Doc. XVII n. 19
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1. Premessa.
L'adozione del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria ha determinato un profondo riordino della disciplina relativa agli intermediari, alla gestione del risparmio, alla regolazione dei mercati e agli emittenti titoli sui mercati regolamentati, che costituisce lo stadio più avanzato di un processo evolutivo volti ad assicurare l'aggiornamento della normativa nazionale, anche alla luce delle esperienze di altri Paesi europei.
Il testo unico ha assicurato, in particolare, una maggiore coerenza e sistematicità all'ordinamento, accorpando disposizioni già contenute in distinti provvedimenti e ha introdotto rilevanti elementi di discontinuità rispetto alla normativa previgente, con riferimento a numerosi ed importanti istituti.
Con l'indagine conoscitiva sulla attuazione del Testo unico della finanza, la VI Commissione Finanze ha inteso, a quattro anni dalla adozione del D.Lgs. n. 58/98, procedere alla analisi e alla valutazione dell'assetto della normativa italiana alla luce dei numerosi e importanti mutamenti intervenuti nella struttura dei mercati finanziari e del processo di integrazione europea.
Per un verso, infatti, negli ultimi anni si è accentuato, sul piano funzionale, il superamento delle demarcazioni tra attività e prodotti bancari, mobiliari e assicurativi e la conseguente despecializzazione degli intermediari e, sul piano territoriale, l'internazionalizzazione dei mercati.
Per altro verso, si è accelerata la realizzazione di un mercato unico europeo dei servizi finanziari, che ha prospettato non soltanto la necessità di procedere, all'adeguamento della normativa interna in sede di recepimento dei provvedimenti comunitari, ma anche l'esigenza di una attenta riflessione sull'assetto di alcuni istituti che pur non essendo investiti direttamente dall'attività normativa europea, risultano decisivi al fine di assicurare la competitività del mercato e degli operatori finanziari italiani.
Quando l'indagine conoscitiva era già in corso, sono poi emersi ulteriori elementi di criticità in relazione alla vicenda del fallimento della società Enron, alla quale la Commissione ha ritenuto di estendere le sue riflessioni in considerazione dei pesanti effetti che essa ha avuto sui mercati finanziari ed del dibattito che ne è conseguito.
Nel corso delle audizioni svolte, si è quindi proceduto ad un esame approfondito dell'impianto generale e dell'esperienza applicativa del TUF, al fine di valutare sia la validità degli obiettivi e della impostazione che hanno ispirato il legislatore sia della efficacia degli istituti cui si è fatto ricorso per tradurre sul piano normativo le finalità perseguite.
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Le questioni affrontate nel corso dell'indagine sono state articolate, in particolare, su alcuni istituti o categorie problematiche. Si tratta in particolare:
a) dell'attività di vigilanza e della regolamentazione;
b) del sistema sanzionatorio;
c) dei controlli societari, con particolare riferimento alla revisione contabile;
d) di alcuni profili direttamente connessi alla vicenda Enron, con particolare riferimento al trattamento contabile di determinate operazioni e trasferimenti e all'analisi finanziaria;
e) degli istituti di tutela delle minoranze;
f) dell'OPA;
g) dei patti parasociali;
h) dei mercati regolamentati.
2. Attività e competenze delle autorità di vigilanza.
2.1. Valutazione dell'adeguatezza dell'attuale sistema di riparto delle competenze di vigilanza.
2.1.1. Introduzione.
Il tema della adeguatezza dell'attuale sistema di regolamentazione e di vigilanza sui mercati finanziari è stato esaminato nel corso dell'indagine conoscitiva anzitutto con riferimento ai profili concernenti l'articolazione delle competenze tra le autorità operanti nel settore a livello nazionale e alle prospettive di coordinamento o accentramento delle funzioni di vigilanza a livello europeo.
L'assetto delle competenze di regolazione e vigilanza, sia a livello nazionale che comunitario, costituisce, in effetti, un fattore di importanza decisiva al fine di assicurare, al tempo stesso, la stabilità, il corretto e trasparente funzionamento, la concorrenzialità e lo sviluppo dei mercati finanziari.
In via preliminare, appare opportuno sottolineare che le questioni in oggetto presentano in buona parte una rilevanza che eccede i profili strettamente connessi all'attuazione del TUF e alla regolamentazione dei mercati finanziari.
Per un verso, infatti, esse investono il tema più generale della natura e dei poteri delle autorità indipendenti nel nostro ordinamento, in merito sono state presentate diverse proposte di legge di riforma sia della maggioranza che dell'opposizione, nonché un disegno di legge del Governo.
Per altro verso, gli aspetti relativi al coordinamento delle funzioni di regolazione e vigilanza a livello europeo si inseriscono nel più ampio dibattito relativo all'evoluzione dei modelli di regolamentazione
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dei mercati e dei rapporti tra Banca centrale europea e banche nazionali nell'ambito del sistema delle banche centrali (SEBC).
Alla luce di tali considerazioni, la Commissione ha ritenuto opportuno concentrare la propria attenzione su alcune questioni più direttamente attinenti alla valutazione, anche alla luce dell'esperienza di altri ordinamenti, della efficienza e della efficacia del modello disegnato dalla normativa vigente, non soltanto rispetto all'impianto normativo ed istituzionale vigente, ma anche e soprattutto con riguardo alla rapida evoluzione e alla crescente integrazione dei mercati finanziari.
In primo luogo, nel corso dell'indagine sono stati analizzati i profili connessi alla adeguatezza del sistema di vigilanza vigente nel nostro ordinamento e, in particolare, della disciplina di cui agli articoli 5 e 6 del TUF.
In particolare, si è inteso verificare se l'assetto attuale consente una tutela piena ed effettiva degli interessi pubblici che le funzioni di vigilanza sono intese a salvaguardare, soprattutto alla luce dell'evoluzione della struttura finanziaria e proprietaria del mercato che si caratterizza sempre più per una marcata integrazione fra le diverse attività di credito, di investimento e assicurativa e per una nuova composizione dell'offerta dei vari prodotti finanziari.
Al riguardo, ha assunto particolare rilievo, soprattutto alla luce delle recenti vicende «Enron» e WorldCom, la identificazione di strumenti e assetti che consentano di esercitare una vigilanza efficiente e indipendente sugli attori del mercato.
Una specifica considerazione è stata riservata alla valutazione dell'idoneità del sistema di vigilanza attuale a fronte dell'evoluzione delle attività e degli strumenti finanziaria, segnatamente con riferimento alla despecializzazione degli intermediari e al relativo sviluppo di soggetti multifunzionali e di nuovi strumenti finanziari.
In secondo luogo, si è inteso accertare se e in quale misura la realizzazione dell'Unione monetaria e il crescente grado di integrazione dei mercati finanziari europei, soprattutto alla luce dell'obiettivo, previsto dal Piano d'azione per i servizi finanziari, di realizzare un mercato unico dei servizi finanziari entro il 2005, postulino l'accentramento, in tutto o in parte, delle funzioni di vigilanza a livello europeo, ovvero richiedano la predisposizione di strumenti di coordinamento fra le diverse autorità nazionali di regolazione e vigilanza.
In terzo luogo, sono stati acquisiti elementi di conoscenza e di valutazione in merito all'esigenza di accrescere, in mercati sempre più integrati, la competitività degli operatori riducendo i costi c.d. di vigilanza; in altri termini, si è inteso accertare in quale misura l'attuale ripartizione delle competenze di vigilanza tra più soggetti e i numerosi adempimenti procedurali esistenti possano incidere negativamente sullo sviluppo del mercato, determinando oneri amministrativi eccessivi e rallentando i processi decisionali degli operatori.
I temi in oggetto sono stati approfonditi, oltre che mediante le audizioni, anche nel corso degli incontri con diversi esponenti delle istituzioni comunitarie che hanno avuto luogo nell'ambito della missione svolta nello scorso mese di marzo da una delegazione della VI Commissione a Francoforte e Bruxelles.
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2.1.2. Cenni ai modelli di vigilanza.
I sistemi di vigilanza e regolazione dei mercati finanziari adottati negli ordinamenti dei Paesi industrializzati, pur essendo caratterizzati da notevoli differenze determinate dalle peculiarità dell'assetto istituzionale e economico di ciascuno Stato, presentano significativi aspetti comuni, sia sotto il profilo teleologico, in quanto intesi essenzialmente al conseguimento di alcuni obiettivi fondamentali, che sotto il profilo organizzativo-istituzionale, in quanto riconducibili a modelli generali.
Sotto il primo profilo, va rilevato che in tutti gli ordinamenti i sistemi di vigilanza e regolamentazione sui mercati finanziari, considerati nel loro complesso, sono volti al conseguimento di tre obiettivi fondamentali:
a) la stabilità macro e microeconomica del sistema finanziario;
b) la garanzia della trasparenza del mercato e degli intermediari e la tutela degli investitori;
c) la tutela e promozione della concorrenza.
I primi due obiettivi sono, in linea generale, connessi all'esigenza di garantire la tutela di interessi protetti direttamente o indirettamente dalle costituzioni dei Paesi occidentali.
Per quanto riguarda la promozione della concorrenza, si tratta di un obiettivo la cui tutela, per gli Stati membri dell'Unione europea, si impone per effetto di uno specifico obbligo posto dal trattato istitutivo della Comunità europea. Al riguardo, va ricordato che la Commissione europea, con l'avallo della Corte di Giustizia, ha affermato la piena applicabilità ai mercati finanziari delle norme generali sulla concorrenza contenute negli articoli 81 e 82 del Trattato CE.
Sotto il profilo organizzativo, si può rilevare che per il perseguimento degli obiettivi sopra indicati ciascun ordinamento ha stabilito un assetto istituzionale differenziato che, tuttavia, può essere di norma ricondotto ad un modello generale ovvero ad una combinazione di modelli.
Sebbene in dottrina sussistano significative divergenze in merito alla definizione e ripartizione delle tecniche e dei modelli di regolamentazione, la classificazione più diffusa e comprensiva individua almeno cinque modelli di supervisione e regolamentazione in campo finanziario: la «vigilanza per istituzioni», la «vigilanza per finalità», la «vigilanza per attività» , la «vigilanza funzionale» e la «vigilanza accentrata».
Appare opportuno evidenziare che mentre i modelli di vigilanza istituzionale, per finalità, per attività e accentrata sono, sia pure con diverse varianti e combinazioni, applicati negli ordinamenti nazionali, l'approccio «funzionale» costituisce allo stato un modello prettamente teorico, che non ha ancora avuto una effettiva e organica attuazione.
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A) Modello istituzionale.
In base al modello istituzionale (denominato anche «sezionale» o «per soggetti» o «per mercati»), la vigilanza su ciascuna categoria di operatori finanziari ovvero su ciascun mercato è affidata ad un distinto organo competente per tutte le attività e per il conseguimento di tutti gli obiettivi propri delle funzioni di vigilanza.
A tale impostazione consegue la presenza in ciascun ordinamento di almeno tre distinte autorità di controllo e regolamentazione per le banche, gli intermediari mobiliari e le assicurazioni ovvero per ciascuno dei tre corrispondenti mercati.
Il sistema istituzionale, secondo autorevole dottrina (Padoa-Schioppa), presenterebbe il vantaggio di agevolare il concreto esercizio dell'attività di vigilanza, in quanto ogni categoria di intermediario avrebbe, per tutti gli aspetti relativi alla propria attività, come controparte un'unica Autorità. In tal modo, si eviterebbero i rischi di duplicazione nei controlli, si ridurrebbero i costi della regolamentazione e l'Autorità di vigilanza beneficerebbe di elevate economie di specializzazione.
D'altra parte, il sistema istituzionale è stato oggetto di non poche considerazioni critiche.
In primo luogo, è stato evidenziato che il modello in questione risulta efficace essenzialmente in presenza di intermediari ad oggetto esclusivo, ai quali cioè sia riservato l'esercizio di una sola delle tre attività bancaria, mobiliare ovvero assicurativa. In presenza di soggetti abilitati a esercitare contestualmente più attività di intermediazione finanziaria si determinerebbero, invece, distorsioni nelle funzioni vigilanza per effetto dell'applicazione di disposizioni differenti per operazioni della stessa natura poste in essere da soggetti diversi. In particolare, secondo autorevole dottrina (Di Noia-Piatti) emergerebbe il rischio di creare sistemi «paralleli» di intermediari e conseguenti fenomeni di «arbitraggio» nella scelta della forma giuridica da parte degli intermediari in funzione delle diverse autorità di vigilanza e normative previste per ciascuna categoria di soggetti.
In secondo luogo, la limitazione delle competenze degli organismi di vigilanza a specifiche categorie di soggetti o mercati determinerebbe il rischio di «cattura» degli stessi organismi, che si trasformerebbero in espressione degli stessi interessi particolari del settore rappresentato (Visentini).
In terzo luogo, il fatto che un'unica Autorità di vigilanza debba, relativamente ad una categoria di soggetti, garantire contestualmente il conseguimento più obiettivi determina il rischio di inefficacia dell'attività di controllo nel caso in cui alcuni obiettivi, segnatamente la stabilità, da una parte, e la tutela degli investitori e la concorrenza, dall'altra, risultino confliggenti.
In conclusione, si può osservare che l'approccio istituzionale puro, sebbene determini una indubbia semplificazione dell'assetto organizzativo e una riduzione dei costi di vigilanza, non appare pienamente adeguato a fronte della tendenza alla progressiva despecializzazione degli intermediari e alla crescente integrazione dei mercati e assimilazione delle tipologie di strumenti finanziari.
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B) La vigilanza per finalità.
Il modello della vigilanza «per finalità» consiste nell'assoggettamento degli intermediari ovvero dei mercati al controllo di più autorità, ciascuna competente per uno dei richiamati obiettivi generali della regolamentazione, a prescindere dalla forma giuridica degli intermediari e dalle attività da essi svolte.
Tale impostazione presenta il vantaggio di consentire un controllo efficace e una regolamentazione omogenea per soggetti che, pur avendo una diversa natura giuridica, svolgono la medesima attività nel contesto di mercati fortemente integrati, in cui operano intermediari polifunzionali e gruppi multisettoriali.
Anche il sistema in esame presenta, tuttavia, alcuni aspetti di criticità.
In primo luogo, esso può determinare, in ragione dell'esistenza di più autorità, un aumento non trascurabile dei costi di vigilanza per gli operatori. Questi ultimi, infatti, potrebbero essere obbligati a trasmettere a ciascuna autorità appositi rendiconti di vigilanza contenenti informazioni spesso identiche o comunque simili.
In secondo luogo, il modello in parola non elimina il rischio di una carenza di controllo, ovvero di una sovrapposizione di funzioni, ove non siano chiaramente definite le sfere di competenze delle diverse Autorità in casi specifici.
C) La vigilanza per attività.
In base al modello in questione, a ciascuna categoria di attività di intermediazione finanziaria corrisponde una apposita autorità di vigilanza, indipendentemente dalla forma giuridica del soggetto che svolge l'attività stessa.
L'approccio in parola presenta, analogamente al modello per finalità, il vantaggio di sottoporre a regole uniformi soggetti che, pur aventi diversa forma giuridica, esercitano la medesima attività e consente, pertanto, a ciascuna autorità economie di beneficiare di economie di specializzazione per il settore di propria competenza.
D'altra parte, anche la vigilanza per attività determina, in primo luogo, la sovrapposizione di più organismi e funzioni di controllo sullo stesso soggetto che svolga attività diverse, con conseguente aumento dei costi di vigilanza per gli operatori.
In secondo luogo, la limitazione dal controllo di ciascuna autorità alla specifica attività presenta il rischio di un eccessivo frazionamento di competenze e l'assenza di una supervisione unitaria sugli operatori polifunzionali.
Analogamente al modello istituzionale, l'approccio per attività può determinare, inoltre, il conflitto tra obiettivi di vigilanza diversi concentrati in capo alla medesima attività.
Un ulteriore inconveniente proprio del modello in esame consisterebbe nella sua inadeguatezza rispetto ai problemi di vigilanza non connessi all'attività, ma strettamente riconducibili alla situazione del soggetto vigilato. Si tratterebbe, in particolare, dei problemi di stabilità
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dell'attività bancaria tradizionale, relativamente ai quali le funzioni di vigilanza andrebbero esercitate con riguardo alle istituzioni e non con riferimento a singole operazioni. Nel contesto dell'approccio per attività, pertanto, sarebbe necessario comunque necessario istituire un organismo che eserciti garantisca specificamente la vigilanza sulla stabilità dei soggetti.
D) Il modello funzionale.
Il modello «funzionale» consiste, come accennato in precedenza, in un approccio essenzialmente teorico, privo sinora di una effettiva applicazione nella prassi, elaborato dalla dottrina al fine di configurare un assetto delle funzioni di vigilanza che tenga conto delle asimmetrie informative, dei rapporti di agenzia, e della crescente interdipendenza tra i mercati, gli intermediari e gli strumenti finanziari.
Alla base dell'approccio in esame si pone la considerazione per cui le funzioni economiche proprie dei sistemi finanziari sarebbero «date», mentre le istituzioni finanziarie esistenti, sia operative (banche e altri intermediari) che di vigilanza e regolamentazione sono suscettibili di modificazioni a livello di struttura e di competenze. In altri termini, le «funzioni» economiche in questione risulterebbero più stabili delle stesse istituzioni che le esercitano e dovrebbero conseguentemente essere poste alla base dell'articolazione delle competenze di vigilanza.
In dottrina e nel dibattito svoltosi in alcuni ordinamenti sulla riforma dei sistemi di vigilanza, l'approccio funzionale è stato generalmente richiamato per giustificare la articolazione delle funzioni di vigilanza con riguardo alla natura delle attività svolte dagli intermediari (bancarie, mobiliari e assicurative). In tal modo il modello in esame ha finito con il coincidere integralmente con l'approccio per attività, in base alla considerazione per cui ciascuna tipologia di attività di intermediazione finanziaria corrisponderebbe alle funzioni economiche proprie del sistema finanziario (Di Noia-Piatti).
In alcune recenti elaborazioni dottrinali (Merton), peraltro, è stata proposta una classificazione più articolata e sofisticata delle funzioni in parola che, peraltro, risulta di non immediata e difficile trasposizione ai fini della definizione degli assetti di vigilanza.
Alla luce delle considerazioni sopra effettuate, il modello funzionale presenta pregi e inconvenienti analoghi a quelli determinati dall'approccio per attività, segnatamente per quanto attiene al rischio della sovrapposizione o difetto di coordinamento tra le autorità di vigilanza e all'assenza di meccanismi di tutela della stabilità delle istituzioni.
E) La vigilanza accentrata.
Il modello di vigilanza accentrata consiste nella attribuzione ad un'unica autorità delle competenze di controllo su tutti i mercati e su
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tutti gli intermediari, indipendentemente dalla loro natura bancaria, mobiliare o assicurativa, e dai diversi obiettivi della regolamentazione.
Il modello in esame ha caratterizzato le fasi più risalenti di formazione dei sistemi finanziari, in cui gran parte degli ordinamenti rimettevano alla sola Banca Centrale le funzioni di vigilanza sulla attività di intermediari che generalmente avevano natura di enti creditizi.
Di recente, il ricorso al modello accentrato ha suscitato nel dibattito istituzionale e dottrinale un notevole interesse in considerazione della progressiva integrazione dei mercati, degli intermediari e degli strumenti finanziari. In particolare, il modello ha trovato una concreta applicazione nell'ordinamento inglese, mediante la costituzione della FSA, nonché negli ordinamenti tedesco ed austriaco. In altri ordinamenti, si è realizzata, invece, l'unificazione delle competenze di vigilanza sulle banche e sugli intermediari finanziari ad eccezione delle assicurazioni per le quali è stata mantenuta una apposita autorità.
Oltre a consentire una maggiore efficacia e unitarietà della supervisione sugli organismi polifunzionali e sui gruppi conglomerali, l'accentramento delle funzioni di vigilanza risponde, per un verso, all'esigenza di assicurare una maggiore efficienza nell'organizzazione dell'attività di controllo, attraverso la semplificazione e la riduzione dei costi della stessa, e, per altro verso, all'obiettivo di individuare un unico soggetto responsabile di fronte al Parlamento e al mercato.
Sotto il primo profilo, si può rilevare che la previsione di unico organismo di vigilanza consente allo stesso di realizzare economie di scala e di specializzazione mediante la riduzione di costi fissi quali le spese logistiche, gli oneri del personale e i compensi degli organi di vertice.
L'unicità del soggetto regolatore comporta poi una riduzione dei costi e degli oneri amministrativi per gli operatori.
Sotto il secondo profilo, l'elevata e onnicomprensiva legittimazione di cui godrebbe l'autorità di vigilanza unica potrebbe ridurre il rischio di fenomeni di «cattura» della stessa da parte del mercato.
Per quanto attiene agli aspetti problematici del modello accentrato, in dottrina è stato rilevato anzitutto che il buon funzionamento dello stesso dipenderebbe in misura significativa dall'organizzazione interna dell'organismo di vigilanza. In particolare, l'attribuzione a tale organismo di numerose e complesse aree di competenza e di specializzazione, se non accompagnata dalla predisposizione di un assetto organizzativo ben strutturato e coordinato, rischierebbe di tradursi nella crescita dell'apparato burocratico, rallentando il processo decisionale.
In secondo luogo, la concentrazione in unico organismo della tutela dei distinti obiettivi della vigilanza presenta in misura amplificata quel rischio di inefficienza della vigilanza per effetto della conflittualità tra obiettivi, al quale si è fatto riferimento nell'esaminare alcuni degli altri modelli.
In terzo luogo, il fatto che l'organo di controllo, per quanto autorevole, si ponga quale unico interlocutore per i soggetti vigilati, può accrescere anziché ridurre il rischio di «cattura» da parte del mercato.
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2.1.3. L'assetto delle competenze di vigilanza nell'ordinamento italiano.
Il sistema di vigilanza sui mercati e servizi finanziari vigente nel nostro ordinamento si caratterizza per l'articolazione delle relative competenze in capo a più organismi attraverso la combinazione di diversi criteri che non appaiono riconducibili ad un unico modello di vigilanza.
L'assetto attuale, pertanto, consta di diversi modelli di vigilanza parzialmente sovrapposti ed è il risultato di una serie di interventi normativi, per taluni aspetti non pienamente coordinati, condizionati da differenti esigenze, sia istituzionali che di politica economica.
Il modello c.d. «istituzionale» risulta applicato nel settore assicurativo, sul quale esercita la vigilanza l'ISVAP per gli aspetti relativi alla stabilità e alla trasparenza, e nel settore bancario, per il quale è competente la Banca d'Italia. Quest'ultima vigila su tutta l'attività bancaria tipica diversa dall'attività di intermediazione mobiliare (depositi e impieghi), con riferimento sia alla stabilità sia alla applicazione delle regole di concorrenza, tenuto conto del fatto che la legge n. 287/90 esclude il controllo primario dell'Autorità Antitrust sulle banche.
Un modello misto, istituzionale e per attività, trova applicazione per i fondi pensione, i quali, pur essendo qualificabili come intermediari finanziari cui è riservata l'erogazione di trattamenti pensionistici complementari, sono assoggettati alla vigilanza della Commissione di vigilanza sui fondi pensione, in base alle direttive generali in materia adottate dal Ministro del lavoro, di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze. Peraltro, il Ministro del lavoro vigila sulla Commissione fondi pensione e, sentita la stessa Commissione, autorizza l'esercizio dell'attività.
Per quanto attiene, infine, gli intermediari finanziari, trova applicazione un modello per finalità disciplinato dall'articolo 5 del T.U.F. il quale ha, in gran parte, recepito le innovazioni introdotte dall'articolo 4 del D.Lgs. n. 415/96 (c.d. decreto Eurosim) rispetto alla disciplina di cui alla legge n. 1 del 1991, che non conteneva alcuna disposizione concernente in via generale le finalità dell'attività di vigilanza.
Ai sensi dell'articolo 5, commi 2-3, del Testo unico della finanza, le imprese di investimento, le Sgr, le Sicav, le società fiduciarie, le società finanziarie di cui all'articolo 107 del testo unico bancario e le banche autorizzate all'esercizio dei servizi di investimenti sono vigilati dalla Consob per «la trasparenza e la correttezza dei comportamenti» e dalla Banca d'Italia per «il contenimento del rischio e la stabilità patrimoniale».
Occorre poi ricordare che, ad eccezione delle banche, gli intermediari sono assoggettati al controllo dell'Autorità Garante per la concorrenza e il mercato per quanto attiene agli aspetti connessi alla applicazione della normativa sulla concorrenza.
L'articolo 6 del TUF disciplina poi la c.d. «vigilanza regolamentare» attribuendo alla Consob e alla Banca d'Italia il compito di fissare i criteri e le regole di comportamento degli operatori.
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Il TUF non individua, invece, in via generale gli obiettivi e le competenze di vigilanza sui mercati. Dalle specifiche disposizioni in materia emerge, fatte salve alcune eccezioni, una ripartizione per finalità delle competenze di vigilanza analoga a quella prevista per gli intermediari.
In particolare, l'articolo 74 del testo unico afferma la competenza generale della CONSOB per quanto attiene alla vigilanza sui mercati regolamentati, al fine di assicurare la trasparenza, l'ordinato svolgimento delle negoziazioni e la tutela degli investitori. Con riguardo ai mercati non regolamentati, l'articolo 78 attribuisce alla CONSOB, sentita la Banca d'Italia, le competenze di vigilanza sugli scambi organizzati, con il solo fine della tutela degli investitori.
La competenza è, tuttavia, assegnata al Ministero dell'economia e delle finanze, sentite la Banca d'Italia e la CONSOB, nel caso di scambi all'ingrosso di titoli di Stato.
L'attribuzione alla Banca d'Italia di compiti di vigilanza sulla stabilità dei mercati si evince dalle disposizioni in materia di sistemi di garanzia dei contratti e di compensazione, liquidazione e garanzia delle operazioni su strumenti finanziari, le quali conferiscono alla Banca d'Italia una competenza primaria, da esercitare di intesa con la CONSOB.
Inoltre, ai sensi dell'articolo 76 del TUF la Banca d'Italia, ferme restando le competenze della CONSOB, vigila sui mercati all'ingrosso di titoli di Stato, avendo riguardo all'efficienza complessiva del mercato e all'ordinato svolgimento delle negoziazioni.
L'articolo 79 del Testo unico, infine, attribuisce alla Banca d'Italia la vigilanza sull'efficienza e sul buon funzionamento degli scambi di fondi interbancari.
2.1.4. Alcune considerazioni sulla disciplina del TUF in materia di vigilanza.
L'impianto normativo del TUF ha inteso migliorare l'assetto delle competenze di vigilanza sugli intermediari finanziari, soprattutto sotto il profilo della coerenza sistematica e di una maggiore certezza nella definizione dell'oggetto e dei criteri di ripartizione delle competenze in parola e della riduzione dei costi di vigilanza.
A tal fine, il testo unico ha apportato profonde modificazioni alla disciplina di cui all'articolo 4 del D.Lgs. n. 415/96 (c.d. decreto Eurosim), pur confermando il modello di vigilanza per finalità ivi previsto.
Per quanto attiene specificamente alla vigilanza sugli intermediari, si può osservare, in primo luogo, che nelle disposizioni generali del decreto Eurosim il solo articolo 4 concerneva la vigilanza mentre le altre norme in materia erano inserite nel capo IV del titolo I del decreto. Al contrario, nel TUF le disposizioni relative alla vigilanza agli intermediari abilitati sono collocate all'inizio delle disposizioni della parte II dedicata appunto agli intermediari, evidenziando l'importanza fondamentale riconosciuta alla materia dal legislatore.
In secondo luogo, va osservato che l'espressa indicazione nel comma 1 dell'articolo 5 del testo unico delle finalità dell'attività di
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vigilanza sugli intermediari, come rilevato da autorevole dottrina (Alpa, Capriglione, Bianchi, Santoni), non costituisce una mera enunciazione di principio ma è diretta a fissare in maniera chiara i presupposti di legittimità e i limiti dei poteri attribuiti alle autorità di vigilanza, in coerenza con il più generale disegno di «legificazione dei fini» delle autorità indipendenti (Costi).
In terzo luogo, i già citati commi 2 e 3 dell'articolo 5 del TUF, pur confermando il modello «per finalità» introdotto dal decreto Eurosim, prevedono regole generali di ripartizione delle attribuzioni tra Banca d'Italia e CONSOB, che nel decreto in questione erano desumibili solo indirettamente dalla elencazione delle materie di competenza di ciascuna autorità di cui all'articolo 25 del decreto, relativo alla vigilanza regolamentare. In tal modo si è consentito il superamento delle non poche incertezze interpretative che erano state suscitate dalla normativa previgente.
In quarto luogo, il testo unico ha ampliato il novero dei soggetti destinatari dell'attività di vigilanza, la quale trova applicazione nei confronti di tutti gli intermediari abilitati definiti nel richiamato articolo 1, comma 1, lett. r), in coerenza con la scelta sistematica di collocare la disciplina delle società di gestione del risparmio e delle Sicav nell'ambito della parte II del TUF contenente la disciplina degli intermediari.
Infine, va osservato che l'ultimo comma del medesimo articolo 5 enuncia espressamente il principio generale di cooperazione tra Banca d'Italia e CONSOB, impegnandole ad operare in modo coordinato nell'esercizio dei rispettivi poteri di vigilanza.
Tale disposizione, che è espressione del più generale principio di collaborazione tra autorità indipendenti, è intesa, da un lato, ad agevolare e a rendere più efficace l'esercizio dei propri compiti da parte di ciascun organismo e, dall'altro lato, a ridurre i costi e gli oneri gravanti sui soggetti vigilati per effetto dell'assoggettamento al controllo di due autorità distinte.
Da parte della dottrina sono stati avanzati, peraltro, alcuni rilievi critici in merito alla effettiva attitudine delle disposizioni del TUF a conseguire gli obiettivi sopra indicati.
In particolare, con riferimento alla idoneità delle disposizioni di cui agli articoli 5 e 6 del testo unico a distinguere con chiarezza gli ambiti di competenza di ciascuna autorità, eliminando le incertezze interpretative derivanti dal testo del D.Lgs. n. 415/96, sono emerse in dottrina valutazioni contrastanti.
Alcuni autori (Alpa-Capriglione, Loizzo) hanno rilevato che gli ambiti delle attività di Consob e Banca d'Italia sarebbero sufficientemente delimitati dalle diverse finalità perseguite; altri (Santoni), invece, ritengono che l'individuazione delle competenze mediante il criterio teleologico non avrebbe eliminato del tutto le incertezze preesistenti e che mancherebbe un criterio idoneo a determinare, in caso di conflitto tra gli obiettivi generali assegnati alle due autorità, quale obiettivo debba essere considerato prevalente. In particolare, secondo questa seconda tesi, dall'articolo 6 del TUF, il quale individua gli ambiti in cui si esercita la vigilanza regolamentare di ciascuna delle due autorità, emergerebbe una sovrapposizione di competenze in alcune materie, quale quella dei controlli interni agli intermediari
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vigilati (ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lett. a) e, comma 2, lett. a), o quella della composizione dei portafogli, rilevante sia sotto il profilo prudenziale che con riferimento al conflitto di interessi.
Per quanto attiene al coordinamento delle attività di CONSOB e Banca d'Italia, è stata rilevata (Santoni) la scarsa incisività del principio di collaborazione di cui all'ultimo comma dell'articolo 5 ai fini dell'obiettivo della riduzione degli oneri di vigilanza. Ciò sarebbe dimostrato, tra l'altro, dalla difficoltà di configurare una diretta invocabilità della norma in questione da parte dei soggetti vigilati per chiedere la riduzione al minimo degli oneri di vigilanza eccessivi.
Sull'attuale assetto delle competenze di vigilanza sono intervenuti nel corso delle audizione i rappresentanti delle autorità di controllo e vigilanza e i rappresentanti degli intermediari finanziari.
Banca d'Italia e CONSOB hanno espresso entrambe un giudizio complessivamente positivo sull'attuale ripartizione dei poteri e, più in generale, sul modello di vigilanza per finalità vigente.
Tale modello garantirebbe adeguatamente la protezione degli interessi pubblici che costituiscono l'obiettivo della vigilanza e favorirebbe, altresì, a giudizio della Banca d'Italia, una «concorrenza» fra le istituzioni.
La CONSOB ha peraltro formulato alcune specifiche osservazioni con riferimento alla questione della vigilanza sui fondi pensione, proponendo di semplificare il quadro normativo in particolare per regolare le sovrapposizioni di competenze con la Covip che vigila sulla trasparenza e sulla corretta amministrazione dei fondi e la CONSOB che vigila sulla trasparenza e sulla correttezza dei comportamenti degli intermediari gestori, riconducendo la gestione dei fondi aperti nella generale disciplina del risparmio gestito.
Le associazioni degli intermediari hanno concordato nell'affermare la necessità di un sistema di vigilanza più snello ed efficiente, che riduca gli oneri a carico dei soggetti vigilati.
In particolare, ASSOGESTIONI ha individuato quale migliore opzione il conferimento ad un'unica autorità tutti i poteri di vigilanza alla stregua di ciò che avviene in Inghilterra con la FSA (Financial Services Authority); in mancanza, risulterebbe quantomeno opportuno rafforzare il grado di coordinamento fra le autorità dei diversi settori anche al fine di ridurre i rischi di «sovrapposizioni» di competenza e i c.d. «costi» della vigilanza per gli intermediari.
Occorre, infine, evidenziare che il prof. Monti, nel corso dell'incontro svoltosi a Bruxelles, ha osservato, in un'ottica generale, che la progressiva attenuazione delle distinzioni tra le varie tipologie di servizi e prodotti finanziari richiede una attenta riflessione sulla opportunità di una conseguente riarticolazione delle funzioni e delle strutture nazionali di vigilanza e di regolazione.
2.1.5. L'esperienza di altri ordinamenti europei.
I sistemi di vigilanza e regolamentazione dei mercati finanziari adottati negli ordinamenti dei Paesi avanzati sono riconducili a modelli o combinazioni di modelli differenti.
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In via preliminare, si può osservare che tradizionalmente l'assetto delle funzioni di vigilanza finanziaria si è caratterizzato nella maggior parte di tali ordinamenti per una ripartizione delle competenze improntata in misura prevalente al modello istituzionale. Ne risultava la presenza in ciascuno Stato di una autorità di vigilanza e controllo per le banche, identificata nella Banca centrale, e di distinte autorità, con un grado di autonomia variabile rispetto alla banca centrale, per le imprese di assicurazione e i mercati ed intermediari mobiliari.
Nell'ultimo decennio si è manifestata una progressiva crisi del modello istituzionale e una parallela erosione delle competenze di vigilanza delle banca centrale determinata, per un verso, dalla crescente presenza nei mercati di gruppi polifunzionali e dalla progressiva assimilazione delle tipologie di attività e strumenti finanziari, e, per altro verso, dal processo di integrazione economica e finanziaria europea.
Il risultato più evidente di questo processo è stata l'affermazione in alcuni ordinamenti del modello monistico puro o, quantomeno, la creazione di autorità uniche di vigilanza sulle banche e sugli intermediari finanziari di natura non assicurativa.
Le prime autorità uniche sono state istituite a partire dalla fine degli anni ottanta in alcuni paesi del Nord d'Europa: in Norvegia nel 1986, in Danimarca nel 1988 e in Svezia nel 1992. Successivamente, si è proceduto alla creazione nel Regno unito della FSA nel 1997, della Agenzia federale della Germania, e della analoga agenzia austriaca nel maggio 2002.
In altri ordinamenti è stata, invece, costituita un'autorità unica per tutti gli intermediari e gli obiettivi di vigilanza, fatta eccezione del settore assicurativo. È il caso, in particolare del Lussemburgo, dove è stata istituita nel 1998 la Commission de Surveillance du Secteur Financier (Commissione di sorveglianza del settore finanziario) competente per la vigilanza su tutti i mercati e gli intermediari finanziari, con la sola eccezione del settore assicurativo. La seguente tabella riporta sinteticamente la natura delle autorità di vigilanza operanti con riferimento a ciascuna delle tre categorie di intermediari:
Autorità di regolamentazione e vigilanza sugli intermediari bancari, mobiliari e assicurativi in Europa, Giappone e Stati Uniti (anno 2002) (1)
Paese |
Banche |
Mercati e intermediari mobiliari |
Imprese di assicurazione |
UE | | | |
Belgio | BS | BS | I |
Danimarca | FSA | FSA | FSA |
Germania | FSA | FSA | FSA |
Grecia | CB | S | G |
Spagna | CB | S | G
|
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Francia | B/CB | S/B | I |
Italia | CB | S | I |
Irlanda | FSA(CB) | FSA(CB) | FSA(CB) |
Lussemburgo | BS | BS | I |
Olanda | CB/S | S/CB | I/S |
Austria | FSA | FSA | FSA |
Portogallo | CB | S | I |
Finlandia | BS | BS | I |
Svezia | FSA | FSA | FSA |
Regno Unito | FSA | FSA | FSA |
Stati Uniti | B/CB | S | I |
Giappone | FSA | FSA | FSA |
Legenda CB = banca centrale, BS = autorità di vigilanza settore bancario e dei mercati mobiliari, FSA = autorità unica di vigilanza finanziaria, B = autorità di vigilanza settore bancario, S = autorità di vigilanza settore mobiliare, I = autorità di vigilanza settore assicurativo, G = autorità di vigilanza governativa.
(1) I dati riportati nella tabella sono tratti da Di Giorgio G. e Di Noia C., 2003, «Financial Market Regulation and Supervision: How many peaks for the Euro Area?», Brooklyn Journal of International Law, n. 2.
Per quanto riguarda i Paesi membri dell'Unione europea, in via di prima approssimazione si può rilevare che in Francia, Grecia, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna sono previste autorità di vigilanza separate per ciascuno dei settori bancario, assicurativo e mobiliare.
In Belgio, Finlandia, e Lussemburgo è presente un'autorità di vigilanza unica per il settore bancario e quello dei valori mobiliari e una apposita autorità di vigilanza per il settore delle assicurazioni. In Belgio, in particolare, tale assetto è stato realizzato nel corso del 2002 estendendo la vigilanza della banca centrale sugli intermediari finanziari.
Infine, come già accennato, in Austria, Danimarca, Germania, Irlanda, Svezia e Regno Unito opera un'autorità di vigilanza unica per il settore bancario, il settore delle assicurazioni e i valori mobiliari.
In estrema sintesi, si può osservare che il settore il cui sistema di vigilanza risulta più omogeneo è quello assicurativo che in nove dei 15 Stati membri è assoggettato ad una apposita e distinta autorità di controllo, mentre nel solo caso del Lussemburgo resta sottoposto alla vigilanza del Ministero dell'economia.
Al contrario, il settore dei mercati mobiliari e finanziari presenta la maggiore differenziazione nei modelli esistenti, per effetto di una ripartizione dei poteri di vigilanza fra più organismi coesistenti con
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un diverso grado di poteri di autoregolamentazione fra cui anche la Borsa.
A fronte di questi assetti, negli ultimi anni si è registrato un particolare interesse per le proposte di riforma organica delle funzioni di vigilanza che, prendendo atto della crescente importanza dei conglomerati finanziari polifunzionali e della creazione di prodotti finanziari ibridi, prospettano una concentrazione, parziale o totale, della vigilanza in capo ad un unico organismo ovvero la creazione di strumenti di coordinamento tra le distinte autorità.
Occorre evidenziare che in alcuni ordinamenti è già stata realizzata una parziale concentrazione delle funzioni di vigilanza in capo ad un unico organismo ovvero sono stati introdotti meccanismi e strutture di coordinamento tra le attività delle diverse autorità.
Nei Paesi Bassi è stato costituito luglio 1999 il Raad van Financiële Toezichthouders (Consiglio delle autorità di vigilanza finanziaria), che non è un nuovo ed autonomo organismo di vigilanza, ma un organo collegiale di coordinamento dell'attività delle tre autorità di settore che vigilano, rispettivamente, sulle istituzioni creditizie (Banca Centrale), le società di intermediazione mobiliare e le compagnie di assicurazione. Il coordinamento si esplica ai fini della elaborazione di regolamentazioni e orientamenti su temi di natura intersettoriale quali la vigilanza sui conglomerati, l'informativa ai consumatori e le questioni attinenti all'integrità delle istituzioni quali, in particolare, la verifica dei requisiti di onorabilità e professionalità degli amministratori.
Ad analoghe finalità risponde l'istituzione in Portogallo, nel settembre 2000, del Conselho Nacional de Supervisores Financeiros (Consiglio nazionale delle autorità di vigilanza finanziaria) quale strumento per assicurare un maggiore coordinamento tra le tre autorità settoriali, vale a dire il Banco de Portugal, la Comissao do Mercado de Valores Mobiliários (Commissione per l'intermediazione mobiliare) e l'Instituto de Seguros de Portugal (Istituto di assicurazioni del Portogallo), le competenze delle quali non sono state modificate. Il Consiglio ha il compito di favorire un regolare scambio di informazioni tra le tre autorità, di promuovere regolamentazioni e pratiche prudenziali relativamente ai conglomerati finanziari, di elaborare proposte legislative su questioni di rilevanza intersettoriali e di predisporre strumenti di cooperazione con organi di vigilanza di altri Stati. Il Consiglio nazionale delle autorità di vigilanza finanziaria è presieduto dal Governatore del Banco de Portugal, in considerazione del ruolo che tale istituzione svolge al fine di garantire la stabilità del sistema finanziario.
L'esigenza di un maggiore coordinamento tra le autorità nazionali e di più stati membri è presente anche nella legislazione comunitaria. Al riguardo appare opportuno ricordare che l'articolo 10 della Direttiva 2002/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2002, relativa alla vigilanza supplementare sulle imprese regolamentate appartenenti ad un conglomerato finanziario, prevede espressamente la nomina tra le diverse autorità competenti degli Stati membri interessati di un unico coordinatore, responsabile per il coordinamento e l'esercizio della vigilanza supplementare.
L'articolo 12 della medesima direttiva prevede, inoltre, che le autorità competenti preposte all'esercizio della vigilanza sulle imprese regolamentate appartenenti ad un conglomerato finanziario, abbiano sede o meno nello stesso Stato membro, e l'autorità competente
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designata come coordinatore di detto conglomerato finanziario cooperano strettamente tra loro, mediante lo scambio di tutte le informazioni essenziali o pertinenti all'esercizio dei rispettivi compiti di vigilanza e, in determinati casi, la consultazione reciproca.
2.1.5.1. Il dibattito sulle competenze delle Banche centrali in materia di vigilanza prudenziale dopo il passaggio all'euro.
L'evoluzione dei mercati e dei prodotti finanziari e il processo di integrazione monetaria europea ha determinato in gran parte degli Stati europei, nell'ambito delle più ampie discussioni sul riassetto delle funzioni di vigilanza, una riflessione sull'opportunità di mantenere e/o modificare le competenze delle banche centrali in materia di vigilanza prudenziale.
La questione riveste una notevole importanza ove si consideri che, per quanto attiene specificamente all'Unione economica e monetaria, in dieci dei dodici Stati aderenti all'area euro alle banche centrali nazionali sono attribuite in via esclusiva o comunque in misura significativa competenze relative alla vigilanza prudenziale.
In via preliminare, va ricordato che, secondo le impostazioni più diffuse (studio BCE), l'esercizio della vigilanza prudenziale include un complesso di attività che possono essere raggruppate in tre categorie:
a) la tutela degli investitori, che si traduce principalmente nell'adozione e nell'applicazione di regole di condotta per gli intermediari e di obblighi di informazione al pubblico;
b) la vigilanza microprudenziale, che comprende la vigilanza informativa e ispettiva, intesa ad accertare la solidità delle singole istituzioni, garantendo quindi la tutela dei depositanti e di altri creditori al dettaglio;
c) l'analisi macroprudenziale, in cui si collocano la verifica dell'esposizione al rischio sistemico e l'identificazione di rischi per la stabilità delle istituzioni finanziarie determinati dagli andamenti macroeconomici o dei mercati, nonché dalle infrastrutture del mercato.
In linea generale, l'attribuzione delle funzioni relative all'analisi macroprudenziale e alla tutela degli investitori non presenta aspetti problematici in quanto nella quasi totalità degli ordinamenti, la prima è conferita, in misura e con modalità differenti, alle banche centrali, mentre la seconda è rimessa alle autorità di vigilanza sui mercati.
Più controversa risulta invece l'attribuzione delle competenze attinenti alla vigilanza microprudenziale, che la maggior parte delle banche centrali considera strettamente connessa al controllo del rischio sistemico e che le autorità di vigilanza sui mercati finanziari ritengono, invece, componente essenziale della funzione di tutela dei depositanti e degli investitori.
Gli argomenti a sostegno del collegamento fra vigilanza microprudenziale e banca centrale possono essere raggruppati (studio BCE) in tre categorie fondamentali:
a) l'esistenza di sinergie informative tra la vigilanza prudenziale e le funzioni fondamentali della banca centrale;
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b) il controllo del rischio sistemico;
c) l'indipendenza e competenze tecniche.
Per quanto attiene alla prima categoria di argomentazioni, si sostiene che le informazioni raccolte a fini di vigilanza assumono rilievo ai fini dell'analisi macro-prudenziale, in particolare per quanto attiene alla sorveglianza dei sistemi di pagamento e alla verifica della solidità di altre infrastrutture del mercato, ritenute essenziali per la conduzione della politica monetaria.
Le informazioni in parola, e soprattutto quelle riguardanti gli intermediari con rilevanza sistemica, sarebbero essenziali anche ai fini della vigilanza macroprudenziale, in quanto consentono di formulare stime più accurate dell'attività economica e delle pressioni inflazionistiche, favorendo la scelta dell'orientamento più appropriato per la politica monetaria. Inoltre, si osserva che in caso di crisi dei mercati finanziari, la banca centrale sarebbe inevitabilmente coinvolta.
I vantaggi della realizzazione di sinergie informative risulterebbero evidenti anche nel senso opposto, in quanto le conoscenze della banca centrale in merito agli andamenti dei mercati monetari e finanziari, ai sistemi di pagamento e alle operazioni di politica monetaria presentano una forte utilità per l'esercizio delle funzioni di vigilanza.
Le argomentazioni relative al rischio sistemico evidenziano lo stretto rapporto tra il controllo prudenziale dei singoli intermediari e la valutazione dei rischi per l'intero sistema finanziario.
Le banche centrali, avendo la responsabilità della stabilità sistemica, sarebbero in una posizione privilegiata per valutare non solo la probabilità e l'impatto di shock macroeconomici o turbolenze sui mercati dei capitali, ma anche la presenza di fattori che possono incidere negativamente sulla stabilità di più intermediari.
Al riguardo, si osserva che anche nei paesi che hanno optato per la separazione tra vigilanza e banca centrale, quali il Regno Unito, la responsabilità della banca centrale per la stabilità sistemica non è mai stata contestata.
L'ultimo gruppo di argomentazioni esalta la consolidata indipendenza, competenza e autorevolezza delle banche centrali rispetto alle istituzioni politiche, qualità che proteggerebbero l'esercizio della vigilanza da ingerenze esterne, e al tempo stesso escluderebbe il rischio di «cattura» da parte dei vigilati.
Inoltre, viene posto l'accento sul fatto che le banche centrali possiedono un patrimonio consolidato di conoscenze sulla struttura e sul funzionamento del sistema finanziario nazionale.
I tre argomenti utilizzati a sostegno dell'attribuzione delle competenze di vigilanza ad uno o più organismi distinti dalla banca centrale possono essere anch'essi ripartiti in tre gruppi:
a) il rischio di conflitto di interessi fra vigilanza prudenziale e politica monetaria, nonché la questione del moral hazard;
b) la tendenza alla creazione di conglomerati polifunzionali e la progressiva assimilazione dei prodotti e degli intermediari finanziari;
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c) l'esigenza di evitare un'eccessiva concentrazione di poteri nella banca centrale.
La prima categoria di argomentazioni evidenzia il rischio che la fragilità del sistema bancario possa indurre la banca centrale a perseguire una politica monetaria più accomodante rispetto a quella richiesta per il perseguimento dell'obiettivo della stabilità dei prezzi. Secondo questa impostazione la banca centrale dovrebbe incentrare la propria attenzione esclusivamente sul mantenimento della stabilità dei prezzi; la considerazione diretta sull'instabilità finanziaria da parte della banca centrale destabilizzerebbe l'economia dando origine a moral hazard. In altri termini, ove alla banca centrale sia attribuito il compito di contrastare l'inflazione alla medesima non dovrebbero essere attribuite competenze, né esclusive né condivise, in materia di vigilanza.
Il rischio di moral hazard viene richiamato altresì con riguardo al ruolo delle banche centrali nella gestione delle crisi. In particolare, si afferma che le competenza delle banche centrali al riguardo favorirebbero l'assunzione di rischi eccessivi da parte dei soggetti bancari vigilati, in quanto la prima interverrebbe in aiuto di questi ultimi concedendo credito di ultima istanza, oppure modificando i tassi di interesse, eventualmente al fine di celare gravi carenze dell'attività di vigilanza.
Per quanto attiene agli argomenti relativi alla formazione di conglomerati finanziari polifunzionali, si osserva la crescente interconnessione fra banche, società di intermediazione mobiliare, gestori di patrimoni e imprese di assicurazione, e la tendenza al superamento della distinzione fra le tipologie prodotti finanziari, rende poco efficiente un sistema di vigilanza che preveda l'intervento di diverse autorità. La previsione di meccanismi di coordinamento delle autorità non rappresenterebbe una soluzione adeguata in quanto fonte di complicazione dei processi decisionali e di aumento dei costi di vigilanza per gli intermediari. Pertanto, si renderebbe opportuna la creazione di un'unica autorità di vigilanza, distinta dalla banca centrale, alla quale tradizionalmente non spettano funzioni di controllo sulle società di intermediazione mobiliare e sulle compagnie di assicurazione.
L'argomento concernente la concentrazione dei poteri evidenzia che il conferimento ad una banca centrale di funzioni di regolamentazione e vigilanza estese all'intero settore finanziario aumenterebbe il rischio di abusi nello svolgimento delle funzioni da parte della medesima.
Con l'introduzione dell'euro e il trasferimento delle competenze in materia di politica monetaria al SEBC, alcuni degli argomenti contrari o favorevoli alla attribuzione alle banche centrali nazionali delle funzioni di vigilanza prudenziale alcuni degli argomenti sopra richiamati hanno perso rilievo e semmai si ripropongono nel dibattito relativo al trasferimento di dette funzioni alla BCE o ad un'autorità di vigilanza comunitaria.
Diverse, tuttavia, risultano le conclusioni che si possono formulare al riguardo e che sono sinora emerse in dottrina e nel dibattito istituzionale.
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Da una parte (studio BCE), si afferma che nel quadro istituzionale dell'UEM sarebbe opportuno affiancare alle competenze del SEBC in materia di politica monetaria l'attribuzione alle banche centrali nazionali di ampi poteri di vigilanza sui mercati nazionali a livello sia microprudenziale sia macroprudenziale. In tal modo, infatti, si assicurerebbe un efficace collegamento fra le autorità di vigilanza all'interno dell'UEM, «ottimizzando il controllo dei rischi per la stabilità finanziaria nell'area della moneta unica e migliorando il coordinamento con le funzioni di banca centrale esercitate a livello dell'Eurosistema». Secondo questa impostazione, le attività delle banche centrali nazionali potrebbero estendersi anche a settori diversi da quello bancario, in considerazione delle problematiche di carattere sistemico connesse alla presenza di grandi conglomerati multifunzionali.
Laddove, comunque, a livello nazionale si ritenesse opportuno mantenere una separazione tra le competenze di vigilanza delle BCN sulle banche quelle di altri organismi di vigilanza sugli intermediari finanziari e le assicurazioni sarebbe opportuno stabilire forme di coordinamento fra le varie autorità attraverso l'istituzione di organi decisionali comuni, la condivisione di risorse, umane e di altra natura, così come mediante l'adozione di efficaci sistemi di cooperazione e di scambio delle informazioni.
Un'importanza decisiva viene quindi riconosciuta all'argomentazione per cui le banche centrali nazionali sarebbero le istituzioni strutturalmente e funzionalmente più attrezzate a far fronte al rischio sistemico che, con la creazione dell'Unione economica e monetaria, ha acquisito una forte rilevanza. In particolare, la creazione di infrastrutture comuni per i pagamenti di elevato ammontare e della riorganizzazione dei gruppi bancari e finanziari e la loro crescente presenza sui mercati mobiliari europei accresce «la probabilità che perturbazioni originate o incanalate attraverso i mercati dei capitali si propaghino oltre i confini nazionali».
In altri termini, la presenza di conglomerati finanziari multinazionali e di grandi dimensioni, dando origine a problemi di natura sistemica giustificherebbe un estensione delle responsabilità delle banche centrali.
Queste ultime, possedendo una conoscenza diretta e approfondita dei mercati monetari e mobiliari dell'area euro, in quanto membri del SEBC, goderebbero «di un vantaggio comparativo nell'osservazione dei rischi in cui incorrono le singole istituzioni e, soprattutto, della correlazione fra i rispettivi profili di rischio.»
Le altre autorità di vigilanza non sarebbero, invece, in grado di valutare rapidamente ed efficacemente la probabilità che si generi una crisi sistemica, in quanto il loro «approccio prevalentemente microprudenziale non consentirebbe alle stesse di soppesare le conseguenze di una crisi che si propaghi attraverso i sistemi di pagamento e di regolamento nelle questioni di importanza sistemica»
Le medesime autorità risulterebbero, inoltre, meno adeguate in quanto dotate di «un mandato limitato ai confini nazionali e in genere intrattengono stretti rapporti, formali o informali, con i ministeri finanziari del proprio paese». Conseguentemente, tali autorità in caso di difficoltà tenderebbero a prediligere il coordinamento con il
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proprio governo nazionale, attribuendo un'importanza minore al rischio sistemico.
Infine, la tesi in esame rileva che l'introduzione dell'euro, avendo privato le BCN di autonome competenze di politica monetaria, avrebbe reso priva di fondamento le obiezioni fondate sull'affermazione del conflitto tra la vigilanza prudenziale e le funzioni di politica monetaria e sul timore di una eccessiva concentrazione di poteri in capo alle banche centrali.
In senso opposto alle argomentazioni sopra richiamate si può osservare, in primo luogo, che gran parte di esse si fondano quasi esclusivamente sulla valorizzazione del ruolo delle banche centrali quali parti del SEBC, prive di autonomi poteri di politica monetaria ma componenti di una rete dotata di accesso privilegiato ai dati concernenti la situazione e lo sviluppo dei mercati.
Si tratta di argomentazioni che, richiamando direttamente o indirettamente la titolarità delle competenze monetarie in capo al SEBC, se sviluppate coerentemente, sembrerebbero giustificare più che un rafforzamento dei poteri di vigilanza delle singole BCN, il trasferimento dei medesimi poteri alla BCE (cfr. il paragrafo successivo).
Inoltre, proprio il fatto che le banche centrali siano membri del SEBC e partecipino alle deliberazioni in seno al Consiglio dei Governatori potrebbe essere richiamato per rilevare che l'attribuzione delle competenze di vigilanza alle BCN attenua ma non elimina del tutto il rischio di conflitto di interessi.
In secondo luogo, va osservato che il passaggio alla terza fase dell'UEM favorendo il processo di integrazione finanziaria rende più forte l'esigenza di adeguare il sistema di vigilanza alla crescente presenza di conglomerati polifunzionali e alla assimilazione degli strumenti finanziari, mediante il superamento o l'ammodernamento dei sistemi di vigilanza istituzionale o per attività. Tale processo riforma non sembra tuttavia tradursi necessariamente in un rafforzamento delle competenze di vigilanza delle banche centrali in quanto membri del SEBC.
Si può anzi osservare che l'argomento per cui soltanto le banche centrali, in seno al SEBC, fruirebbero di meccanismi di coordinamento e scambio di conoscenze e informazioni che le renderebbero meglio equipaggiate a fronteggiare il rischio sistemico, non appare convincente. Tale argomento, infatti, non sembra tenere conto dei progressi realizzati con l'applicazione del rapporto del comitato Lamfalussy e, in particolare, della creazione di una rete di autorità di regolamentazione dei mercati mobiliari (cfr. il paragrafo successivo). Tali autorità, in quanto membri del Comitato europeo dei regolatori dei valori mobiliari, partecipano attivamente al processo decisionale comunitario assicurando il coordinamento e l'indirizzo unitario nella fase di attuazione della normativa europea in materia.
Anche l'argomento per cui soltanto le banche centrali possedendo una conoscenza diretta e approfondita dei mercati monetari e mobiliari dell'area euro, in quanto membri del SEBC, non risulta del tutto persuasivo. Al riguardo, si può richiamare l'esperienza del Regno unito, in cui, dopo la creazione della FSA e il trasferimento alla medesima delle funzioni di vigilanza della Banca d'Inghilterra, si è
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garantito un efficiente e continuo flusso di informazioni tra le due autorità, sulla base di un apposito Memorandum di intesa. Tali strumenti hanno consentito, secondo la valutazione espressa dal Presidente della FSA H. Davies nel corso di un'audizione sui temi della vigilanza sui mercati finanziari in Europa presso la Commissione per gli affari economici e finanziari del Parlamento europeo, una adeguata tutela dell'obiettivo della stabilità finanziaria e sorveglianza sul rischio sistemico.
Va evidenziato che il Parlamento europeo, nella risoluzione sulle norme di vigilanza prudenziale nell'Unione europea approvata nel novembre 2002 (2002/2061(INI)), pur mantenendo una posizione aperta per quanto riguarda le struttura nazionali di vigilanza, ha rilevato che la sottrazione alla banche centrali nazionali dei poteri di vigilanza potrebbe avere ricadute negative, «in quanto troncherebbe i legami tra vigilanza sui sistemi di pagamento e vigilanza bancaria e renderebbe più difficile il compito di conciliare le politiche microprudenziali e quelle macroprudenziali.»
2.1.6. Integrazione economico-finanziaria europea e funzioni di vigilanza.
Con la realizzazione dell'Unione economica e monetaria e l'avanzamento del processo di creazione di un mercato finanziario europeo unico hanno acquisito una crescente rilevanza le questioni connesse alla creazione di strumenti di coordinamento o addirittura di accentramento a livello comunitario delle funzioni di vigilanza sui mercati e sugli intermediari finanziari.
A fronte dell'incremento dell'attività finanziaria transfrontaliera e transettoriale, nell'Unione europea, come rilevato dal Rapporto Lamfalussy, coesistono 40 distinti organismi nazionali incaricati di regolare e vigilare sui mercati dei valori mobiliari, la natura e la distribuzione delle competenze dei quali risponde, come si è già avuto modo di rilevare, a criteri eterogenei
In tale contesto si determina una forte frammentazione della regolamentazione che, accrescendo i costi di vigilanza e creando una situazione di incertezza per gli operatori del mercato, ostacola fortemente lo sviluppo dei servizi finanziari transfrontalieri.
La segmentazione delle funzioni di vigilanza, inoltre, non consente di circoscrivere il rischio sistemico derivante dalla diffusione di situazioni di crisi che dovessero determinarsi in specifici mercati.
I principi del controllo del paese di origine e del mutuo riconoscimento dei provvedimenti di vigilanza delle autorità nazionali, ai quali è informata la legislazione comunitaria vigente in materia di vigilanza bancaria, assicurativa e sugli intermediari finanziari, di cui in particolare alla Direttiva 93/22/CEE, non si sono dimostrati, nell'esperienza applicativa, idonei ex se a fornire una risposta a tali aspetti problematici.
Il successo dell'integrazione finanziaria sembra pertanto non poter prescindere, oltre che dall'armonizzazione della disciplina sostanziale, anche dall'introduzione, se non di un unico sistema di vigilanza accentrato, quanto meno di dispositivi di coordinamento per
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la definizione di criteri e parametri condivisi tra le competenti autorità nazionali.
Lo stesso piano d'azione per i servizi finanziari, presentato dalla Commissione europea nel maggio 1999 (COM(1999) 232), al fine di tradurre in un preciso programma di lavoro le linee di intervento prospettate nel quadro di azione per i servizi finanziari dell'ottobre 1998, ha prospettato l'adozione, entro il 2005, di una serie di misure, prevalentemente di natura legislativa, intese anche all'adeguamento delle norme e dei sistemi prudenziali e di vigilanza alle nuove e mutevoli strutture dei mercati finanziari.
Una prima soluzione teorica ai problemi sopra richiamati potrebbe consistere nella decisione di concentrare, parallelamente al completamento del processo di integrazione finanziaria, in capo ad un'unica autorità comunitaria le funzioni di vigilanza e regolazione sui mercati finanziari.
In questo senso si è tornati anche a ipotizzare l'opportunità di attribuire alla BCE le competenze di vigilanza assegnate alle banche centrali nazionali.
Un trasferimento delle competenze in materia al livello comunitario, tuttavia, appare politicamente prematuro ed è privo di una adeguata base giuridica nel trattato CE.
Le uniche disposizioni che contemplano espressamente il conferimento ad istituzioni comunitarie di competenze in materia di vigilanza sono contenute dall'articolo 105 del Trattato CE e dagli articoli 3 e 25 dello Statuto del sistema europeo delle banche centrali.
L'articolo 105 del Trattato CE e l'articolo 3 paragrafo 3 dello Statuto del SEBC attribuiscono al SEBC, senza trasferire ad esso specifici poteri, il compito di contribuire «ad una buona conduzione delle politiche perseguite dalle competenti autorità per quanto riguarda la vigilanza prudenziale degli enti creditizi e la stabilità del sistema finanziario,».
Il paragrafo 6 del medesimo articolo 105 prevede che il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione, previa consultazione della BCE e acquisito il parere conforme del Parlamento europeo, possa affidare alla BCE «compiti specifici» in merito alle politiche che riguardano la vigilanza prudenziale degli enti creditizi e delle altre istituzioni finanziarie, escluse le imprese di assicurazione.
Il paragrafo 1 dell'articolo 25 dello Statuto del SEBC stabilisce la competenza della BCE ad esprimere pareri alla Commissione, al Consiglio e alle competenti autorità degli Stati membri sulla portata e sull'applicazione della legislazione comunitaria concernente la vigilanza sul settore creditizio e la stabilità del sistema finanziario. Il successivo paragrafo 2 ribadisce quanto previsto dall'articolo 105, paragrafo 6.
In sostanza, fatta salva tale ultima disposizione, che si riferisce peraltro a «poteri specifici», il trattato e lo statuto del SEBC attribuiscono al SEBC e alla BCE soltanto il compito di concorrere attraverso strumenti non vincolanti ad una conduzione coerente delle funzioni di vigilanza prudenziale.
Una diversa opzione consiste nella creazione di strumenti e eventualmente organismi di coordinamento dell'attività dei regolatori
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nazionali che restano, comunque, i soli titolari delle competenze di vigilanza.
Questa seconda soluzione si è ormai consolidata a livello europeo, mediante la creazione di organismi a carattere permanente di cooperazione informale e di strumenti di consultazione e coordinamento nel settore della regolazione e della vigilanza. Occorre peraltro sottolineare che sino alla applicazione, a partire dal 2001, del metodo proposto dal comitato dei saggi presieduto da A. Lamfalussy, si è proceduto alla istituzione di comitati e gruppi di lavoro con riferimento a specifici settori e non all'interno di un quadro e di un modello regolamentare organico.
Per quanto concerne, in particolare, il settore bancario si ricordano innanzitutto il Comitato di consulenza bancaria (BAC) che fornisce assistenza e consulenza alla Commissione europea per la formulazione e l'implementazione della normativa europea nel settore bancario, il Gruppo di Contatto che riunisce le autorità di vigilanza dell'area dell'Euro e infine il Comitato di supervisione bancaria della banca Centrale Europea che riunisce le autorità di vigilanza sulle banche di tutti i paesi dell'Unione europea competente sulle questioni relative all vigilanza prudenziale e alla stabilità finanziaria.
Per questioni specifiche sono stati anche sottoscritti dei memorandum d'intesa fra la Banca centrale europea e le autorità di vigilanza sulle banche.
Nel settore assicurativo operano parallelamente agli organismi del settore bancario la Insurance Committee e la Conference of Insurance Supervisors.
Per quanto concerne la vigilanza sui conglomerati finanziari nel 1999 è stato costituito un Gruppo tecnico misto competente sulle questioni intersettoriali e una Tavola rotonda permanente intersettoriale che promuove lo scambio di informazioni fra autorità di vigilanza.
Nel 1998, inoltre, è stato istituito su iniziativa dell'allora Commissario europeo al mercato interno Monti il Financial Services Policy Group (FSPG) allo scopo di promuovere direttive per gli interventi normativi nel settore della regolazione finanziaria e il Comitato economico e finanziario EFC con competenza nelle materie della vigilanza macro-prudenziale ed altri temi riguardanti i mercati finanziari.
Con il rapporto finale sulla regolamentazione dei mercati europei dei valori mobiliari, presentato nel marzo 2001 dal comitato di saggi presieduto dall'ex presidente dell'IME Alexandre Lamfalussy il coordinamento tra le autorità di vigilanza è stato configurato quale elemento fondamentale dell'intero ciclo decisionale comunitario nel settore dei mercati finanziari.
Il rapporto, come è noto, ha previsto, al fine di superare i fattori di criticità della legislazione europea nel settore in questione, l'articolazione del processo decisionale in quattro differenti livelli.
Ai primi due livelli si collocano, rispettivamente, l'attività legislativa in senso stretto, vale a dire l'adozione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio di regolamenti o direttive secondo la procedura di codecisione e le relative disposizioni di attuazione poste in essere dalla Commissione in conformità alla procedura di regolamentazione
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prevista dalla Decisione del Consiglio 1999/468/CE (c.d. nuova decisione comitatologia).
Il terzo livello decisionale è quello che presenta i maggiori punti di interesse per l'assetto dei poteri di vigilanza, consistendo appunto nel coordinamento, in via formale, delle attività delle autorità nazionali di regolazione e vigilanza sui mercati finanziari, al fine di garantire un recepimento uniforme e coerente delle disposizioni adottate ai primi due livelli. A tal fine, viene attribuito un ruolo preminente al Comitato delle autorità europee di regolamentazione dei valori mobiliari (CAERVM).
Tale comitato interviene anche nella seconda fase, con funzioni meramente consultive, ed è composto in questo caso dai presidenti delle autorità nazionali aventi competenze di regolazione e vigilanza sui mercati mobiliari.
Al terzo livello decisionale il CAERVM opera in una composizione parzialmente modificata, dovendovi partecipare un rappresentante per ciascuno Stato membro, designato dalla autorità di regolazione e vigilanza nazionali. Il CAERVM ha il compito di favorire, mediante l'adozione di atti non vincolanti, una progressiva convergenza dei sistemi nazionali di regolazione e vigilanza nel settore dei mercati dei valori mobiliari. In particolare, il Comitato dovrebbe: definire le linee direttrici per l'adozione di norme regolamentari a livello nazionale adottare raccomandazioni interpretative comuni; definire, nei settori non disciplinati dalla normativa comunitaria, standard comuni per l'elaborazione delle disposizioni di attuazione e l'attività di regolazione nazionali; comparare e riesaminare le prassi regolamentari nazionali, al fine di assicurare l'applicazione effettiva delle norme comunitarie ed individuare le migliori prassi; organizzare a cadenza regolare una valutazione reciproca delle norme regolamentari e delle prassi adottate negli Stati membri.
Gli atti adottati dal comitato, pur essendo privi di efficacia vincolante, essendo posti in essere con il concorso degli stessi rappresentati della autorità nazionali, sembrano costituire, in assenza di una convergenza delle strutture di vigilanza, un efficace meccanismo di coordinamento.
Tali atti, infatti, proprio per la loro natura atipica, si caratterizzano per la flessibilità e la rapida attitudine all'adattamento necessarie per consentire l'adeguamento delle funzioni di vigilanza all'evoluzione dei mercati. In tal modo si previene, inoltre, il rischio che fattispecie nuove, emerse nel funzionamento del mercato, possano indurre le autorità nazionali ad interpretazioni divergenti della disciplina comunitaria e dei relativi atti nazionali di recepimento.
La scelta di conferire compiti di coordinamento, indirizzo e informazione reciproca al CAERVM appare, allo stato attuale, la soluzione più pragmatica e potenzialmente efficace al fine di favorire la convergenza dei sistemi nazionali di vigilanza.
Questa conclusione è emersa nel corso degli incontri tenuti da una delegazione della VI Commissione finanze nel corso della missione a Bruxelles e Francoforte svoltasi nel mese di marzo 2002.
In particolare, il prof. Padoa Schioppa ha sottolineato come le profonde differenze dei modelli nazionali non renderebbero al momento realistiche le ipotesi di un trasferimento delle competenze di
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vigilanza a livello comunitario e che sarebbe, invece, auspicabile un rafforzamento delle strutture di cooperazione tra le autorità di vigilanza nazionali.
Analogamente il signor Wright, Direttore dei servizi finanziari nell'ambito della DG Mercato interno della Commissione europea, e la signora De Richemont, Capo di Gabinetto del Commissario Bolkestein, hanno precisato che la Commissione europea, non ritenendo politicamente praticabili e prive di base giuridica progetti di accentramento delle competenze di vigilanza a livello comunitario, considera con favore il rafforzamento dei meccanismi e delle strutture di contatto informale tra le autorità nazionali competenti in materia. Entrambi hanno evidenziato che il successo del metodo Lamfalussy e l'avanzamento del processo di integrazione dei mercati potrebbero favorire in misura significativa una convergenza funzionale delle tecniche di vigilanza da parte delle autorità nazionali
Lo stesso approccio sembra essere alla base delle conclusioni della riunione informale del Consiglio Ecofin, tenutasi ad Oviedo il 13 aprile 2002, nella quale è stato convenuto che devono proseguire i lavori «atti ad assicurare che l'Unione europea disponga di strutture appropriate per la regolamentazione e la vigilanza finanziaria in un contesto finanziario in rapida evoluzione», mediante, in particolare, lo scambio di informazioni sulla vigilanza, le migliori pratiche e la convergenza tra le autorità nazionali.
2.1.7. Considerazioni conclusive.
L'indagine conoscitiva ha consentito di pervenire ad alcune conclusioni di carattere generale in merito all'adeguatezza del sistema di vigilanza vigente rispetto alle esigenze poste dall'evoluzione dei mercati e dal processo di integrazione monetaria e finanziaria a livello europeo.
Prima di formulare alcune considerazioni in merito alle caratteristiche e ai contenuti di un eventuale intervento di riassetto del sistema italiano di vigilanza, appare necessario valutare attentamente proprio le questioni connesse alla convergenza delle funzioni di vigilanza a livello europeo.
La realizzazione entro il 2003 di un mercato unico dei valori mobiliari e entro il 2005 di un mercato unico di tutti i servizi finanziari impone indubbiamente l'adozione di correttivi all'attuale frammentazione delle competenze di vigilanza.
In particolare, le disparità esistenti fra le normative o le pratiche di vigilanza settoriali appaiono inidonee a garantire l'efficienza delle funzioni di regolamentazione a fronte, soprattutto, della diffusione di gruppi finanziari complessi di grandi dimensioni che amplifica il rischio sistemico.
Tuttavia, come si è già avuto modo di rilevare, l'idea di risolvere il problema mediante l'accentramento in un'unica autorità europea, competente per tutti o per specifici settori, delle funzioni di vigilanza non appare allo stato né realistica, mancando la base giuridica e le condizioni politiche necessari, né utile, tenuto conto dell'assetto della regolamentazione e delle funzioni di vigilanza.
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La creazione di autorità uniche a livello europeo risulterebbe, infatti, in contrasto anzitutto con l'approccio seguito dalla stessa normativa comunitaria sostanziale nel settore dei mercati finanziari, la quale si ispira al metodo dell'armonizzazione minima, rimettendo ampia discrezionalità al legislatore e alle autorità di vigilanza nazionali.
In secondo luogo, si determinerebbe un'evidente incoerenza rispetto al processo in corso di realizzazione nel settore della concorrenza, in cui si prospetta il conferimento alle autorità nazionali di più ampie competenze in merito all'applicazione delle disposizioni del trattato CE relative alle intese restrittive.
L'opzione preferibile, come sottolineato da tutti i soggetti auditi nel corso della missione a Bruxelles e Francoforte, appare dunque quella di proseguire, per un verso, l'armonizzazione normativa e di rafforzare, per altro verso, gli strumenti e le sedi di coordinamento e cooperazione tra gli organismi di vigilanza nazionale, quali i protocolli d'intesa, i comitati, la compartecipazione agli organi decisionali delle diverse autorità e misure analoghe.
Si tratta di un approccio pienamente coerente con il principio di sussidiarietà e che trova un incoraggiante punto di partenza nella positiva esperienza sinora maturata sia in seno ai comitati operanti nel settore, bancario, assicurativo e finanziario che attraverso i memorandum d'intesa e gli altri strumenti di coordinamento sviluppatisi nella prassi.
È molto significativo che la risoluzione del Parlamento europeo sulle norme di vigilanza prudenziale nell'Unione europea adottata nel novembre 2002 (2002/2061(INI)), dopo un'ampia attività conoscitiva svolta dalla Commissione per gli affari economici e finanziari, pur individuando in prospettiva l'obiettivo di una vigilanza integrata a livello europeo, abbia riconosciuto che nella fase attuale l'unica via perseguibile è quella del miglioramento degli strumenti e degli organismi di coordinamento tra le autorità nazionali.
In particolare, il modello previsto dal Rapporto Lamfalussy per il settore dei valori mobiliari appare senz'altro la soluzione più pragmatica e efficace al fine di favorire la convergenza dei sistemi nazionali di vigilanza, coinvolgendo, secondo un disegno organico, le autorità di ciascuno Stato membro sia nella fase della preparazione che nella fase dell'attuazione della normativa comunitaria in materia.
Poiché l'applicazione del modello Lamfalussy è per il momento limitata alla regolamentazione relativa ai valori mobiliari ed è controversa la possibilità di una sua estensione anche al settore bancario e assicurativo, appare evidente, proprio in considerazione della despecializzazione e delle polifunzionalità degli intermediari, l'opportunità di prevedere appositi organismi e procedure di cooperazione che coinvolgano contestualmente tutte la autorità nazionali incaricate nella vigilanza nei diversi settori e con riferimento alla tutela di diversi interessi.
Per quanto attiene alla valutazione del sistema di vigilanza attualmente applicato nel nostro ordinamento, la Commissione condivide il giudizio complessivamente positivo emerso dalle audizioni ma concorda anche sulla necessità di una attenta valutazione, anche alla luce dell'esperienza di altri ordinamenti, dei correttivi da apportare
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in considerazione di alcuni fenomeni evolutivi registratisi negli ultimi anni.
Al riguardo, è opportuno precisare preliminarmente che appare senz'altro condivisibile l'opinione secondo la quale l'assetto della vigilanza deve essere definito in relazione agli obiettivi pubblici che ciascun ordinamento considera prioritari e alle caratteristiche istituzionali proprie dello stesso ordinamento e del relativo sistema economico-finanziario.
L'esame delle esperienze di altri ordinamenti nonché dei modelli teorici operata nel corso dell'indagine dimostra con chiarezza che non è possibile individuare un modello di vigilanza perfetto e completamente immune dai rischi di inefficienza e moral hazard connessi all'esercizio delle funzioni di vigilanza.
Ogni modello o combinazione di modelli presenta una serie di vantaggi e svantaggi derivanti non soltanto dalle sue caratteristiche strutturali e funzionali intrinseche ma anche, in misura rilevante, dall'assetto istituzionale ed economico di ciascun Paese.
Ferma restando l'assenza di valide argomentazioni teoriche e pratiche che rendano preferibile la scelta per uno dei modelli, dall'indagine sono emersi numerosi ed importanti elementi di conoscenza e di valutazione che sembrano prospettare l'opportunità di una attenta riflessione in merito alla modifica del sistema di vigilanza attualmente vigente sul nostro ordinamento.
1) Un primo elemento, sul quale è emerso il consenso della maggioranza dei soggetti auditi, attiene all'esigenza di adattare l'assetto delle funzioni di vigilanza alla evoluzione del mercato, segnatamente per quanto attiene al superamento, sul piano funzionale, delle demarcazioni tra attività bancaria, mobiliare e assicurativa e alla conseguente despecializzazione degli intermediari e, sul piano territoriale, dello sviluppo di mercati integrati.
Nel nostro Paese questo fenomeno si è manifestato, soprattutto nell'ultimo decennio, sia per quanto attiene alle strutture proprietarie sia con riferimento alla offerta e alla tipologia degli strumenti finanziari.
Sotto il primo profilo, si è determinata una crescita delle integrazioni proprietarie, mediante la cessione di quote di capitale tra intermediari ovvero tra soggetti controllanti, controllati o collegati. Di immediata evidenza è la tendenziale compenetrazione, anche sotto il profilo strutturale, dei comparti bancario e assicurativo, resa evidente dal crescente numero di compagnie assicurative con controllo o elevata partecipazione dei gruppi bancari, i quali hanno arricchito conseguentemente la propria offerta con una stabile componente assicurativa, segnatamente nella distribuzione di polizze del ramo vita. Occorre poi ricordare che le banche controllano il maggior numero di società di gestione di fondi comuni di investimento.
Con riferimento al secondo aspetto, si è registrata un forte sviluppo, con diverse forme e tecniche, di nuovi strumenti finanziari a carattere misto o di combinazioni innovative di differenti strumenti finanziari. È il caso, in particolare di prodotti «sintetici», quali i c.d. «conti-fondo», risultanti dall'abbinamento tra conto corrente bancario e fondo comune di investimento che consentono investimenti in
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quote di fondo comune in modo automatico, ovvero dei contratti di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione con prestazioni direttamente collegate a fondi di investimento o a indici azionari o altri valori di riferimento (polizze c.d. unit-linked o index-linked).
L'attuale modello di vigilanza, articolato in base al criterio per finalità e, per le assicurazioni e i fondi pensione, istituzionale, non sembra consentire una supervisione unitaria sugli operatori e sugli strumenti di carattere polifunzionale.
Significativo al riguardo è il fatto che le citate polizze unit-linked o index-linked non siano considerate strumenti finanziari ai sensi dell'articolo 1 del TUF, né le imprese di assicurazione siano qualificabili quali soggetti autorizzati all'esercizio dei servizi di investimento. L'articolo 100, comma 1, lettera f, del T.U.F esenta, inoltre, dalla disciplina relativa alla sollecitazione all'investimento dei prodotti assicurativi e delle obbligazioni bancarie.
Invero, lo schema originario di decreto legislativo recante il Testo unico della finanza, demandava a regolamenti della Consob, di intesa con le competenti autorità di vigilanza, la fissazione di norme applicabili per l'offerta di prodotti assicurativi del ramo vita, aventi natura prevalentemente finanziaria. Tale previsione è stata tuttavia espunta dal testo finale del decreto.
L'adeguamento del sistema di vigilanza alle esigenze sopra richiamate, comportando un riesame dell'assetto complessivo esistente nel nostro ordinamento sembra, peraltro, eccedere i profili strettamente connessi all'attuazione del TUF e alla regolamentazione dei mercati finanziari che costituiscono l'oggetto di questa indagine conoscitiva.
La Commissione ritiene, tuttavia, necessaria e urgente, nel quadro del prossimo esame delle proposte di riforma della autorità indipendenti, una attenta valutazione, anche alla luce delle esperienze straniere, in merito alla aggregazione di determinate competenze in capo ad un'unica autorità o alla definizione di meccanismi di coordinamento nella fase decisionale tra le autorità esistenti.
2) Un secondo aspetto concerne il rischio di conflitto e inefficienza della vigilanza che può determinarsi allorquando ad un'unica autorità sia attribuita la tutela di più obiettivi potenzialmente confliggenti. Tale questione si è posta anzitutto con riguardo a quegli ordinamenti, quale tra gli altri quello italiano, alla Banca d'Italia alla quale è affidata non soltanto la funzione di tutelare la stabilità ma anche la concorrenza del settore creditizio.
Anche con riferimento a tale profilo, si può osservare che esso dovrebbe essere esaminato, con particolare attenzione, nel più ampio contesto delle riforma della disciplina delle autorità indipendenti nel nostro ordinamento.
3) Un terzo elemento, sul quale si è registrata l'opinione concorde dei soggetti auditi, attiene alla esigenza che il sistema di vigilanza non determini oneri eccessivi a carico degli intermediari.
Sotto tale profilo, la Commissione rileva l'opportunità, indipendentemente dalle scelte che si intendano operare in merito alla ripartizione delle competenze di vigilanza, di assicurare una maggiore
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coerenza e coordinamento nell'esercizio delle funzioni di regolazione da parte delle diverse autorità, segnatamente evitando le duplicazioni degli adempimenti e i contrasti di indirizzo.
La minimizzazione degli oneri per i soggetti vigilati costituisce, infatti, non tanto uno strumento di tutela degli interessi dei soggetti vigilati, quanto soprattutto un presupposto per la realizzazione nel nostro paese di un mercato finanziario competitivo, attraverso la riduzione dei prezzi dei servizi finanziari.
2.2. L'assetto dei poteri di regolamentazione.
2.2.1 Considerazioni generali.
Uno specifico approfondimento nel corso dell'indagine conoscitiva è stato riservato al tema dell'assetto delle competenze normative e applicative definito dal Testo unico della finanza.
Una delle maggiori novità introdotte dal TUF è consistita, infatti, nella delegificazione della disciplina della intermediazione finanziaria, operata mediante l'attribuzione di ampi poteri regolamentari alle autorità di vigilanza, nonché al Ministro del tesoro (ora dell'economia e delle finanze), nonché nel riconoscimento, per alcuni ambiti, di spazi non irrilevanti per l'autoregolazione.
Nel corso delle audizioni è emerso un giudizio complessivamente positivo su questa articolazione della disciplina dei mercati finanziari in diversi livelli e forme di regolamentazione operata dal Testo unico della finanza.
La maggior parte dei soggetti interessati ha concordato nell'evidenziare che l'adozione a livello legislativo di una normazione per principi e regole generali, con la conseguente attribuzione di competenze normative alle competenti autorità di settore e di spazi per l'autoregolamentazione, appare, in linea di principio, idonea a garantire alla regolazione la flessibilità resa necessaria dalla forte dinamicità e dalla rapida e costante evoluzione dei mercati finanziari.
L'adozione di una legislazione relativa ai mercati finanziari formulata in termini generali e il conferimento di poteri regolamentari alle autorità di vigilanza costituisce, in effetti, un modello già radicato negli ordinamenti di altri paesi sviluppati.
Un sistema di regolazione a più livelli è in via di consolidamento anche nell'ordinamento comunitario. Il citato rapporto finale del comitato dei saggi presieduto da A. Lamfalussy, prevede, infatti, l'articolazione del processo decisionale comunitario nei settori relativi ai servizi finanziari in quattro successivi livelli decisionali. Come già ricordato, al primo livello, di rango legislativo, verrebbero adottati provvedimenti contenenti una normativa-quadro, mentre l'emanazione di disposizioni di attuazione sarebbe rimessa a successivi provvedimenti delegati posti in essere, con procedure semplificate, dalla Commissione (secondo livello).
Alla valutazione complessiva positiva dell'assetto ordinamentale dei poteri di regolazione si sono, tuttavia, accompagnati nel corso delle audizioni alcuni rilievi critici in merito alle dimensioni assunte
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nonché alle modalità procedurali e alle forme attraverso le quali è stata esercitata l'attività normativa secondaria e l'attività di indirizzo.
Le questioni problematiche emerse sembrano riconducibili essenzialmente ai seguenti quattro profili:
a) l'estensione assunta dall'attività regolamentare, con particolare riferimento ai profili connessi al c.d. eccesso di regolamentazione e alla autoregolamentazione;
b) il ricorso ad atti atipici, di incerta efficacia, quali le comunicazioni adottate dalla autorità di vigilanza, soprattutto per quanto attiene alla conoscibilità di tali atti e alla loro coerenza con la normativa;
c) la disciplina del procedimento di adozione degli atti posti in essere, con particolare riferimento alla trasparenza e alla consultazione dei soggetti interessati;
d) il controllo giurisdizionale sugli atti delle autorità di vigilanza.
2.2.2. Estensione dell'attività regolamentare.
Con riguardo ai profili connessi al contenuto e ai limiti del potere regolamentare, taluni dei soggetti auditi, in particolare le associazione degli intermediari e gli esperti della materia, hanno rilevato che la normativa secondaria, adottata per effetto della parziale delegificazione operata dal TUF, determinerebbe in alcuni casi anche per l'assenza di forme di consolidamento e coordinamento dei provvedimenti emanati, un carico regolamentare eccessivo per le imprese.
Peraltro, piuttosto che imputare tale carico normativo all'elevato numero di regolamenti emanati dal Ministro dell'economia e delle finanze, dalla CONSOB e dalla Banca d'Italia, la maggioranza dei soggetti auditi ha, invece, posto l'accento sull'eccesso di dettaglio che caratterizzerebbe alcune disposizioni regolamentari e sulla assenza di adeguato coordinamento tra alcuni regolamenti adottati dalla medesima autorità o da autorità diverse. Tale situazione risulterebbe, inoltre, aggravata dalla proliferazione di atti atipici di carattere interpretativo e informativo.
L'estrema puntualità della disciplina regolamentare avrebbe poi avuto, a giudizio di alcuni, concorso a comprimere gli spazi rimessi all'autoregolamentazione, il ricorso alla quale è stato sinora poco significativo, fatta eccezione per il c.d. Codice Preda approvato in sede di Borsa italiana.
Sul punto, la CONSOB ha rilevato, in primo luogo, che l'incremento nel numero e nei contenuti degli atti regolamentari è un fenomeno non limitato al nostro ordinamento ma presente nell'esperienza di altri Paesi, nei quali già da tempo le autorità di vigilanza sono dotate di ampi poteri normativi secondari.
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In secondo luogo, secondo la CONSOB, la presenza di disposizioni dettagliate nei regolamenti risponderebbe alle richieste e degli operatori, i quali avrebbero manifestato, sotto il profilo della certezza e della chiarezza del quadro normativo, perplessità per la mancanza di norme puntuali nell'ambito di alcuni atti regolamentari.
L'analisi dei problemi richiamati in precedenza impone in primo luogo una verifica delle dimensioni del corpus di norme regolamentari adottate in attuazione del TUF. Dai dati risultanti dal Compendio dei regolamenti attuativi del TUF, pubblicato a cura del Ministero dell'economia e delle finanze, il numero dei regolamenti emanati non appare di per sé, come riconosciuto anche dall'Assonime e da alcuni rappresentanti degli intermediari, suscettibile di determinare una situazione di over-regulation:
|
Regolamenti emanati |
Ministero dell'economia e delle finanze
| 12 |
Ministero della giustizia
| 2 |
Banca d'Italia
| 14 |
CONSOB
| 6 |
Fondo nazionale di garanzia
| 1 |
MTS S.p.A.
| 3 |
Monte Titoli S.p.A.
| 1 |
Va, peraltro, osservato che i dati sopra riportati non comprendono i provvedimenti modificativi dei regolamenti originari.
Quanto al presunto eccesso di dettaglio di talune previsioni regolamentari, si può osservare che una accurata valutazione della questione non può prescindere da un'attenta analisi delle condizioni in presenza delle quali, alla luce dell'assetto istituzionale e della situazione economica e finanziari, il potere regolamentare si esercita.
In via preliminare si può osservare che l'adozione di disposizioni dettagliate sembra rispondere, almeno in parte, ad esigenze che fanno capo sia alle autorità di vigilanza, che agli intermediari e ai risparmiatori.
In primo luogo, la puntualità delle previsioni regolamentari può essere considerata come una cautela preventiva rispetto alla impugnabilità di fronte al giudice amministrativo degli atti attraverso i quali si esplicano i poteri di vigilanza delle autorità. La definizione di regole minute in atti di natura regolamentare concorre, infatti, alla individuazione di precisi criteri di esercizio delle attività di vigilanza
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che, accrescendone la prevedibilità dei comportamenti dell'autorità di vigilanza e chiarendo il contenuto degli obblighi degli intermediari, contiene l'ambito di discrezionalità dell'autorità stessa nell'assunzione delle decisioni nei casi concreti. In altri termini, le disposizioni regolamentari, integrando i parametri di esercizio dei poteri di vigilanza, costituiscono un fattore di maggiore coerenza e stabilità delle pronunce dell'autorità di fronte al sindacato giurisdizionale, in particolare di fronte al giudice amministrativo, cui esse sono sottoposte.
Va peraltro osservato che la definizione in termini troppo puntuali della disciplina da applicare potrebbe costringere l'attività dell'autorità entro ambiti di discrezionalità eccessivamente ristretti anche per il timore di incorrere nella sanzione costituita da una pronuncia giurisdizionale. Sotto questo profilo, appare evidente che una soluzione soddisfacente ed equilibrata del problema non potrà prescindere da un'attenta valutazione dell'assetto del sistema di sindacato giurisdizionale sugli atti delle autorità di vigilanza.
Occorre altresì considerare che un'eccessiva riduzione della discrezionalità delle autorità potrebbe compromettere la natura stessa delle medesime autorità, le quali, non avendo natura di amministrazione in senso tradizionale, non si limitano alla mera applicazione della normativa, ma hanno compiti di regolazione dei settori di rispettiva competenza.
Allo stesso tempo, la puntualità della regolamentazione risponde, come evidenziato anche dalla CONSOB, ad istanze manifestate dagli stessi operatori del mercato che richiedono, quale fattore di certezza, una migliore definizione dei loro obblighi e una maggiore prevedibilità dei criteri di esercizio della vigilanza.
In terzo luogo, si può osservare che, alla luce dell'andamento negativo dei mercati finanziari, la adozione di una disciplina dettagliata può costituire un elemento particolarmente apprezzato dai risparmiatori, in quanto strumento di garanzia dei propri interessi. Tale considerazione acquista una pregnanza ancora maggiore ove si consideri che, al cattivo andamento dei mercati si è di recente aggiunto un ulteriore fattore di criticità rappresentato dai casi di cattivo funzionamento degli strumenti di controllo della regolarità del comportamento degli intermediari.
Dal quadro sopra descritto sembra emergere che un ridimensionamento della intensità della regolamentazione, pur astrattamente auspicabile, non risulta realistico allo stato attuale.
Per un verso, infatti, disposizioni formulate in termini troppo generici potrebbero avere il risultato di rimettere, senza precisi parametri normativi, ad autonome decisioni dell'autorità questioni e profili di particolare rilievo.
Per altro verso, di fronte alle richiamate esigenze di certezza, stabilità e prevedibilità, una riduzione della regolamentazione, infatti, un corrispondente incremento del numero e delle dimensioni di comunicazione e atti atipici di carattere interpretativo o addirittura prescrittivo ai quali già attualmente le autorità fanno ampio ricorso (cfr. il paragrafo successivo).
Per quanto attiene specificamente all'autoregolamentazione, si può certamente auspicare, nello spirito dei principi e degli obiettivi
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fissati dal TUF, un più intenso ricorso ai codici di autodisciplina e agli strumenti di autoregolamentazione. Il ricorso alle best practises, oltre a consentire una progressiva semplificazione del quadro normativo, rappresenta, come segnalato anche da alcuni rappresentanti degli intermediari, un segnale di maggiore coscienza da parte degli operatori dei problemi etici, morali e normativi
2.2.3. Adozione di atti atipici.
Per quanto attiene alla adozione da parte della autorità di vigilanza di comunicazioni e di altri atti non regolamentari, nel corso delle audizioni è stata posta in evidenza soprattutto la proliferazione e la varietà di forme degli atti atipici posti in essere dalla CONSOB.
Tale autorità adotta, in effetti, varie tipologie di atti, non espressamente previsti dalla legge, volti, come rilevato dal Presidente della stessa CONSOB, nella memoria depositata in occasione dell'audizione, «a offrire un'interpretazione delle norme primarie e secondarie, o a indicare i criteri che verranno seguiti nell'ambito dell'attività di vigilanza, o a segnalare l'opportunità di determinati comportamenti o di iniziative di autoregolamentazione. Gli atti in questione, genericamente definiti come comunicazioni, consistono, in larghissima parte, in risposte a quesiti sollecitati dagli operatori, le quali vengono rese pubbliche in quanto rivestono interesse generale. Nella richiamata memoria la CONSOB ha precisato che tra il 1998 e i 2001 le risposte a quesiti sono state 399, le comunicazioni di carattere generale 74, le raccomandazioni 9.
A questi interventi, a volte anticipati mediante comunicati stampa, viene assicurata pubblicità anzitutto in via elettronica, mediante inserzione nel sito della CONSOB, nella sezione relativa alla regolamentazione.
I rappresentanti di Assonime, dell'ABI e di alcuni degli altri intermediari e gli esperti auditi hanno rilevato al riguardo che il numero elevato e crescente di tali provvedimenti atipici, e il loro incerto regime giuridico concorrerebbero in misura determinante ad accrescere il rischio di precarietà circa l'assetto della normativa effettivamente applicata.
La varietà delle forme assunte dagli atti atipici sarebbe, inoltre, fonte potenziale di litigiosità, generando controversie in sede giurisdizionale in merito alla natura e all'efficacia dell'atto.
In via preliminare, occorre considerare che il ricorso, da parte di autorità titolari di poteri di vigilanza e regolazione, ad atti atipici costituisce una prassi diffusa in altri ordinamenti. È il caso, tra gli altri, degli staff interpretations o public statements della SEC, dei policy statements della FSA, e delle recommandations della COB francese.
Anche la Commissione europea, nell'esercizio dei suoi poteri in materia di applicazione delle regole di concorrenza e aiuti di Stato, adotta comunicazioni, lettere, vademecum, linee-guida e codici di condotta di carattere sia generale che riferito a fattispecie specifiche.
Il ricorso a tali strumenti, che possono assumere natura informativa, interpretativa e, in certi casi, prescrittiva, sembra rispondere primariamente alla esigenza, connaturata alle funzioni di vigilanza, di
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fornire agli operatori alcune linee-guida e criteri di comportamento, indicando i parametri cui l'autorità si conformerà, in via generale o con riferimento a specifici casi, nell'interpretazione delle norme legislative e regolamentari.
Anche la CONSOB, nel corso della sua audizione, ha evidenziato che «la crescita e la diversificazione delle fonti di cui gli operatori devono tener conto è conseguenza fisiologica della crescita del mercato e delle impostazioni normative adottate».
Gli atti atipici appaiono dunque, in linea di principio, uno strumento utile a garantire, per un verso, la necessaria flessibilità nella interpretazione e nell'applicazione della disciplina legislativa e regolamentare, consentendo, attraverso l'uso di comunicazioni di carattere generale, di evitare il ripetersi di modifiche e integrazioni nella normativa stessa, soprattutto in presenza di fattispecie sopravvenute e non immediatamente riconducibili al dettato normativo. Per altro verso, gli atti in parola, prefigurando le linee di azione cui l'autorità intenderà attenersi nel futuro, possono rappresentare un importante fattore di coerenza nell'esercizio della vigilanza e, conseguentemente, di certezza per gli operatori.
Affinché gli strumenti in questione possano assolvere le funzioni sopra richiamate e non diventino, invece, elementi di incertezza e complicazione, appare, d'altra parte, necessario che siano garantite alcune condizioni minime in merito al contenuto, alla forma, alla coerenza sistematica e alla pubblicità dei medesimi.
In primo luogo, le comunicazioni e gli altri atti atipici dovrebbero limitarsi effettivamente all'interpretazione e alla indicazione di orientamenti dell'autorità, in via generale o con riferimento a casi concreti, senza apportare integrazioni o, addirittura, modifiche di fatto alla disciplina normativa. Si eviterebbe, in tal modo, di ingenerare controversie in merito alla definizione della natura e della efficacia del provvedimento, posto che la giurisprudenza dominante ritiene che, ai fini qualificazione e dell'impugnabilità degli atti amministrativi non rileva la denominazione ma la concreta attitudine a produrre effetti giuridici.
L'autorità di vigilanza potrebbe, inoltre, verificare se gli indirizzi e i criteri espressi negli atti atipici, in considerazione della loro importanza e del carattere consolidato, possano essere tradotti, per esigenze di maggiore certezza, in norme di carattere regolamentare.
In secondo luogo, sarebbe opportuno introdurre una precisa distinzione nella denominazione e nella forma degli atti aventi portata generale e quelli posti in essere, invece, con riferimento a casi individuali.
Con specifico riguardo alle comunicazioni di carattere generale andrebbe, inoltre, valutata attentamente, in considerazione del rilevante impatto delle stesse, l'opportunità di introdurre una apposita disciplina procedimentale. Tali atti, infatti, esprimendo linee-guida e orientamenti dell'autorità nell'esercizio dei propri poteri, idonei a condizionare anche incisivamente l'attività degli intermediari, sembrano richiedere una chiara identificazione degli organi e delle procedure per la loro adozione.
In ogni caso, per le comunicazioni di carattere generale andrebbe garantita la pubblicità attraverso strumenti e modalità adeguate. In tal
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modo, risulterebbe più agevole per gli operatori individuare gli orientamenti di applicazione generale e le pronunce limitate a casi specifici.
Infine, costituirebbe un utile elemento di semplificazione e chiarezza, come suggerito da più parti nel corso delle audizioni, il consolidamento delle pronunce e degli orientamenti dell'autorità. A tal fine, risulterebbe particolarmente utile l'elaborazione periodica, da parte delle autorità di vigilanza, di raccolte per materia dei propri atti, di natura regolamentare e non regolamentare, nelle quali sia precisato il valore giuridico di ciascun atto e sia garantito il coordinamento e l'eliminazione delle disposizioni obsolete.
Ad analoghe finalità risponderebbe, inoltre, la predisposizione di massimari della casistica applicativa della CONSOB, che riassumano gli orientamenti emergenti dalle decisioni adottate dall'autorità nei casi concreti.
Alla luce delle considerazioni sopra riportate, va accolto con soddisfazione l'impegno della CONSOB, ad adottare misure per incrementare la chiarezza del quadro normativo e degli orientamenti della medesima autorità. A tal fine, la CONSOB starebbe predisponendo, tra gli altri, interventi relativi alla classificazione degli atti resi pubblici, alla traduzione in norme regolamentari dei principi con valenza generale desumibili da comunicazioni o da risposte a quesiti, alla elaborazione e pubblicazione di massime che sintetizzino i contenuti degli atti della CONSOB stessa.
2.2.4. Procedimentalizzazione delle funzioni regolamentari e di applicazione della normativa ai casi concreti.
Nel corso delle audizioni, molti dei soggetti intervenuti hanno posto in evidenza l'assenza di una disciplina generale del procedimento di adozione degli atti regolamentari nonché delle decisioni relative ai casi concreti delle autorità di vigilanza, e, in particolare, della CONSOB.
È stato sottolineato al riguardo che l'esercizio di poteri regolamentari e di quelli «paragiurisdizionali» da parte di un'autorità amministrativa indipendente richiederebbe una articolata disciplina del procedimento, in analogia a quanto avviene in altri ordinamenti.
Appare, in via preliminare, necessario distinguere le questioni connesse all'esplicazione di attività di regolamentazione da quelle attinenti ai poteri di applicazione della normativa nei casi concreti.
Nel primo caso, infatti, si tratta essenzialmente di garantire la trasparenza del procedimento mediante un'ampia e adeguata consultazione dei soggetti interessati. Nel secondo caso, invece, occorre garantire il diritto di accesso agli atti del procedimento nonché il diritto al contraddittorio per i destinatari del provvedimento applicativo. I soggetti auditi hanno, peraltro, formulato osservazioni essenzialmente in merito al primo profilo.
Con riguardo ai poteri regolamentari, va osservato che la normativa vigente non disciplina in via generale i profili procedimentali per l'esercizio delle competenze di tipo normativo conferite alle
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autorità di vigilanza e, in particolare, non impone alle stesse obblighi di consultazione preventiva.
Nella prassi, secondo quanto emerso nel corso delle audizioni, sono state effettuate consultazioni in base a modalità e criteri non predeterminati in via generale ma definiti di volta in volta discrezionalmente della CONSOB. In tal modo, non sarebbe stata garantita la trasparenza del processo decisionale né la parità di trattamento tra i soggetti interessati. Secondo alcuni dei soggetti auditi, la consultazione avrebbe, inoltre, riguardato sinora gli intermediari e i tempi prefissati a tal fine sarebbe risultati spesso insufficienti.
L'Assonime, l'ABI, gli esperti e i rappresentanti degli intermediari hanno sottolineato che le osservazioni dei soggetti interessati nel processo di formazione dei regolamenti contribuiscono, anzitutto, ad individuare le modalità di intervento più efficaci e migliorano la qualità e la stabilità della normativa.
Un ulteriore rilievo formulato da taluni intermediari in merito al procedimento di adozione dei regolamenti attiene ai tempi di consultazione e di acquisizione dei pareri tra CONSOB e Banca d'Italia, che risulterebbero troppo lunghi. Sarebbe pertanto, secondo tali soggetti, opportuna la fissazione in via legislativa di termini perentori per l'espressione dei pareri in questione.
In linea generale, si può sicuramente convenire nell'affermare l'importanza della definizione normativa dei criteri e delle modalità procedurale per l'esercizio dei poteri regolamentari e applicativi delle autorità di vigilanza.
Tale esigenza appare, anzitutto, fondata sulla considerazione per cui il procedimento di esercizio del potere normativo secondario delle autorità di vigilanza è privo di quelle garanzie procedimentali che, in termini di pubblicità e trasparenza, caratterizzano il procedimento legislativo.
Per quanto attiene, in particolare, alla consultazione dei diretti interessati, appare evidente che la definizione dei presupposti e dei criteri di consultazione costituisce, oltre che un elemento imprescindibile di partecipazione e di parità di trattamento dei soggetti interessati, anche un fattore decisivo di qualità tecnica e stabilità della regolamentazione. La previsione di un'ampia ed efficace consultazione consente la raccolta di elementi di informazione e valutazione necessari per l'elaborazione di una normativa al tempo stesso tecnicamente adeguata alle effettive fattispecie da regolare e, in una certa misura, condivisa dai destinatari. In tal modo, si riducono sia i rischi di rapida obsolescenza e le difficoltà di applicazione della regolamentazione ai casi concreti che l'insorgenza di contenzioso.
La previsione in via normativa di regole procedimentali generali per l'esercizio dei poteri normativi delle autorità di vigilanza o di applicazione della normativa a casi concreti è, come accennato da alcuni dei soggetti auditi, presente in alcuni altri ordinamenti. In particolare, negli Stati Uniti l'Administrative Procedure Act (APA) del 1946 contiene una specifica disciplina procedurale per le attività delle agenzie federali, distinguendo tra funzioni normativi e funzioni quasi giurisdizionali o di aggiudicazione. Per entrambe le tipologie di attività vengono fissati i requisiti e le modalità di consultazione o di contraddittorio.
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Nel nostro ordinamento non è presente una analoga legislazione organica materia, specificamente riferita all'attività delle autorità indipendenti.
D'altra parte, occorre evidenziare che i procedimenti amministrativi delle medesime autorità non sono del tutto privi di disciplina normativa. Ad essi, infatti si applicano, salvo eccezioni, i principi e le regole di cui alla legge generale sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990, in particolare in materia di obbligo di motivazione dei provvedimenti, di termine per la conclusione del procedimento, di diritto di accesso, di partecipazione al procedimento.
In particolare, per quanto riguarda la CONSOB, con delibera del 13 dicembre 1995, è stato adottato il regolamento contenente le misure organizzative per l'esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell'articolo 22, comma 3, della legge n. 241. Con una delibera del 2 agosto 2000 è stato, quindi, approvato un regolamento che disciplina, ai sensi degli articoli 2, comma 2, e 4 delle legge n. 241 del 2000, la determinazione dei termini di conclusione e delle unità organizzative responsabili dei procedimenti amministrativi di propria competenza.
Va, tuttavia, precisato che le disposizioni in materia di obbligo di motivazione e di partecipazione al procedimento non trovano applicazione, ai sensi, rispettivamente dell'articolo 3, comma 2, e 13 della legge n. 241, nei confronti dell'attività amministrava diretta alla emanazione di atti normativi e atti amministrativi generali.
Oltre all'applicazione dei principi della legge n. 241, l'attività procedimentale delle autorità di vigilanza trova un ulteriore disciplina nei regolamenti interni delle medesime autorità.
Per quanto riguarda la CONSOB, il regolamento del 17 novembre 1994 concernente l'organizzazione e il funzionamento della medesima autorità, contiene disposizioni specifiche sul procedimento per l'adozione delle deliberazioni. In particolare, l'articolo 13 del regolamento demanda alla Commissione la determinazione dei criteri generali per la partecipazione ai procedimenti amministrativi della CONSOB ai sensi dell'articolo 7 della legge n. 241. La determinazione dei criteri in questione non è stata, tuttavia, ancora operata.
Nella documentazione depositata in occasione della sua audizione, la CONSOB, in risposta ai rilievi sopra richiamati, ha osservato anzitutto, con riferimento all'esercizio dei poteri normativi, cui come già detto non si applicano le regole di partecipazione della legge n. 241, che la consultazione con i soggetti interessati «si rinnova in occasione della revisione annuale dei regolamenti, la quale raccoglie sovente i suggerimenti proposti in corso d'anno dalle associazioni di categoria, con cui i contatti sono frequenti e proficui». La medesima autorità ha riconosciuto, peraltro, che tali procedure di consultazione possono essere migliorate, in particolare per quanto attiene alla trasparenza, e di avere in programma interventi in tale direzione.
Nella medesima occasione la CONSOB ha affermato di avere adottato talune procedure, di rilevanza esclusivamente interna, indirizzate a migliorare e a rendere più ordinata la propria azione. In particolare, l'attività ispettiva sarebbe disciplinata da un apposito manuale delle ispezioni.
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La CONSOB ha osservato, inoltre, che le garanzie di cui alla legge n. 241 trovano applicazione esclusivamente alle attività poste in essere dopo l'inizio formale del procedimento amministrativo. Esse non riguardano, invece, l'attività amministrativa «atipica» anteriore all'inizio del procedimento, la quale si esprime essenzialmente nelle risposte ai quesiti posti dagli operatori. Con riferimento alle richieste, formulate nel corso delle audizioni, di introduzione di una disciplina normativa anche per tale attività «atipica», la CONSOB ha evidenziato il rischio di determinare, in tal modo, una formalizzazione non necessaria dell'attività anteriore all'inizio del procedimento che finirebbe con l'irrigidire l'azione della CONSOB, senza significativi benefici per gli interlocutori.
In base alle considerazioni e ai dati sopra riportati, sembra di poter affermare che il potere delle autorità di vigilanza di adottare decisioni nei casi concreti sia, in linea generale, dotato di una disciplina procedimentale soddisfacente, in virtù dell'applicazione della legge n. 241 del 2001, garantita dagli atti attuativi adottati in particolare dalla CONSOB.
Un'applicazione piena ed effettiva di tali previsioni appare sicuramente idonea a garantire, come richiesto dall'Assonime e da altri intermediari, il rispetto dei principi di trasparenza, motivazione e contraddittorio.
Per quanto riguarda, invece, l'esercizio dei poteri normativi, dall'indagine emerge, per effetto dell'inapplicabilità delle regole di partecipazione di cui alla legge n. 241, l'assenza di una disciplina normativa generale che garantisca, in particolare, la trasparenza e la parità di trattamento nelle consultazioni dei soggetti interessati.
Potrebbe, conseguentemente, risultare opportuna l'introduzione di una apposita normativa in materia, che tenuto conto del carattere squisitamente procedurale e dettagliato delle relative previsioni, sembra trovare una adeguata collocazione in atti regolamentari adottati da ciascuna delle autorità di vigilanza.
Con riferimento all'attività amministrativa atipica e, in particolare, alle risposte fornite a quesiti degli operatori, la Commissione condivide la tesi che una procedimentalizzazione in via normativa potrebbe risultare fonte di aggravamento dell'azione delle autorità di vigilanza. Trattandosi di atti non regolamentari, si ritiene sufficiente l'adozione di quelle misure, quale la compilazione di massimari e raccolte sistematiche, che sono già state prospettate con riguardo agli atti atipici.
2.2.5. I controlli giurisdizionali e la stabilità degli atti della CONSOB.
Nel corso dell'indagine è emersa la convinzione, condivisa sostanzialmente da tutti i soggetti auditi, che l'attuale assetto del sistema di sindacato giurisdizionale sugli atti della CONSOB, non risulta del tutto adeguato rispetto all'esigenza di stabilità e di certezza poste dalla rapida evoluzione dei mercati.
Le questioni poste al riguardo sembrano essenzialmente riconducibili a due elementi di criticità distinti ma complementari: in primo luogo, la frequente impugnazione degli atti della CONSOB, e in
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particolare di quelli concernenti questioni e casi particolarmente rilevanti, innanzi al giudice amministrativo e la durata eccessivamente lunga dei procedimenti giurisdizionali, che pregiudica la stabilità delle decisioni e, conseguentemente, la certezza degli operatori direttamente o indirettamente interessati; in secondo luogo, l'estensione del sindacato del giudice amministrativo, sia sotto il profilo della sindacabilità degli atti formalmente privi di efficacia vincolante, quali le comunicazioni e i pareri, sia per quanto attiene alla pervasività del controllo giudiziale sull'esercizio dei poteri discrezionali dell'autorità di vigilanza.
Con riguardo al primo aspetto, i soggetti intervenuti hanno concordato nel porre in rilievo che la durata dei procedimenti giurisdizionali e il frequente ricorso a provvedimenti cautelari per la sospensione dell'efficacia dei provvedimenti dell'autorità di vigilanza, possono determinare, come evidenziato da vicende recenti, una situazione di obiettiva precarietà, che non appare compatibile con la rapida evoluzione del mercato.
Per quanto attiene al secondo profilo, va evidenziato, in primo luogo, che secondo gli orientamenti ormai prevalenti in dottrina e giurisprudenza, le comunicazioni e gli altri atti atipici delle autorità indipendenti sono impugnabili, indipendentemente dal nomen iuris, se diretti alla produzione di effetti giuridici, come si verifica, ad esempio, nel caso dell'introduzione di obblighi per gli intermediari non previsti dalla normativa vigente.
Su tale orientamento si sono espressi i termini positivi alcuni degli esperti intervenuti, condividendo l'approccio sostanzialista della giurisprudenza rispetto all'attitudine concreta di determinati atti, formalmente di «orientamento», a produrre in realtà effetti giuridici.
La giurisprudenza in parola è stata, invece, oggetto di rilievi critici da parte della CONSOB, la quale, nella memoria depositata in occasione della sua audizione, ha osservato che l'estensione del controllo giurisdizionale ad atti «che sono espressione di discrezionalità tecnica e sono privi di effetti immediatamente vincolanti può dar luogo a incertezza, alterare l'organicità della disciplina e produrre effetti negativi per gli operatori e per il mercato».
I rimedi ai richiamati elementi di criticità, prospettati nel corso delle audizioni, sembrano tendere alla introduzione di meccanismi che attenuino la litigiosità relativamente agli atti delle autorità e consentano, al tempo stesso, di ridurre la durata dei giudizi e di affidare a giudici particolarmente qualificati la relativa competenza giurisdizionale.
La tesi che sembra emergere in via prevalente è quella che prevede l'istituzione di organi giurisdizionali specificamente qualificati per le controversie relative all'attività della autorità di vigilanza, sia sotto forma di sezioni giurisdizionali specializzate presso i tribunali amministrativi, sia con la costituzione di un giudice speciale per il mercato.
Da parte di altri soggetti intervenuti, è stata invece prospettata la possibilità di prevedere l'impugnazione dei provvedimenti dell'autorità in unico grado innanzi al Consiglio di Stato.
Alcuni tra gli esperti e le associazioni degli intermediari hanno poi sostenuto, al fine di prevenire le controversie sugli atti delle autorità,
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l'opportunità di introdurre il parere preventive del Consiglio di Stato per gli atti regolamentari delle autorità.
Alla luce delle considerazioni sopra formulate, si ritiene che, ferma restando l'esigenza di garantire, nel rispetto del dettato dell'articolo 113 della Costituzione, l'effettiva tutela dei singoli nei confronti dell'attività delle autorità di vigilanza, una modifica dell'attuale sistema di sindacato giurisdizionale risulta necessaria.
Il giudice amministrativo, infatti, appare, non pienamente attrezzato, per impostazione culturale e per la natura stessa della giurisdizione amministrativa, al controllo sull'attività delle autorità che non risulta riconducibile al concetto tradizionale di attività amministrativa, ma configura, piuttosto, una complessa funzione di vigilanza e regolazione dei mercati intesa a garantire la salvaguardia di determinati interessi pubblici.
Il sindacato sull'attività della autorità riguarda, inevitabilmente, questioni attinenti alla struttura e alle logiche e modalità di funzionamento stesso dei mercati, che non appaiono, in quanto tali, assimilabili ai profili concernenti l'esercizio di poteri amministrative.
Le funzioni di vigilanza e regolamentazione delle autorità, infatti, si esplicano non tanto attraverso la mera applicazione della normativa a casi concreti, ma mediante un complesso di attività di integrazione e interpretazione della normativa, di orientamento dei comportamenti degli operatori, che postula l'esercizio di un ampia discrezionalità tecnica. Si tratta di attività che, implicando complessi accertamenti e valutazioni tecniche, non appaiono suscettibili di essere assoggettata al tradizionale sindacato giurisdizionale di legittimità sull'esercizio del potere amministrativo.
La soluzione preferibile sembrerebbe, pertanto, quella dell'istituzione di appositi organi giurisdizionali specializzati. In tal modo, infatti, si potrebbe conseguire il duplice obiettivo di accelerare i giudizi relativi all'attività dell'autorità, e di assicurare la cognizione delle relative controversie da parte di soggetti dotati di particolare qualificazione.
Non appare invece utile il ricorso a strumenti quali il parere preventivo del Consiglio di Stato per gli atti di natura regolamentare. Il parere, infatti, risulterebbe coerente con l'idea di mantenere la giurisdizione sull'attività delle autorità in capo al giudice amministrativo, il quale, operando in veste consultiva nella sua massima istanza, contribuirebbe ad eliminare o a chiarire a priori elementi problematici dei regolamenti, prevenendo il contenzioso giurisdizionale amministrativo sui medesimi atti.
Ove, invece, si ritenga di attribuire la cognizione delle controversie relative all'attività della autorità a giurisdizioni specializzate, il parere del Consiglio di stato perderebbe, in gran parte, le funzioni sopra indicate.
In ogni caso, va evidenziato che la previsione del parere obbligatorio potrebbe introdurre un ulteriore elemento di complicazione del procedimento decisionale delle autorità.
3. Il sistema sanzionatorio.
Il TUF prevede, nella parte V, due appositi titoli relativi alle sanzioni penali (titolo II, articoli 166-186) e alle sanzioni amministrative
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(titolo III, articoli 187-196). Nel corso dell'indagine conoscitiva sono state oggetto di attenzione essenzialmente i profili relativi alla complessiva efficacia dell'apparato sanzionatorio e alcune questioni attinenti specificamente alle sanzioni di carattere amministrativo.
Per quanto attiene ai contenuti della disciplina penale, i richiamati articoli 166-186 prevedono una serie di specifici reati relativi agli intermediari e ai mercati, agli emittenti, alla revisione contabile, all'abuso di informazioni privilegiate e all'aggiotaggio.
Con riferimento alle sanzioni amministrative, i richiamati articoli 187-196 del TUF contengono anzitutto una disciplina specifica di alcune fattispecie, quali l'abuso di denominazione, l'omissione delle comunicazioni obbligatorie all'autorità di vigilanza, la violazione degli obblighi in materia di sollecitazione all'investimento e di offerte pubbliche di acquisto, di informazione societaria e di deleghe di voto. Per tali fattispecie viene prevista una sanzione amministrativa che varia da un minimo di 10 milioni di lire (per tutte le infrazioni) ad un massimo di cento o duecento milioni di lire.
L'articolo 190 reca, invece, una disposizione generale la quale punisce con la sanzione pecuniaria da dieci a cinquanta milioni l'inosservanza da parte dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione o di direzioni e dei dipendenti di società o enti di una serie di disposizioni del TUF ivi elencate ovvero i regolamenti delle autorità di vigilanza adottati in attuazione delle medesime disposizioni.
Appare opportuno ricordare che l'articolo in parola ha operato, in coerenza con i criteri di cui alla legge n. 52 del 1996, il passaggio dal sistema previsto dalla legge n. 1 del 1991, in base al quale le sanzioni amministrative si applicavano direttamente agli intermediari persone giuridiche, ad un sistema incentrato sulla responsabilità delle persone fisiche che svolgono funzioni apicali ovvero di determinati dipendenti dei soggetti sottoposti a vigilanza.
Con riguardo, infine, alla procedura sanzionatoria, l'articolo 195 del TUF stabilisce che le sanzioni amministrative sono applicate dal Ministro del Tesoro (ora dell'economia e delle finanze), con decreto motivato, su proposta della Banca d'Italia o della CONSOB, secondo le rispettive competenze.
La Banca d'Italia e la CONSOB formulano la proposta previa contestazione degli addebiti agli interessati agli interessati e valutate le deduzioni presentate dagli stessi entro trenta giorni.
Nel corso delle audizioni sono emersi alcuni elementi di criticità dell'attuale sistema sanzionatorio, che ne ridurrebbero in misura significativa l'efficacia deterrente.
In primo luogo, è stato osservato che la normativa del TUF attribuisce uno spazio eccessivo alle sanzioni penali rispetto a quello delle sanzioni amministrative. Alcune delle fattispecie di rilievo penale, quali le manipolazioni di prezzi, sarebbero poi colpite con pene miti a confronto di altri ordinamenti europei.
Alcune considerazioni specifiche al riguardo sono state formulate dalla CONSOB, soprattutto con riferimento alla normativa relativa agli abusi di mercato. In particolare, si è rilevato che il sistema sanzionatorio in materia risulterebbe, sia in Italia che in altri Paesi europei, poco efficace soprattutto per il fatto che gli abusi sono considerati come fattispecie penali, sottratte pertanto alla sanzione amministrativa.
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Tali fattispecie si caratterizzerebbero per la definizione restrittiva delle condizioni che configurano il reato e le sanzioni previste sarebbero relativamente ridotte. Inoltre, è stato osservato che non si prevede la restituzione dei profitti conseguiti.
La CONSOB, nel corso delle audizioni, aveva segnalato il carattere fortemente innovativo della proposta di direttiva sugli abusi di mercato (abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato). La direttiva in parola, è stata adottata nel gennaio 2003 dal Parlamento europeo e del Consiglio (2002/6/CE).
La finalità principale del provvedimento è quella della tutela dell'integrità dei mercati finanziari al fine di accrescere la fiducia degli investitori, tenendo conto anche delle innovazioni che caratterizzano gli strumenti e i mercati finanziari.
In particolare, la direttiva mira ad armonizzare i sistemi sanzionatori, prevedendo, in via primaria, l'applicazione di sanzioni amministrative «efficaci, proporzionate e dissuasive» a carico dei responsabili, alle quali i singoli Stati possono decidere di affiancare sanzioni penali.
La direttiva prospetta, inoltre, un ampliamento delle fattispecie di illecito. Significativo, con riferimento al nostro ordinamento, è il caso dell'aggiotaggio, il quale, in base all'articolo 2637 del codice civile, come recentemente novellato, sanziona penalmente chi diffonde notizie false «concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari». La direttiva prevede una configurazione più ampia della fattispecie, stabilendo la punibilità di quanti forniscano «indicazioni false ovvero ingannevoli in merito agli strumenti finanziari».
La preferenza della direttiva per la previsione di sanzioni amministrative in luogo di quelle penali, che l'ordinamento italiano individua quale principale, se non esclusivo, strumento deterrente, nonché la ridefinizione di alcune fattispecie punibili, appare coerente con le considerazioni, sopra richiamate, svolte da alcuni dei soggetti auditi nel corso dell'indagine.
In sede di attuazione della direttive sarà, quindi, necessario intervenire nuovamente sulla disciplina di alcuni dei reati societari.
Un secondo aspetto della direttiva che assume particolare rilievo consiste nell'obbligo per ciascuno Stato membro di individuare un'unica autorità competente per la vigilanza sull'applicazione della normativa in materia di abusi di mercato e per l'irrogazione delle relative sanzioni. Il recepimento della direttiva implica, pertanto, che la suddetta autorità venga dotata dei necessari poteri di vigilanza e di indagine. Gli Stati membri devono, altresì, introdurre efficaci strumenti di consultazione con i soggetti che operano sul mercato al fine di verificare l'opportunità di modifiche alla normativa nazionale.
La CONSOB ha auspicato che, in sede di recepimento della direttiva si possa procedere ad una più ampia revisione dell'attuale sistema sanzionatorio, in particolare nel senso dell'incremento dell'ammontare delle sanzioni pecuniarie e della previsione di più efficaci modalità per l'applicazione della sanzione reputazionale.
Con riferimento specifico alle sanzioni amministrative, nel corso delle audizioni sono state individuate, in particolare, da parte della CONSOB una serie di profili della disciplina vigente in materia che
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ridurrebbero significativamente l'efficacia deterrente delle medesime sanzioni.
Le cause di tale situazione sono state ravvisate, in particolare, nella ridotta entità delle sanzioni pecuniarie amministrative, nell'assenza di un'adeguata sanzione reputazionale e nella possibilità di oblazione.
Per quanto attiene al primo profilo, la CONSOB ha rilevato l'esiguità dei limiti minimi e massimi di sanzione pecuniaria che sarebbero, anche in considerazione del fatto che la responsabilità amministrativa ricade nel sistema attuale solo sulle persone fisiche, molto inferiori a quello di altri ordinamenti; occorrerebbe, pertanto, aumentare, per lo meno in alcuni casi, l'ammontare delle sanzioni.
In ordine alla c.d. sanzione reputazionale, è stato evidenziato che la pubblicità delle violazioni amministrative attualmente viene garantita soltanto mediante la pubblicazione per estratto sul Bollettino CONSOB o Banca d'Italia. Tali modalità non risulterebbero idonei a produrre un effetto deterrente nei confronti degli operatori.
Con riguardo all'oblazione, la CONSOB ha osservato che nel nostro ordinamento la possibilità del pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta (il doppio del minimo) è prevista in numerosi casi, senza alcuna pubblicità, diversamente da quanto è previsto negli Stati Uniti e in altri paesi europei. Al fine di restituire alle sanzioni una effettiva deterrenza, sarebbe pertanto necessario abolire l'istituto dell'oblazione o quanto meno consentirne la pubblicità.
Più in generale, la CONSOB ha auspicato una riforma delle sistema attuale che sancisce la responsabilità amministrativa a carico delle persone fisiche, per introdurre un sistema sanzionatorio che ponga la responsabilità e le relative sanzioni in capo alle società e agli enti operanti nel settore dell'intermediazione mobiliare.
Tale ultima impostazione, secondo la CONSOB, oltre ad agevolare l'attività istruttoria di accertamento della reale responsabilità ed evitare il rischio di riconoscimento di forme di responsabilità o oggettiva, sarebbe in linea con i recenti indirizzi normativi, di cui è espressione la legge n. 231 del 2001, che hanno introdotto il riconoscimento della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti non personificati.
Sul tema dei poteri sanzionatori amministrativi sono intervenuti anche alcuni degli esperti intervenuti. In particolare, il prof. Costi ha sottolineato la crescente importanza delle sanzioni amministrative, anche alla luce della progressiva limitazione dell'ambito di applicazione delle sanzioni penali, rilevando, tuttavia, che il richiamato articolo 190 del testo unico conterrebbe disposizioni troppo generiche. Occorrerebbe, invece, individuare con precisione le fattispecie che comportano l'applicazione delle sanzioni amministrative.
In linea generale, si può ritenere condivisibile l'esigenza di apportare alla normativa vigente le modificazioni idonee a garantire l'efficacia deterrente delle sanzioni penali e amministrative.
In particolare, appare opportuno una approfondita riflessione in merito all'opportunità di circoscrivere solo alle fattispecie di maggiore gravità la rilevanza penale, rafforzando il sistema delle sanzioni amministrative pecuniarie e reputazionali.
La concentrazione della repressione penale su fattispecie caratterizzate da profili di particolare offensività risulta, in effetti, una
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tendenza in via di consolidamento nel nostro ordinamento, cui sono ispirate, sia nel corso della XIII legislatura che di quella in corso, gli interventi di depenalizzazione di alcuni reati minori, nel settore tributario e societario.
Per quanto attiene ai reati tributari, con il D.Lgs. n. 74 del 2000 si è inteso, infatti, limitare l'applicazione delle sanzioni penali alle fattispecie che, essendo caratterizzate dal dolo specifico di evasione, presentano una effettiva attitudine lesiva dell'interesse erariale, rinunciando alla criminalizzazione dei fatti prodromici e di fattispecie precedentemente configurate come reati contravvenzionali.
In merito al rafforzamento del sistema sanzionatorio amministrativo, si può concordare, in primo luogo, sull'esigenza di un incremento dell'ammontare dei limiti massimi e minimi delle sanzioni pecuniarie, al fine di garantirne una effettiva deterrenza.
Per la medesima finalità, si conviene sull'opportunità di superare l'impostazione della disciplina vigente, incentrata sulla responsabilità delle persone fisiche, affermando l'imputabilità della responsabilità amministrativa in capo alle persone giuridiche che abbiano tratto vantaggio dalla violazione posta in essere.
La previsione della responsabilità delle persone giuridiche garantirebbe, infatti, una stretta connessione tra punizione ed indebiti vantaggi connessi al comportamento posto in essere e giustificherebbe un significativo incremento dell'ammontare minimo e massimo delle relative sanzioni.
Tale mutamento di prospettiva sarebbe pienamente coerente con la disciplina sulla responsabilità amministrative delle persone giuridiche per alcuni reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da amministratori e dipendenti, introdotta dal decreto legislativo n. 231 del 2001.
È opportuno ricordare che anche la recente legge delega per la riforma del sistema fiscale statale prospetta una radicale modifica del sistema sanzionatorio tributario, stabilendo l'imputabilità della responsabilità amministrativa per le violazioni tributarie in capo alle persone giuridiche che ne abbiano tratto vantaggio.
Con riferimento alle sanzioni reputazionali, appare in effetti evidente che la mera pubblicità delle sanzioni amministrative mediante la pubblicazione per estratto sul Bollettino CONSOB o Banca d'Italia, non risulta dotata di un'effettiva efficacia deterrente. Tale efficacia risulterebbe sicuramente rafforzata ove la conoscibilità del provvedimento di irrogazione della sanzione fosse garantita mediante strumenti dotati di maggiore diffusione non soltanto tra gli operatori specializzati ma anche tra i risparmiatori.
Potrebbe in particolare risultare opportuno prevedere, almeno per le violazioni amministrative più gravi, la sanzione accessoria prevista dall'articolo 182 del TUF, in base al quale le condanne per l'abuso di informazioni privilegiate e per l'aggiotaggio sono pubblicate in almeno due quotidiani a diffusione nazionale, di cui uno economico.
4. Il sistema dei controlli societari e la revisione contabile.
Il tema dell'efficacia dell'attuale assetto dei controlli societari previsti dal testo unico ha rappresentato una delle principali questioni
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esaminate nell'ambito dell'indagine conoscitiva. In particolare, si è inteso verificare l'adeguatezza dell'impianto normativo prescelto dal legislatore sia rispetto all'evoluzione dei mercati finanziari, che a fronte di specifici elementi di criticità messi in rilievo dalla complessa vicenda del fallimento della società Enron, una delle più importanti società per capitalizzazione della borsa americana nel settore dell'energia, intervenuta quando l'indagine conoscitiva era già in corso.
La Commissione Finanze ha ritenuto di estendere le sue riflessioni anche su tale vicenda, in considerazione dei pesanti effetti che ha avuto sui mercati finanziari e del vivace dibattito che ne è conseguito.
Il c.d. caso Enron ha evidenziato, infatti, quanto l'evoluzione nel grado di integrazione dei mercati finanziari richieda sempre più un alto tasso di trasparenza e un impianto normativo efficace, soprattutto nel funzionamento dei controlli societari interni ed esterni.
La società Enron tra il 1999 e la fine del 2001, grazie a comportamenti colposi se non anche fraudolenti degli amministratori, della società di revisione e delle banche d'affari coinvolte, ha celato consistenti debiti e ha simulato profitti inesistenti mediante il ricorso alle special pourpose entities - SPE, vale a dire soggetti giuridici autonomi costituiti per il compimento di specifiche attività o transazioni che secondo le regole contabili americane non sono state contabilizzate nel bilancio consolidato.
Tale circostanza, insieme all'adozione di un particolare sistema di contabilizzazione relativa ai contratti di energia che ha consentito la rappresentazione di falsi profitti, ha portato alla dichiarazione di fallimento della società nel giro di due anni senza che le norme poste a tutela degli investitori potessero evitare o ridurre ingenti danni economici al sistema finanziario.
Un ruolo chiave nella la vicenda hanno avuto i rapporti, non del tutto trasparenti, fra il management di Enron e la società di revisione, la quale svolgendo al tempo stesso un duplice filone di attività, di consulenza e di revisione contabile, si è trovata in una situazione di conflitto di interessi.
In risposta alle conseguenze delle crisi finanziaria determinata dalla vicende Enron e da successivi analoghi scandali finanziari tra cui quello di Worldcom, il Congresso degli Stati Uniti il 30 luglio 2002, ha approvato il Sarbanes-Oxley Act allo scopo di garantire in modo più stringente ed efficace la correttezza dei comportamenti degli operatori dei mercati finanziari e di accrescere la tempestività e l'affidabilità delle informazioni sulla situazione economica delle società quotate.
Sul piano della vigilanza sulle società di revisione la nuova legge americana prevede l'istituzione di un organismo di supervisione il Public Company Accounting Oversight Board, sottoposto al controllo della SEC, cui sono attribuiti compiti di regolamentazione di controllo e sanzionatori.
Sono inoltre previste regole volte a ridurre il rischio di conflitti di interessi e che garantiscano un efficace sistema di controlli interni. In particolare la nomina della società di revisione è attribuita ad un organo interno del consiglio di amministrazione (audit committee) composto da amministratori indipendenti che fissa inoltre il compenso
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e può autorizzare la prestazione di servizi non-audit non espressamente incompatibili.
Quanto al regime sanzionatorio vengono inasprite sensibilmente le pene previsti per i reati di falso e frode aziendale che incidano sull'acquisto e la vendita di strumenti finanziari, in cui rientra anche il falso in bilancio, e vengono introdotte nuove figure di reato concernenti l'ostacolo alla giustizia.
4.1. L'assetto dei controlli societari.
Per quanto attiene alla normativa vigente, occorre preliminarmente osservare che uno degli interventi più delicati ed innovativi del testo unico della finanza attiene proprio alla ripartizione delle competenze fra gli organi di controllo societario interni ed esterni, attuata mediante la separazione tra il ruolo e le funzioni attribuiti al collegio sindacale e quelle di competenza dei revisori esterni.
Al collegio sindacale è infatti conferito il controllo «sulla gestione e sull'amministrazione» e alla società di revisione, in via esclusiva, il controllo contabile. Fra i due organi esiste poi un sistema di circolazione delle informazioni, a carattere periodico o continuo necessario al corretto esercizio delle funzioni attribuite a ciascuno di essi, sistema che prevede altresì specifiche sanzioni previste per omesse informazioni alla Consob.
L'obiettivo principale dell'indagine conoscitiva non è stato, peraltro, quello di operare una riflessione generale sui modelli di articolazione delle funzioni di controllo esterno e interno; si è inteso piuttosto verificare più specificamente la adeguatezza della normativa del T.U.F., anzitutto sotto il profilo dell'efficacia della ripartizione di competenze tra collegio sindacale e società di revisione
Al riguardo, appare opportuno rilevare che la VI Commissione Finanze aveva già di recente condotto una approfondita riflessione sul tema dell'assetto del sistema dei controlli, in sede di esame della riforma del diritto societario (legge n. 366/2001), attuata di recente con l'emanazione del decreto legislativo del 17 gennaio 2003, n. 5.
La riforma, alla luce di un attento esame dei vari sistemi di governo societario presenti nell'esperienza degli ordinamenti dei principali Paesi sviluppati, rimette all'autonomia statutaria la scelta tra tre diversi modelli (modello vigente, modello dualista che prevede un consiglio di gestione affiancato da un consiglio di sorveglianza e modello monista che prevede la nomina di amministratori indipendenti con funzioni di controllo in seno al consiglio di amministrazione).
Secondo il nuovo sistema di amministrazione e controlli delineato dalla riforma si sottraggono, inoltre, integralmente al collegio sindacale le funzioni di controllo contabile che vengono attribuite ad un revisore esterno (persona fisica o società di revisione) con la sola eccezione delle società che, oltre a non fare ricorso al mercato del capitale di rischio, non sono tenute alla redazione del bilancio consolidato. L'ambito di responsabilità del collegio sindacale risulta quindi ulteriormente circoscritto e definito.
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Va segnalato che anche il recente regolamento comunitario recante lo statuto della società europea, il quale prevede la possibilità di scelta tra due modelli, l'uno di carattere dualistico, caratterizzato dalla presenza di un organo di direzione e di un organo di vigilanza e un sistema monistico con ripartizione delle funzioni in seno al consiglio di amministrazione.
La nuova normativa dei controlli introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003 richiederà, peraltro, un'opera di coordinamento con la disciplina del TUF.
In particolare, la CONSOB ha evidenziato l'esigenza di un chiarimento normativo in merito alla applicabilità agli amministratori indipendenti e al consiglio di sorveglianza, rispettivamente nel caso del modello monista e di quello dualista, della previsione del TUF per cui gli statuti delle società quotate devono consentire una rappresentanza delle minoranze nel collegio sindacale.
Sebbene le nuove disposizioni del codice civile relative al collegio sindacale, trovano in via di principio applicazione, in quanto compatibili, ai soggetti che esercitano i poteri di controllo secondo i due nuovi modelli sarebbe opportuno, sempre secondo la CONSOB, affermare in via legislativa l'estensione delle regole relative alla rappresentanza delle minoranze, tenuto conto dell'importanza della disposizione.
Nel corso dell'indagine conoscitiva, i soggetti auditi intervenuti, hanno espresso la convinzione per cui, in linea di principio, la separazione di funzioni operata dal testo unico ha consentito un miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza del sistema dei controlli. In particolare, la Consob, la quale con alcuni provvedimenti attuativi ha provveduto a chiarire il ruolo e i doveri del collegio sindacale, ha osservato che, dopo un primo periodo di «adattamento», il quadro normativo vigente appare adeguato ai principi e agli obiettivi cui il legislatore ha voluto ispirarsi nella riforma del testo unico della finanza.
Sempre secondo la Consob, gli stessi collegi sindacali, dietro sollecitazione dell'autorità di vigilanza, hanno dimostrato una tendenza ad una maggiore collaborazione. Si è registrata, infatti, una netta crescita nel numero delle segnalazioni trasmesse dai sindaci alla Consob in merito alle irregolarità commesse dagli amministratori.
4.2. La revisione contabile.
I nodi problematici che sono emersi nel corso delle audizioni riguardano principalmente, alla luce della vicenda Enron, la disciplina della revisione contabile.
In via preliminare occorre osservare che dalle audizioni è emerso con chiarezza come sia le istituzioni nazionali e comunitarie che gli operatori del settore ritengono necessario adottare in sede comunitaria misure e strumenti che garantiscano un approccio comune ed efficace.
Al fine di conseguire tali obiettivi l'approccio che le istituzioni comunitarie sembrano privilegiare per garantire un grado maggiore di efficienza del sistema dei controlli e della revisione non consiste
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soltanto in interventi legislativi ma anche e soprattutto nel ricorso a raccomandazioni o a strumenti di autodisciplina che sviluppino una maggiore collaborazione e incoraggino il rispetto di un comune codice deontologico di tutti gli operatori finanziari.
La necessità di un miglioramento dei meccanismi di controllo societario in termini di efficacia era già previsto tra gli obiettivi del Piano d'azione dei servizi finanziari del 2001 ma ha ovviamente assunto un rilievo maggiore dopo il caso Enron.
Nell'ottica di garantire standards di qualità sempre più elevati nella funzione di revisione dei conti in sede europea è stata approvata la raccomandazione 2001/6942, prevista dal Piano d'azione dei servizi finanziari, finalizzata a garantire l'indipendenza dei revisori contabili che prevede anche una sorta di codice deontologico. La Commissione europea nella raccomandazione si è riservata tre anni di monitoraggio prima di intervenire se necessario sul piano legislativo.
Nella medesima direzione si colloca l'ampliamento del mandato del richiamato gruppo Winter e i lavori del Comitato per la revisione contabile dell'Unione europea allo scopo di definire fra le altre questioni quella relativa alla individuazione dei requisiti minimi per una corretta attività di vigilanza sulla professione del revisore contabile
Si ricorda, inoltre, che una intesa attività di studio e consultazione è assicurata, in tale ambito, a livello europeo dall'EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group) che opera in collaborazione con la Commissione europea per il recepimento dei principi contabili internazionali fissati dallo IASB (International Accounting Standard Board) e, in Italia, dall'OIC (Organismo italiano di contabilità) che in accordo con l'EFRAG valuta l'applicabilità dei principi internazionali nel nostro ordinamento ed elabora quelli per le società non quotate.
Quanto alle valutazioni emerse con specifico riferimento all'ordinamento italiano, è stato evidenziato, in linea generale, come il nostro paese disponga di un impianto normativo che, sia sotto il profilo delle incompatibilità di funzioni per i revisori esterni sia per i criteri di redazione del bilancio consolidato, risulta più efficace di quello americano, ma necessita comunque di adeguamenti ed integrazioni.
Particolare attenzione assumono, al riguardo, le considerazioni formulate nel corso delle audizioni in merito alle questioni concernenti il conflitto di interesse derivante dalla coincidenza in capo allo stesso soggetto di funzioni di consulenza e di revisione.
Su questo specifico aspetto è emerso, anzitutto, la necessità di evitare, in osservanza dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1975, n. 136, e degli orientamenti espressi dalla Consob in alcune recenti sue Comunicazioni relative all'accertamento delle situazioni di incompatibilità, qualsiasi commistione fra attività di consulenza e di revisione.
D'altra parte, è stata posta in rilievo, soprattutto da parte delle associazioni degli intermediari, la rilevante lacuna normativa determinata dalla mancata emanazione del regolamento del ministro della giustizia di cui all'articolo 160 del TUF sulle incompatibilità dei revisori.
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Ulteriori interventi normativi dovrebbero riguardare l'adeguamento del sistema sanzionatorio. Al riguardo, la Consob ha segnalato inoltre l'incompletezza del sistema sanzionatorio disegnato dal testo unico che non prevede sanzioni amministrative a carico della società di revisione ma solo a carico del singolo revisore.
Una significativa rilevanza ai fini dell'adeguamento della normativa esistente, assumono le indicazioni contenute nella relazione conclusiva presentata nel settembre del 2002 dalla Commissione di studio presieduta, dal prof. Galgano (2) istituita presso il Ministero dell'economia e delle finanze al fine di valutare le modifiche necessarie a livello di legislazione primaria e secondaria, in seguito alla vicenda Enron.
(2) La commissione è stata istituita con DM del ministro dell'economia e delle finanze del 9 aprile 2002, presieduta dal professor Francesco Galgano ha concluso la sua relazione finale in data 27 settembre 2002.
La commissione di studio ha concentrato i suoi lavori in particolare sui profili dell'indipendenza delle società di revisione, sull'attendibilità delle analisi finanziarie, sulla trasparenza della situazione economica della società quotata e sulle regole di corporate governance.
La commissione ravvisa nei regolamenti della Consob lo strumento più idoneo a garantire interventi rapidi per tutelare il corretto funzionamento dei mercati finanziari. In particolare, si auspica, con riferimento alla indipendenza delle società di revisione, un ampliamento dei poteri regolamentari della Consob al fine di introdurre le seguenti modifiche: previsione del concetto di rete della società di revisione con estensione delle regole sulla pubblicità, divieto di conferire ai soggetti componenti la rete incarichi diversi dalla revisione; pubblicità dei relativi compensi; estensione alle cariche e ai rapporti di lavoro nelle società del gruppo del c.d. periodo di «cooling-off» previsto dall'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica n. 136 del 1975.
Si raccomanda altresì l'attuazione dell'articolo 160 del TUF mediante l'emanazione del regolamento del ministro della giustizia sulle incompatibilità delle società di revisione e del responsabile della revisione.
Sempre con riferimento all'indipendenza delle società di revisione la commissione Galgano prospetta una nuova disciplina del conferimento dell'incarico (proposta da parte degli amministratori all'assemblea di una terna di nominativi e parere motivato del collegio sindacale) e della sua durata (massimo sei anni e non immediatamente rinnovabile).
La relazione conclusiva prevede che, sempre con regolamento Consob, sia richiesta la pubblicazione dei piani di stock options, mentre individua nella nota integrativa al bilancio lo strumento per assicurare l'informazione contabile sulle special purpose entities, sottolineando in generale la necessità di accrescere la tempestività delle informazioni societarie periodiche.
Quanto al profilo del conflitto di interessi, si propone l'introduzione di procedure dirette a garantire la trasparenza della gestione e,
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sul piano normativo, la previsione di sanzioni a carico degli amministratori delle società per il fatto della omessa rilevazione del conflitto a prescindere dal danno alla società
La Commissione ritiene che, in base agli elementi acquisiti nel corso delle audizioni, possa essere condiviso il giudizio per cui l'ordinamento italiano e, più in generale, gli ordinamenti europei, dispongono di un impianto normativo che, segnatamente sotto il profilo della indipendenza e delle incompatibilità di funzioni per i revisori esterni, appare sicuramente più adeguato di quello statunitense.
Ciò nondimeno, risulta evidente l'esigenza di adottare ulteriori interventi che rafforzino, tenendo conto dei profili di criticità emersi dalla vicenda Enron, l'indipendenza dei revisori contabili e evitino qualsiasi commistione fra attività di consulenza e di revisione.
Già nel parere espresso, nel dicembre 2002, sullo schema di decreto legislativo per la riforma delle società di capitali e cooperative, la VI Commissione Finanze ha indicato, tra le condizioni, l'esigenza che la normativa secondaria di attuazione, definita dall'autorità di vigilanza, stabilisca, in funzione delle differenti esigenze di tutela e di trasparenza connesse con il ricorso al mercato dei capitali di rischio, ed anche sulla base della Raccomandazione della Commissione europea del 16 maggio 2002, una disciplina più puntuale ed organica della materia, indicando in particolare:
le modalità per il conferimento dell'incarico alla società di revisione;
le modalità ed i limiti per il conferimento di incarichi diversi da quello di revisione;
le tipologie dei rapporti tra società di revisione ed altre società che possono pregiudicare l'indipendenza dell'attività di revisione;
la disciplina relativa ai casi di passaggio di personale della società di revisione alla società sottoposta a revisione;
il regime di pubblicità dei compensi corrisposti dalla società sottoposta a revisione alla società di revisione, anche con riferimento, nel caso di revisione del bilancio consolidato, ai compensi percepiti dalla società di revisione e dalle sue controllate, controllanti o collegate per i servizi prestati ad altre società comprese nel consolidamento.
L'esigenza di introdurre una normativa dettagliata che contempli gli aspetti sopra richiamati deve essere senz'altro ribadita in questa sede.
Accogliendo i rilievi formulati da alcuni dei soggetti auditi, è auspicabile, inoltre, un rafforzamento del sistema sanzionatorio disegnato dal testo unico, soprattutto per quanto attiene alla introduzione di adeguate sanzioni amministrative anche a carico della società di revisione e non soltanto del singolo revisore.
5. La disciplina del trattamento contabile di determinate attività e transazioni alla luce della vicenda Enron.
Con specifico riguardo alle questioni poste dalla richiamata vicenda ENRON, il dibattito sviluppatosi nel corso delle audizioni ha
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avuto lo scopo di verificare la adeguatezza della normativa vigente in materia di trattamento contabile di determinate operazioni e transazioni.
La società Enron, come si è già accennato, ha celato consistenti debiti e ha simulato profitti inesistenti mediante il ricorso alle special purpose entities - SPE, vale a dire soggetti giuridici autonomi costituiti per il compimento di specifiche attività o transazioni che secondo le regole contabili americane non sono state contabilizzate nel bilancio consolidato.
In particolare, per quanto attiene all'impianto normativo, dalle audizioni è emersa l'opinione prevalente per cui, in linea generale, in Europa, e quindi anche nel nostro Paese, esistono maggiori garanzie che riducono in misura sensibile, pur non escludendolo, il rischio di crisi finanziarie di gravità analoga a quelle verificatesi negli Stati Uniti.
In primo luogo, occorre considerare che la normativa italiana in materia di bilancio consolidato, la quale è stata dettata in sede di recepimento della settima direttiva europea in materia societaria, attribuisce eguale rilevanza oltre che al controllo di diritto anche al controllo di fatto. Tale previsione, ispirata al principio della prevalenza della sostanza sulla forma, assicura che la situazione patrimoniale di special purpose entities eventualmente create sia correttamente contabilizzata nel bilancio consolidato.
In secondo luogo, è stato posto in rilievo, anche in occasione degli incontri che la Commissione finanze ha svolto nel corso della missione a Bruxelles e a Francoforte, come la presenza in ambito europeo di una normativa più generale e meno dettagliata di quella statunitense, lungi dal costituire un difetto o una lacuna nel sistema, garantisce una maggiore flessibilità all'applicazione della medesima normativa, soprattutto con riferimento a fattispecie nuove o atipiche, rendendo meno agevoli comportamenti elusivi e fraudolenti.
Il maggior limite del c.d. sistema americano dei GAAP (Generally Accepted Accounting Principles) è, infatti, quello di essere articolato in numerose regole ed esenzioni di natura dettagliata (bright lines), riferite a specifiche fattispecie, le quali possono risultare inidonee a fornire una disciplina adeguata in presenza di una rapida evoluzione dei mercati finanziari e, proprio perché caratterizzate da una maggiore rigidità, si prestano a pratiche elusive.
In terzo luogo, i soggetti auditi hanno concordato nel rilevare che, ai fini di un corretto funzionamento del mercato non può essere considerato sufficiente il formale e rigido rispetto delle norme ma anche il grado di sensibilità di tutti operatori finanziari coinvolti.
Al riguardo è stato rilevato, tra gli altri dalla Consob e dalla Banca d'Italia, come nella evoluzione della vicenda Enron abbia avuto un importanza decisiva, oltre che la richiamata inadeguatezza dell'impianto normativo, anche e soprattutto la carenza di professionalità e correttezza deontologica nei comportamenti degli amministratori delle stessa società Enron e delle società incaricate della revisione, nonché in una certa misura anche dagli analisti finanziari.
Con specifico riferimento al trattamento contabile di determinate operazioni, la Commissione prende atto della valutazione complessivamente positiva in merito alla maggiore attitudine dell'apparato
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normativo presente in Europa e nel nostro Paese a prevenire l'occultamento di debiti e la simulazione di profitti inesistenti, segnatamente mediante il ricorso a special purpose entities non incluse nel bilancio consolidato.
La Commissione considera, a tal fine, fondamentale la piena applicazione nel nostro ordinamento del regolamento comunitario recante principi contabili internazionali (IAS-International accounting standards) relativi alla redazione dei bilanci delle società quotate che dovranno essere adottati a partire dal 2005.
I principi appaiono idonei, secondo le valutazioni acquisite dalle audizioni, ad assicurare un grado ancora maggiore trasparenza e attendibilità dei bilancio, soprattutto in quanto prevedono «esenzioni» dal consolidamento molto ridotte.
La Commissione auspica, in particolare, che all'adozione del regolamento comunitario faccia seguito l'applicazione del comma 2 dell'articolo 117 del testo unico della finanza, rimasto fino ad ora inattuato, che demanda ad un regolamento del Ministro della giustizia, di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, l'individuazione dei principi contabili internazionali che le società emittenti di strumenti finanziari possono utilizzare per la redazione dei bilanci consolidati.
6. Gli analisti finanziari.
Nel corso dell'indagine conoscitiva la Commissione, ha ritenuto, anche alla luce della vicenda Enron, di dedicare una specifica attenzione in merito alla attività degli analisti finanziari, che, in quanto idonea ad orientare le strategie e le decisioni di investimento degli intermediari e dei singoli risparmiatori, assume un ruolo cruciale ai fini di un corretto e trasparente funzionamento dei mercati finanziari.
La materia, peraltro, è oggetto di particolare approfondimento e di ulteriori apposite attività conoscitive da parte della VI Commissione Finanze nell'ambito dell'esame in sede referente della proposta di legge 3227 dell'On Lettieri.
La pdl 3227, prospettando la modifica dell'articolo 5 del TUF, stabilisce che predisposizione e la divulgazione di studi, ricerche, raccomandazioni o rapporti aventi per oggetto strumenti finanziari da chiunque e sotto qualsiasi forma svolte debbano essere consentite ai soli soggetti in possesso di specifiche e comprovate esperienze e professionalità, definite con successivo regolamento della CONSOB.
Gli elementi di conoscenza e di valutazione acquisiti nel corso delle audizioni hanno evidenziato alcuni rilevanti profili di criticità dell'analisi finanziaria, quali, in particolare la forte prevalenza di consigli operativi «Buy», la sostanziale assenza di studi negativi, l'uniformità dei giudizi espressi negli studi, la difficoltà e la lentezza con cui essi mutano i medesimi giudizi nonché i più generali problemi discendenti dai conflitti di interesse.
A tale ultimo riguardo, la recente esperienza degli Stati uniti sembra dimostrare l'insufficienza degli strumenti di autoregolamentazione e della mera previsione in capo agli intermediari, dell'obbligo
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di porre in essere delle «muraglie cinesi» (chinese walls), le quali dovrebbero assicurare la neutralità dell'analisi impedendo la circolazione e lo sfruttamento delle informazioni disponibili a ciascun comparto dell'organizzazione degli operatori polifunzionali.
La Commissione prende atto dell'assenza nel nostro ordinamento di una normativa organica in materia e ritiene, pertanto, necessaria ed urgente l'introduzione di una disciplina dell'analisi finanziaria che affronti le questioni connesse ai requisiti per lo svolgimento della relativa attività e, soprattutto, il problema dei conflitti di interesse.
Con riferimento a questi ultimi aspetti, sarebbe necessario adottare disposizioni adeguate sia sotto il profilo della comunicazione al pubblico dell'esistenza delle situazioni di conflitto sia sotto il profilo della prevenzione dell'insorgenza di situazioni di conflitti di interessi.
La Commissione rileva, peraltro, che, anche in considerazione della natura e dell'ambito dell'analisi finanziaria e della diffusione dei relativi studi e informazioni, l'elaborazione di un disciplina in materia dovrà tenere conto delle iniziative intraprese a livello comunitario, segnatamente con riguardo al recepimento della direttiva sugli abusi di mercato e alla proposta di modifica della direttiva sui servizi di investimento.
7. Istituti di tutela delle minoranze.
Le norme contenute nel TUF in materia di tutela delle minoranze, sono state emanate in attuazione del principio direttivo indicato all'articolo 21, comma 4, della legge n. 52/96.
La delega contenuta nel citato comma 4 ha attribuito notevole importanza alla materia in esame. Infatti, nel dettare in maniera generica i principi direttivi sulla disciplina dei mercati finanziari e mobiliari, ha disposto uno specifico riferimento al riordinamento in materia di poteri delle minoranze azionarie.
La disciplina contenuta nel TUF rappresenta un regime speciale, applicabile alle sole società quotate nei mercati regolamentati, diretto a rafforzare i poteri e la partecipazione degli azionisti di minoranza già disciplinato, per la generalità delle società, dal codice civile.
Nel corso dell'indagine è stata constatata una scarsa applicazione dei nuovi istituti di partecipazione e tutela della minoranza azionaria.
I soggetti auditi hanno concordato nell'osservare che lo scarso ricorso ai richiamati strumenti non sarebbe, in linea generale, riconducibile di per sé alle caratteristiche strutturali della disciplina introdotta dal TUF, la quale risulterebbe, anzi, complessivamente adeguata, sebbene suscettibile di miglioramenti.
In particolare, secondo quanto indicato da alcuni dei soggetti intervenuti, la scarsa partecipazione alla vita della società sembrerebbe dovuta, in larga misura, all'atteggiamento dei soggetti investitori i quali, assumendo un ruolo di puri risparmiatori, acquistano le azioni in funzione della redditività attesa attribuendo una importanza marginale alla scelta della società partecipata.
Da un punto di vista strettamente giuridico, è stato peraltro rilevato che la nuova disciplina non agevolerebbe l'utilizzo dei poteri concessi alla minoranza per effetto della complessità ovvero della onerosità di alcuni adempimenti previsti.
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D'altra parte, nelle valutazioni dei vari soggetti intervenuti, non è mancata la preoccupazione dovuta al rischio di un uso strumentale dei poteri attribuiti alla minoranza azionaria, il cui eccessivo utilizzo potrebbe rappresentare un ostacolo al normale svolgimento dell'attività della società partecipata. In particolare, secondo l'Assonime, le alte soglie di partecipazione previste dal TUF (10 per cento del capitale sociale per la convocazione assembleare e 5 per cento del capitale sociale per l'azione di responsabilità) risponderebbero principalmente alla finalità di incentivare la gestione collettiva da parte degli investitori istituzionali e sarebbero solo in via secondaria, dirette a tutelare i piccoli risparmiatori. Tuttavia, sempre secondo l'Assonime, gli investitori istituzionali hanno dimostrato, nei tre anni dall'entrata in vigore del TUF, uno scarso interesse alla partecipazione alla vita della società.
Con riferimento a questo ultimo aspetto, i soggetti intervenuti hanno osservato che la scarsa applicazione diretta degli istituti sembrerebbe dovuta principalmente a motivi di ordine culturale. In particolare, è stato osservato che la predetta scarsa applicazione sarebbe dovuta, in linea generale, all'atteggiamento degli investitori i quali, nel nostro paese, non avrebbero maturato una adeguata consapevolezza del ruolo che l'ordinamento consente loro di svolgere in ordine all'attività della società partecipata.
Pur concordando sulla limitata diretta applicazione delle discipline in argomento, alcuni dei soggetti auditi hanno evidenziato l'importanza degli effetti indiretti che la normativa ha prodotto. Infatti, è stato sottolineato, che con l'emanazione del TUF, oltre a voler dare alle minoranze azionarie la possibilità di reagire ad eventuali abusi o inefficienze gestorie, si è voluto introdurre una disciplina con efficacia deterrente nei confronti dei comportamenti degli azionisti di maggioranza e degli organi societari di loro espressione.
Con specifico riferimento ai singoli istituti, nel corso dell'indagine sono stati indicati una serie di fattori di natura normativa, tecnica e «culturale» che avrebbero concorso allo scarso ricorso agli istituti di partecipazione e tutela della minoranza azionaria. Per quanto riguarda il potere di convocazione dell'assemblea e alla partecipazione e formazione alla volontà assembleare, è stato osservato, sotto il profilo giuridico, che l'obbligo del deposito dei titoli da effettuarsi nei cinque giorni precedenti l'assemblea rappresenterebbe un freno alla volontà di partecipazione poiché le azioni, durante il periodo di deposito, non possono essere oggetto di scambio nel mercato.
Secondo alcuni soggetti auditi, al fine di incoraggiare gli investitori a partecipare all'assemblea, sarebbe opportuno introdurre nel nostro ordinamento, analogamente a quanto avviene in altri Paesi, un criterio di legittimazione all'intervento in assemblea che non limiti la disponibilità delle azioni. Tale ultima opinione appare, in effetti, condivisibile se si considera la dematerializzazione delle azioni e l'effettuazione di transazioni elettroniche.
Per quanto riguarda la quota di capitale sociale minima necessaria per poter richiedere la convocazione dell'assemblea, la percentuale del 10 per cento prevista dall'articolo 125 del TUF permetterebbe, da un lato, di evitare che la maggioranza azionaria adotti
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comportamenti lesivi dei diritti della minoranza, e dall'altro, di limitare eventuali abusi di poteri da parte della minoranza azionaria. È stato osservato, tuttavia, che la predetta percentuale assume un significato diverso in funzione delle dimensioni della società partecipata: in una società di grandi dimensioni con azionariato molto diffuso, la percentuale del 10 per cento risulta più difficile da raggiungere rispetto ad una società che, seppur quotata, è di piccole dimensioni e con un possesso azionario concentrato in pochi soggetti.
Lo snellimento dell'iter procedurale di convocazione dell'assemblea, andrebbe accompagnato anche dall'introduzione di facilitazioni dirette ad agevolare la partecipazione e la formazione della volontà assembleare, sia valorizzando gli strumenti offerti dalle nuove risorse tecnologiche (internet, videoconferenze, ecc.) sia semplificando la disciplina della sollecitazione e raccolta di deleghe di voto. Dalle audizioni è emerso che i motivi per i quali il ricorso alle ultime due discipline ha trovato scarsa applicazione, attengono, in primo luogo, alla macchinosità dei moduli di delega che l'azionista dovrebbe compilare e, in secondo luogo, alla rigidità della normativa primaria e secondaria poichè, ad esempio, attualmente il voto per delega consente di aderire o non aderire alla proposta del committente per cui gli azionisti, non potendo indicare liberamente il proprio voto, sono considerati astenuti se non aderiscono alla predetta proposta.
Con particolare riferimento allo strumento della videoconferenza, è stato rilevato che il mancato utilizzo discenderebbe dal fatto che le società non hanno la certezza della validità dell'assemblea.
Lo strumento in parola, peraltro, registra un utilizzo crescente in altri ordinamenti, sia con riguardo agli organi sociali che agli organi di istituzioni pubbliche; a quest'ultimo riguardo si ricorda l'articolo 10, paragrafo 2 del protocollo SEBC/BCE allegato al T.C.E. che prevede la possibilità di partecipazione e di voto dei membri del consiglio direttivo della BCE mediante videoconferenza.
Può risultare utile evidenziare che l'utilizzo della videoconferenza per le assemblee societarie è espressamente previsto dalla normativa tedesca e dalla normativa francese anche se, con riferimento a quest'ultima, la disposizione è relativa alle sole società per azioni semplificate. Inoltre, sia in Francia che in Spagna è stata presentata una proposta di legge concernente la riforma del diritto societario, contenente la previsione dell'utilizzo della videoconferenza per la partecipazione alle riunioni del consiglio di amministrazione e del consiglio di sorveglianza delle società per azioni.
Per quanto attiene alle cause di ordine culturale, è stato evidenziato, come già accennato, lo scarso interesse, da parte sia degli azionisti che degli investitori istituzionali, alla partecipazione alla gestione sociale.
L'indagine conoscitiva ha, infatti, confermato l'impressione che in Italia i piccoli risparmiatori operano nell'ottica del puro investimento a medio e lungo termine e gli investitori istituzionali (ad esempio, i fondi pensione) intervengono poco in assemblea e quando lo fanno depositano, in proporzione ai possessi azionari disponibili, una piccola quantità dei titoli azionari. Viceversa, negli altri paesi, quali ad esempio gli USA, l'investitore istituzionale manifesta la tendenza a
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considerarsi parte della vita della società (soprattutto se detengono pacchetti azionari in società come General Electric o General Motors).
La relazione CONSOB per il 2002 evidenzia, sulla base dell'esame dei verbali delle assemblee di approvazione del bilancio relative al numero complessivo di partecipanti alle assemblee che, pur essendo il numero medio di partecipanti piuttosto elevato (pari a 655), solo un terzo delle società presenta un numero di partecipanti superiore a 500.
Quest'ultimo dato, secondo la relazione, sembrerebbe indicare una ampia partecipazione soprattutto dei piccoli azionisti, in considerazione della larga capitalizzazione delle società considerate e del fatto che in Italia il fenomeno delle deleghe di voto non è particolarmente diffuso. Per circa il 21 per cento delle società, invce, il numero di partecipanti è invece inferiore a 50, a evidenziare che in questi casi la presenza dei piccoli azionisti, in occasione dell'evento più importante della vita societaria, risulta estremamente ridotta.
La partecipazione in assemblea mostra, altresì, una significativa presenza, in termini di diritti di voto rappresentati, di azionisti rilevanti (vale a dire di coloro che detengono una quota dei diritti di voto superiore al 2) mentre gli investitori finanziari non rilevanti (il cui interesse è invece essenzialmente di tipo finanziario), pur numerosi in molti casi, hanno raramente un peso consistente nelle votazioni.
I dati riportati dalla medesima relazione sulla partecipazione degli azionisti aventi caratteristiche di investitori finanziari (intendendo per tali i gestori di fondi, le banche e le assicurazioni, sia italiane che estere, che detengono partecipazioni inferiori al 2 per cento dei diritti di voto) evidenziano che tali soggetti sono molto numerosi (in media 137, ma con punte di quasi 900 investitori in alcune società), ma detengono quote modeste dei diritti di voto (in media il 3 per cento del capitale sociale ordinario complessivo e il 6 per cento del capitale ordinario apportato in assemblea; complessivamente essi non detengono mai più del 27 per cento del capitale con diritto di voto presente in assemblea).
Il tasso di partecipazione degli investitori finanziari alle assemblee delle società quotate maggiormente capitalizzate, pertanto, come rilevato dalla relazione, non consente a questi ultimi di incidere significativamente sulle decisioni societarie, neppure considerando le partecipazioni da essi congiuntamente apportate in assemblea.
In particolare, i dati riportati dalla relazione con riferimento alle prime cinquanta società quotate rivelano che la partecipazione dei fondi italiani, con una quota media di possesso vicina al 5 per cento, è stata nel 2001 di appena lo 0,5 per cento del capitale sociale e dell'1 per cento di quello presente; l'assenteismo è stato massimo nelle assemblee delle banche e delle società finanziarie.
I soggetti intervenuti non hanno espresso valutazioni concordi nell'individuare i motivi della scarsa applicazione dell'istituto dell'azione di responsabilità.
In particolare, l'Assonime, effettuando le medesime considerazioni riportate in merito alla partecipazione alle assemblee societarie, ritiene che il mancato ricorso alla disciplina in argomento è dovuto principalmente a motivi di ordine culturale degli investitori.
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Alcuni soggetti hanno osservato, invece, che la scarsa applicazione della disciplina non sarebbe imputabile ad una inefficienza del dettato normativo ma proprio alla efficacia deterrente della disciplina stessa.
Infatti, la disciplina in argomento avrebbe prodotto effetti indiretti operando in termini di «campagna di prevenzione». È stato constatato, in particolare, che, nei tre anni di applicazione del TUF, pur non essendosi fatto ricorso all'azione di responsabilità, le società, allo scopo di prevenire eventuali azioni contro gli amministratori hanno provveduto, da un lato, a corrispondere compensi più elevati agli amministratori richiedendo agli stessi una maggiore professionalità, e, dall'altro, ad aumentare il ricorso alle polizze assicurative, per garantirsi dal rischio di responsabilità.
Infine, secondo altri soggetti auditi, l'azione di responsabilità non avrebbe avuto applicazione per motivi connessi alla normativa processuale.
È stato, infatti, evidenziato che l'obbligo, per il reclamante, di lasciare depositato il 5 per cento del capitale azionario della società per tutta la durata della causa (che può arrivare anche a dieci anni) avrebbe scoraggiato qualunque soggetto ad avviare la predetta azione di responsabilità. In proposito, è stato osservato che, al fine di eliminare le difficoltà processuali che scoraggiano a priori l'avvio di iniziative giudiziarie, sarebbe auspicabile l'istituzione di un unico organo giudiziario, competente in materia finanziaria sia per quanto riguarda i profili privatistici che pubblicistici.
Opinioni complessivamente positive sono emerse con riguardo all'impatto del TUF in materia di quorum necessario per le deliberazioni dell'assemblea straordinaria.
In particolare, il Prof. Spaventa ha evidenziato che proprio il caso dell'assemblea straordinaria dimostra che il mancato esercizio dei mezzi di tutela non debba essere inteso necessariamente quale segnale della inefficacia degli stessi. Il quorum deliberativo per le assemblee straordinarie, infatti, si è palesato rilevante in una sola occasione, ma è un fattore tenuto presente nel mercato del controllo.
La Commissione concorda con la maggioranza dei soggetti auditi nell'osservare che lo scarso ricorso ai richiamati strumenti non è, in linea generale, riconducibile alle caratteristiche strutturali della disciplina introdotta dal TUF, la quale risulta complessivamente adeguata, ma sembra dovuto, in larga misura, all'atteggiamento dei soggetti investitori, i quali, assumendo un ruolo di puri risparmiatori, acquistano le azioni in funzione della redditività attesa attribuendo una importanza marginale alla scelta della società partecipata. Appare, peraltro, significativo che nel nostro Paese non soltanto i piccoli azionisti ma anche gli investitori istituzionali facciano registrare una scarsa partecipazione alla gestione sociale.
D'altra parte, devono essere considerati positivamente gli effetti indiretti che la normativa in materia ha prodotto, assumendo un valore deterrente nei confronti di eventuali abusi o di inefficienze gestorie da parte degli azionisti di maggioranza e degli organi societari di loro espressione.
Alla luce di queste considerazioni, la Commissione non ritiene opportuno apportare modificazioni ai quorum richiesti per la convocazione dell'assemblea e per l'azione sociale di responsabilità, sui
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quali, peraltro, è già intervenuta la recente riforma del diritto societario con la quale la disciplina del TUF andrà coordinata.
L'abbassamento ulteriore dei quorum richiesti potrebbe, infatti, determinare il rischio di un uso strumentale dei poteri attribuiti alla minoranza azionaria, il cui eccessivo utilizzo potrebbe rappresentare un ostacolo al normale svolgimento dell'attività della società partecipata.
Appaiono, invece, auspicabili alcune modifiche intese essenzialmente a semplificare l'effettivo esercizio dei diritti e dei poteri previsti dalla normativa vigente. In particolare, sarebbe opportuno introdurre nel nostro ordinamento, analogamente a quanto avviene in altri Paesi, un criterio di legittimazione all'intervento in assemblea che, a differenza del deposito attualmente richiesto, non limiti la disponibilità delle azioni.
Al riguardo, la Commissione considera particolarmente positivo il fatto che il recente D.Lgs. n. 6 del 2003, recante la riforma della disciplina delle società di capitali e cooperative, ha configurato il deposito delle azioni per la partecipazione alle assemblee da obbligo generale in previsione facoltativa degli statuti, riducendo i termini semplificando le relative modalità.
Meritevoli di attenzione sono, inoltre, le proposte di agevolare la partecipazione e la formazione della volontà assembleare, valorizzando gli strumenti offerti dalle nuove risorse tecnologiche (internet, videoconferenze) e semplificando la disciplina della sollecitazione e raccolta di deleghe di voto.
8. Contendibilità e stabilità.
8.1. Considerazioni introduttive.
L'intero disegno riformatore delineato dal TUF trova nell'obiettivo di promuovere la contendibilità del controllo delle società quotate uno dei principi ispiratori. Su questo tema si è svolto un inteso confronto nel corso dell'esame parlamentare del provvedimento, cui si è accompagnata, successivamente all'entrata in vigore dello stesso, l'emersione di differenti e talora contrastanti valutazioni.
L'esperienza applicativa del TUF ha, poi, offerto utili occasioni di approfondimento che hanno consentito di verificare in termini più concreti, in primo luogo, la validità delle scelte che hanno ispirato il legislatore e, in secondo luogo, l'efficacia degli istituti cui si è fatto ricorso per tradurre sul piano normativo le finalità perseguite.
Non stupisce, quindi, che, nel corso dell'indagine conoscitiva sia stato dedicato notevole spazio all'analisi del quadro definito dal TUF per quanto concerne il rapporto tra contendibilità e stabilità degli assetti proprietari.
I numerosi elementi informativi acquisiti e le diverse valutazioni raccolte in proposito attraverso le audizioni svolte consentono di pervenire ad alcune considerazioni che, pur non avendo la pretesa di costituire un punto di approdo definitivo, possono comunque offrire validi spunti per eventuali iniziative, anche di carattere legislativo, da adottare successivamente.
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La stessa complessità del tema, inevitabilmente condizionato dall'evoluzione continua delle situazioni concretamente riscontrabili rende, infatti, del tutto irrealistica la pretesa di addivenire a conclusioni che non siano aperte ad ulteriori sviluppi.
In linea generale, si può osservare che l'intenzione del legislatore del 1998 di inserire nell'ordinamento alcune disposizioni volte a favorire la contendibilità della proprietà delle società quotate appare evidente.
Tale intenzione traeva origine da un'analisi della situazione italiana dalla quale si faceva discendere una rappresentazione degli assetti del controllo societario in termini di marcata peculiarità rispetto allo scenario europeo. In sostanza, si rilevava la persistenza, a differenza di altri paesi, di una forte concentrazione proprietaria in mano a pochi soggetti, per di più mediante l'utilizzo di pratiche, quali i patti di sindacato e le strutture piramidali, in grado di assicurare l'assunzione e il mantenimento del controllo senza un corrispondente impegno finanziario. È' questa una interpretazione largamente diffusa, non soltanto nel dibattito politico, ma anche nella più autorevole disciplina.
Proprio l'ampia condivisione di tale giudizio induce, ai fini del presente documento, di procedere ad alcune verifiche sulla base dell'evidenza empirica della situazione effettivamente riscontrabile nel nostro Paese.
Dalle analisi contenute nella Relazione della CONSOB per l'anno 2002 sembra emergere, in effetti, che, in valori assoluti, la concentrazione proprietaria del complesso delle società quotate italiane sarebbe elevata.
L'elevata concentrazione proprietaria si rifletterebbe poi nella presenza di modelli di controllo poco contendibili.
In particolare, alla fine del 2002, la quota media del mercato, vale a dire dagli azionisti con partecipazioni non superiori al 2 per cento del capitale con diritto di voto, era pari al 54 per cento per le società del Mib30 e al 44 per cento per quelle del Midex a fronte di una media del 35 per cento circa per le altre società.
La relazione Consob per il 2002 rileva che le società quotate italiane continuano a caratterizzarsi per la prevalenza di situazioni in cui esiste un singolo azionista in possesso di quote dei diritti di voto sufficienti per esercitare il controllo di diritto o di fatto. Per circa tre quarti delle società quotate, con un peso analogo in termini di capitalizzazione, è infatti presente un azionista di controllo.
In particolare, circa l'85 per cento delle 112 società di capitali che detengono partecipazioni rilevanti in società quotate è controllato da una coalizione familiare. Ad esse fa capo il 4,5 per cento della capitalizzazione complessiva di borsa. Alle società controllate da coalizioni costituite da altre società quotate è attribuibile invece il 12 per cento della capitalizzazione.
Per 20 società, con un peso pari al 10 per cento della capitalizzazione di borsa, esiste un patto di sindacato avente a oggetto l'esercizio del diritto di voto la cui quota complessiva sindacata appare in grado di consentire agli azionisti aderenti di controllare in maniera congiunta la società.
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La quota media complessivamente sindacata nei patti di controllo è pari circa il 44 per cento. Nella metà dei casi gli aderenti a patti di sindacato «di controllo» sono persone fisiche, generalmente appartenenti allo stesso gruppo familiare, mentre nei restanti casi, cui corrisponde però oltre l'80 per cento della capitalizzazione complessiva delle società controllate da patti, gli aderenti sono società di capitali, generalmente quotate.
Complessivamente le società quotate su cui esiste un patto di sindacato sono 41.
Le società non controllate né singolarmente né da un patto di sindacato sono, invece, 32, con un peso pari al 15 per cento circa della capitalizzazione di borsa. Per tali società, la quota di capitale diffuso risulta, peraltro, contenuta, in linea con quella media del totale delle società quotate.
Gli assetti proprietari delle società quotate sul Nuovo Mercato indicano un grado ancora più elevato di concentrazione proprietaria e una diversa ripartizione della proprietà per tipologia di azionisti, con una maggiore prevalenza delle persone fisiche e dei soggetti esteri e un peso più ridotto delle ocietà di capitali.
In particolare, alla fine del 2002 la quota della capitalizzazione complessiva detenuta dal mercato è pari al 39 per cento circa, in crescita rispetto ai due anni precedenti.
Ciononostante, la concentrazione proprietaria che si registra nel nostro sistema appare in linea con la situazione dei principali paesi dell'Europa continentale.
Secondo i dati riportati nella relazione CONSOB per il 2001, infatti, in Francia e in Germania la quota del mercato sulla capitalizzazione complessiva si colloca tra il 45 per cento e il 55 per cento. Una minore concentrazione rispetto a quella delle società italiane è, invece, riscontrabile nei paesi anglosassoni, in cui la quota del mercato è pari ad oltre il 90 per cento, e, in misura meno netta, in altri paesi europei, quali Spagna, Svezia e Olanda, dove la quota del mercato è stimabile tra il 60 e il 70 per cento.
La ridotta dinamicità degli assetti proprietari nella maggior parte dei paesi dell'Europa continentale, riflette fattori strutturali e culturali legati, secondo la relazione CONSOB per il 2002, alla resistenza da parte dei soggetti che controllano le società quotate ad accettare riduzioni delle proprie quote di proprietà che possano compromettere la stabilità del controllo.
La situazione italiana, in particolare, sarebbe attribuibile allo scarso rilievo di due fattori che negli altri paesi hanno favorito la diffusione della proprietà:
l'entrata di nuove società sul mercato, per le quali di solito si registra un più esteso ricorso alla raccolta di capitale di rischio per finanziare accelerazioni del loro processo di crescita;
la realizzazione di operazioni di acquisizione di società quotate attraverso offerte pubbliche di scambio, che comportano, qualora abbiano successo, una diluizione delle quote di proprietà nella società offerente.
La relazione Consob osserva, con riguardo al primo fattore, che, malgrado l'aumento registrato soprattutto nella seconda metà degli
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anni '90 un aumento del numero di nuove ammissioni a quotazione, queste hanno riguardato, con l'eccezione delle società oggetto di operazioni di privatizzazione, soprattutto società di dimensioni medio piccole che non hanno inciso in maniera sostanziale sul grado di concentrazione proprietaria complessiva del mercato.
L'effetto delle privatizzazioni, le quali hanno coinvolto invece società di grandi dimensioni, sul grado di concentrazione proprietaria è stato rilevante negli anni 1997 e 1998; successivamente l'aumento della diffusione proprietaria è stato però riassorbito, a causa, da un lato, della natura parziale di privatizzazioni e, dall'altro, del fatto che la maggior parte delle principali società privatizzate ad azionariato diffuso sono state oggetto di successive acquisizioni che hanno portato in alcuni casi al loro delisting o alla determinazione di un assetto di controllo fortemente concentrato.
La medesima relazione osserva, inoltre, che il grado di concentrazione proprietaria è influenzato, oltre che dalla dimensione, anche dal settore delle società quotate. In particolare, la concentrazione è notevolmente più elevata nel settore dei servizi mentre ha valori inferiori nei settori industriale e, soprattutto, finanziario, dove però sono presenti diverse società in forma di cooperativa per azioni, per lequali sono previsti limiti al possesso azionario che impediscono l'acquisizione di pacchetti rilevanti di capitale.
Più in generale, la relazione CONSOB per il 2002 rileva che alla base della situazione del nostro Paese si collocherebbe, «la persistenza di una scarsa propensione alla quotazione delle imprese italiane, le cui cause si rinvengono a loro volta in alcune caratteristiche della nostra struttura finanziaria e industriale. Dominano ancora banche inclini al finanziamento tradizionale, ma meno disposte o meno preparate (come risulta da studi fatti per Borsa Italiana) a offrire i servizi preliminari alla quotazione. Le imprese sono piccole e riluttanti ad aumentare la loro dimensione. Si privilegia il controllo familiare e il ricorso all'autofinanziamento. Ci si arrocca in settori tradizionali, ove si richiede un modesto impegno di investimenti per l'innovazione e lo sviluppo e dunque vi è minore necessità di capitale esterno di rischio. In conseguenza, i benefici ottenibili dalla raccolta di capitale sono modesti in rapporto ai costi della quotazione e agli obblighi da essa derivanti».
Ferma restando la peculiarità di alcune caratteristioche strutturali del sistema produttivo e dei mercati italiano, i dati a disposizione, in sostanza, consentono di affermare che la situazione del nostro Paese non costituisce un'anomalia nello scenario internazionale, fatta eccezione per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che presentano caratteristiche del tutto particolari.
La uniformità di fondo delle situazioni riscontrabili nei maggiori paesi europei sembra potersi attribuire, almeno in parte, le difficoltà e le resistenze che fino ad ora si sono state manifestate con riguardo alla introduzione di una disciplina delle OPA a livello comunitario. In particolare, negli orientamenti emersi in particolare in Germania, fortemente critici nei confronti delle iniziative comunitarie, ha sicuramente pesato il timore di agevolare l'acquisizione del controllo delle imprese nazionali da parte di soggetti stranieri, segnatamente extracomunitari, senza garantire adeguate condizioni di reciprocità.
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Al riguardo, occorre considerare che proprio negli Stati Uniti, il paese in cui il fenomeno delle offerte di acquisto si è diffuso con maggiore intensità, dopo una lunga evoluzione è maturato un approccio assai più cauto verso le scalate ostili, tradottosi nell'adozione, da parte di alcuni Stati, di una legislazione restrittiva. Alla base di questo mutato atteggiamento risiede principalmente la preoccupazione nei confronti di scalate che siano effettuate con intenti meramente speculativi, in assenza di effettivo interesse nei confronti delle prospettive imprenditoriali della società bersaglio.
Anche in sede di indagine è stata rilevata l'esigenza di adottare adeguati presidi allo scopo di evitare il rischio che all'OPA si faccia ricorso per finalità di speculazione finanziaria facendo gravare, in termini di crescita dell'indebitamento, sulla società di cui si acquisisce il controllo il costo della scalata.
Nel corso dell'indagine è stato anche affermato (Costi) che la tesi secondo la quale l'OPA incentiverebbe la contendibilità non avrebbe fondamento; al contrario, essa renderebbe maggiormente difficoltosi, in quanto più onerosi, i passaggi delle quote di controllo. Nel giudizio del prof. Costi, l'OPA costituirebbe, piuttosto, uno strumento di tutela delle minoranze che intendano avvalersi del diritto di recesso in presenza di un cambio di controllo, quando non vogliano partecipare alla ripartizione del premio di maggioranza.
L'attitudine della disciplina dell'OPA a perseguire concretamente gli obiettivi sopra richiamati, e in particolare la crescita della contendibilità del controllo, appare strettamente connessa alle scelte assunte del legislatore con riguardo a specifici aspetti dell'istituto, quali la determinazione della soglia per l'OPA obbligatoria, la fissazione del prezzo dell'offerta, la regola di passività.
Con riferimento al primo aspetto, si può convenire con l'osservazione da più parti avanzata, per cui la previsione di una soglia troppo elevata oltre la quale sorgerebbe l'obbligo di promuovere un'offerta totalitaria potrebbe paradossalmente costituire un ostacolo forte al trasferimento del controllo societario, inducendo i proprietari ad attestarsi ad un livello immediatamente inferiore a quello della soglia.
D'altra parte, la fissazione della soglia ad un livello troppo basso avrebbe anch'essa l'effetto di scoraggiare i potenziali acquirenti in quanto renderebbe eccessivamente onerosa la corresponsione del premio di maggioranza.
Analogamente, le modalità di determinazione del prezzo dell'offerta dovrebbero rispondere all'obiettivo di non rendere troppo oneroso l'acquisto del controllo, e, allo stesso tempo, di tutelare adeguatamente e senza discriminazioni gli azionisti di minoranza.
Per quanto attiene alla regola di passività, va anzitutto osservato che il sistema introdotto dal TUF si inserisce nel contesto di un più ampio disegno che compensa il riconoscimento, in capo alla società bersaglio, del potere di adottare, entro certi limiti, misure difensive, con la previsione di disposizioni volte a prevenire il ricorso a tecniche ostruzionistiche. Si intende qui fare riferimento alla possibilità di recedere dai patti di sindacato, ovvero dell'automatica decadenza, in caso di OPA, delle clausole relative ai limiti al possesso azionario nelle società privatizzate.
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La scelta del TUF di subordinare all'autorizzazione assembleare, con il quorum deliberativo rafforzato del 30 per cento, l'adozione di «tutti gli atti ed operazioni che possono contrastare il conseguimento degli obiettivi dell'offerta», risponde alla necessità di individuare un punto di equilibrio tra gli interessi dell'offerente e quelli della società bersaglio e dei suoi azionisti.
La soluzione adottata dal legislatore sembrerebbe ispirata alla ricerca di un valido compromesso tra le esigenze concorrenti di garantire la contendibilità del controllo societario, di assicurare percentuali significative di consenso alle proposte degli amministratori e di non pregiudicare qualsiasi possibilità di contrasto dell'offerta per le società con capitale diffuso e quindi più esposte alle scalate.
L'analisi comparata evidenzia come anche altri ordinamenti europei, con l'eccezione significativa della disciplina recentemente adottata in Germania, pur con diverse modulazioni, seguano una impostazione analoga; si tratta di un approccio comune anche alla proposta di direttiva OPA non approvata dal Parlamento europeo nonché per la elaborazione di una nuova proposta.
L'idoneità della disciplina di cui all'articolo 104 a contemperare in maniera equilibrata i diversi obiettivi sopra richiamati è stata, tuttavia, messa in discussione da part della dottrina, sia pure con argomentazioni diverse.
Da parte di alcuni (Chiappetta-Restuccia), si è osservato che la partecipazione alle assemblee in Italia è talmente ridotta che l'articolo 104, prevedendo il quorum deliberativo del 30 per cento, avrebbe «l'effetto di determinare la pura e semplice impossibilità di porre in essere azioni difensive».
D'altra parte (Montalenti, Minervini), si è sostenuto che la disciplina del TUF accrescerebbe la difficoltà delle scalate e ridurrebbe corrispondentemente la contendibilità del controllo; in particolare, per le società con una quota di controllo superiore al 30 per cento, il quorum deliberativo rafforzato si trasformerebbe in un meccanismo di forte prevenzione nei confronti delle offerte ostili. Da parte di taluni (Lisanti) si è, conseguentemente, proposto un innalzamento del quorum anche sino al 50 per cento.
Alla luce dell'esperienza applicativa sinora maturata, non si può non rilevare che la percentuale del 30 per cento richiesta per l'adozione delle misure difensive, (percentuale priva di riscontro nelle proposte comunitarie che si limitano a richiamare la necessità dell'autorizzazione assembleare senza ulteriori specificazioni), può risultare non facilmente raggiungibile.
Non appare, peraltro, azzardato affermare che l'aspetto richiamato, nei termini indicati dai soggetti intervenuti, piuttosto che riguardare specificamente la passivity rule, sembra concernere la questione più generale della ridotta partecipazione alle assemblee nell'esperienza italiana. Alla luce degli elementi richiamati, occorre, quindi, valutare attentamente se, piuttosto che modificare il suddetto quorum, non sia invece più opportuno intervenire sul macchinoso e costoso funzionamento degli strumenti di raccolta del consenso degli azionisti.
Una riduzione consistente del quorum rischierebbe, inoltre, di rendere eccessivamente difficile il successo di scalate ostili, anche
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tenuto conto del livello di concentrazione proprietaria delle società quotate nel nostro ordinamento.
Con riferimento alla opposta obiezione, secondo la quale il quorum del 30 per cento ridurrebbe la contendibilità del controllo, per cui ne sarebbe necessario l'innalzamento, si può osservare che la fissazione del quorum ad un livello molto più elevato potrebbe produrre il risultato di indurre le società italiane a «blindarsi», in considerazione delle valutazioni richiamate, si può ritenere che la disciplina di cui all'articolo 104 offre una soluzione idonea a contemperare le diverse esigenze in campo.
In sostanza, le evidenze empiriche e le valutazioni emerse nel corso dell'indagine inducono a ritenere che non possa attribuirsi all'OPA la capacità di determinare concretamente un assetto proprietario rispondente al modello astratto della public company né a promuovere, di per sé, una maggiore contendibilità del controllo societario.
Allo stesso tempo, non si può fare a meno di rilevare che la contendibilità non sembra costituire un valore assoluto da conseguire a prescindere da altri obiettivi non meno meritori.
Il mero ricambio della proprietà non è, infatti, un elemento suscettibile di produrre benefici in termini di miglioramento della redditività nella gestione dell'impresa e della struttura di governo societario. L'eccessiva frequenza nel ricambio del controllo proprietario potrebbe produrre, infatti, una situazione di instabilità permanente tale da pregiudicare una gestione di medio e lungo termine della attività imprenditoriale della società e, conseguentemente, le prospettive di crescita.
In questo senso, deve rilevarsi che la perdurante assenza sul mercato italiano di investitori di lungo termine priva il sistema finanziario della possibilità di avvalersi di soggetti che si muovono in una logica di stabilità nell'impiego delle risorse proprie. Sotto questo profilo, va osservato che è largamente condiviso l'auspicio che si determinino quanto prima le condizione di uno sviluppo dei fondi pensione e un'evoluzione dei criteri di gestione da parte degli organismi di investimento collettivo che assuma a riferimento una prospettiva temporale più ampia.
Va segnalato, peraltro, che la relazione CONSOB 2002 sottolinea come anche in Italia, a motivo della congiuntura dei mercati finanziari internazionali, comincia ad acquistare rilievo il c.d. private equity, quasi una terza via fra banche e mercato. La medesima relazione osserva, in particolare, l'importanza dell'investimento di fondi privati nel capitale di imprese medie non quotate, che può migliorarne la gestione, favorirne la crescita e, se del caso, ottenerne la quotazione, favorendo lo sviluppo industriale e sperimentando nuove forme di governo societario.
In assenza di soggetti in grado di concorrere in misura determinante alla tendenziale stabilità del sistema e di offrire l'ulteriore vantaggio di una partecipazione attiva ma non necessariamente conflittuale alla vita societaria, alcuni strumenti possono paradossalmente introdurre elementi di precarietà e di discontinuità forzate.
In tale contesto, risulta evidente che la definizione di strumenti di tutela degli azionisti di minoranza dovrebbe essere modulata in
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termini tali da non ostacolare la gestione della società, tenuto conto del fatto che tali azionisti, in linea di principio, risultano scarsamente interessati a partecipare alla vita sociale e alla redditività di medio-lungo periodo. Al riguardo, è stato osservato (Rossi) che vi sarebbe una diversa propensione verso le offerte ostili tra gli investitori istituzionali e i normali azionisti. Mentre i primi sarebbero interessati, per ragioni di convenienza e di attesa di rendimenti nel medio lungo termine, ad una maggiore stabilità dell'investimento ed una minore liquidità immediata, i secondi, avendo minori possibilità di monitoraggio sulla società, tenderebbero con più facilità ad aderire alle offerte.
Alla luce di queste considerazioni appare evidente, con specifico riferimento alla disciplina delle OPA, che una definizione delle disposizioni in materia di presupposti delle offerte obbligatorie, di regola di passività, di distribuzione del premio di maggioranza in termini troppo vantaggiosi per gli azionisti di minoranza potrebbe costituire un fattore di criticità nel funzionamento delle società quotate.
Più in generale, potrebbe risultare utile verificare se la mancata traduzione, nell'esperienza italiana, del modello delle public company non si possa ricondurre anche alla presenza, particolarmente incisiva nel tessuto imprenditoriale del nostro paese di piccole e medie imprese che si caratterizzano, soprattutto quando operino nei c.d. distretti industriali, per la capacità di coniugare la propria autonomia giuridica con la propensione ad operare in una logica sistemica. In altri termini, le piccole e medie imprese potrebbero rappresentare una forma particolare di diffusione della proprietà che, facendo leva sulla assunzione diretta della responsabilità da parte dell'imprenditore, assicura una gestione improntata prevalentemente alla redditività. Allo stesso tempo, i legami molto intensi e diretti che intercorrono tra PMI e i diversi soggetti con i quali le stesse entrano in rapporto (committenti, fornitori, creditori, con particolare riferimento al sistema bancario, e debitori) costituisce un fattore di sana e trasparente gestione In altri termini, si configura un concorso di soggetti ed interessi diversi verso l'obiettivo comune di una corretta operatività, attraverso un sistema parzialmente non istituzionalizzato di controlli, tali da rendere non conveniente per l'imprenditore un comportamento irregolare. L'esistenza nelle PMI di una proprietà generalmente attiva rappresenta, inoltre, una contropartita forte rispetto al potere di amministratori, che concorre a prevenire il rischio di abusi.
8.2. Considerazioni generali sulla disciplina dell'OPA.
La disciplina dell'OPA introdotta dal TUF ha costituito uno degli aspetti sui quali si è maggiormente concentrata l'attenzione nel corso dell'indagine.
In via preliminare, occorre osservare che l'importanza della disciplina dell'OPA discende sia dalla sua intrinseca portata innovativa, che dalle ricadute sul piano concreto che la stessa ha fatto registrare, come emerge da un esame quantitativo e qualitativo delle operazioni poste in essere.
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Per quanto riguarda quest'ultimo profilo, le disposizioni introdotte dal TUF in materia di OPA si distinguono per il fatto di aver trovato una significativa applicazione, a differenza di quanto è avvenuto per altri istituti (strumenti di tutela delle minoranze, deleghe di voto).
Quanto al primo profilo, si può rilevare che la normativa sull'OPA costituisce uno dei casi più significativi in cui nella disciplina dei mercati si è inteso realizzare un chiaro disegno strategico di politica economica e finanziaria. In sintesi, si trattava di modificare la disciplina preesistente, recata dalla legge n. 149/92, allo scopo di accrescere il grado di contendibilità delle società quotate nei mercati regolamentati. Allo stesso tempo, si voleva assicurare un'adeguata garanzia agli azionisti di minoranza, nel caso di trasferimento del controllo, offrendo ad essi la possibilità di concorrere alla distribuzione del premio di maggioranza corrisposto dal nuovo acquirente.
L'indagine conoscitiva ha consentito di acquisire sul tema un complesso di elementi conoscitivi e di valutazioni che può considerarsi pressoché esaustivo. Per un verso, infatti, hanno costituito oggetto di discussione i profili attinenti al disegno ispiratore sotteso all'assetto normativo e alle finalità dell'istituto; per altro verso, sono stati esaminati, in maniera approfondita, alcuni aspetti specifici della disciplina introdotta dal TUF, con particolare riferimento all'OPA preventiva e all'OPA totalitaria.
Con riguardo al primo aspetto, dalle audizioni è emerso un giudizio complessivamente positivo sull'impianto generale della disciplina del TUF.
I soggetti auditi hanno, in particolare, concordato nel rilevare che la legge n. 149/92, istitutiva dell'OPA, non si sarebbe dimostrata soddisfacente né dal punto di vista dell'assetto normativo né in termini di effettività.
Sotto quest'ultimo quest'ultimo profilo, si ricorda che ben poche operazioni sono state effettuate ai sensi della legge n. 149.
Per quanto attiene specificamente all'impianto normativo, è stato rilevato in dottrina e dagli operatori che la disciplina n. 149 avrebbe mancato di chiarezza, coerenza e sistematicità.
Viceversa, la normativa del TUF, come già accennato, avrebbe il vantaggio di offrire un assetto organico della materia riconducibile ad un disegno ispiratore coerente.
Più in particolare, la disciplina dell'OPA recata dal TUF risponderebbe ad una logica sistematica sia interna alla stessa disciplina sia nel più ampio contesto della normativa sui mercati finanziari.
Con riguardo a quest'ultimo aspetto, occorre sottolineare che le disposizioni contenute nel testo unico possono intendersi come una sorta di normativa speciale all'interno del tema più generale della sollecitazione all'investimento, caratterizzata dal particolare rilievo che assumono gli obiettivi di tutelare i destinatari dell'offerta, potenzialmente alienanti, dal rischio di manovre speculative e di considerare la situazione dell'emittente, i cui titoli costituiscono oggetto di offerta. Da tali elementi di specialità discende il rafforzamento gli obblighi di informazione, in modo da offrire ai potenziali alienanti la possibilità di valutare compiutamente l'offerta e, d'altro canto, di offrire la possibilità di lanciare offerte concorrenti.
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Un secondo importante fattore di sistematicità consiste nel fatto che il TUF ha introdotto una normativa unitaria applicabile a tutte le offerte pubbliche di acquisto o di scambio, aventi ad oggetto sia strumenti finanziari quotati che non quotati. L'applicazione alle sole azioni di società quotate in mercati regolamentati riguarda, infatti, esclusivamente le disposizioni relative all'OPA obbligatoria. In questo modo si è ottenuto il risultato di assicurare una maggiore omogeneità nell'ordinamento ed una coerenza complessiva dei criteri posti a tutela degli investitori e del funzionamento del mercato.
Un ulteriore elemento di progresso, su cui tutti i soggetti intervenuti nel corso delle indagini hanno convenuto, rispetto alla normativa preesistente, è offerto dalla semplificazione della disciplina dell'istituto.
Il TUF ha provveduto, per un verso, a definire con chiarezza i profili strutturali dell'OPA in modo da ridurre i problemi interpretativi: in particolare, è stato ridotto il numero delle fattispecie di OPA e ne sono stati precisati presupposti applicativi ed effetti giuridici.
Per altro verso, al fine di garantirne la necessaria flessibilità, la disciplina del testo unico è stata formulata in modo da definire soltanto principi e regole essenziali della materia, rimettendo alla disciplina secondaria il compito di adottare disposizioni di dettaglio.
8.3. L'OPA obbligatoria.
Per quanto concerne specificamente l'OPA obbligatoria, si può osservare in via preliminare che la disciplina del TUF è sostanzialmente ispirata all'esperienza inglese. In pratica, nel modello del City Code on Take-overs and Mergers, già recepito dal legislatore francese, si fissa una soglia fissa, misurata in percentuale sulle azioni ordinarie, il cui superamento fa sorgere un obbligo legale di proporre l'acquisto di tutte le azioni ordinarie appartenenti ad altri soci.
Il disegno di politica economica sotteso alle regole adottate nel sistema inglese sembra corrispondere ad un assetto del mercato in cui prevalgono le cosiddette public companies nelle quali, essendo il capitale ripartito tra un elevato numero di azionisti, manca un socio di controllo o di riferimento.
Da più parti è stato, quindi, sostenuto che la trasposizione nel nostro Paese del modello richiamato senza una preventiva ed accurata valutazione della peculiarità del sistema proprietario vigente in Italia si è tradotto nella mancata diffusione della forma delle public company nel nostro paese.
I rappresentanti di ASSONIME, di Banca d'Italia e di alcune associazioni di intermediari (ASSOSIM e ASSOGESTIONI) hanno convenuto circa il fatto che l'adozione della disciplina dell'OPA avrebbe reso, sotto il profilo economico, il mercato dei capitali più efficiente, agevolando il trasferimento della proprietà delle società quotate ed offrendo le condizioni per una più efficace tutela degli azionisti di minoranza, nel caso di cambiamento del controllo.
È stato, inoltre, segnalato che la possibilità che una società costituisca oggetto di una OPA avrebbe l'effetto di indurre il management della medesima ad operare allo scopo di aumentarne la
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redditività, in modo da «fidelizzare» gli azionisti per evitare che essi aderiscano ad un'eventuale offerta.
Secondo Borsa italiana S.p.A., la disciplina delle offerte pubbliche contenuta dal TUF avrebbe operato, in modo equilibrato, il contemperamento dell'interesse alla contendibilità del controllo delle imprese quotate con l'interesse degli azionisti di minoranza a partecipare alla ripartizione del premio di controllo. Alcuni dei soggetti auditi hanno, tuttavia, messo in rilievo l'esistenza di profili di criticità dell'attuale assetto normativo.
In primo luogo, come evidenziato da Borsa italiana S.p.A., la nuova disciplina non avrebbe favorito una effettiva riduzione del tasso di concentrazione della proprietà azionaria, il quale rimane nel nostro sistema su livelli assai elevati.
Tale osservazione sembrerebbe in effetti confermata dall'analisi dei dati e delle valutazioni riportate nella Relazione della CONSOB per l'anno 2001, precedentemente riportati, dai quali emerge che il tasso di concentrazione proprietaria del complesso delle società quotate italiane non avrebbe subito significative modifiche.
A fronte di tale concentrazione, la CONSOB ha sottolineato che il controvalore totale delle OPA su società quotate realizzate nel 2001, pari a 6,7 miliardi di euro, risulta sensibilmente inferiore a quello dei due anni precedenti (12,1 miliardi di euro), sebbene sia comunque superiore al controvalore medio dei sei anni precedenti all'entrata in vigore del TUF (1,2 miliardi di euro). Tale riduzione, rispetto al 1999-2000, sarebbe dovuta, secondo la CONSOB, soprattutto alla forte riduzione delle offerte preventive. Nel complesso, le offerte collegate al passaggio del controllo della società sono state nel 2001 pari a 9 contro le 13 del 2000. Va tuttavia considerato che il 2001 ha coinciso con l'avvio di una fase contrassegnata dalla riduzione complessiva della capitalizzazione, tradottasi nel ridimensionamento della capitalizzazione complessiva.
Un secondo fattore di criticità evidenziato da alcuni dei soggetti auditi (Borsa italiana) consisterebbe nella possibilità di acquistare il controllo di fatto di una società con il possesso di una quota azionaria inferiore al 30 per cento del capitale sociale, senza dover lanciare un'OPA. Tale evenienza, frustrando le aspettative degli investitori alla redistribuzione del premio di maggioranza, avrebbe l'effetto di scoraggiare l'afflusso di capitali al mercato azionario italiano.
Un terzo elemento di problematico sarebbe costituito dal fatto che, laddove per il raggiungimento del controllo è necessario superare il 30 per cento, i ricambi del controllo potrebbero risultare ostacolati dall'obbligo di un'OPA totalitaria che rende l'operazione particolarmente onerosa.
Un ulteriore fattore di criticità, evidenziato in particolare da Confindustria, consisterebbe nella mancata armonizzazione della normativa in materia di OPA a livello comunitario. Al riguardo, è stato segnalato che una accentuazione, nella disciplina interna, della contendibilità non risulterebbe allo stato attuale opportuno se non accompagnato dalla creazione di un level-playing field a livello europeo, che garantisca un livello di contendibilità analogo per le imprese stabilite in altri Stati membri.
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Alcuni degli esperti intervenuti hanno sottolineato nella maggior parte dei casi di OPA registrate dopo l'entrata in vigore del TUF si sarebbe chiaramente evidenziato il fatto che non si sarebbe fatto ricorso all'istituto allo scopo di promuovere la contendibilità del controllo delle società quotate.
In particolare, è stato sostenuto (Gambino) che in diverse circostanze l'OPA si sarebbe addirittura dimostrata utile a stabilizzare situazioni di controllo già preesistenti, in via di fatto.
Anche ASSONIME ha rilevato che l'OPA obbligatoria, se per un verso rafforza la parità di trattamento tra gli azionisti, per altro verso potrebbe irrigidire il mercato del controllo, in quanto il rischio di dover corrispondere premi di maggioranza particolarmente onerosi aumenterebbe la riluttanza di possibili investitori a tentare l'acquisizione del controllo.
8.3.1. Aspetti problematici dell'OPA obbligatoria.
Soglia per l'offerta obbligatoria.
L'aspetto della disciplina del TUF su cui si sono concentrate, in primo luogo, le osservazioni dei soggetti auditi attiene proprio alla previsione dell'obbligo di OPA totalitaria obbligatoria una volta superata, a seguito di acquisti a titolo oneroso, la soglia del 30 per cento del capitale.
Merita, in proposito, rilevare che in linea generale, il valore ottimale della soglia non è determinabile a priori, ed in astratto, a prescindere dagli assetti proprietari riscontrabili in ciascun ordinamento. D'altra parte, qualunque sia la soglia adottata, si introduce, inevitabilmente, uno scalino al di sotto del quale i potenziali acquirenti potrebbero essere tanti di collocarsi per ridurre l'esborso totale richiesto per l'acquisto del controllo di una società.
Sul punto, già nel corso dell'esame parlamentare del TUF, era stato chiaramente prospettato il rischio che l'onerosità dell'impegno richiesto potesse indurre l'acquirente a mantenere la propria quota di partecipazione immediatamente al di sotto della misura stabilita, in modo da non incorrere nell'obbligo di promuovere l'offerta.
Alla luce di tali elementi, nel corso dell'indagine si è proceduto ad alcuni approfondimenti in ordine alla valutazione della congruità della soglia del 30 per cento rispetto agli obiettivi che si intendevano perseguire.
In proposito, nel corso dell'indagine sono emersi diversi orientamenti senza che, si prospettassero concrete proposte di modificazione della soglia indicata. Soltanto il prof. Marchetti si è pronunciato nel senso di una limitata revisione della misura della soglia che andrebbe collocata al 35 per cento.
I diversi soggetti intervenuti hanno concordato nell'escludere l'ipotesi di sostituire alla soglia quantitativamente fissa il riferimento ad una situazione di controllo di fatto (come avviene nell'ordinamento belga), in quanto si tratterebbe di una soluzione suscettibile di rendere incerto e indeterminato il presupposto di insorgenza dell'obbligo di offerta e di determinare, conseguentemente, maggiori oneri per
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l'Autorità di vigilanza, nonché il rischio di un eccesso di discrezionalità e di crescita del contenzioso.
In particolare, come rilevato dai rappresentanti di ASSONIME, l'eliminazione della soglia, rimettendo all'Autorità di vigilanza il potere di stabilire i casi in cui l'OPA debba essere lanciata, aumenterebbe la condizione di precarietà in cui si troverebbero ad operare i soggetti interessati. In sostanza, in assenza di elementi certi quanto alle condizioni in presenza delle quali sussiste l'obbligo di promuovere una offerta totalitaria, gli operatori difficilmente si esporranno al rischio di assumere iniziative dirette all'acquisizione del controllo.
Pertanto, pur prospettandosi da più parti il rischio che la misura del 30 per cento possa indurre gli attuali proprietari a stabilire la quota di controllo immediatamente al di sotto di tale limite, si è registrato un orientamento largamente condiviso circa l'opportunità di mantenere la soglia presuntiva e fissa nella misura indicata dal TUF.
Nel corso delle audizioni è stata invece prospettata l'eventualità (Rossi) di una differenziazione delle soglie in considerazione del differente grado di capitalizzazione o di azionariato della società bersaglio.
Tale ipotesi, che pure sembrerebbe ispirata ad una ragionevole esigenza di flessibilità del dettato normativo rispetto alla varietà delle situazioni riscontrabili tra le società quotate quanto alle dimensioni patrimoniali e alla struttura del controllo, potrebbe tuttavia suscitare problemi di notevole rilievo. Infatti, la definizione di soglie differenziate potrebbe costituire un elemento distorsivo in ordine alle scelte delle imprese interessate per quanto concerne il livello di capitalizzazione e di apertura al mercato.
In conclusione, tenuto conto delle controindicazioni relative dall'attribuzione in materia di ampi poteri discrezionali all'autorità di vigilanza, si può senz'altro convenire sull'opportunità di mantenere la soglia nella misura fissata dal TUF.
Determinazione del prezzo dell'offerta.
Un secondo aspetto sul quale si sono concentrati gli interventi di alcuni dei soggetti intervenuti attiene alla definizione del prezzo da corrispondere in cambio dell'acquisizione dl controllo.
Al riguardo, va evidenziato, in primo luogo, che in base alla disciplina del TUF, il prezzo di offerta non deve essere inferiore alla media aritmetica fra il prezzo medio ponderato di mercato dell'anno precedente il superamento della soglia e quello più elevato pattuito nello stesso periodo (o anche dopo, ma prima dell'offerta) dall'offerente per acquistare azioni ordinarie.
Alcuni dei soggetti intervenuti hanno tuttavia segnalato (Ferrarini), che il riferimento al prezzo di mercato degli ultimi dodici mesi determinerebbe una eccessiva erraticità dell'importo da corrispondere. Infatti, qualora i mercati azionari si trovino in una fase di rialzo, il prezzo dell'OPA si avvarrebbe di un consistente sconto rispetto a quello in precedenza corrisposto per l'acquisto del pacchetto di controllo. Viceversa, in una fase discendente, il prezzo dell'OPA potrebbe risultare addirittura superiore a quello corrisposto per
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l'acquisto del controllo. Alla luce di tali elementi, è stata ipotizzata la possibilità di assumere interamente l'esperienza inglese che prevede che all'OPA si debba applicare il prezzo più alto corrisposto per l'acquisto del controllo. Più in generale, sulla determinazione del prezzo si sono prospettate, anche sulla base delle esperienze straniere, due impostazioni contrapposte. La prima, riconducibile al modello inglese, afferma l'obbligo dell'offerente di corrispondere il prezzo più alto già pagato, in modo da tutelare adeguatamente e senza discriminazioni tutti gli azionisti di minoranza. La seconda sostiene che gli azionisti di minoranza avrebbero diritto a non veder peggiorata la loro situazione, rispetto a quella preesistente al momento del lancio dell'offerta. Conseguentemente, il premio dovrebbe coincidere con quello corrente sul mercato prima dell'aumento dell'offerta.
L'impostazione del TUF avrebbe il vantaggio di individuare una soluzione intermedia tra le due tesi: il prezzo di offerta, infatti, non deve essere inferiore alla media aritmetica fra il prezzo medio ponderato di mercato dell'anno precedente il superamento della soglia (sostanzialmente, in coerenza con la seconda teoria) e il prezzo più elevato pattuito nello stesso periodo dall'offerente per acquistare azioni ordinarie risulta (come richiesto dalla prima teoria).
Questa soluzione, se da una parte intende offrire adeguate garanzie agli azionisti di minoranza, dall'altra evita un costo finanziario eccessivo per chi intende acquistare il controllo della società, tale da pregiudicare le prospettive di sviluppo della società stessa.
In linea generale, la maggior parte dei soggetti intervenuti ha concordato sulla necessità di non rendere troppo oneroso il prezzo dell'OPA per evitare di ostacolare il ricambio del controllo societario, in contrasto con gli obiettivi generali dell'istituto.
In particolare, è stato evidenziato che (Marchetti) l'onerosità dell'OPA obbligatoria può costituire un deterrente per il soggetto che intenda acquisire il controllo di una società per finalità tipicamente imprenditoriali e non come forme di investimento meramente finanziario.
Rispetto alla disciplina dettata dal TUF e agli orientamenti prevalenti della dottrina un elemento di novità potrebbe derivare dall'approvazione della proposta di direttiva sull'OPA.
In base all'articolo 5 della proposta è considerato come un prezzo equo il prezzo massimo pagato per gli stessi titoli dall'offerente, o da persone che agiscono di concerto con lui, in un periodo compreso tra sei e dodici mesi precedente l'offerta prevista al paragrafo 1.
Gli Stati membri possono, peraltro, autorizzare le autorità di vigilanza a modificare il prezzo di cui al comma precedente in circostanze e secondo criteri chiaramente determinati. A tale scopo, elaborano un elenco di circostanze nelle quali il prezzo massimo può essere modificato, verso l'alto o verso il basso.
Le misure difensive.
Un terzo aspetto che ha costituito oggetto di attenzione attiene alle cosiddette misure difensive che la società bersaglio può adottare per contrastare un'offerta ostile.
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Il TUF, sulla base del modello inglese, stabilisce il divieto di adozione di misure difensive contro un'offerta ostile da parte degli amministratori della società bersaglio senza la preventiva approvazione degli azionisti.
La disciplina adottata dal TUF costituisce un indubbio progresso rispetto alle disposizioni del previgente articolo 16 della legge n. 149 che imponeva una condizione di assoluta passività per la società bersaglio, alla quale era impedita qualsiasi l'adozione di misure difensive nei confronti di acquirenti non graditi.
Tali disposizioni erano state oggetto di critiche da parte della dottrina (Lener-Galante, Montalenti, Vella), la quale aveva segnalato, in primo luogo, come l'impostazione della legislazione italiana non trovasse riscontro negli altri ordinamenti europei, ponendo il nostro sistema economico in una posizione di indubbio svantaggio nel rispetto agli operatori stranieri. In secondo luogo, veniva posto in evidenza il rischio che le società, al fine di non trovarsi esposte ad iniziative ostili, decidessero di «blindarsi» ovvero di rinunciare alla quotazione.
Con più specifico riferimento alla formulazione delle disposizioni di cui all'articolo 104, va osservato, in primo luogo, che esse non contengono una puntuale elencazione delle categorie di misure difensive vietate, riconoscendo agli amministratori un'ampia libertà di azione, limitata soltanto da un criterio di ordine teleologico (l'assenza di eventuali pregiudizi per l'esito dell'OPA), per cui gli stessi amministratori devono assumersi la responsabilità di identificare gli atti e le operazioni per i quali sia necessaria l'autorizzazione assembleare. L'adozione di questo criterio risponde all'esigenza di vincolare i comportamenti degli amministratori nella misura effettivamente necessaria al perseguimento dell'unica finalità che giustifica la passivity rule, quella di non frustrare le aspettative dell'offerente e non penalizzare l'interesse dei soci a trarre vantaggio dall'offerta).
Sebbene parte della dottrina (Lisanti) abbia criticato questa soluzione in quanto suscettibile di determinare il rischio di incertezza, sussistendo fattispecie la cui soggezione al divieto sarebbe dubbia, occorre considerare che una puntuale definizione in via legislativa dei comportamenti contrastanti con l'obiettivo dell'OPA non appare agevole. Anche negli ordinamenti che pure prevedono una elencazione delle misure considerate potenzialmente contrastanti con l'offerta, come nel caso del City Code on Take-over and Mergers inglese, tale elencazione non è affatto esaustiva e si riconosce comunque all'autorità di controllo un compito di verifica. Sullo stesso piano si pone l'ordinamento francese che attribuisce agli organi di vigilanza un potere conoscitivo e di valutazione in ordine a tutti gli atti di gestione straordinaria posti in essere dalla società target durante lo svolgimento dell'offerta. In sostanza, negli ordinamenti comparabili a quello italiano all'autorità di vigilanza viene rimesso un compito di valutazione, nei casi di incertezza, della opportunità di richiedere l'autorizzazione assembleare. Nel caso italiano, si riconosce alla CONSOB la possibilità di intervenire nell'esercizio della sua attività di vigilanza sui criteri di correttezza che devono ispirare i comportamenti di tutti i soggetti interessati all'offerta.
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L'utilizzo di una clausola generale per vincolare il comportamento degli amministratori non ha finora creato, nelle prime esperienze applicative della nuova disciplina, rilevanti problemi.
I soggetti intervenuti hanno ritenuto che la scelta di subordinare le misure difensive all'autorizzazione dell'assemblea appare in sé condivisibile, in quanto consente alla società di resistere all'offerta, proteggendo al tempo stesso gli azionisti dal rischio di comportamenti ostruzionistici degli amministratori.
Alcuni dei soggetti auditi hanno rilevato, tuttavia, che dall'esperienza applicativa emergerebbe qualche problema di natura procedurale relativo al funzionamento delle assemblee che, ostacolando l'effettiva possibilità della società bersaglio di difendersi, sbilancerebbero l'equilibrio del sistema a favore dell'offerente. In particolare, ASSONIME ha evidenziato che le poche assemblee convocate dagli amministratori delle società bersaglio per deliberare le misure difensive sarebbero andate deserte. Per garantire il corretto funzionamento dell'articolo 104 sarebbe, pertanto, necessario agevolare la partecipazione degli azionisti intervenendo non tanto sulla disciplina dell'OPA ma su quella relativa alle deleghe di voto e al voto per corrispondenza.
Il punto che ha costituito oggetto di maggiore attenzione attiene alla decorrenza della regola di passività, posto che il legislatore che non ha individuato con certezza il momento nel quale scatta l'obbligo di avviare le procedure di cui all'articolo 104, a differenza dell'articolo 16 della legge n. 149/1992, che faceva decorrere i divieti previsti dalla data di pubblicazione del prospetto.
La mancata indicazione del termine ha dato luogo, come è noto, ad incertezze e controversie interpretative.
In particolare, la CONSOB ritenne inizialmente che il periodo di offerta e la conseguente vigenza della regola di passività sia delle regole di trasparenza e correttezza dovessero decorrere dalla prima comunicazione al mercato, anche se anteriore rispetto alla presentazione del prospetto.
In seguito a sentenze avverse del giudice amministrativo, l'autorità di vigilanza ha modificato il proprio regolamento individuando il termine iniziale nel momento della presentazione alla stessa di un documento di offerta completo.
Per effetto di tale previsione, può quindi trascorrere anche un certo lasso di tempo prima che un OPA sostanzialmente decisa sia comunicata al mercato.
I soggetti intervenuti hanno espresso al riguardo posizioni contrastanti.
Da alcuni (Borsa italiana, Ferrarini, Lener, CONSOB) è stato rilevato che la prima soluzione adottata dalla Consob appariva preferibile, sotto il profilo della certezza e della trasparenza informativa, nonché ai fini di un equilibrato contemperamento degli interessi in gioco.
La disciplina attuale consentirebbe, infatti, nell'imminenza di un'OPA e per periodi che possono essere non brevissimi, ad alcuni investitori meglio informati di avvantaggiarsi rispetto agli altri operatori; allo stesso tempo, si offrirebbe agli amministratori della società bersaglio, la possibilità di assumere direttamente alcune contromisure, eludendo così lo scopo della passivity rule (Ferrarini).
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La normativa vigente non assicurerebbe, inoltre, un'informazione tempestiva e completa degli azionisti, potendo il documento di offerta contenere informazioni carenti. In effetti, nella prassi applicativa, i documenti di offerta consegnati avrebbero un contenuto stringato, risultando estremamente simili alle comunicazioni iniziali sufficientemente chiare e precise del precedente testo regolamentare.
È stato conseguentemente auspicato, mediante il ripristino della previsione regolamentare soppressa (Borsa) ovvero una apposita modifica al TUF (Ferrarini), l'individuazione del termine a quo della regola di passività nella effettuazione della prima comunicazione o comunque un chiarimento del termine di decorrenza da parte del legislatore (Consob).
Altri soggetti intervenuti hanno assunto posizioni più favorevoli alla soluzione adottata dalla Consob più recentemente. Al riguardo, è stato osservato (Gambino) che l'attuale previsione regolamentare, risulterebbe sostanzialmente condivisibile, pur richiedendo alcuni chiarimenti. In particolare, dovrebbero essere precisate con maggiore dettaglio le informazioni che devono essere rese note affinché scatti l'obbligo di astensione ed indicato un termine ragionevole entro cui l'OPA deve essere lanciata a pena di decadenza dell'obbligo di astensione.
Infine, alcuni dei soggetti intervenuti (Marchetti, Confindustria), nel rilevare che la disciplina legislativa e regolamentare vigente, anche dopo le modifiche successive alle pronunce del giudice amministrativo, renderebbe eccessivamente complicato, soprattutto sotto il profilo procedurale, l'effettivo esercizio dei poteri difensivi, hanno posto in evidenza l'opportunità di un intervento normativo modificativo.
In particolare, dovrebbe essere meglio chiarito il termine per la decorrenza della regola di passività e andrebbero introdotte precise indicazioni sul periodo che può intercorrere tra la trasmissione del prospetto alla Consob e l'inizio dell'offerta sul mercato, al fine di impedire che l'offerente possa ritardare strumentalmente quest'ultimo termine in modo da prolungare il periodo di passività della società bersaglio.
Le differenti posizioni sopra richiamate sembrano accomunate dalla esigenza condivisa di un intervento, preferibilmente a livello legislativo, che determini con maggiore precisione il termine di decorrenza della passivity rule.
L'attuale previsione regolamentare, modificata dalla Consob in seguito all'intervento del giudice amministrativo, sembra costituire, in effetti, una soluzione di compromesso di carattere provvisorio.
Andrebbe, al riguardo, valutata attentamente la possibilità di una apposita modifica al TUF che, al fine di eliminare ogni possibile incertezza interpretative, provveda all'individuazione del termine a quo della regola di passività nella comunicazione della formale decisione dell'organo amministrativo della società interessata di lanciare un'offerta, escludendo la rilevanza della mera preparazione e studio dell'offerta stessa.
Questa soluzione sembra compatibile con l'ampia discrezionalità rimessa agli Stati membri dal testo della proposta di direttiva comunitaria sull'OPA attualmente in discussione. La proposta, infatti, stabilisce che la regola di passività decorra «almeno a partire
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dal momento in cui l'organo di amministrazione della società emittente riceve le informazioni sull'offerta», e fa salva, tuttavia, la facoltà di ciascuno Stato di anticipare tale momento, «ad esempio a partire da quando l'organo di amministrazione della società emittente è a conoscenza dell'imminenza dell'offerta».
Acquisto di concerto.
La normativa in materia di acquisti di concerto di cui all'articolo 109 del TUF è ispirata dall'obiettivo di evitare che le regole in materia di offerte pubbliche d'acquisto obbligatorie fondate sul superamento delle soglie del 30 per cento e del 90 per cento non vengano eluse frammentando le acquisizioni delle partecipazioni fra una molteplicità di soggetti, giuridicamente distinti ma economicamente coordinati in un disegno unitario.
La disciplina dell'azione di concerto, come rilevato nel corso dell'audizione dei rappresentanti della Banca d'Italia, riveste una fondamentale importanza ai fini della effettiva applicazione dell'OPA in un mercato, quale quello italiano, caratterizzato da assetti di controllo di tipo «coalizionale».
Il testo dell'articolo 109 indica quattro ipotesi tipiche di azione di concerto, che si configurano, rispettivamente, nel caso in cui i soggetti di seguito indicati vengano a detenere, a seguito di acquisti a titolo oneroso effettuati anche da uno solo di essi, una partecipazione complessiva superiore alle predette soglie: gli aderenti a patti parasociali, anche nulli, un soggetto e le società da esso controllate, società sottoposte a comune controllo, una società e i suoi amministratori o direttori generali. In presenza di una di tali fattispecie, sorge un'obbligazione solidale di presentare un'offerta, che, in base ad accordi interni alla coalizione, può essere adempiuta da uno solo o da alcuni dei partecipanti al concerto.
La disciplina dell'articolo 109, introducendo una presunzione assoluta di azione concordata nelle ipotesi sopra richiamate, è ispirata principalmente dall'esigenza di certezza; si evita, conseguentemente, di rimettere alla Consob il compito di compiere caso per caso i complessi accertamenti in merito alla sussistenza del concerto.
Al riguardo, va ricordato che nello schema di decreto legislativo si contemplava una formula generica per la definizione dell'azione di concerto, richiedendosi a tal fine non necessariamente l'esistenza di un accordo delle parti, ma anche il semplice fatto che queste agissero consapevolmente in modo coordinato. Accanto a tale clausola generale il testo individuava alcune presunzioni legali di concerto.
Questo assetto era ispirato al modello britannico (in parte recepito anche nel sistema francese) secondo il quale si ha il concerto in ogni caso in cui due o più persone, in base ad un accordo o altra intesa formale o informale cooperino attivamente, mediante l'acquisto da parte di uno di essi delle azioni di una società, al fine di acquisire o consolidare il controllo della medesima società.
La formulazione originaria dello schema di D.Lgs. venne ritenuta ambigua nel corso dell'esame parlamentare, manifestandosi l'esigenza che il concerto fosse desunto dall'esistenza di patti parasociali, anche
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nulli. Tale soluzione è, appunto, confluita nell'attuale articolo 109 del testo unico.
Nel corso dell'indagine è emerso, tuttavia, (ASSONIME) come la disciplina attuale non abbia in realtà evitato l'insorgenza di dubbi interpretativi, per quanto attiene in particolare all'accertamento dell'esistenza di un patto parasociale anche nullo.
Al riguardo, ASSONIME ha evidenziato che l'articolo 109 non definirebbe la fattispecie dell'azione di concerto ma si limiterebbe ad individuare i soggetti che, trovandosi in una certa condizione, sarebbero da considerarsi «in concerto».
In particolare, il riferimento all'adesione a patti parasociali anche nulli sarebbe troppo ampio e indeterminato, anche alla luce del fatto che tali patti possono essere stipulati in qualunque forma.
Secondo ASSONIME e Confindustria sarebbe, pertanto, necessario introdurre, almeno in via di applicazione e interpretazione della norma, parametri oggettivi che consentano di distinguere i comportamenti casualmente convergenti dalla azione di concerto vera e propria, quali quelli sviluppati dalla giurisprudenza comunitaria con riferimento alle «pratiche concordate» nel settore della concorrenza. Secondo la Corte di giustizia, infatti, una pratica concordata è individuabile solo laddove i comportamenti delle parti «costituiscano un complesso di indizi seri, precisi e concordanti di una previa concertazione».
Tale soluzione è stata sostanzialmente condivisa da alcuni degli esperti intervenuti. In particolare, è stata rilevata (Marchetti, Gambino) l'opportunità che, attraverso una apposita norma regolamentare, si specifichi che l'accertamento del concerto, anche attraverso la verifica di patti parasociali tipici, debba fondarsi su fatti che costituiscano presunzioni gravi, precise e concordanti.
Il prof. Lener, invece, rilevando che il concerto non si presta ad una definizione e va verificato nei casi concreti, ha suggerito, piuttosto che la fissazione di parametri oggettivi, l'introduzione a livello regolamentare di ulteriori presunzioni che possa guidare l'organo di vigilanza.
Il prof. Ferrarini (e in termini sostanzialmente analoghi Borsa italiana) ha proposto, infine, un ritorno alla previsione originaria dello schema di D.Lgs., la quale conteneva una formulazione che, prescindendo dalla natura parasociale dell'azione di concerto, pur essendo più generica ma, al tempo stesso, risulterebbe di più immediata applicazione alla realtà del fenomeno. Al riguardo, il prof. Ferrarini ha osservato che l'attuale articolo 109 non avrebbe in realtà circoscritto l'ambito dell'azione di concerto e consentirebbe di configurare il concerto persino in presenza di collusioni tacite, ossia di conoscenza e volontà delle parti di coordinarsi non espressa nella forma di accordo.
Secondo il prof. Ferrarini, sarebbe inoltre necessario rafforzare, mediante le opportune modifiche al TUF, i poteri di accertamento e di ispezione della CONSOB relativi all'azione di concerto, avendo l'esperienza applicativa dimostrato appunto che la CONSOB è sfornita di adeguati strumenti di indagine.
Alla luce delle considerazioni formulate nel corso dell'indagine, emerge che la disciplina dell'acquisto di concerto postula, da una
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parte, l'adozione di formulazioni sufficientemente ampie che, anche attraverso l'attività di interpretazione dell'autorità di vigilanza, non lascino spazio a pratiche elusive, e, dall'altra, la definizione di criteri e parametri che consentano di predefinire l'ambito di applicazione della disciplina in parola, in modo da contenere i costi derivanti dall'obbligo di OPA e l'incertezza per gli operatori.
La disciplina introdotta dal TUF ha appunto tentato di individuare un punto di equilibrio tra le due esigenze, mediante un sistema di presunzioni legali definite, tuttavia, in termini non eccessivamente restrittivi.
Tenuto conto delle incertezze interpretative determinate dalla disciplina vigente, segnatamente con riferimento alla individuazione dei patti parasociali nulli, non sembra, in linea di principio, infondata la proposta di valutare l'opportunità di interventi correttivi di natura normativa che consentano, con maggiore certezza, di distinguere i comportamenti meramente casuali dalle condotte effettivamente collusive.
D'altro canto, non deve trascurarsi il rischio che con la definizione delle fattispecie previste dall'articolo 109 in termini più puntuali e dettagliati si irrigidisca eccessivamente la previsione normativa, favorendo involontariamente comportamenti elusivi della disciplina dell'OPA obbligatoria.
Appare, quindi, meritevole di approfondimento l'ipotesi di individuare, preferibilmente mediante una apposita previsione regolamentare, criteri e parametri di natura oggettiva per l'individuazione delle ipotesi concrete di concerto mediante patti parasociali. Il richiamo, operato da alcuni dei soggetti intervenuti, alla giurisprudenza comunitaria in materia di pratiche concordate, sembra al riguardo di estremo interesse. La previsione per cui l'azione di concerto presuppone l'esistenza di indizi seri, precisi e concordanti di una previa concertazione, costituirebbe, infatti, un canone interpretativo generale che assicurerebbe, al tempo stesso, il mantenimento nella normativa vigente del necessario grado di flessibilità alla normativa e una maggiore certezza e coerenza dell'attività applicativa.
Le offerte obbligatorie su società partecipate a catena.
La disciplina dell'OPA sulle società partecipate a catena (c.d. OPA a cascata) è stata introdotta dal TUF in considerazione della diffusa presenza nel sistema italiano di catene societarie; si tratta, in sostanza, di strutture piramidali in grado di assicurarsi il controllo di società sottostanti mediante un limitato investimento. A tal fine, può risultare utile anche l'emissione di azioni di risparmio prive del diritto di voto, che consentono al soggetto dominante di raccogliere mezzi finanziari senza perdere il controllo della catena.
Si può, peraltro, osservare che se il sistema delle catene societarie, spesso abbinato alla stipulazione di patti di sindacato, costituisce una caratteristica peculiare dell'esperienza italiana, visto che in altri ordinamenti l'obbiettivo del conseguimento e del mantenimento del controllo mediante quote minoritarie di capitale viene ottenuto attraverso modalità differenti, quali le azioni con diritti speciali o a
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voto plurimo. Tali istituti, come evidenziato da Borsa italiana, risultano sgraditi al mercato non meno dei gruppi piramidali in quanto pregiudicano la contendibilità del controllo delle imprese quotate.
Nel corso dell'indagine sono state formulate osservazioni critiche in merito al sistema di controllo piramidale. In particolare, Borsa italiana ha sottolineato che il fenomeno delle catene societarie, mediante un'impropria moltiplicazione di entità giuridiche distinte in cui si articola una realtà imprenditoriale sostanzialmente unitaria, non agevolerebbe l'efficienza del mercato dei capitali e della governance. Nel gruppo piramidale, infatti, non sempre sarebbe definibile l'autonomia funzionale delle diverse società, con conseguente aumento dei conflitti potenziali di interesse e assenza di trasparenza sulla distribuzione del valore all'interno della catena. Ne potrebbero derivare difficoltà nella valutazione dei titoli emessi dalle società del gruppo e una crescente diffidenza degli investitori, soprattutto esteri, tali da tradursi in un ostacolo considerevole allo sviluppo dei mercati finanziari italiani.
Secondo Borsa italiana, il fenomeno delle catene assumerebbe un carattere particolarmente preoccupante nel caso delle c.d. «scatole cinesi», che si caratterizzano per il fatto che l'attivo patrimoniale o i ricavi di una società quotata sono rappresentati in misura prevalente dalla partecipazione in altra società quotata. Tale fattispecie presenterebbe, oltre agli inconvenienti sopra menzionati, anche il rischio di un incremento artificioso delle opportunità di investimento offerte dal mercato, di un maggiore ostacolo al ricambio del controllo, nonché di una duplicazione dei corsi azionari.
La Borsa Spa ha escluso la possibilità di ammettere a quotazione le società che si configurano quale «scatole cinesi» e ha comunicato di avere allo studio ulteriori regole restrittive al riguardo, tra l'altro mediante la previsione della revoca dalla quotazione delle società che assumessero volontariamente tale configurazione.
Analoghe misure sono state adottate nel Regno Unito dal City Code (nota 7 della rule 9.1.) e in Francia dal Réglement du Conseil des Marchés Financiers.
L'istituto dell'OPA a cascata è stato introdotto appunto al fine di far emergere, al momento della proposizione dell'offerta, la struttura piramidale del controllo.
In particolare, l'articolo 106, comma 3, lett. a) del TUF ha rimesso al potere regolamentare della Consob la disciplina dei casi in cui la partecipazione in una società quotata superiore alla soglia del 30 per cento, prevista per l'OPA obbligatoria, non è acquistata direttamente, bensì mediante una partecipazione ad una società controllante interposta, quotata o non.
La normativa regolamentare adottata dalla Consob (regolamento 11971/1999) ha chiarito che si ha acquisto indiretto di una partecipazione oltre la soglia del 30 per cento in una società quotata (a valle) quando si acquista, anche di concerto con altri soggetti, una partecipazione superiore al 30 per cento in un'altra società quotata (a monte), oppure il controllo di una società non quotata (a monte) e sommando le azioni della società quotata a valle che si trovano nel portafoglio della società interposta con quelle eventualmente già
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possedute, l'acquirente oltrepassa, anche nella società quotata a valle, il limite di partecipazione del 30 per cento.
In altri termini, il regolamento presume che il controllo della società intermedia si ottenga, qualora essa sia quotata, con una partecipazione superiore al 30 per cento, mentre ove la medesima non sia quotata si richiede espressamente che venga acquisito il controllo di diritto. Peraltro, l'obbligo di promuovere l'offerta anche sulla società a valle, nonostante l'ambiguità della formulazione il regolamento, sembra presupporre che la società interposta abbia natura prevalente di holding, nel senso che se l'attivo della società interposta non è costituito prevalentemente da partecipazioni dirette in società quotate, o in altre società (non quotate) che a loro volta hanno il loro patrimonio prevalentemente investito in società quotate, la catena partecipativa non sia rilevante ai fini delle offerte obbligatorie a valle.
In merito alla effettiva utilità della disciplina dell'OPA a cascata sono emerse nel corso dell'indagine considerazioni parzialmente divergenti.
In particolare, il prof. Rossi ha suggerito la soppressione dell'istituto, rilevando che esso non faciliterebbe il mercato del controllo, ma ne determinerebbe anzi un appesantimento, senza incidere effettivamente sulle strutture piramidali.
Il prof. Ferrarini ha evidenziato che l'efficacia della disciplina sull'OPA a cascata sarebbe ridotta dalla eccessiva frammentazione del mercato italiano, nel quale, anche per la debole presenza degli investitori istituzionali, è possibile esercitare, con una quota azionaria inferiore al 30 per cento, un controllo pieno di una società. Al contrario, in mercati finanziari più evoluti, nei quali gli investitori istituzionali possiedono oltre il 50-60 per cento del capitale sociale, non si riscontrano analoghe situazioni. Il rimedio principale alle catene societarie consisterebbe, pertanto, nel promuovere la presenza di investitori istituzionali nel mercato italiano.
In linea generale, si può osservare che l'istituto dell'OPA a cascata risponde alla esigenza condivisibile di evitare una elusione delle soglie fissate dalla disciplina dell'OPA obbligatoria che risulterebbe agevolata dalla presenza di strutture societarie a catena nel nostro ordinamento. Sotto tale profilo, appare giustificato il mantenimento della previsione di cui all'articolo 106, comma 3, lettera a), che, rimettendo alla CONSOB il potere di definire in via regolamentare la disciplina di dettaglio dell'OPA a cascata, assicura il necessario grado di flessibilità alla disciplina in materia.
All'istituto in questione non può essere invece attribuita in via primaria o addirittura esclusiva la finalità di ridurre la presenza di strutture di controllo piramidale nel nostro sistema, le quali hanno presupposti e caratteristiche radicate e complesse e attengono pertanto alle più generali questioni relative al contemperamento della contendibilità e della stabilità del controllo societario.
8.3.2. OPA preventiva.
Nel corso dell'indagine ha costituito oggetto di notevole attenzione l'istituto dell'OPA preventiva, parziale o volontaria. In particolare, i
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soggetti intervenuti hanno evidenziato le potenzialità dell'istituto quale strumento per l'acquisizione del controllo meno oneroso rispetto all'OPA totalitaria, rilevando, d'altra parte, la presenza nella disciplina vigente di alcuni elementi che ne ostacolerebbero l'effettivo utilizzo.
Il TUF configura l'OPA volontaria quale caso di esenzione dall'obbligo di presentare un'offerta pubblica totalitaria, stabilendo tuttavia una serie rigorosa di requisiti e condizioni. Il ricorso a tale tipologia di offerta presuppone, infatti:
che non sia stato superato il limite dell'1 per cento nell'acquisizione di partecipazioni nell'anno precedente all'offerta;
l'esperimento di un procedimento di approvazione (cosiddetto referendum) da parte della maggioranza assoluta degli azionisti della società bersaglio;
che l'offerta insista su una quota minima del 60 per cento delle azioni ordinarie;
che la CONSOB accordi l'esenzione, previa verifica della sussistenza delle condizioni indicate.
L'esenzione dall'obbligo di lanciare un'offerta totalitaria viene meno in due casi: se l'offerente ed i soggetti che con lui agiscono di concerto nei dodici mesi successivi alla chiusura dell'offerta parziale preventiva, effettuino acquisti di azioni ordinarie per più dell'1 per cento, anche mediante contratti a termine con scadenza oltre l'anno; ovvero se l'assemblea della società emittente deliberi operazioni di fusione o di scissione.
L'offerta pubblica parziale, a differenza di quella totalitaria prevista come regola generale del sistema dell'OPA obbligatoria, non consente a tutti gli azionisti la dismissione integrale della partecipazione posseduta ma solo un soddisfacimento pro rata.
L'istituto non era incluso nell'originaria formulazione dello schema di decreto legislativo, essendo ritenuto poco idoneo a tutelare gli azionisti che rimangono nella società emittente con una parte consistente di azioni non acquistate mediante l'offerta, in quanto diretto ad acquisire solo una determinata percentuale del capitale sociale. A queste perplessità si è ribattuto, nel corso dell'esame parlamentare, rilevando l'esigenza di introdurre uno strumento in grado di superare gli ostacoli posti dalla eccessiva onerosità dell'OPA obbligatoria totalitaria. In effetti, soprattutto con riferimento alle società bersaglio di maggiori dimensioni, l'obbligo di presentare un'offerta totalitaria non appena superata la soglia del 30 per cento, può avere un effetto deterrente alla contendibilità nei confronti di soggetti che, pur essendo potenzialmente in grado di assicurare una gestione efficiente della società target, non sono provvisti di risorse finanziarie adeguate a far fronte al pagamento del premio di maggioranza.
La disciplina di cui all'articolo 107 del TUF costituisce il tentativo di conciliare le opposte tesi sopra richiamate, ispirandosi per larga parte alle previsioni del City Code londinese. L'offerta preventiva parziale, infatti, fa sorgere l'esenzione dall'obbligo di offerta totalitaria solo in presenza di una serie di requisiti sostanziali e procedurali, i
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quali sono modulati in modo da tale da garantire, al tempo stesso, la tutela degli azionisti della società bersaglio, in particolare mediante la previsione del referendum e la non eccessiva onerosità dell'acquisizione del controllo, essendo sufficiente che l'offerta riguardi il 60 per cento delle azioni.
Nel corso dell'indagine è emerso, da parte della maggioranza dei soggetti auditi, un giudizio complessivamente positivo in merito all'attitudine astratta dell'OPA preventiva a consentire l'acquisizione del controllo societario evitando i costi notevoli dell'OPA totalitaria.
È stato, inoltre, evidenziato (dai rappresentati della Banca d'Italia) come la disciplina dell'OPA preventiva sia strutturata in modo tale da ridurre la pressione sugli azionisti della società bersaglio ad aderire all'OPA, restringendo così le probabilità di successo di acquisizioni inefficienti. In effetti, si può osservare che la soglia del 60 per cento è tale per cui la partecipazione degli azionisti di minoranza resta, anche dopo l'offerta, non irrilevante. Tali azionisti potrebbero dunque, a loro volta, promuovere un'OPA senza un esborso finanziario eccessivo.
Molti dei soggetti intervenuti hanno, tuttavia, posto in rilievo lo scarso utilizzo dell'istituto, individuandone le cause essenzialmente nella eccessiva rigidità e complessità che caratterizzerebbe la disciplina di cui all'articolo 107 del TUF.
In particolare, ASSONIME e CONFINDUSTRIA hanno osservato che le disposizioni del TUF relative all'OPA volontaria, soprattutto per quanto attiene alla necessità dell'approvazione da parte della maggioranza assoluta degli azionisti, con esclusione del socio di controllo, sembrano rispondere ad una esigenza di superprotezione procedurale dei diritti del singolo piccolo azionista, che renderebbe appunto difficile l'utilizzo dell'istituto.
Confindustria ha altresì prospettato l'utilità di una modifica delle condizioni per il lancio dell'offerta, con particolare riferimento all'innalzamento dei limiti all'acquisto di azioni prima e dopo l'offerta stessa.
Anche Borsa italiana ha sottolineato l'esigenza di incentivare il ricorso all'OPA preventiva mediante una semplificazione delle condizioni alle quali è subordinata l'esenzione dall'obbligo di offerta totalitaria. In particolare, secondo Borsa italiana, sarebbe opportuno eliminare la previsione per cui l'OPA parziale deve avere ad oggetto almeno il 60 per cento del capitale della società target, in modo da incentivare i potenziali acquirenti del pacchetto controllo, soprattutto se inferiore al 30 per cento, a lanciare un'OPA preventiva, suddividendo tra tutti gli azionisti il pagamento del premio di controllo.
Borsa italiana ha auspicato, inoltre, una semplificazione del referendum richiesto per la realizzazione dell'OPA preventiva, stabilendo che il successo dell'OPA sia subordinato non all'approvazione della maggioranza dei soci indipendenti, ma alla mancata opposizione da parte di una determinata percentuale di essi.
Anche alcuni degli esperti auditi (Ferrarini, Gambino, Marchetti) hanno evidenziato che, alla luce dell'esperienza concreta, la disciplina dell'OPA preventiva richiederebbe una semplificazione dei presupposti e delle procedure.
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In particolare, il prof. Marchetti ha auspicato che l'OPA preventiva esenti dall'OPA successiva qualora essa, partendo da un possesso non superiore a quello di collegamento (10 per cento), determini comunque il superamento, quale che sia la percentuale oggetto dell'offerta, della soglia dell'OPA obbligatoria. Raggiunta tale soglia con l'OPA volontaria a prezzo libero, l'acquirente dovrebbe potersi comportare come qualunque altro soggetto che abbia lecitamente raggiunto tale soglia, tra l'altro, incrementando la propria posizione di un 3 per cento all'anno. Ove l'OPA preventiva superasse il 50 per cento del capitale ordinario non andrebbero posti limiti alla libertà dell'offerente di procedere all'acquisto di ulteriori pacchetti o ad operazioni di riorganizzazione societaria.
Il prof. Gambino ha indicato quale ostacolo principale al ricorso all'OPA preventiva lo svolgimento del referendum, tenuto conto dei costi e delle difficoltà elevate da essi determinati a fronte dell'incertezza del risultato degli stessi. La soluzione preferibile consisterebbe nella revisione o addirittura nell'eliminazione del referendum.
Anche la CONSOB, infine, ha concordato sulla possibilità di apportare modifiche alla normativa vigente in modo da attenuarne la rigidità sottolineando, tuttavia, la necessità di salvaguardare l'equilibrio tra l'esigenza di un funzionamento più fluido del mercato del controllo e quella di contenere il sacrificio cui gli azionisti della società bersaglio possono essere sottoposti in presenza di una tutela solo parziale del diritto di uscita dalla società stessa.
In linea generale, si può convenire sulla opportunità di apportare alla normativa vigente le modifiche idonee ad incentivare il ricorso all'istituto dell'OPA preventiva, tenuto conto della sua attitudine a contemperare l'obiettivo del ricambio del controllo senza un costo eccessivo per l'acquirente con l'esigenza di corrispondere un premio diffuso agli azionisti.
A tal fine, occorre valutare attentamente la possibilità di operare una semplificazione della disciplina vigente, senza tuttavia alterare l'equilibrio tra i differenti interessi in gioco.
In questa ottica, non appaiono condivisibili le soluzioni più drastiche, quale la proposta di sopprimere il referendum da parte degli azionisti della società obiettivo. Tale strumento, come osservato dal prof. Ferrarini, è preordinato, sulla scorta del sistema inglese, alla risoluzione del dilemma in cui si trovano gli azionisti in parola, costretti a scegliere se accettare un prezzo non ottimale ovvero restare in posizione di minoranza, in caso di successo dell'offerta, con azioni il cui valore può essere inferiore al prezzo offerto o addirittura al prezzo di mercato anteriore all'offerta.
Meritevole di attenzione appare, invece, la proposta di semplificare il referendum, eventualmente anche stabilendo che il successo dell'OPA sia subordinato non all'approvazione della maggioranza dei soci indipendenti, ma alla mancata opposizione da parte di una determinata percentuale di essi.
Anche l'ipotesi di un moderato innalzamento dei limiti all'acquisto di azioni prima e dopo l'offerta stessa può essere presa in considerazione, ferma restando l'esigenza di salvaguardare le finalità che sono alla base della previsione di tali limiti.
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Per quanto attiene in particolare alle restrizioni all'acquisto di azioni in misura superiore all'1 per cento del capitale sociale, va evidenziato che la previsione intende, come chiarito anche dalla Consob, evitare che l'offerta preventiva parziale si traduca in un'elusione dell'obbligo di offerta totalitaria imposto ed in una conseguente violazione del principio della parità di trattamento degli azionisti; tenuto conto, infatti, che l'OPA parziale consente soltanto un soddisfacimento pro rata degli azionisti, se l'offerente successivamente alla conclusione dell'offerta acquistasse altre azioni della società bersaglio da alcuni soci, favorirebbe questi ultimi che non sarebbero costretti a subire le limitazioni del riparto.
Un innalzamento dei limiti all'acquisto successivo non potrebbe, pertanto, che essere contenuto, in modo da salvaguardare la parità di trattamento tra gli azionisti.
8.3.3. L'offerta residuale.
Nel corso dell'indagine sono emerse alcune considerazioni anche con riferimento all'istituto dell'OPA residuale previsto dall'articolo 108 del TUF, in base al quale chiunque venga a detenere una partecipazione superiore al 90 per cento è tenuto a promuovere un'offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle azioni con diritto di voto al prezzo fissato dalla CONSOB, se non ripristina entro quattro mesi un flottante sufficiente ad assicurare il regolare andamento delle negoziazioni.
La disciplina di attuazione adottata dalla Consob precisa che il prezzo dell'offerta è determinato in base a quattro criteri, la cui influenza, in assenza di indicazioni, può variare in relazione alle circostanze del caso concreto: a) il corrispettivo di un'eventuale precedente offerta pubblica d'acquisto; b) il prezzo medio ponderato delle azioni scambiate sul mercato nell'ultimo semestre; c) il patrimonio netto rettificato a valore corrente dell'emittente; d) l'andamento e le prospettive di reddito di tale società.
La disciplina in questione intende tutelare i piccoli investitori, quando il mercato si restringe e non è più in grado di assorbire le loro vendite.
Alcuni dei soggetti intervenuti hanno manifestato alcune perplessità in merito alla disciplina vigente dell'OPA residuale. In particolare, il prof. Marchetti ha espresso forti perplessità in ordine al mantenimento della cosiddetta OPA residuale, non rilevando ragioni sufficienti per concedere, dopo l'espletamento di una precedente offerta obbligatoria, una «prova d'appello», mediante appunto un'ulteriore offerta, per gli azionisti ritardatari o disattenti o addirittura per soggetti che intendano speculare su questi pacchetti marginali. Inoltre, il fatto che il prezzo dell'offerta residuale sia fissato dalla Consob costituirebbe per gli operatori un ulteriore onere finanziario e amministrativo «con venature dirigistiche».
La Consob ha osservato che alcune critiche mosse alla disciplina dell'offerta residuale appaiono condivisibili. In particolare, l'offerta residuale successiva al raggiungimento di una partecipazione del 90 per cento sarebbe importante per la tutela degli azionisti di minoranza
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nei casi in cui essa fa seguito ad un'offerta volontaria da parte del gruppo di controllo, mentre risulterebbe meno giustificata ove consegua ad una precedente offerta obbligatoria. La Consob ha sottolineato, inoltre, che l'attività di fissazione del prezzo affidatale dall'articolo 108 risulterebbe onerosa, sia in termini di tempo, sia in considerazione della difficoltà del processo di valutazione e ha segnalato, al riguardo, che una modifica regolamentare allo studio prevederebbe che, oltre un certo limite di adesioni alla precedente offerta, il prezzo di tale ultima operazione potrebbe coincidere automaticamente con quello dell'offerta residuale.
In linea generale, va sottolineato che la previsione di cui all'articolo 108 costituisce un indubbio progresso rispetto alla disciplina previgente, di cui alla legge n. 149/1992, la quale faceva discendere automaticamente l'obbligo di presentare un'offerta dalla presenza di un flottante inferiore al 10 per cento o al minor limite stabilito dalla Consob. Il testo vigente offre, invece, l'alternativa tra la riduzione in tempi rapidi della propria partecipazione o la proposizione dell'offerta di acquisto delle azioni residue. L'offerta residuale si può qualificare, pertanto, non più come un obbligo ma piuttosto come un onere gravante su chi intende mantenere una partecipazione elevatissima in una società quotata.
Va, tuttavia, considerato che, come rilevato anche dalla Consob, l'offerta residuale può risultare di non agevole giustificazione ove l'acquisizione della partecipazione superiore al 90 per cento consegua all'esperimento di un'offerta obbligatoria totalitaria. Tale strumento già presuppone in re ipsa l'intenzione dell'offerente di acquistare il maggior numero di azioni possibile per cui può apparire in effetti non del tutto chiara la ragione per cui l'acquirente dovrebbe alimentare nuovamente il mercato ovvero agevolare con una nuova proposta gli azionisti ritardatari e meno attenti, o che intendano speculare contando su un prezzo dell'offerta residuale più elevato di quella obbligatoria.
Si potrebbe, pertanto, considerare con attenzione l'ipotesi di eliminare o modulare, con riferimento ai termini e al prezzo, differentemente l'obbligo di promuovere l'offerta residuale quando la quota del 90 per cento sia stata raggiunta in seguito a offerta totalitaria.
Occorre considerare al riguardo che la proposta di direttiva OPA della Commissione, rilevando che soltanto alcuni Stati membri contemplano meccanismi di squeeze-out e sell-out nel caso in cui l'offerente abbia acquisito la preponderante maggioranza del capitale sociale, ha evidenziato l'esigenza che tutti gli ordinamenti nazionali introducano norme in materia.
Conseguentemente, la proposta prevede che un possessore di titoli di minoranza possa esigere dall'offerente che detiene almeno il 90 per cento del capitale sociale, a seguito di un'OPA, di riacquistare i suoi titoli ad un giusto prezzo. Gli Stati membri possono fissare una soglia più elevata, ma non superiore al 95 per cento del capitale sociale. Tuttavia, il diritto di esigere il riscatto obbligatorio non può essere esercitato quando la soglia scelta è stata raggiunta soltanto per un breve periodo.
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9. La disciplina dei patti parasociali tra stabilità e contendibilità.
La disciplina dei patti parasociali rappresenta uno degli elementi decisivi nella ricerca dell'equilibrio fra stabilità, da un lato, e contendibilità e trasparenza del controllo societario, dall'altro.
Tali accordi costituiscono, in effetti, uno dei principali strumenti utilizzati per esercitare un'influenza nel governo societario, potendo addirittura consentire ad alcuni azionisti di aggregarsi al fine di acquisire e mantenere il controllo societario.
Nella esperienza italiana i patti parasociali hanno avuto e hanno, in misura crescente, una forte rilevanza nella determinazione degli assetti di controllo delle società quotate sui mercati regolamentati.
La relazione della CONSOB per l'anno 2001 riporta, come già ricordato in precedenza, che i patti concernono circa un terzo delle società quotate in borsa e oltre la metà delle società del nuovo mercato; al 31 dicembre 2001 risultano in vigore complessivamente 138 patti rilevanti ai fini dell'articolo 122 del TUF, di cui 93 relativi a società quotate (70 delle quali in borsa e 23 sul nuovo mercato).
In oltre la metà dei casi, gli accordi in questione contengono sia clausole concernenti l'esercizio del diritto di voto che vincoli relativi alla trasferibilità delle azioni (patti c.d. globali).
Il capitale sociale sindacato risulterebbe, in percentuale sul capitale ordinario, pari al 34,8 per cento per le società quotate in borsa e al 33,2 per quelle del nuovo mercato.
Nelle valutazioni generali, i patti parasociali, dando maggiore stabilità al gruppo di controllo, possono garantire una certa continuità nelle scelte gestionali della società; al tempo stesso, tuttavia, si tratta di strumenti suscettibili di frenare il ricambio degli assetti proprietari, limitando, quindi, la contendibilità del controllo.
La tematica dei patti parasociali è affrontata, nei diversi ordinamenti e negli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, con riferimento a due profili: per un verso, assume rilievo l'esigenza di garantire, mediante l'informazione al pubblico dell'esistenza dei patti, un adeguato livello di trasparenza in ordine all'assetto del controllo societario. Per altro verso, si discute in ordine alla opportunità di prevedere un limite di durata dei patti, in modo da non ingessare a tempo indeterminato l'assetto proprietario.
Nei principali ordinamenti europei la disciplina dei patti parasociali, e in particolare dei sindacati azionari, presenta notevoli differenze, addirittura per quanto attiene ai profili di liceità e validità.
In particolare, nell'ordinamento tedesco i patti parasociali sono qualificati come accordi che producono esclusivamente effetti tra le parti non incidenti sull'organizzazione sociale e sono considerati generalmente leciti e validi, quale espressione di una comunione di scopo fra membri di un gruppo associativo. Peraltro, sia la legge azionaria (AktG) che la giurisprudenza individuano limiti rigorosi di validità ed efficacia del contenuto dei patti.
Nell'ordinamento francese, in assenza di una specifica disciplina dell'istituto, la giurisprudenza, seppure non consolidata, è stata particolarmente cauta nella valutazione della validità dei patti parasociali, prendendo a tal fine in considerazione, da un lato, l'attitudine
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degli accordi a ledere la libertà dei soci e, dall'altro, l'interesse che gli accordi stessi possono presentare per il funzionamento della società.
Nel Regno Unito, invece, i patti parasociali, ed in particolare i voting agreements, sono generalmente riconosciuti validi e tutelati con la injunction, sulla base del presupposto per cui l'azionista ha un diritto di proprietà sul voto del quale può disporre liberamente.
Il TUF ha tentato di individuare un punto di equilibrio tra gli obiettivi sopra indicati, disciplinando, tra l'altro, i limiti di durata e gli obblighi di pubblicità recato disposizioni dei patti parasociali riguardanti le società quotate o le società che le controllano e le sanzioni per le relative violazioni.
Il testo unico non definisce il carattere della «parasocialità» di un accordo, ma individua varie categorie di patti, in base a due elementi fra loro eterogenei, costituiti, rispettivamente, negli obblighi nascenti dal patto (vincolo di voto, preventiva consultazione, limitazioni al diritto di trasferire gli strumenti finanziari), e negli effetti del patto (esercizio anche congiunto di un'influenza dominante).
La disciplina del TUF, ai sensi dell'articolo 122, è applicabile, in primo luogo, ai patti, in qualunque forma stipulati, aventi ad oggetto l'esercizio del diritto di voto, in società quotate ovvero in società che le controllano, e, in secondo luogo. ai seguenti altri patti, indicati nel medesimo articolo 122:
a) i patti di preventiva consultazione, inerenti all'esercizio del voto sia in società quotate sia in società che le controllano;
b) i patti che limitano il trasferimento delle azioni o di warrants;
c) che prevedono l'acquisto concertato di azioni o di warrants;
d) i patti che hanno ad oggetto o determinano l'effetto dell'esercizio, anche congiunto di un'influenza dominante.
Per quanto attiene agli obblighi di trasparenza, in base al medesimo articolo 122, i patti in questione devono essere:
a) comunicati alla CONSOB entro cinque giorni dalla stipulazione;
b) pubblicati per estratto sulla stampa quotidiana entro dieci giorni;
c) depositati presso il registro delle imprese del luogo ove la società ha la sede legale entro quindici giorni dalla stipulazione e, per le società non aventi sede in Italia, presso il registro delle imprese di Milano.
Il comma 2 della medesima disposizione affida alla CONSOB il compito di stabilire con regolamento le modalità della comunicazione e i contenuti e le modalità della pubblicazione dei patti. Sulla base di tale disposizione la CONSOB ha adottato il regolamento n. 11971 del 14 febbraio 1999, il cui capo II del Titolo III (articoli 127-133), tra l'altro:
prevede che tutti gli aderenti ad un patto sono solidalmente obbligati a darne comunicazione alla CONSOB (articolo 127);
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stabilisce che sono soggette alla comunicazione, entro 5 giorni dal loro perfezionamento le modifiche dei patti e, in generale, ogni altra variazione delle azioni e degli strumenti finanziari che attribuiscono diritti di acquisto o di sottoscrizione di azioni apportati al patto;
individua il contenuto dell'estratto del patto da pubblicare su un quotidiano a diffusione nazionale (articoli 129-130);
disciplina gli obblighi di comunicazione delle associazioni di azionisti che non comportano l'esistenza di un patto parasociale (articoli 132-133);
In base ai commi 3 e 4 dell'articolo 122 del TUF, in caso di inosservanza degli obblighi di pubblicità, i patti sono nulli ed il diritto di voto inerente alle azioni sindacate non può essere esercitato.
L'articolo 123 del TUF disciplina la durata dei patti parasociali. Innovando rispetto alla disciplina previgente, che non stabiliva alcun limite di durata per i patti, l'articolo ne fissa in tre anni la durata massima prevedendo, peraltro, la sostituzione automatica del termine, eventualmente stabilito dalle parti in misura eccedente il limite legale, con quello fissato dalla legge.
I patti possono tuttavia essere stipulati anche a tempo indeterminato; in tal caso ciascun contraente ha facoltà di recedere in ogni momento anche senza giusta causa salvo, ovviamente, l'onere di preavviso di sei mesi.
Un'altra ipotesi specifica di recesso è prevista dall'ultimo comma del medesimo articolo, in base al quale gli azionisti che intendono aderire a un'offerta pubblica di acquisto totalitaria o preventiva promossa, rispettivamente ai sensi dell'articolo 106 e 107 del TUF, possono recedere senza preavviso dai patti parasociali anteriormente stipulati. La dichiarazione di recesso, peraltro, non produce effetto se non si è perfezionato il trasferimento delle azioni.
Il TUF non ha disposto, quindi, una «tipizzazione» dei patti parasociali preferendo, all'adozione di una regolamentazione puntuale del contenuto dei patti, la predisposizione di adeguati meccanismi di disclosure nei confronti del mercato. L'atipicità dei patti è stata inoltre controbilanciata dalla previsione della possibilità di far venir meno gli effetti di tali patti in caso di OPA e dalla previsione della disciplina in materia di azione di concerto ai fini dell'insorgenza dell'obbligo di promuovere l'offerta obbligatoria.
La maggioranza dei soggetti intervenuti nel corso dell'indagine ha espresso un giudizio sostanzialmente positivo sulle disposizioni del TUF, rilevando che esse realizzano, nel complesso, un compromesso equilibrato tra l'esigenza di non comprimere eccessivamente l'autonomia negoziale dei soci e quella di favorire la contendibilità del controllo.
Alcuni dei soggetti intervenuti hanno, tuttavia, evidenziato l'opportunità di alcuni interventi migliorativi della disciplina vigente ovvero l'inopportunità di proposte di modifica emerse nel dibattito dottrinale.
In particolare, il Prof. Lener, pur concordando sulla validità dell'impianto del TUF, ha individuato quale limite principale della
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normativa in questione l'estrema ampiezza e genericità delle fattispecie contemplate dall'articolo 122.
Tale genericità, oltre ad aver suscitato alcuni problemi in sede interpretativa, determinerebbe il rischio di un'applicazione delle disposizioni in materia di trasparenza e recesso anche a casi nei quali non sussisterebbero le ragioni di tutela del mercato che ne giustificano la previsione.
Inoltre, l'attività interpretativa della Consob avrebbe consentito, per un verso, di individuare, in alcune comunicazioni, elementi di maggiore certezza, precisando l'ambito di applicazione degli obblighi di trasparenza e del recesso in caso di OPA; per altro verso, secondo il prof. Lener, le soluzioni adottate dalla Consob non sarebbero risultate sempre rispettose del dettato legislativo.
Anche ASSONIME ha prospettato l'esigenza di rendere più chiari alcuni profili della disciplina vigente, in particolare al fine di precisare se la previsione della facoltà recedere senza preavviso dai patti parasociali in presenza di un'offerta pubblica di acquisto o di scambio, si applichi anche nel caso in cui uno dei soggetti vincolati al patto intenda lanciare l'offerta.
ASSONIME e il Prof. Gambino hanno, inoltre, sottolineato che l'equilibrio realizzato dalla normativa attuale verrebbe meno ove, in luogo della facoltà di recesso, si prevedesse, come proposto in dottrina, la decadenza automatica di tutti i patti parasociali in presenza di un'OPA.
Il prof. Rossi, pur concordando sulla scelta del TUF di imporre la trasparenza dei patti piuttosto che negarne l'efficacia o la validità, ha rilevato la necessità di estendere le garanzie di trasparenza anche alle decisioni del patto di sindacato.
Alla luce delle osservazioni emerse del corso dell'indagine, si può concordare con la valutazione complessivamente positiva dell'impianto generale sotteso alla disciplina del TUF, la quale appare ispirata ad un approccio pragmatico e flessibile. L'impostazione cui si informa la normativa in parola, infatti, realizza un equilibrio soddisfacente tra la garanzia dell'autonomia negoziale, espressione della libertà imprenditoriale, e l'esigenza di prevenire e reprimere distorsioni del mercato che potrebbero ostacolare fortemente la contendibilità del controllo societario.
In particolare, la scelta di non tipizzare, o quantomeno di tipizzare soltanto parzialmente, i patti ha, per un verso, salvaguardato la libertà negoziale dei soci e, per altro verso, ha rafforzato, dal punto di vista quantitativo, la garanzia di trasparenza e contendibilità, consentendo di individuare in maniera estremamente amplia l'area dei patti che possono rientrare nell'applicazione delle norme relative alla trasparenza e al recesso.
Occorre poi considerare che il legislatore ha già avuto modo di prospettare, dopo un'articolata e approfondita riflessione, alcuni interventi sulla disciplina dei patti con l'articolo 4 della legge delega per la riforma del diritto societario n. 366 del 2001.
Tale disposizione prevede l'allungamento da 3 a 5 anni della durata temporale massima del vincolo obbligatorio derivante dai patti parasociali e l'individuazione, per le sole società che fanno ricorso al
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capitale di rischio, di adeguate forme di pubblicità che garantiscano la trasparenza dei patti stessi.
Alla base del prolungamento della durata del vincolo parasociale si colloca la condivisibile considerazione per cui i patti costituiscono il principale strumento per la formazione di nuclei stabili di azionisti, i quali operano in modo di assicurare una sostanziale continuità nel governo dell'impresa nel corso del tempo, assumendo a proprio carico il rischio derivante dalle variazioni degli andamenti ciclici, con particolare riferimento alle conseguenze che ne derivano sull'entità dei profitti e dell'attività economica e, dunque, adottando un più lungo orizzonte di riferimento.
10. L'evoluzione dei mercati borsistici.
Nel corso dell'indagine sono state oggetto di approfondimento alcune questioni concernenti l'assetto dei mercati regolamentati determinato dal TUF.
Oltre ad una valutazione generale in merito all'impatto della riforma sullo sviluppo qualitativo e quantitativo dei mercati nazionali, anche alla luce delle prospettive di consolidamento dei mercati borsistici europei, sono stati esaminati specificamente alcuni aspetti relativi all'assetto proprietario e alle funzioni di Borsa italiana S.p.A.
In via preliminare, occorre ricordare che con il TUF si è completato il passaggio da una tipologia di mercato borsistico in cui era assolutamente prevalente il carattere pubblico ad un nuovo assetto istituzionale ed organizzativo di tipo privatistico, rispondente all'obiettivo di promuovere una gestione efficiente e più vicina alle esigenze del sistema economico e finanziario.
In particolare, l'articolo 61, primo comma, ha stabilito, riprendendo in larga parte quanto già disposto dal D.Lgs. n. 415/96 (c.d. decreto Eurosim), che l'attività di organizzazione e gestione di mercati regolamentati ha carattere di impresa, ed è esercitata da apposite società di gestione. Tali società, caratterizzate dalla forma giuridica di S.p.A., seppure non necessariamente a scopo di lucro, devono avere, fra gli altri requisiti, un capitale minimo pari a 5 milioni di euro e un oggetto esclusivo; ad esse è, infatti, precluso l'esercizio di attività che non siano connesse o strumentali all'organizzazione e alla gestione di uno o più mercati.
In questo ambito, la società Borsa Italiana S.p.A., costituita nel 1997 ed operativa a decorrere dal 2 gennaio 1998, si configura come società di gestione dei mercati azionari, ivi compreso il Nuovo mercato.
In particolare, la società, secondo le norme previste nel regolamento adottato l'11 dicembre 1997 dall'assemblea ordinaria della società stessa ed approvato dalla CONSOB con delibera n. 11091 del 12 dicembre 1997, è competente in materia di:
organizzazione ed il funzionamento dei mercati;
definizione dei requisiti nonché le procedure di ammissione e permanenza sul mercato per le società emittenti e per gli intermediari;
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vigilanza e gestione del mercato;
informativa societaria da fornire al pubblico ai fini della quotazione.
Dalle valutazioni dei soggetti intervenuti nel corso dell'indagine è emerso un giudizio complessivamente positivo sull'assetto dei mercati regolamentati disegnato dal TUF. Le associazioni rappresentative dell'intermediazione hanno in generale convenuto circa il concorso che la riforma ha assicurato alla crescita dei mercati nazionali sia in termini quantitativi, sia in termini qualitativi, concorrendo all'aumento dei volumi scambiati, all'introduzione di nuovi prodotti e all'ampliamento della rete degli intermediari.
Al riguardo, occorre rilevare che, sebbene il numero delle società quotate resti in Italia più basso rispetto agli altri mercati europei e internazionali, il rapporto tra capitalizzazione e PIL è cresciuto costantemente fino al 2000, per poi decrescere nel 2001, a causa dell'andamento negativo delle borse accentuatasi a seguito dei tragici eventi dell'11 settembre 2001.
La capitalizzazione complessiva delle società nazionali ammontava, alla fine del 2001, a 592,3 miliardi di euro, pari al 48,7 per cento del PIL; nel 1997 il rapporto si attestava al 30 per cento del PIL. Va, tuttavia, ricordato che la capitalizzazione di borsa alla fine del 2000 aveva raggiunto il valore di 818,4 miliardi di euro, corrispondente al 70,3 per cento del PIL.
Nel corso delle audizioni sono stati approfonditi alcuni specifici aspetti dell'attuale situazione che presenterebbero profili di criticità o richiederebbero interventi di adeguamento della normativa ovvero della struttura della società di gestione.
Una prima serie di questioni su cui si è concentrato il dibattito attengono alle funzioni di rilievo pubblicistico esercitate da Borsa italiana S.p.A., anche alla luce dell'assetto proprietario della stessa, nonché le prospettive di quotazione della medesima società di gestione del mercato.
Per quanto attiene al primo profilo, nel corso delle audizioni sono emerse diverse posizioni in merito al rapporto tra le funzioni di listing esercitate dalla società di gestione e la natura privatistica della stessa.
Al riguardo, occorre ricordare preliminarmente che il TUF ha previsto un sistema regolatorio a doppio livello, optando per il modello già adottato in Francia: in sostanza, i poteri di ammissione e esclusione dalla quotazione (competenze di listing) e quelli relativi alle modalità di svolgimento degli scambi sono stati attribuiti alle società di gestione del mercato, mentre alla CONSOB competono i poteri di controllo sulla sollecitazione all'investimento (c.d. trading) e sulla correttezza dell'attività delle società di gestione.
In altri ordinamenti, invece, la funzione di listing è stata attribuita a soggetti pubblici; è il caso dell'esperienza inglese, in cui i poteri di ammissione al listino sono stati trasferiti dal London Stock Exchange (LSE) alla Financial Services Authority. Tale scelta, come rilevato dai rappresentanti di Borsa italiana, andrebbe ricondotta al fatto che, nella più recente evoluzione, si è cercato di introdurre alcuni elementi di concorrenza tra i diversi mercati. Si è, quindi, constatato che
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l'attribuzione alla LSE della competenza a disporre l'ammissione alla quotazione con riferimento a diversi mercati non assicurasse adeguate garanzie sotto il profilo della competizione. Pertanto, si è preferito rimettere ad una autorità pubblica il potere di disporre in materia.
Del tutto differente si presenta, in linea di diritto, la situazione italiana, nella quale il potere decisionale in materia di listing non sarebbe concentrato, essendo rimesso ad ognuna delle società di gestione dei diversi mercati regolamentati.
Secondo Borsa italiana S.p.A. l'assetto definitivo del TUF risulterebbe soddisfacente in quanto idoneo ad assicurare l'equilibrio tra la tutela dell'interesse pubblico al buon funzionamento dei controlli sui mercati e l'interesse privatistico alla efficiente gestione tecnica dei mercati, attraverso strutture decisionali snelle e altamente specializzate.
Inoltre, l'attribuzione alla Borsa stessa di funzioni di rilievo pubblicistico incentiverebbe la stessa «ad assumere decisioni appropriate in quanto finalizzata a massimizzare la qualità del servizio offerto. Qualora detti servizi fossero svolti in situazione di conflitto di interesse, quindi a mero vantaggio privato della società di gestione o dei propri azionisti a svantaggio della collettività, la competizione, anche internazionale, che si sta sviluppando tra le Borse ed i mercati escluderebbe presto quelli qualitativamente inferiori.»
Taluni degli esperti intervenuti (Rossi e Costi) hanno, invece, espresso perplessità in merito all'attribuzione alla società di gestione dei poteri di listing, in considerazione della natura privatistica della medesima società e dell'assetto proprietario della stessa.
In particolare, è stato evidenziato il rischio che si ingenerino situazioni di conflitto di interessi, stante il fatto che i soggetti che partecipano al capitale di Borsa italiana S.p.A. sono a loro volta quotati nei mercati regolamentati.
A tale situazione di conflitto si aggiungerebbe un ulteriore elemento di criticità derivante dalla netta prevalenza, tra i soggetti che partecipano al capitale di Borsa italiana, di imprese appartenenti al settore bancario, come risulta dalla seguente tabella, in cui sono riportate le percentuali di partecipazione al capitale di Borsa italiana S.p.A.
Banca Intesa
|
15% |
Banca Popolare di Verona
|
6,6% |
Banca di Roma
| 7,5% | Emittente Titoli S.p.A.
| 6,5% |
Monte dei Paschi
| 7,5% | Banca Sella
| 5,7% |
BNL
| 7,5% | Unicredito
| 2,5% |
Banca Finnat Euroamerica
| 7,1% | Cassa di Risparmio di Torino
| 2,5% |
Banca IMI
| 7,1% | Cariverona
| 2,5% |
Banca Intermobiliare
| 6,7% | Altri
| 15,4% |
(Fonte: Borsa italiana S.p.A.).
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Questa situazione concorrerebbe a rafforzare la configurazione «bancocentrica» del sistema finanziario italiano, sulla quale si tornerà nei paragrafi successivi del presente documento
La CONSOB, pur rilevando l'esistenza di rischi di conflitti di interesse, ha osservato che essi sarebbero fortemente ridimensionati dalla concorrenza a livello internazionale fra le diverse borse. Peraltro, secondo la medesima autorità, al fine di ridurre i rischi prospettati, sarebbe opportuno migliorare l'assetto della corporate governance di Borsa italiana S.p.A. Al riguardo, si può ricordare che recentemente si è provveduto a modificare il riparto delle competenze tra consiglio di amministrazione e amministratore delegato affidando a quest'ultimo il potere di disporre l'ammissione, sulla base della considerazione per cui l'organo monocratico sarebbe meno sensibile a condizionamenti degli azionisti.
In merito ai profili problematici in esame, sono state prospettate nel corso delle audizioni diverse soluzioni.
Una prima proposta, formulata da parte di alcuni degli esperti, riguarda l'attribuzione delle funzioni di listing ad un soggetto pubblico, analogamente quanto accaduto, come già ricordato, nel Regno Unito con il trasferimento della funzione di listing dalla London Stock Exchange alla FSA.
Una seconda soluzione, prospettata in particolare da Assosim, viene ravvisata nella quotazione della società di gestione che potrebbe contribuire, se non a risolvere, quantomeno a diminuire i problemi derivanti dall'attuale assetto societario.
Nelle considerazioni della CONSOB la quotazione della società di gestione favorirebbe la presenza di un azionariato diffuso, consentendo l'ingresso di amministratori indipendenti, meno sottoposti ad eventuali conflitti di interesse e dovrebbe incrementare la trasparenza delle decisioni societarie, determinando un assetto di governance in cui i potenziali conflitti di interessi siano facilmente individuabili. Si può, peraltro, osservare che la prospettiva auspicata dalla CONSOB presuppone che la quotazione si traduca in una articolazione della compagine sociale che, in assenza di specifici presidi, potrebbe non trovare riscontro nella realtà. Allo scopo di promuovere un effettiva composizione della proprietà nei termini di azionariato diffuso occorrerebbe, quindi, adottare specifiche disposizioni sia per quanto concerne la determinazione di limiti di partecipazioni che con riferimento all'eventuale esclusione dell'applicazione, al caso concreto, della disciplina sull'OPA.
La possibilità di quotarsi è stata prospettata dalla stessa Borsa italiana S.p.A., la quale ha evidenziato che dalla quotazione deriverebbero effetti positivi quali l'incremento della trasparenza di tutte le decisioni societarie e l'equilibrio, all'interno della compagine azionaria, dell'incidenza di tutte le categorie dei partecipanti al mercato, con particolare riferimento agli investitori istituzionali.
Al riguardo, Borsa italiana S.p.A. ha richiamato i casi di Deutsche Börse, di London Stock Exchange e di Euronext, i quali, seppure con diverse motivazioni, hanno proceduto alla propria quotazione essenzialmente allo scopo di rafforzarsi sotto il profilo patrimoniale. In questi casi, la quotazione avrebbe assicurato il vantaggio di allargare
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la compagine sociale oltre le imprese del comparto creditizio, mediante l'ingresso tra i soci principalmente di investitori istituzionali.
Borsa italiana ha segnalato, inoltre, che le disposizioni di cui all'articolo 61 del TUF non escludono la possibilità di quotazione di una società di gestione di un mercato regolamentato.
Alcuni degli esperti e degli intermediari intervenuti, nonché la CONSOB, hanno tuttavia sottolineato l'esigenza di una riflessione più profonda in merito alla ipotesi di autoquotazione della società di gestione, in quanto potenziale fonte di conflitti di interesse. Con l'autoquotazione, infatti, si assisterebbe ad una situazione per cui la società di gestione non si limiterebbe a decidere in ordine alla sua ammissione alla quotazione, ma vigilerebbe anche sui propri doveri, con conseguenti difficoltà nell'assumere provvedimenti sanzionatori nei propri confronti.
Al riguardo, la Borsa italiana S.p.A. ha evidenziato, pur riconoscendo l'esistenza di profonde differenze tra il nostro ed altri ordinamenti, che le borse europee quotate non hanno perso le proprie funzioni sulla gestione dei mercati, con particolare riferimento alla vigilanza sui propri titoli quotati.
Una situazione di conflitto del tipo prospettato potrebbe in ogni caso, secondo Borsa italiana, essere gestita senza apportare modifiche al corpo normativo esistente, attraverso cautele o soluzioni organizzative interne alla società di gestione del mercato e mediante adeguate forme di coordinamento e ripartizione di competenze tra la società e la CONSOB (cosiddetta soluzione coregolatoria).
Con riguardo al primo aspetto, l'autoquotazione richiederebbe opportune forme di separazione, in ambito istruttorio e deliberativo, fra le aree di sviluppo strategico, tipicamente commerciali, e le funzioni di vigilanza della società di gestione sul mercato. Tali ultime funzioni potrebbero essere definite da un protocollo operativo con la CONSOB che coordini le competenze spettanti, rispettivamente, alla società di gestione e alla autorità pubblica in materia di controllo e di processo decisionale nell'ambito degli interventi sulle negoziazioni.
La CONSOB ha invece segnalato l'opportunità di apportare, nel caso di quotazione della società di gestione, alcune modifiche alla vigente normativa, tali da consentirle di svolgere una effettiva attività di controllo sull'operato della società di gestione, evidentemente in quanto non ritiene sufficienti le soluzioni prospettate dai rappresentanti di Borsa italiana.
Un ulteriore fattore di criticità derivante dalla quotazione, emerso nel corso dell'indagine, sarebbe costituito dal rischio di acquisizione della società di gestione da parte di analoghe società straniere operanti nei mercati di maggiori dimensioni. Tale rischio sarebbe favorito dalla dimensione relativamente ridotta del mercato borsistico italiano, considerato che il livello di fatturato di Borsa italiana S.p.A. (140 milioni di euro), è largamente inferiore a quelli registrati dai gestori delle maggiori borse europee.
L'ipotesi di una acquisizione, in effetti, non appare soltanto teorica ove si consideri che nel 2000 la Om Ab, società che gestisce la Borsa svedese, tentò un'OPA ostile sulla London Stock Exchange.
Alla luce del complesso delle osservazioni sopra riportate si può osservare, in primo luogo, che la soluzione cui è pervenuto il
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legislatore, nell'ambito del TUF, in materia di listing risulta sostanzialmente equilibrata.
L'attribuzione alla società di gestione della borsa di funzioni di rilievo pubblicistico può considerarsi giustificata dall'esigenza di garantire una adeguata gestione tecnica dei profili connessi all'ammissione, alla sospensione e all'esclusione dalle quotazioni i quali richiedono un'alta specializzazione e procedimenti decisionali agili, tali da consentire l'adozione di decisioni in tempi molto rapidi.
In effetti, sino ad ora Borsa italiana ha dimostrato di saper svolgere efficacemente le funzioni attribuitele, anche promuovendo, alla luce delle più avanzate esperienze straniere, l'attivazione di segmenti di mercati fortemente innovati (Nuovo mercato), , allo scopo di promuovere un ampliamento del listino senza tuttavia rinunciare ad una accurata verifica dei requisiti richiesti per la quotazione.
Va poi considerato che l'ammissione al listino di un titolo presuppone che la CONSOB abbia già verificato, nell'esercizio delle funzioni conferitele dall'ordinamento in materia di tutela dei risparmiatori, la completezza del prospetto.
Non sembra poi priva di fondamento la considerazione, svolta dai rappresentanti di Borsa italiana, per cui l'esercizio delle funzioni di listing in termini non rispondenti alle previsioni normative, a causa del condizionamento esercitato dai soggetti che controllano la società di gestione, finirebbe per essere sanzionato dai mercati internazionali. In questo caso, in sostanza, subentrerebbe il fattore reputazionale, di notevole importanza in materia, per cui le piazze finanziarie considerate meno affidabili rischiano di essere emarginate.
Merita peraltro segnalare che lo stesso statuto della società di gestione ha disposto alcuni strumenti allo scopo di evitare l'insorgere di possibili conflitti di interesse nonché di un controllo pregiudizievole sul funzionamento del mercato, predisponendo alcune misure di garanzia. In questo senso, ad esempio, va intesa la previsione del tetto del 7,5 per cento al diritto di voto dei soci, a prescindere dalla misura della partecipazione detenuta, nonché l'adozione del voto di lista proporzionale per la nomina del consiglio di amministrazione.
Ulteriori garanzie sono rappresentate dalla previsione di cause di incompatibilità fra la carica di amministratore delegato e quella di direttore della società.
Infine, allo scopo di assicurare la maggiore aderenza possibile fra le scelte della società di gestione e le esigenze di buon funzionamento del mercato, è stato costituito nel 1998 un comitato consultivo, il quale, tra le altre cose, ha definito un codice di comportamento per disciplinare le situazioni di conflitto di interesse e sanzionare eventuali comportamenti contrari alla trasparenza del mercato, alla tutela degli investitori e al normale svolgimento delle negoziazioni.
Per quanto attiene alla ipotesi di autoquotazione della società di gestione, la Commissione ritiene che una attenta valutazione di tutti i profili e gli effetti connessi, allo stato attuale non rendano utile né opportuna la quotazione della medesima società di gestione.
Occorre, al riguardo, tenere conto del rischio che si ingenerino situazioni di conflitto di interessi, stante il fatto che, come detto in precedenza, i soggetti che partecipano al capitale di Borsa italiana
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S.p.A. sono a loro volta quotati nei mercati regolamentati e sono, in ampia parte, imprese appartenenti al settore bancario.
La quotazione, alla luce di tali considerazioni, sembra, inoltre non rendere remota l'eventualità che si determini un assetto proprietario di Borsa italiana ancora più concentrato rispetto a quello attuale.
Tenuto anche conto di alcune recenti esperienze di altre società di gestione, non può altresì escludersi il pericolo di una acquisizione di Borsa italiana da parte di soggetti stranieri.
In ogni caso, va osservato che ove si intendesse procedere ad una eventuale autoquotazione sarebbe necessario un contestuale adeguamento della normativa inteso al rafforzamento dei poteri di vigilanza della CONSOB sull'attività della società di gestione.
10.1. I processi di integrazione delle borse europee.
Nel corso dell'indagine sono stati affrontati alcuni aspetti comuni ai processi di integrazione tra le borse europee.
In particolare, si è inteso verificare, per un verso, lo stato di attuazione dei progetti di fusione o coordinamento tra borse intervenuti negli ultimi anni e, per l'altro, acquisire elementi di valutazione in merito alla prospettiva di una partecipazione della borsa italiana ai processi in questione.
Il tema dell'integrazione dei mercati borsistici europei ha acquisito, in effetti, un particolare rilievo, anche nell'analisi economica a seguito dell'introduzione dell'euro. Attualmente, infatti, a fronte dell'adozione di un'unica moneta e del conseguente affidamento alla BCE delle competenze, in materia di politica monetaria, precedentemente spettanti alle banche centrali nazionali, i mercati finanziari europei rimangono frammentati, pur in presenza di potenti fattori di integrazione. La persistenza di diversi mercati, se per un verso può aver concorso, attraverso l'accentuazione della pressione competitiva, ad elevare i livelli di efficienza, specie dei mercati, come quello italiano, che registravano marcati ritardi rispetto a quelli più avanzati, per altro verso può costituire un fattore di debolezza, come ricordato in precedenza, nel confronto con i mercati extraeuropei.
Non stupisce, quindi, che da più parti sia stato sollecitato l'avvio di iniziative volte a creare un mercato borsistico unico europeo, o quantomeno, ad introdurre più stringenti forme di collegamento o coordinamento tra i diversi mercati. L'integrazione delle borse, determinando l'omogeneizzazione degli standard normativi assicurerebbe, evidentemente, il vantaggio di una consistente riduzione dei costi amministrativi relativi all'esistenza di sistemi diversi nei singoli paesi UE, nonché a garantire maggiore trasparenza ed efficienza.
D'altre parte, non si possono sottovalutare gli ostacoli, sia di carattere politico che di natura tecnica e giuridica, che si frappongono al conseguimento dell'obiettivo di una integrazione delle borse europee. A questo riguardo, si pone, in primo luogo, il problema derivante dalla difficoltà di armonizzare i regolamenti, le normative oltre ai sistemi nazionali di supervisione. In secondo luogo, sussistono taluni ostacoli anche di carattere tecnico, quali in primo luogo la difficoltà di sviluppare una piattaforma centralizzata di negoziazione, l'interconnessione
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dei sistemi di contrattazione esistenti, l'integrazione dei sistemi di compensazione e liquidazione.
I progressi in materia di integrazione delle strutture borsistiche sin qui registrati a livello europeo sono attribuibili essenzialmente alle iniziative poste in essere da alcune società di gestione. Dal 1998 ad oggi sono state intraprese diverse iniziative, anche se soltanto alcune con esiti positivi.
Un primo tentativo degno di rilievo venne posto in essere nel luglio del 1998, quando Deutsche Börse (DB) e London Stock Exchange (LSE) formarono un'alleanza, estesa l'anno seguente ad altri sei partner europei, con lo scopo principale di creare un mercato europeo delle blue chips (cioè le azioni di società quotate ed appartenenti al segmento di mercato a più elevata capitalizzazione).
Successivamente, nell'aprile 2000 è stata annunciata la creazione di Euronext, unico circuito a tutt'oggi operante, mentre nel maggio 2000 DB e LSE hanno dati vita al progetto denominato iX. Tale ultimo progetto prevedeva la creazione di due imprese sussidiarie per realizzare un mercato delle blue chips a Londra e un mercato high-growth (cioè un mercato ad alta crescita, come ad esempio il NASDAQ) a Francoforte, cioè nell'area euro. Il progetto, come è noto, è stato successivamente abbandonato, a causa delle differenze regolamentari esistenti tra i due paesi e per la possibilità di scalata da parte di altre borse.
Per quanto riguarda Euronext, sola iniziativa, insieme a Virt-x, che ha avuto effetto, esso si sostanzia in una piattaforma comune formata dalle società di gestione di tre mercati borsistici: Parigi (società capogruppo quotata), Bruxelles e Amsterdam. Di seguito tale circuito è stato allargato alla Borsa di Lisbona e al London derivatives exchange (LIFFE). Si ricorda, al riguardo che tale circuito non è configurabile come una fusione di borse vera e propria, come il richiamato progetto iX.
Infine, nel giugno 2000 dalla fusione del segmento blue chips dello SWX (Swiss Exchange) con la piattaforma elettronica inglese Tradepoint (gruppo formato da un consorzio di banche di investimento globali inglesi e la Reuters) è nato il circuito Virt-x, che dovrebbe consentire il completamento del servizio di trading già offerto da Tradepoint sui principali titoli europei con la negoziazione di blue chips svizzere.
In particolare, SWX si è impegnata a trasferire su Virt-x gli scambi sulle proprie blue chips che comprendono alcuni dei titoli più trattati dagli investitori internazionali (quali la Nestlé, le grandi società farmaceutiche e le grandi banche). I membri della Borsa svizzera diventeranno anche membri del nuovo mercato, che userà la piattaforma di SWX, considerata una delle più avanzate del mondo.
La CONSOB ha evidenziato che, allo stato attuale, non risultano allo studio ulteriori iniziative di consolidamento dei mercati borsistici, sebbene molte società di gestione di mercati regolamentati compiano operazioni, in particolare mediante l'acquisto delle società di servizi per i mercati, che sembrerebbero strumentali rispetto all'avanzamento del processo di integrazione a livello europeo.
In linea generale, si può rilevare che una eventuale adesione italiana ad iniziative volte al consolidamento dei mercati borsistici
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europei dovrebbe essere valutata positivamente, qualora se ne dimostrasse l'utilità sotto il profilo della integrazione dei servizi offerti dai vari soggetti operanti nei mercati finanziari, (la raccolta e la trasmissione degli ordini della clientela, la regolamentazione degli scambi e la liquidazione e la compensazione delle transazione effettuate con la gestione accentrata dei titoli). A questo proposito, occorre considerare che nell'esperienza particolarmente evoluta del mercato statunitense si è registrato un abbattimento rilevantissimo dei costi grazie all'adozione di assetti più avanzati.
Nel corso degli ultimi anni le borse nazionali, ivi compresa quella di Milano, hanno raggiunto livelli più che soddisfacenti di efficienza e trasparenza nei sistemi di contrattazione, tali da consentire agli intermediari di operare contestualmente su diverse piazze. Allo stesso tempo, progressi assai limitati sono stati conseguiti nelle attività di clearing e settlement, per i quali continuano a persistere sistemi differenti, in genere operanti su base nazionale. Le prospettive di consolidamento dei mercati europei, mediante la creazione di sistemi borsistici di dimensioni sovranazionali, può costituire l'occasione migliore per affrontare i problemi da ultimo richiamati in termini innovativi.
Gli elementi acquisiti nel corso dell'indagine non permettono di esprimere conclusioni definitive in termini netti sui vari progetti di consolidamento dei mercati borsistici europei che si sono via via succeduti.
In linea generale, si può rilevare che nelle valutazioni di tutti i soggetti intervenuti il processo di progressiva globalizzazione dei mercati finanziari costituisce un dato irreversibile, e che il nostro paese non può collocarsi ai margini di tale processo, ma deve anzi partecipare attivamente alla sua realizzazione in termini che si propongano prioritariamente l'obiettivo di assicurare le più ampie garanzie ai risparmiatori, non rinunciando agli standard assicurati dalla normativa vigente nel nostro paese, e allo stesso tempo promuovendo la crescita qualitativa dei servizi offerti e la riduzione dei costi di intermediazione. D'altra parte, anche in sede di WTO si sono compiuti, in particolare con l'accordo del dicembre del 1997, i primi significativi passi in direzione di un riconoscimento generalizzato della libera circolazione dei servizi finanziari che, aggiungendosi alla libertà di investimento della clientela, realizzata per mezzo della liberalizzazione dei capitali, offrirà l'ulteriore vantaggio della libertà di insediamento delle istituzioni finanziarie, producendo un allargamento sul lato dell'offerta. Si può quindi ritenere che, come peraltro è avvenuto in altri importanti settori economici nei quali si è realizzata una liberalizzazione che a livello europeo si è tradotta nella realizzazione di un mercato unico, il superamento delle frontiere nazionali dei mercati finanziari e di quelli borsistici in particolare offrirà ai risparmiatori più ampie occasioni di investimento e determinerà una accentuazione della concorrenza tra gli intermediari. Ciò potrebbe, presumibilmente, tradursi per questi ultimi in una contrazione dei ricavi per le commissioni di intermediazione, riducendone complessivamente la redditività, in conseguenza del combinato disposto di un duplice ordine di fattori:
a) l'allineamento dei costi di intermediazione rispetto ai concorrenti più efficienti;
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b) il probabile spostamento di quote consistenti di risorse trattate a favore di broker stranieri, che abbiano maggiore consuetudine con i mercati europei.
Allo stesso tempo, occorre tuttavia rilevare che la tendenza alla contrazione dei costi di intermediazione costituisce un dato positivo per i risparmiatori che da un ampliamento della concorrenza potrebbero trarre l'indubbio vantaggio di vedersi addebitati minori oneri per commissioni e di avvalersi di più ampie possibilità di scelta nel mercato dell'intermediazione. Il ridimensionamento dei margini propri delle attività di transazione è, tra le altre cose, determinato anche dal crescente utilizzo delle tecnologie informatiche negli scambi, non soltanto di carattere finanziario. Tali tecnologie offrono, inoltre, il vantaggio di ridimensionare notevolmente le asimmetrie informative.
Allo stesso tempo, non si può fare a meno di segnalare che sarebbe stato auspicabile che all'apertura integrale dei mercati finanziari e alla creazione di forti «poli di attrazione» nei mercati borsistici europei il nostro Paese fosse arrivato in condizioni migliori, con una industria finanziaria più solida e competitiva.
Infatti, nonostante i notevolissimi progressi registrati negli ultimi anni, anche in ragione del sostegno assicurato dalla normativa più recente, a partire dal TUF, il settore registra ancora alcuni ritardi e presenta aree di insufficiente evoluzione. In particolare, soltanto in qualche caso gli intermediari italiani hanno assunto dimensioni paragonabili alle maggiori aziende europee, che possono avvalersi di consistenti economie di scala e che in qualche caso riescono a garantire rendimenti più elevati anche per la maggiore entità delle risorse da allocare. Occorre quindi che proseguano le iniziative già avviate al fine di completare il processo di rafforzamento dell'intermediazione, oltre che di formazione del personale promuovendone l'utilizzo per la prestazione di servizi più qualificati e a più elevato valore aggiunto (asset management, trading, merchant banking, corporate banking) rispetto a quelli tradizionali. In questo senso, sono auspicabili tutte le iniziative volte alla creazione di intermediari che alla crescita dimensionale sappiano associare politiche fortemente innovative e l'adozione di modelli operativi ispirati all'obiettivo di coniugare flessibilità organizzativa e capacità di direzione unitaria. Allo stesso scopo, appare utile ribadire quanto già rilevato in altra parte del presente documento circa la necessità che si costituiscano anche nel nostro paese fondi pensione in grado di svolgere un ruolo attivo nel settore dell'intermediazione, per la particolare propensione che essi potrebbero manifestare nell'impiego del risparmio verso forme di investimento a medio e lungo termine. In questo modo, si introdurrebbero utili elementi di stabilizzazione complessiva del sistema finanziario.
Non si può, inoltre, trascurare il timore per cui la concentrazione tra i mercati borsistici, se per un verso può favorire gli emittenti di maggiore entità e che abbiano già dimestichezza con i mercati finanziari, per l'altro possa costituire un disincentivo per le piccole e medie imprese le quali si vedrebbero private di elementi di supporto e di sostegno che potrebbero essere offerte, in un mercato di dimensioni più limitate, da intermediari con i quali abbiano rapporti
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consolidati. D'altra parte, non può escludersi che l'eventuale adesione italiana ad un progetto di integrazione di diversi mercati si accompagni alla prosecuzione dell'attività borsistica di Milano, che potrebbe costituire il mercato di riferimento per una vasta platea di piccole e medie imprese che non si sentano pronte ad accettare la sfida di mercati di maggiori dimensioni. Contemporaneamente, anche per le imprese di maggiori dimensioni e i cui titoli siano già quotati potrebbe risultare conveniente mantenere la quotazione anche nella borsa nazionale. Conseguentemente, anche il cosiddetto delisting potrebbe assumere dimensioni più ridotte di quanto paventato da alcuni.
In sostanza, è auspicabile che qualunque iniziativa cui il mercato borsistico italiano dovesse partecipare sia ispirata a criteri di effettiva pariteticità tra i vari soggetti coinvolti, al fine di evitare l'impoverimento delle esperienze e delle professionalità acquisite nel nostro paese negli ultimi anni.
10.2. Il carattere bancocentrico del sistema finanziario italiano.
Nel corso dell'indagine è emerso, infine, come il mercato finanziario italiano si caratterizzi per la concentrazione nei gruppi bancari della proprietà degli intermediari finanziari.
Di particolare rilievo, in base ai dati contenuti nella relazione annuale della CONSOB per il 2001, appare il fatto che il peso del patrimonio delle società di gestione di fondi comuni di matrice bancaria sia pari ad oltre il 90 per cento del totale.
La Commissione, pur riconoscendo che la forte presenza delle banche non caratterizza soltanto il nostro sistema, rileva che la concentrazione negli stessi soggetti delle attività connesse all'impiego e alla gestione del risparmio può determinare l'insorgere di situazioni di conflitto tra interessi diversi.
11. Considerazioni conclusive.
Con l'indagine conoscitiva sulla attuazione del Testo unico della finanza, la Commissione Finanze ha inteso, a quattro anni dall'adozione del Decreto legislativo n. 58 del 1998, procedere alla analisi e alla valutazione dell'assetto della normativa italiana alla luce dei numerosi e importanti mutamenti intervenuti nella struttura dei mercati finanziari e del processo di integrazione europea.
In particolare, si è proceduto ad esaminare gli effetti che il Testo unico ha prodotto sul funzionamento del mercato finanziario italiano e ad accertare, conseguentemente, la necessità di interventi correttivi e integrativi, anche alla luce dell'esperienza di altri ordinamenti e degli elementi di criticità posti in evidenza da alcune recenti vicende statunitensi, quali lo scandalo Enron.
In termini generali, l'indagine conoscitiva ha consentito di pervenire ad una valutazione complessivamente positiva dell'impianto di base e dell'esperienza applicativa del TUF, confermando, in linea generale, sia la validità degli obiettivi e della impostazione che hanno ispirato il legislatore sia l'efficacia degli istituti cui si è fatto ricorso per tradurre sul piano normativo le finalità perseguite.
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Il Testo unico, nella valutazione sostanzialmente condivisa da tutti i soggetti auditi, ha rappresentato un elemento di forte progresso rispetto alla legislazione previgente, assicurando l'adeguamento della normativa nazionale alle esigenze poste dalla evoluzione dei mercati ed eliminando, in tal modo, il divario rispetto alle esperienze di altri Paesi europei. Il Testo unico ha inoltre garantito una maggiore sistematicità all'ordinamento, accorpando, secondo un indirizzo coerente, disposizioni precedentemente contenute in diversi provvedimenti.
Occorre peraltro ricordare che, nella fase di elaborazione del documento conclusivo dell'indagine sono intervenuti alcuni fatti di particolare rilevanza, che gettano una nuova luce sulle problematiche oggetto dell'indagine medesima.
Da un lato, sul piano normativo si è avviato, con l'emanazione dei decreti legislativi n. 5 e n. 6 del 2003 e del decreto legislativo n. 37 del 2004, il processo di riforma del diritto societario ed il relativo coordinamento con il Testo unico bancario e con il Testo unico della finanza, in attuazione della delega conferita al Governo dalla legge n. 366 del 2001.
Dall'altro lato, sono emersi, tanto in Italia quanto in altri paesi avanzati, preoccupanti scandali finanziari che hanno coinvolto primari gruppi industriali, i quali, per le loro dimensioni e per l'impatto sui sistemi economici e finanziari, hanno imposto una attenta riflessione sull'adeguatezza delle regole di diritto societario, nonché sul funzionamento e sull'assetto della vigilanza sui mercati finanziari.
Alla luce di tali fenomeni il Parlamento ha inteso dare tempestiva risposta all'esigenza di riforma espresso dall'opinione pubblica e dagli stessi mercati, a tutela dei risparmiatori e della complessiva funzionalità del sistema finanziario, svolgendo in tempi brevi un'indagine conoscitiva particolarmente approfondita sui rapporti tra il sistema delle imprese, i mercati finanziari e la tutela dei risparmiatori, svolta congiuntamente dalle Commissioni Finanze ed Attività produttive della Camera dei deputati e dalle Commissioni Finanze e tesoro ed Industria del Senato della Repubblica.
All'indomani della conclusione di tale indagine le Commissioni Finanze ed Attività produttive della Camera hanno altresì avviato l'esame in sede referente di numerosi progetti di legge, presentati dal Governo e da tutti i gruppi parlamentari, relativi alla tutela del risparmio, i quali intendono appunto apportare quei correttivi di carattere legislativo che appaiono necessari per evitare il riprodursi di tali crisi finanziarie.
In questa generale prospettiva la documentazione raccolta nel corso dell'indagine, e la pubblicazione del presente documento conclusivo appaiono utili, oltre che come testimonianza del notevole lavoro svolto dalla Commissione su questi temi, anche come contributo alle decisioni sui possibili correttivi della disciplina sui mercati finanziari attualmente in corso di elaborazione.