogge, cioè tra novembre e dicembre.
Entrambe le testimonianze, dunque, hanno indicato luoghi precisi.(...) Ci hanno parlato di diverse buche - cinque o sei, di notevole dimensione e profondità, tanto che il camion ci entrava dentro - ed hanno sostenuto che si trattava di cave per l'estrazione della pietra, che successivamente veniva portata al frantoio. Nel secondo dei luoghi
individuati, invece, dove lo strumento ha rilevato un'anomalia magnetica, i due autisti ci hanno riferito che era stata scavata appositamente una sola buca, anche in quel caso abbastanza profonda. Grazie alla conformazione fisica del luogo, sono riusciti ad indicare con precisione il punto, nel quale dalle misurazioni è risultata la presenza di una certa quantità di materiale ferroso. Devo sottolineare che il racconto dei due testimoni è particolarmente interessante: essi asseriscono di essere stati dipendenti, all'epoca, del consorzio Saces (quello che ha costruito gli ultimi 160 chilometri della strada, da Bosaso in direzione di Garoe), e di aver ricevuto l'ordine di usare i camion per questa operazione. Aggiungono, inoltre, di aver prelevato il materiale - a loro era stato detto che si trattava di vernice scaduta - dalla banchina del porto. Gli autisti hanno anche descritto questo materiale, costituito per la gran parte da bidoncini di circa 20 chili di peso, di colore scuro con strisce colorate, ma non sono riusciti a ricordare nomi precisi o ulteriori elementi che potevano essere utili per capire di quale materiale si trattasse. In ogni caso, essi hanno raccontato di aver effettuato il recupero in occasione dell'arrivo di una delle navi che portava il materiale per la costruzione della strada, un elemento, questo, che sembra piuttosto rilevante. La nave portava bitume, catrame, materiale per l'asfaltatura, insieme a questo carico di fusti, che è stato portato, sempre secondo il loro racconto, in un magazzino nei pressi dell'aeroporto di Bosaso. Successivamente, altri camion, molto più grandi, avrebbero prelevato il materiale e lo avrebbero trasportato nei due siti indicati, che si trovano l'uno a 90 e l'altro a 140 chilometri da Bosaso, e proprio in quest'ultimo noi abbiamo rilevato la presenza di materiale ferroso. In seguito, i grossi camion avrebbero portato il materiale vicino ai due frantoi e a quel punto sarebbero stati utilizzati camion più piccoli. Immaginiamo che l'uso di camion di diverse dimensioni sia dovuto al fatto che i siti sorgono lungo un breve tratto di pista che scende negli uadi, che sono cosa ben diversa dalla strada asfaltata e, quindi, è ben più complicato, per i mezzi, scendervi. I camion più piccoli, dunque, secondo il racconto dei testimoni, avrebbero portato il materiale a dimora e lo avrebbero scaricato, alzando il pianale. I testimoni hanno indicato il periodo preciso dell'anno nel quale avrebbero effettuato l'operazione: tra dicembre 1987 e gennaio 1988. Sappiamo che la strada era in costruzione tra il 1986 e il 1989, dunque l'indicazione del periodo è attendibile (...)».
Non solo.
Un altro dato che emerge in modo significativo è quello relativo ad un sensibile aumento di patologie verosimilmente connesse alla presenza di materiali tossici e radioattivi.
«Il secondo elemento, che oserei definire generalizzato, - ha aggiunto Scalettari - riguarda le testimonianze di patologie denunciate da autorità e medici locali, oltre che da medici italiani. (...) Quello che ci ha allertato è la descrizione di casi di emorragia dalla bocca e dal naso, associati talvolta ad irritazioni cutanee, che si trasformano in piaghe. Inoltre, un medico che lavora per Intersos, che in questo momento presta servizio all'ospedale di Johar (ma sta iniziando ad operare proprio sulla costa, in una delle zone dove siamo stati), ci ha
confermato l'aumento del numero di malformazioni e patologie neonatali. (...) -.
Analoghi dati sono stati raccolti da altra giornalista, Maria Barresi, pure recatasi in Somalia sulla scia delle inchieste collegate alla vicenda di Ilaria Alpi e del pari impressionata dai segni di devastazione ambientale che presenta, in talune e significative parti, il territorio somalo e dall'enorme diffusione di patologie neonatali, del tutto inspiegabili avuto riguardo alla storia, all'economia ed all'ambiente somali.
Questo è lo scenario, nella sua fase - per così dire - virulenta, che ebbe dinanzi Ilaria Alpi quando si recò in Somalia, nel marzo 1994, inviata nel paese somalo per conto della RAI, all'epoca dell'operazione Restor Hope.
Senza entrare nella dinamica dell'assassinio della coraggiosa giornalista, su cui altra Commissione sta conducendo specifici accertamenti, l'attenzione della Commissione a tale vicenda è stata orientata proprio alla ricerca degli aspetti collegati al traffico di rifiuti su cui, indubbiamente, l'inviata RAI stava indagando, stando al contenuto dei taccuini «sopravvissuti» e stando al fatto che l'ultimo viaggio compiuto dalla giornalista avvenne proprio in quei luoghi da più parti segnalati come teatro di traffici illeciti, anche concernenti i rifiuti, e che più fonti, oggi, come si è visto, individuano come cimitero di veleni.
Le informazioni assunte da lavoratori somali circa i traffici di rifiuti, la necessità per ogni attività in loco di appoggiarsi a tribù locali ed alle relative bande armate, inducono a ritenere verosimile l'ipotesi di un diretto coinvolgimento di organizzazioni somale in tali traffici.
In definitiva, l'assenza di rivendicazioni, non consente, per un verso, di individuare nella matrice fondamentalista islamica il movente dell'agguato, e, per altro, non esclude che la causale dell'omicidio possa essere individuata nelle inchieste che la giornalista ed il suo operatore stavano svolgendo in territorio somalo; inchieste che, per certo, riguardavano anche e soprattutto il traffico dei rifiuti.
Sul punto, il rappresentante del Governo somalo presso l'Unione europea, YUSUF BARI BARI, che ha aiutato i giornalisti italiani in loco, per i contatti con le popolazioni locali e per gli spostamenti, così riferisce, in sede di audizione resa a questa Commissione:
(...) Non ci risulta - queste sono le informazioni in mio possesso, ma gli altri apparati del nostro Governo, in particolare quelli dell'intelligence, potrebbero averne altre - che esista un collegamento o un interesse diretto da parte dei fondamentalisti riguardo al discorso dei rifiuti. Tuttavia, non posso escluderlo in maniera categorica, e ritengo che le due istituzioni che possono dialogare, in questo senso, siano l'intelligence italiana e quella somala. (...) Per quanto riguarda le azioni dei fondamentalisti, devo dire che, ahimè, più volte essi hanno assassinato operatori internazionali. (...) Anche nei primi anni 90 (...) Questi assassinii, soprattutto di operatori internazionali, erano facilmente prevedibili: si trattava di obiettivi facili, la cui uccisione aveva un'eco che superava i confini nazionali. (...) Se pensiamo alle modalità di esecuzione delle uccisioni, possiamo dire che gli assassini lasciano le loro firme, e le firme sono sempre chiare. Non vi sono, che io sappia,
casi in cui non siano state lasciate firme, che sono facilmente immaginabili.
Più in generale, chi, come Scalettari ha, di recente, rifatto, in Somalia, l'intero percorso fatto da Ilaria Alpi, assumendo utili informazioni da coloro che con la giornalista hanno avuto gli ultimi contatti, così lo ha ricostruito:
(...) circa l'esistenza o meno di collegamenti tra il traffico dei rifiuti e l'omicidio di Ilaria Alpi. Se per collegamento si intende un legame diretto o una testimonianza che abbia riferito chiaramente che su quel sito stava indagando Ilaria Alpi, nei giorni in cui era a Bosaso, o nell'area del Puntland, allora rispondo che non c'è alcun collegamento. Viceversa, se consideriamo il fatto che Ilaria Alpi ha lasciato, nei suoi appunti, un'indicazione precisa riguardo alla strada Garoe-Bosaso; se consideriamo, come ripetuto e confermato da alcune testimonianze, che Ilaria Alpi stava lavorando intorno alla questione del traffico d'armi, dei rifiuti, delle famose navi donate dalla cooperazione italiana alla Somalia; se, infine, consideriamo che proprio lungo questa strada ha trascorso alcuni degli ultimi giorni della sua vita, direi che questo collegamento esiste. Il collegamento esiste, insomma - è un interrogativo da approfondire -, nell'oscurità che permane intorno alla ragione che può aver determinato la decisione di eliminare i due giornalisti. Certamente, questa è un'area di interesse e, come giornalisti che si occupano da tempo di questa vicenda, pensiamo che la questione debba essere effettivamente approfondita. (...) Dalle testimonianze emerge sicuramente che Ilaria Alpi e Miran Hrovatin si sono recati in quella zona pensando di rimanerci due giorni. Stando alle testimonianze degli italiani dell'ONG Africa 70, presenti sul luogo e che li ospitavano, i due giornalisti il giorno 16 marzo hanno perso l'aereo e quindi tutto quello che hanno fanno dopo quella data non era previsto. I giorni successivi sono stati impiegati imprevedibilmente, mentre i primi due giorni sono stati dedicati all'attività che avevano programmato. Ebbene, che cosa hanno fatto Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in questi due giorni? Abbiamo cercato di realizzare una sinossi fra i filmati - quello che è arrivato in Italia -, le nuove testimonianze raccolte e quelle che già si conoscevano, ovvero quelle dei cooperanti italiani di Africa 70. Quello che emerge, nell'insieme, è che in quei due giorni Ilaria Alpi aveva intenzione di andare a parlare con il sultano di Bosaso, che ha intervistato prima del giorno 16, e di andare a Gardo. Quest'ultima circostanza, come giornalista, mi incuriosisce; a Gardo, infatti, abbiamo individuato solo alcuni interventi di cooperazione, e nemmeno particolarmente rilevanti per l'Italia. Non siamo riusciti a rintracciare null'altro, almeno fino a questo momento. A Gardo abbiamo rilevato la presenza di una cooperazione tedesca, la GTZ, di una ONG francese, Action contre la faim (erano presenti, però, i rappresentanti del gruppo americano dell'ONG, AICF-Stati Uniti), una presenza di Médecins du monde e forse una piccola presenza della Croce rossa. Eppure, per rimanere a Gardo nella giornata - presumibilmente - del 15 marzo, Ilaria Alpi si ferma a dormire lì e perde l'aereo la mattina dopo. Da giornalista, io non lo avrei fatto. Per decidere di rischiare di perdere un aereo, senza nemmeno sapere quando ci sarebbe stato il successivo,
avrei dovuto avere qualcosa di piuttosto importante da fare. Ovviamente, questa è soltanto una riflessione che abbiamo svolto rivedendo il girato, anche alla luce delle nuove testimonianze che abbiamo raccolto. Abbiamo cercato di immaginarci nella stessa situazione, avendo già percorso quella strada e conoscendo i tempi di percorrenza e la difficoltà di prevedere un incidente di qualsiasi tipo, anche una semplice foratura, che avrebbe potuto influire sui tempi. L'elemento forse più rilevante che emerge da queste testimonianze è una contraddizione fra ciò che hanno detto i cooperanti di Africa 70 e ciò che dicono due dei testimoni che abbiamo ascoltato noi. I primi affermano di aver trovato, presso la loro sede, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin il giorno 16: avendo perso l'aereo, chiedono di essere ospitati per i giorni successivi, fino al volo seguente. Questa testimonianza conferma quelle già rese dai cooperanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, secondo le quali, appunto, essi avrebbero trovato nella loro sede i due giornalisti. Due altri testimoni, invece, riferiscono di essere andati a prendere all'aeroporto Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Dunque, non poteva essere il 16 marzo: i due giornalisti, infatti, il 16 marzo, tornano da Gardo in automobile, sicuramente saranno passati dall'aeroporto, con la speranza di prendere l'aereo; è certo che si sono recati alla sede di Africa 70 in macchina, così come raccontano i cooperanti. Non si capisce cosa sia accaduto, invece, il 14 marzo, il giorno del primo arrivo - presumibilmente in aereo - di Ilaria Alpi a Bosaso, né si comprende perché nessuno dei cooperanti di Africa 70 abbia riferito di essere andato a prenderla all'aeroporto, mentre sia l'uomo della scorta sia il coordinatore del personale somalo affermano il contrario. L'uomo della scorta si chiama Mohamed Nur Said e vive attualmente a Garoe, dove lo abbiamo incontrato, mentre il coordinatore del personale somalo, nonché interprete (parla molto bene l'italiano), si chiama Mukhtar Abukar e vive a Bosaso, dove è rintracciabile. Questi sono i due uomini che, come dicevo, riferiscono di essere andati a prendere i due giornalisti all'aeroporto. Il secondo aggiunge di esserci andato in compagnia di un italiano di Africa 70. Gli altri testimoni, ovvero altre persone che hanno incontrato e accompagnato in quei giorni Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, sono Ali Samantar, che ha fatto loro da interprete, fra il 16 e il 20 marzo, per un paio di giorni, e li ha accompagnati al mercato, al porto e a fare un'escursione nel villaggio Ufein, a circa 160 chilometri da Bosaso, e uno degli autisti, di cui non ricordo il nome, che li ha accompagnati sempre in quei due giorni. Infine, abbiamo contattato già in Italia, per telefono, un cooperante tedesco, presente a Gardo per la GTZ, che sapevamo avesse incontrato Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ma non in quale giorno. Speravamo che si fossero incontrati nei primi giorni della loro permanenza, ma non è andata così. In realtà, il 19 marzo, quindi il giorno prima della partenza di Ilaria e Miran da Bosaso per rientrare a Mogadiscio, tale cooperante, che risponde al nome di Alexander von Braunmuehl, è arrivato a Bosaso e ha pranzato con loro, insieme ad alcuni cooperanti di Africa 70. L'interesse di questa testimonianza consiste, in primo luogo, nel fatto che egli ricorda chi era presente a Gardo in quel momento e quanto poco ci fosse in quella città (solo un piccolo e malconcio albergo dove, eventualmente, avrebbero potuto
dormire); in secondo luogo, egli conferma che, durante quel pranzo, Ilaria Alpi ha riferito di essere stata a Gardo nei giorni precedenti. Evidentemente, si può dedurre che Ilaria si sia recata a Gardo, ma non alla GTZ, dove in quei giorni si trovava Alexander von Braunmuehl.»
Molto, dunque, resta ancora da chiarire.
La Commissione auspica che ulteriori approfondimenti, con accertamenti anche in loco (accertamenti che non è stato possibile per la Commissione sinora svolgere, per la situazione ancora critica dell'ordine e sicurezza pubblica del paese somalo), vengano realizzati da parte dell'Autorità Giudiziaria, cui questo organismo di inchiesta ha trasmesso gran parte della documentazione investigativa raccolta anche a seguito di propria iniziativa.
Quel che è certo, comunque, è che dai veleni dei rifiuti -che costituivano il tema di indagine che la Commissione avrebbe voluto, in presenza delle opportune condizioni, approfondire anche in Somalia- la Somalia corre il serio rischio di passare ai veleni del fondamentalismo, nell'indifferenza dell'Occidente.
Sotto almeno un duplice profilo.
Sia per la carenza di un adeguato apparato collaborativo internazionale fra gli organismi deputati al controllo della movimentazione delle merci nelle aree portuali, apparendo indispensabile, a tale scopo, il ricorso a protocolli operativi - quali ad esempio il cosiddetto Seaport Project - che siano in grado di colmare quel gap comunicativo che i circuiti illeciti hanno da tempo superato.
Sia per l'anomala utilizzazione di navi, spesso non in perfette condizioni, per effettuare trasporti di rifiuti conclusisi con l'inabissamento di natante e carico.
Sotto tale ultimo versante, la Commissione ha svolto approfonditi accertamenti sulla vicenda della motonave «Rosso» (già Jolly Rosso), acquisendo documentazione, anche dalla società armatrice, assumendo informazioni da molti dei soggetti che parteciparono alle fasi dello spiaggiamento ed alle operazioni successive, acquisendo utili elementi conoscitivi dai magistrati inquirenti, nella consapevolezza che un tentativo di chiarificazione andasse svolto obbligatoriamente, non foss'altro che per dissolvere quell'alone di intollerabile sospetto con cui sono stati descritti i mari italiani, cimiteri di navi a perdere negli anni ottanta e novanta.
E tuttavia, i dubbi permangono; accresciuti anche dalla recentissima notizia dell'avvistamento, a circa 400 metri di profondità, al largo di Cetraro, di un'altra nave con un vasto squarcio nel centro dello scafo; un'altra sagoma, lunga circa 126 metri, è stata avvistata a 500
metri di profondità al largo di Belvedere: stesso specchio di mare che vide lo spiaggiamento della Rosso, stessi dubbi.
I dubbi permangono, si diceva.
Alcuni vengono di seguito prospettati.
Si è sostenuto, in primo luogo, da parte della società armatrice, che la «Rosso» era perfettamente funzionante all'epoca dello spiaggiamento, avvenuto il 14.12.1990: dal rapporto del Cap. Bellantone, della Capitaneria di Porto Vibo Valentia, intervenuto per gli accertamenti di competenza subito dopo lo spiaggiamento, risulta, tuttavia, che la Rosso era stata in disarmo dal 18.1.1989 al 7.12.1990, data in cui era stata riarmata e proprio per il viaggio La Spezia-Napoli-Malta-La Spezia.
È stato, inoltre, rappresentato che lo spiaggiamento fu causato dallo spostamento del carico all'interno della stiva, dovuto all'avverse condizioni metereologiche, cosa che provocò falle nello scafo: dal rapporto del capitano Bellantone, viceversa, risulta che:
tranne il marinaio Scardina, nessuno fece presente anomalie nel corso della navigazione quanto alla sistemazione del carico;
essendo le condizioni meteo erano avverse sin dalla partenza, il capitano avrebbe dovuto ritardare la partenza, ma quest'ultimo decise ugualmente di prendere il mare;
all'atto delle prime ispezioni a bordo, peraltro, il carico risultava rizzato regolarmente.
Ma vi è di più.
Nel giornale della Jolly Giallo è scritto che: «alcuni marosi frangendo sulla murata sinistra raddrizzavano la Rosso con grande stupore di tutti i presenti»: come è possibile tutto ciò se la Rosso era diventata ingovernabile per aver imbarcato acqua?
È stato riferito, ancora, che la «Smit Tak», la stessa società olandese che si occupò del recupero del sommergibile russo «Kursk», fu incaricata del recupero dello scafo della «Rosso» e abbandonò l'impresa dopo i danni patiti dalla nave a seguito delle mareggiate del 17 febbraio 1991:
è lecito chiedersi, allora, per quale motivo la «Smit Tak» proseguì i lavori fino al 6 marzo 1991, cioè ben oltre la citata mareggiata.
È stato, infine, rappresentato alla Commissione che i danni nella murata di sinistra della Rosso furono causati sempre dalla mareggiata del febbraio 1991; in conseguenza degli squarci, la Rosso perse parte del carico:
e tuttavia, se così è, resta inspiegato il fatto che gli squarci sulla fiancata si presentavano dai contorni irregolari;
e soprattutto, tutto ciò non si concilia con quanto dichiarato da Spagnoletti Corrado, comandante del pontone «Spartaco» all'epoca dello spiaggiamento della «Rosso», che prestò assistenza alla Smit Tak per le operazioni di «disincagliamento», nella parte in cui lo stesso ha riferito di ricordarsi che sulla paratia sinistra della nave
c'era un taglio abbastanza grande fatto con la fiamma ossidrica da personale della ditta che stava effettuando i lavori, escludendo, anche in sede di audizione dinanzi alla Commissione, che potesse essere opera del mare.
La Commissione ha, inoltre, registrato la sopravvenienza di ulteriori elementi, rappresentati in larga parte da dichiarazioni di collaboratori di giustizia, provenienti dalla criminalità organizzata calabrese, i quali hanno riferito dell'esistenza di un pactum sceleris fra le cosche della ndrangheta ed affaristi del settore dei rifiuti, in virtù del quale furono programmati e realizzati numerosi affondamenti di navi cariche di rifiuti tossici nei tratti marini calabresi (e soprattutto nello Ionio, che per le sue caratteristiche di profondità, meglio si prestava a far definitivamente sparire le tracce della criminale impresa).
In particolare, i recentissimi avvistamenti di navi inabissate e di sagome - verosimilmente di natanti -, anche a notevole profondità, come riferito nel corso dell'audizione resa alla Commissione dagli inquirenti della Procura di Paola, costituisce indiscutibile dato di riscontro, rilevante, se non per attribuire attendibilità probatoria alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, per affermare l'esistenza di un fenomeno, sulle cui cause (e sui cui effetti, soprattutto per l'eco-sistema interessato) deve essere fatta al più presto chiarezza.
Anche su tale versante, pertanto, questo organismo di inchiesta auspica che gli inquirenti, convergendo in una proficua sinergia investigativa, giungano ad individuare i luoghi oltraggiati e l'intera filiera criminale coinvolta, per consentire le opere di bonifica necessarie per la salute pubblica e l'integrità ambientale dei siti interessati e, finalmente, affinché, oltre alle navi, non si perda anche la memoria.
Fuori della regione Veneto va il 34% dei rifiuti, di cui il 3% all'estero.
I dati forniti dall'ARPAV, riportati nella tabella seguente, consentono di determinare, per gli anni 2002 e 2003, le operazioni di smaltimento a cui sono destinati i rifiuti speciali prodotti nell'area di Porto Marghera, nonché le relative quantità.
Figura 3. Il seguente grafico illustra le destinazioni di smaltimento riportata nella tabella 3.
Si è così proceduto ad una cernita delle tipologie di rifiuti da attenzionare in base all'esperienza delle diverse forze di polizia, sono stati scelti i seguenti codici CER: 0701 (Rifiuti dei processi chimici organici)-fanghi prodotti dal trattamento in loco degli effluenti, contenenti sostanze pericolose, 0707 (Rifiuti della produzione, formulazione, fornitura ed uso dei prodotti della chimica fine e di prodotti chimici non specificati altrimenti) - altri solventi organici, soluzioni di lavaggio ed acque madri, 1003 (Rifiuti della metallurgia termica dell'alluminio) - schiumature infiammabili o che rilasciano, al contatto con l'acqua, gas infiammabili in quantità pericolose, 1006 (Rifiuti della metallurgia termica del rame) - scorie della produzione primaria e secondaria, 1705 (Terra, rocce e fanghi di dragaggio) - terre e rocce diverse da quelle contenenti sostanze pericolose, 1908 (Rifiuti prodotti dagli impianti per il trattamento delle acque reflue, non specificati altrimenti) - fanghi prodotti dal trattamento delle acque reflue urbane, 0201 (Rifiuti prodotti da agricoltura, orticoltura, acquicoltura, selvicoltura, caccia e pesca) - scarti di tessuti vegetali, 0801 (Rifiuti della produzione, formulazione, fornitura ed uso e della rimozione di pitture e vernici) -
pitture e vernici di scarto, contenenti solventi organici o altre sostanze pericolose, 0501 (Rifiuti della raffinazione del petrolio) - morchie depositate sul fondo dei serbatoi, 0707 (Rifiuti della produzione, formulazione, fornitura ed uso di prodotti della chimica fine e di prodotti chimici non specificati altrimenti) - altri solventi organici, soluzioni di lavaggio ed acque madri.
Ciò ha consentito l'individuazione di 16 impianti dislocati in tutta Italia, che ricevono e trattano rifiuti provenienti da Porto Marghera e che sono stati successivamente sottoposti a controlli amministrativi ed ambientali. Gli esiti di tali controlli sono riportati nella relazione generale.
premesso, in particolare, che sulla base di una serie di studi epidemiologici, svolti in diversi Paesi, all'interno della tematica relativa ai possibili effetti sanitari del ciclo dei rifiuti, si è andato progressivamente delineando un filone di indagini specifiche sullo stato di salute delle popolazioni residenti in prossimità di discariche autorizzate e di siti di smaltimento illegale di rifiuti;
premesso, altresì, che nel nostro Paese il tema è stato trattato sia all'interno del Progetto «Ambiente e Salute in Italia», coordinato dal Centro Europeo Ambiente e Salute dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, sia nell'ambito dello studio, promosso dal Ministero della Salute, su «Valutazione del rischio sanitario e ambientale nello smaltimento dei rifiuti solidi, urbani e dei rifiuti pericolosi», i cui esiti sono stati pubblicati a cura dell'Istituto Superiore di Sanità;
premesso, infine, che, in occasione della presentazione dei risultati di tale ultima ricerca presso l'Istituto Superiore di Sanità, il 18 dicembre 2002, il Presidente della Commissione Parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, ha prospettato l'opportunità di uno stabile scambio di informazioni fra le istituzioni impegnate nella ricerca e la Commissione stessa, al fine sia di assicurare una pronta disseminazione delle conoscenze disponibili, sia di contribuire all'identificazione di eventuali situazioni di rischio per la salute, per meglio predisporre le iniziative di tutela della salute e contrasto della diffusione delle esposizioni pericolose;
rilevato che nei primi mesi del 2005 il Gruppo di lavoro «Impatto sanitario del ciclo dei rifiuti in Campania», costituito dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, dall'Istituto Superiore di Sanità e dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, insieme all'Osservatorio Epidemiologico della Regione Campania e all'ARPA Campania, ha concluso e pubblicato la prima fase di uno studio, svolto su mandato del Dipartimento
della Protezione Civile, sulla patologia neoplastica e le malformazioni congenite nelle province della Campania con maggiore presenza di discariche;
rilevato, inoltre, che, secondo quanto emerso dalle audizioni dei ricercatori dell'Istituto Superiore di Sanità svoltesi in Commissione, le indagini hanno consentito l'identificazione di un'area corrispondente alla parte sud-orientale della Provincia di Caserta e alla parte nord-occidentale della Provincia di Napoli, nella quale i tassi di mortalità per diverse patologie tumorali e gli indicatori della frequenza di malformazioni sono particolarmente elevati rispetto ai valori regionali;
rilevato, in particolare, che le analisi svolte dall'Istituto Superiore di Sanità hanno individuato, quale zona a maggior rischio, l'area compresa nei territori dei comuni di Aversa, Capodrise, Casagiove, Casal di Principe, Caserta, Castel Volturno, Marcianise, San Cipriano d'Aversa, Santa Maria Capua Vetere, San Nicola la Strada, Villa Literno, Afragola, Arzano, Caivano, Casoria, Frattamaggiore, Giugliano in Campania, Marano di Napoli, Marigliano, Melito di Napoli, Mugnano di Napoli, Pomigliano d'Arco, Sant'Antimo, Volla;
rilevato, infine, che le zone evidenziate dallo studio si sovrappongono nel complesso a quelle nelle quali è maggiore la presenza di siti illegali di smaltimento di rifiuti, tanto da far risultare indispensabile l'approfondimento della valutazione dell'impatto sanitario del ciclo dei rifiuti in Campania, con l'identificazione di eventuali situazioni di rischio localizzato nel territorio e quindi contrastabile con maggiore efficacia, anche mediante l'adozione di opportune iniziative di Stato, Regione ed enti locali;
considerato che, allo scopo di meglio definire la potenzialità e i limiti dell'indagine epidemiologica nell'inferire i nessi causali intercorrenti fra le specifiche esposizioni ambientali e la successiva insorgenza di determinate patologie rilevabili nel territorio, occorre predisporre adeguati canali informativi che consentano all'Istituto Superiore di Sanità di disporre di ogni utile elemento conoscitivo;
preso atto del rapporto di proficua collaborazione che ha da sempre improntato i rapporti di questa Commissione con le Forze di Polizia impegnate nella prevenzione e nel contrasto degli illeciti in materia ambientale;
ritenuto, pertanto, che appare opportuno, nel rispetto del regime di pubblicità degli atti assunti dalle Forze di Polizia nello svolgimento dei propri compiti istituzionali, fare in modo che lo straordinario corredo informativo a disposizione degli organismi investigativi venga trasferito all'Istituto Superiore di Sanità, in considerazione della importanza per la salute dei cittadini che riveste l'attività di ricerca sopra illustrata;
in conformità a quanto previsto dall'articolo 4 della legge 31 ottobre 2001, n. 399, secondo cui "la Commissione può acquisire copie di atti e documenti relativi a procedimenti e inchieste in corso presso l'autorità giudiziaria o altri organismi inquirenti;
le autorità e gli enti di seguito indicati:
Presidente Regione Campania
Presidente Provincia di Napoli
Presidente Provincia di Caserta
Sindaci e comandanti dei vigili urbani dei comuni di: Aversa, Capodrise, Casagiove, Casal di Principe, Caserta, Castel Volturno, Marcianise, San Cipriano d'Aversa, Santa Maria Capua Vetere, San Nicola la Strada, Villa Literno, Afragola, Arzano, Caivano, Casoria, Frattamaggiore, Giugliano in Campania, Marano di Napoli, Marigliano, Melito di Napoli, Mugnano di Napoli, Pomigliano d'Arco, Sant'Antimo, Volla
Arpa Campania
Procura di Napoli
Procura di Santa Maria Capua Vetere
Procura di Nola
Questura di Napoli
Questura di Caserta
Comando provinciale carabinieri di Napoli
Comando provinciale carabinieri di Caserta
Guardia di Finanza Napoli
Guardia di Finanza Caserta
Corpo forestale dello Stato Napoli e Caserta
Capitanerie di Porto
Comandante polizia provinciale Napoli
Comandante polizia provinciale Caserta;