Onorevoli Colleghi! - La Giunta riferisce su due richieste di deliberazione in materia d'insindacabilità concernenti rispettivamente il senatore Marcello Dell'Utri, deputato nella XIII legislatura, e il deputato Vittorio SGARBI, con riferimento a un procedimento penale (il n. 831/99 RGNR) pendente nei loro confronti presso il tribunale di Caltanissetta, originato da una querela dei dottori Gian Carlo Caselli, all'epoca procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo, Guido Lo Forte, procuratore aggiunto, Domenico Gozzo, Antonio Ingroia, Mauro Terranova, Lia Sava e Umberto De Giglio, sostituti della procura presso il medesimo tribunale.
Il senatore Dell'Utri e il deputato Sgarbi sono stati querelati per affermazioni rese nel corso della trasmissione televisiva «Moby Dick» andata in onda l'11 marzo 1999.
In particolare, per come risulta dal capo d'imputazione che figura nel decreto del giudice delle indagini preliminari dell'11 maggio 2002, al senatore Dell'Utri sono attribuite le seguenti affermazioni:
a) «Non ho detto che sono neutrale, io sono della mia Antimafia, ma non quell'Antimafia che si comporta in una maniera che si può assimilare a quell'altra»;
b) «Il signor Mangano ...è stato avvicinato spesso da funzionari della cosiddetta Antimafia che gli hanno ingiunto o quanto meno gli hanno consigliato di fare dei nomi ... per esempio il mio...»;
c) (...);
d) «Questa è una prova falsa costruita dai P.M. di Palermo, falsa come loro, purtroppo lo devo gridare, perché non so a chi dirlo, come si fa ad addossare a una persona una storia così incredibile, una storia che mi vedrebbe protagonista addirittura di un traffico di stupefacenti, di una dazione di denaro di un miliardo e due, ma non esiste al mondo, lei capisce benissimo che anche questa trasmissione con la voce suadente di questi pentiti, faccia sentire la loro voce dalla quale si vedrà certamente che mentono miseramente»;
g) e, infine, che il pentito Giacomo Cirfeta era stato arrestato perché aveva fatto «rivelazioni» favorevoli a Dell'Utri«.
e) All'onorevole Sgarbi risultano invece attribuite le seguenti affermazioni: «[sono] i giudici che hanno che hanno provocato il sangue di Lombardini»;
f) «C'è un passaggio dialettico, ecco questo per evitare ogni polemica a queste considerazioni, come a quelle di La Russa o a quelle di Vendola, va contrapposto che il peso mafioso ormai oggettivo del nostro amico Dell'Utri va è certamente inferiore a quello di Andreotti, perché non hanno chiesto l'arresto di Andreotti? Il losco mafioso Andreotti, perché Caselli non ha avuto buon gusto... no me lo devi spiegare, siccome questo è un assassino, un criminale... Andreotti è solo il capo della Mafia, non ha mai avuto il cuore di chiedere l'arresto... Andreotti è protetto da qualcuno, Dell'Utri no».
La Giunta ha dapprima iniziato l'esame della posizione del senatore Dell'Utri nella seduta dell'11 giugno 2003. In tal sede è stato ritenuto necessario acquisire ulteriore materiale documentale in ordine alla questione sottoposta. Nella seduta del 19 giugno 2003, per un verso, si è preso atto della trasmissione per conto del senatore Dell'Utri di un decreto di archiviazione parziale e d'imputazione coatta parziale, emanato in data 11 maggio 2002 dal GIP di Caltanissetta, dottor Francesco Antoni; per altro verso, si è constatato che anche l'onorevole Sgarbi aveva avanzato domanda d'insindacabilità in ordine a frasi pronunciate nella stessa trasmissione televisiva e oggetto dello stesso procedimento penale. Sicché la Giunta nelle sedute del 25 giugno e 2 e 9 luglio 2003 ha esaminato congiuntamente le due richieste.
Nel corso dell'esame - durante il quale nessuno dei due interessati ha ritenuto d'intervenire - è emerso che la trasmissione televisiva in questione andò in onda il giorno dopo che alla Camera dei deputati fu avanzata da parte del pool di Palermo una richiesta di autorizzazione a eseguire la misura cautelare in carcere a carico dell'allora deputato Marcello Dell'Utri (doc. IV, n. 17 - XIII legislatura). I capi d'imputazione che si contestavano all'onorevole Dell'Utri erano l'estorsione e la calunnia. La vicenda ebbe un'enorme impatto nell'opinione pubblica e nel mondo politico-parlamentare. È noto poi come la richiesta dell'autorità giudiziaria non fu accolta, giacché la Camera la respinse il 13 aprile 1999.
Occorre innanzitutto premettere che il pubblico ministero del processo di cui qui ci si occupa aveva chiesto l'archiviazione totale per entrambi gli indagati, ritenendo sussistente la causa di giustificazione dell'esercizio delle funzioni parlamentari, proprio ai sensi dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione. Il GIP tuttavia non è stato del tutto d'accordo con questa soluzione. Vale allora la pena di riportare testualmente alcuni tratti della sua decisione anche per capire come si sia successivamente mossa la Giunta.
Osserva, dunque, il GIP di Caltanissetta: «Alla luce di quanto espresso dal pubblico ministero nella richiesta di archiviazione e di quanto dedotto dalle parti nell'udienza camerale è di tutta evidenza che la decisione da assumere in questa sede necessariamente dipende dalla questione se sia o meno applicabile alla condotta degli indagati l'immunità riconosciuta ai membri del Parlamento dall'articolo 68 della Costituzione.
Dispone i1 primo comma dell'articolo 68 - dopo la novella introdotta dalla L. Cost. 29.10.1993, n. 3 - che «i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni».
È ormai pressoché unanime fra gli interpreti la convinzione che tale norma istituisca per i parlamentari una garanzia di natura sostanziale, e perciò destinata a produrre i suoi effetti anche dopo la cessazione del mandato parlamentare, impedendo che il parlamentare venga chiamato a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati quando sedeva in Parlamento; diversamente, sono comunemente ritenute di natura processuale le immunità stabilite dal secondo e dal terzo comma dell'articolo 68 Cost., concernenti la necessità di autorizzazione della camera di appartenenza per sottoporre il parlamentare a perquisizione, privazione della libertà personale, intercettazione di conversazioni e sequestro di corrispondenza. [...] L'immunità espressamente concerne le opinioni espresse e i voti dati dai parlamentari nell'esercizio delle proprie funzioni: è dunque comune opinione degli interpreti che ne siano esclusi i comportamenti materiali (percosse o lesioni personali inferte agli avversari politici, danneggiamento delle suppellettili della Camera).
Le difficoltà aumentano però quando l'interprete tenta di meglio definire quali condotte concretamente godano dell'immunità e quali ne siano estranee.
È comunemente rigettata l'utilizzabilità di un criterio meramente spaziale. Al riguardo soccorre innanzitutto il dato testuale, perché la norma costituzionale in esame è significativamente, diversa dall'articolo 51 dello Statuto Albertino che prevedeva l'irresponsabilità del membro del Parlamento per voti e opinioni espressi «nelle Camere»: dunque, evitando ogni riferimento al criterio spaziale, già i costituenti avevano inteso conferire all'immunità un significato assai più ampio. Al riguardo però è decisivo constatare quale sia l'effettivo esplicarsi della funzione parlamentare nei moderni paesi democratici, nei quali essa non può ritenersi confinata alla sede fisica del Parlamento (e perciò garantita solo al suo interno), perché non può prescindere da un continuo raccordo fra eletti ed elettori, che può consistere sia nell'informazione (con gli strumenti ritenuti più opportuni) circa l'attività parlamentare in corso, sia nella consultazione dell'elettorato da parte degli eletti.
Allora, la definizione dell'area dell'immunità parlamentare non può prescindere dalla fissazione dei contorni della funzione parlamentare, cui essa accede per volontà del legislatore costituzionale.
Per questo, si è anzitutto fatto riferimento agli atti tipici della funzione parlamentare: presentazione di proposte di legge, di emendamenti, mozioni, interventi in aula, etc. Fare riferimento a siffatto criterio presenta l'indubbio vantaggio di segnare un limite obiettivo - e per questo facilmente riconoscibile - al raggio applicativo della garanzia in esame; esso però deve scontare l'insuperabile obiezione che la funzione parlamentare non può esaurirsi in un catalogo ristretto di atti tipici e questo, in linea generale, per rendere effettivo il (già considerato) collegamento istituzionale fra membri del Parlamento ed elettori.
Tale conclusione però non sfugge alla constatazione che assai incerti in concreto rimangono i limiti dell'immunità parlamentare, proprio per la difficoltà di delineare gli esatti contorni della funzione cui essa accede. La necessità che l'area dell'immunità sia in qualche misura circoscritta e non copra tutta l'attività politica del membro dei Parlamento è stata varie volte affermata dalla Corte costituzionale, la quale ha sottolineato che altrimenti la garanzia stabilita dall'articolo 68 Cost. si tradurrebbe in un vero e proprio privilegio, intollerabile in un moderno stato di diritto (C. cost., sent. n. 375 del 1997, ribadita dalla sent. n. 289 del 1998). Già é stata sottolineata la mancanza di una disciplina di attuazione della normativa costituzionale concernente l'immunità parlamentare.
Va però ricordato che la Corte costituzionale con la sentenza n. 1150 del 1988 ha affermato che spetta alla camera di appartenenza di stabilire se la condotta ascritta al suo membro rientri o meno nell'esercizio delle funzioni parlamentari.
In seguito, all'indomani della riforma che ha modificato l'articolo 68 della Costituzione, è stato emanato un decreto-legge intitolato: «Disposizioni urgenti per l'attuazione dell'articolo 68 della Costituzione» (d.l. 1,5.11.1993, n. 455), che ha aperto una successione a catena di decreti-legge, poi conclusa con la decadenza per mancata conversione in legge dell'ultimo provvedimento. La normativa così introdotta prevedeva che il giudice in ogni stato e grado dei procedimento - ritenendo che il comportamento del parlamentare rientrasse nell'esercizio della funzione - applicasse direttamente l'articolo 68 Cost.; altrimenti il giudice avrebbe dovuto emanare un'ordinanza non impugnabile con la quale, sospeso il processo, avrebbe dovuto trasmettere gli atti alla camera competente perché valutasse (entro il termine di novanta giorni) se la condotta del parlamentare rientrasse o meno nell'esercizio delle sue funzioni. Di fronte ad una delibera della Camera in senso affermativo, il giudice poi avrebbe dovuto conformarvi la propria decisione, salva la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale e sollevare conflitto di attribuzione.
Allo stato, come già specificato, il giudice può fare diretta applicazione dell'articolo 68 Cost., ove ritenga che il comportamento del parlamentare rientri nell'esercizio delle proprie funzioni e sia, perciò, scriminato; però, ove ritenga diversamente, non essendo più contemplato dall'ordinamento costituzionale il previgente istituto dell'autorizzazione a procedere, l'autorità giudiziaria ben può procedere nel confronti del membro del Parlamento, fatte salve le garanzie processuali previste dall'articolo 68, c. 2 e c. 3 Cost.
Con ciò, resta salvo il diritto dell'interessato di provocare una delibera della Camera di appartenenza circa l'operatività in suo favore della causa di giustificazione prevista dall'articolo 68, c. 1 Cost.; qualora l'applicabilità della scriminante venga riconosciuta, il giudice dovrà trarne le debite conseguenze sul piano processuale, sempreché non ritenga lese le prerogative dell'autorità giudiziaria e non sollevi conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale (così Cass., sez. V, 17.4.2000, Sgarbi; cfr. anche la sent. n. 462 del 1993 della Corte cost.). È stato invece escluso che possa essere l'autorità giudiziaria a chiedere un preventivo pronunciamento della Camera (Cass., sez. V, 12.2.1999, Della Valle).
Perciò, accanto alla giurisprudenza della corte di cassazione si è formata una ricca giurisprudenza della Corte costituzionale, adita per dirimere conflitti di attribuzione fra i poteri dello stato (autorità giudiziaria e rami del Parlamento).
Il punto di arrivo della giurisprudenza della corte di cassazione circa l'ampiezza dell'immunità parlamentare può bene essere individuato nella pronuncia citata dai difensori (Cass., sez. V, 8.7.1999, Sgarbi), nella quale si propugna la validità del c.d. criterio sostanziale per dare corpo al nesso funzionale (che ricollega alla funzione parlamentare l'espressione del pensiero, ritenuta diffamatoria dal destinatario, magistrato della Repubblica), il quale concerne «... attività che, libera da fini personali, sia, per le motivazioni e per le questioni trattate nell'interesse superiore della res publica essenzialmente connessa ovvero univocamente ricollegabile, pur in via strumentale, alla funzione parlamentare... ».
Più di recente, altro arresto della S.C. ha affermato che in linea di principio la scriminante in esame opera quando le opinioni espresse - dal parlamentare «... siano strettamente connesse con la funzione pubblica esercitata...», specificando poi che le espressioni proferite nel corso di un comizio debbono ritenersi coperte dalla garanzia costituzionale, giacché il comizio è necessario per illustrare agli elettori e ricercarne il sostegno per le iniziative assunte - in Parlamento (Cass., sez. V,17.4.2000, Sgarbi).
Invece, la Corte costituzionale si è proposta di definire in modo più preciso i contorni della garanzia in esame. La distanza che corre dalla giurisprudenza della corte di cassazione si misura tutta nel principio - affermato oramai in svariate pronunce successive alla sent. 375 del 1997 - per il quale non tutta l'attività politica del parlamentare è assistita dalla garanzia dell'insindacabilità, perché altrimenti essa si tradurrebbe in un vero e proprio privilegio personale.
Secondo la Corte costituzionale il nesso funzionale fra espressione del pensiero ed attività svolta nella qualità di membro del Parlamento pacificamente ricorre per le opinioni manifestate nel corso dei lavori delle assemblee e dei suoi organi («... in occasione dello svolgimento di una qualsiasi fra le funzioni svolte dalla Camera... ovvero manifestate in atti, anche individuali, costituenti estrinsecazione delle facoltà proprie del parlamentare in quanto membro dell'Assemblea ...»: così la sent. n. 10 del 2000).
Viceversa, secondo la Corte, l'attività politica. svolta dal parlamentare al di fuori di tale ambito non può dirsi di per sé esplicazione della funzione parlamentare nel significato cui si riferisce l'articolo 68 della Costituzione, bensì semplice manifestazione della libertà di espressione comune a tutti i consociati. A tale proposito, «... la linea di confine fra la tutela dell'autonomia e della libertà delle Camere e... della libertà di espressione dei loro membri, da un lato, e la tutela dei diritti e degli interessi, costituzionalmente protetti, suscettibili di essere lesi dall'espressione di opinione dall'altro lato, è fissata dalla Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell'ambito della prerogativa... Né si può accettare, senza vanificare tale delimitazione, una definizione della 'funzione' del parlamentare così generica da ricomprendervi l'attività politica che egli svolga in qualsiasi sede e nella quale la sua qualità di membro delle Camere sia irrilevante...» (sent. n. 10 del 2000; nello stesso senso, la sent. n. 11 del 2000).
La conclusione, peraltro, costituisce applicazione di un principio generale già affermato dalla Corte, per il quale «... nell'ordinamento democratico stabilito dalla Costituzione i poteri dello Stato sono organizzati secondo un modello di pluralismo istituzionale, nel quale il principio della reciproca separazione è corretto con quello del reciproco 'controllo e bilanciamento'. Di modo che, anche nelle ipotesi in cui le norme costituzionali non fissano esplicitamente vincoli o limiti particolari, l'esercizio di un potere basato sulla Costituzione deve avvenire in conformità alla ratio inerente al relativo istituto ed entro i limiti derivanti dalla convivenza con gli altri poteri dello Stato...» (sent. n. 462 del 1993 cit.).
In definitiva, l'espressione del pensiero per essere scriminata deve potersi identificare quale espressione di attività parlamentare: non basta però un semplice «collegamento di argomento o di contesto», occorrendo invece «corrispondenza sostanziale di contenuti con l'atto parlamentare» (così ancora le sent. n.10 e n.11 del 2000). [...].
In via del tutto preliminare va osservato che il 7.2.2002 è pervenuta una nota del Presidente della Camera dei deputati, con la quale comunica che l'On. Marcello DELL'UTRI con lettera del 1.2.2002 aveva informato il Presidente della Camera della pendenza del presente procedimento e che di conseguenza egli aveva trasmesso i relativi atti alla competente Giunta per le autorizzazioni, per le determinazioni ritenute necessarie.
Non è pervenuta alcuna ulteriore comunicazione a questo ufficio, riguardo al prosieguo dell'iter o ad eventuali delibere assunte in sede parlamentare concernenti l'oggetto del presente procedimento.
La trasmissione televisiva in cui gli indagati hanno proferito le espressioni ritenute diffamatorie era pressoché interamente incentrata sull'argomento della richiesta di autorizzazione all'arresto dell'On. DELL'UTRI che la procura di Palermo aveva indirizzato alla Camera dei deputati.
Precisamente: l'ordinanza cautelare a carico dell'On. DELL'UTRI è stata emessa dal G.I.P. del tribunale di Palermo il 5.3.1999; l'8.3.1999 la richiesta di autorizzazione all'arresto è stata trasmessa al Presidente della Camera dei deputati tramite la procura generale presso la corte d'appello di Palermo; la trasmissione televisiva di cui si discute in questa sede è andata in onda l'11.3.1999; il 9.4.1999 la Giunta delle autorizzazioni a procedere ha negato la chiesta autorizzazione é in conformità si è pronunciata l'Assemblea parlamentare nella seduta del 13.4.1999.
Dunque, si può senz'altro affermare che la trasmissione televisiva de qua, è andata in onda in stretta prossimità temporale alle discussioni e alle delibere di competenza degli organi parlamentari; d'altro canto, non può revocarsi in dubbio che la stessa fosse necessaria per informare l'opinione pubblica delle finalità e del contenuto della richiesta della procura di Palermo e della linea di condotta che le forze politiche e i singoli parlamentari entro breve tempo avrebbero assunto nelle sedi istituzionali. La trasmissione televisiva pertanto si inscrive nell'ambito sopra delineato, di momento di collegamento fra parlamentari ed elettori, per l'informazione dovuta a questi ultimi sulle modalità con le quali gli eletti avrebbero esercitato di lì a poco il mandato ricevuto.
Ciò posto, per la decisione da assumere in questa sede è necessario prima delineare i contorni dell'attività dell'organo parlamentare prevista per l'autorizzazione all'arresto e poi valutare se le espressioni proferite nel corso della trasmissione vi siano effettivamente connesse, alla stregua dei criteri direttivi sopra delineati.
L'articolo 68 della Costituzione non esplicita quale criterio l'organo parlamentare debba seguire per concedere o negare l'autorizzazione all'arresto di un suo membro. È noto peraltro che, fra i vari criteri suggeriti dalla dottrina giuridica ed applicati nella prassi, è infine prevalso quello incentrato sul c.d. fumus persecutionis, volto a escludere l'autorizzazione quando vi sia il sospetto che la richiesta in esame sia espressione di una volontà persecutoria nei confronti del parlamentare.
A tale profilo - che segna in astratto i connotati dell'attività parlamentare di cui si tratta - occorre dunque fare riferimento nel caso in esame: il che porta a ritenere ricollegate alla funzione parlamentare le manifestazioni di pensiero volte a sostenere una volontà persecutoria ai danni dell'On. DELL'UTRI da parte della procura di Palermo.
Ciò posto, venendo alle singole espressioni che i querelanti ritengono lesive del loro onore, in applicazione dei principi appena sopra esposti, ritiene questo giudice che l'espressione proferita dall'On. Vittorio SGARBI e sopra indicata sub f) pacificamente rientri nell'esercizio della funzione parlamentare. Invero, lo SGARBI ha lamentato una disparità di condotta processuale della Procura, che aveva chiesto una misura cautelare a carico del DELL'UTRI, mentre altrettanto non aveva fatto, nel procedimento concernente il Sen. ANDREOTTI nonostante che questi fosse accusato di fatti più gravi: non può revocarsi in dubbio che siffatto argomento - al di là della sua effettiva fondatezza fattuale e giuridica - rientra a pieno titolo nella dialettica strettamente funzionale alle valutazioni che l'organo parlamentare sarebbe stato chiamato a compiere nella sede propria, costituendo - dal punto dì vista dell'On. SGARBI - un'obiettiva dimostrazione della volontà persecutoria. Né, a sostegno della conclusione contraria, può valere la notazione che il parlamentare ha poi espressamente affermato che «...ANDREOTTI è protetto da qualcuno, DELL'UTRI no ... », essendo questa all'evidenza una personale deduzione dello SGARBI (e come tale presentata al telespettatori), ricavata dai dati oggettivi esposti poco prima.
La medesima conclusione va adottata per le espressioni sopra riportate sub b), c), d) e g). Le prime due, pur essendo state pronunciate da persone diverse, si integrano fra loro, per la comunanza di argomento e di scopo dimostrativo.
Le stesse considerazioni possono valere per le espressioni con le quali l'On. DELL'UTRI ha tacciato di falsità le prove addotte dal pubblico ministero a suo carico, giungendo ad affermare che le prove false erano state «costruite» dagli stessi magistrati, anche personalmente tacciati di «falsità» e quelle espressioni con le quali lo stesso ha sostenuto che il «pentito» Giacomo CIRFETA era stato arrestato perché aveva fatto «rivelazioni» a lui favorevoli.
Trattasi, all'evidenza, di affermazioni che concernono il merito dell'accusa elevata a carico del DELL'UTRI, espresse - le prime - dopo che nella trasmissione era stata data lettura di un verbale di dichiarazioni effettuate da un collaboratore di giustizia al pubblico ministero; come tali esse pure rientrano nell'esercizio delle funzioni parlamentari, perché corrispondenti alla difesa che lo stesso DELL'UTRI sarebbe stato ammesso a compiere nel dibattito parlamentate.
Peraltro, se è vero che nella prassi instauratasi l'organo parlamentare, come già detto sopra, è chiamato a valutare la sussistenza del c.d. fumus persecutionis e non anche la fondatezza dell'accusa elevata a carico del parlamentare, è però innegabile che siano ugualmente pertinenti al thema decidendum gli argomenti che mirano a sostenere l'innocenza dell'incolpato attraverso la critica rivolta tanto agli atti di indagine quanto all'operato dei magistrati del pubblico ministero, con l'indicazione dei fatti che possono costituire dimostrazione della sussistenza di un intento tento persecutorio. Oltretutto, per quanto siano gravi obiettivamente diffamatorie le espressioni proferite dall'On. DELL'UTRI nei confronti dei magistrati, si osserva che le stesse erano strettamente attinenti alle prove addotte a suo carico.
Dunque, valgono anche a questo proposito le considerazioni svolte poco sopra circa la necessità di giungere a siffatta conclusione, per l'impossibilità di apprezzare la fondatezza o anche la sola verosimiglianza del fatto specifico attribuito ai querelanti (ossia, l'avere scientemente costruito prove false e scientemente chiesto l'arresto del CIRFETA per nuocere alla difesa dell'On. DELL'UTRI). [...]
Però, alle medesime conclusioni non si può pervenire per le altre espressioni proferite dall'On. DELL'UTRI e dall'On. SGARBI nel corso della trasmissione.
È pur vero che tutte le affermazioni di cui si tratta erano dirette, in ultima analisi, a sostenere la sussistenza del fumus persecutionis in pregiudizio dell'On. DELL'UTRI; conformemente alla giurisprudenza costituzionale sopra citata, non sono però assistite da copertura costituzionale quelle espressioni che tale obiettivo perseguono soltanto in via del tutto indiretta e mediata, mediante l'indirizzo di semplici invettive o la rappresentazione di fatti determinati privi di relazioni dirette con il procedimento riguardante il DELL'UTRI.
In particolare: l'espressione citata sub a) proferita dall'On. DELL'UTRI, per cui la procura di Palermo esprimerebbe la «... Antimafia che si comporta in una maniera che si può assimilare a quell'altra... », effettivamente, possiede una carica diffamatoria, perché nel contesto discorsivo (peraltro un po' confuso) in cui è stata pronunciata e che verteva sulla contrapposizione dialettica tra «mafia» e «antimafia», innegabilmente si presta a essere intesa quale assimilazione dell'«antimafia» ai comportamenti tipici della «mafia».
Assimilazione che il DELL'UTRI ha ricollegato, nello specifico, al fatto che la procura di Palermo aveva posto le sue attenzioni investigative sulla sua persona, con ciò compiendo un «errore di partenza». Però, al di là della protesta di innocenza che fa da premessa all'intero discorso, l'espressione in esame non ha alcuna relazione con la dimostrazione di un eventuale intento persecutorio nei suoi confronti. Questa, se certo può essere sostenuta indicando fatti obiettivi o anche formulando giudizi di valore, non può però venire supportata da semplici invettive che, prive di un qualche apporto alla logica argomentativa del discorso, abbiano l'unico effetto di screditare i suoi destinatari. Pertanto, non sussistendo alcun collegamento logico con gli atti di funzione parlamentare sopra indicati, l'espressione in esame non può godere della copertura costituzionale dell'articolo 68 Cost. Non rientra nell'esercizio delle funzioni parlamentari l'espressione proferita dall'On. SGARBI, che fa riferimento al caso della morte del giudice LOMBARDINI; precisamente, nell'ambito di un'accesa discussione con l'On. VENDOLA (che si doleva che nella trasmissione l'On. DELL'UTRI avesse offeso i magistrati della procura di Palermo), l'On. SGARBI ribatteva che «Allora ti dirò che tu difendi... io guarda, io voglio i giudici che hanno procurato il sangue di LOMBARDINI, io ho il sangue, quello è morto... il sangue dei giudici» e poi ancora «Perché non apriamo allora il caso del sangue...».
Giudica lo scrivente che effettivamente, come sostenuto dai querelanti, le espressioni dell'On. SGARBI si prestino a ricollegare il suicidio del dott. LOMBARDINI all'operato dei magistrati della Procura di Palermo, anche a motivo della notorietà di tale evento, intervenuto dopo che il magistrato era stato interrogato dal dott. CASELLI e dai suoi collaboratori.
Ma siffatto collegamento non ha alcuna attinenza con alcun atto parlamentare (né i difensori ne hanno indicati) ed era del tutto estraneo anche all'argomento sul quale verteva la trasmissione. Invero, la vicenda della morte del dott. LOMBARDINI era del tutto estranea alle indagini concernenti l'On. DELL'UTRI e, dunque, essa esula del tutto dal dibattito parlamentare previsto in relazione alla richiesta di autorizzazione all'arresto di quest'ultimo.
Piuttosto, l'argomento ha una incidenza trasversale nell'argomento oggetto della trasmissione, mirando a portare l'attenzione dei telespettatori su di un fatto dal quale - secondo l'On. SGARBI - deriverebbe un grave disdoro all'operato dei magistrati della procura, gli stessi che avevano chiesto di arrestare l'On. DELL'UTRI. Dunque, il tema è stato introdotto solo perché utile - nella contrapposizione verbale all'On. VENDOLA - a sostenere che quei magistrati sarebbero abbietti a tal punto da non meritare alcuna difesa.
Per le espressioni in esame, la condotta degli indagati non è scriminata dall'esercizio del diritto di critica.
Invero, non può qualificarsi critica un semplice insulto, ossia, l'attribuzione di una qualità personale - ovviamente, di segno negativo - che non abbia alcuna relazione con un fatto o con uno specifico comportamento del suo destinatario.
La relazione, semmai, corre fra il movente dell'espressione in esame e le ragioni per le quali l'On. DELL'UTRI riteneva di essere ingiustamente perseguitato dai magistrati della procura, ma non tra l'espressione e la condotta di questi ultimi. In altri termini: un conto é la critica, per quanto dura o rozza, all'operato dei magistrati in un determinato caso o anche in via più generale, alla loro prassi; altro è insultare i magistrati della procura solo perché si ritiene di essere perseguitati da loro.
Né la critica può comportare l'attribuzione di fatti determinati, senza al contempo indicare un qualche elemento probatorio a supporto della propria asserzione. Invero, l'esistenza di un nesso fra il comportamento dei magistrati della procura di Palermo e il suicidio del dott. LOMBARDINI è suscettibile di prova positiva e dunque, se da un canto l'On. SGARBI non era certo tenuto in quella sede a fornire una prova rigorosa della validità delle sue asserzioni, va però riconosciuto che l'argomento è stato evocato per iniziativa spontanea ed esclusiva dello stesso On. SGARBI, che non ha poi addotto alcun elemento idoneo a suffragare - nemmeno in via sommaria o ipotetica - la validità della sua asserzione.
Il comportamento dell'On. DELL'UTRI non è scriminato dall'esercizio del diritto di difesa. Va premesso che, in linea di principio, il diritto di difesa si esercita nella sede giudiziaria. Tuttavia, va riconosciuto che la semplice pendenza di un procedimento penale a carico può costituire fonte di discredito all'immagine dell'indagato, in particolare quando questi rivesta cariche pubbliche o svolga attività politica. In siffatti casi, anche il diritto di difesa deve potere essere più ampio, dovendosi necessariamente ammettere la legittimità di un suo esercizio con un'ampiezza pari, quantomeno, alla pubblicità negativa che gliene deriva al di fuori della sede processuale.
Ciò posto, la difesa può venire esercitata negando la fondatezza delle accuse, la veridicità e la conducenza delle prove addotte a carico, la linearità della condotta degli investigatori. Profili questi che ricorrono nella autodifesa che l'On. DELL'UTRI ha condotto nel corso della trasmissione di cui si tratta e, successivamente, nella sede parlamentare. È dunque fondato il rilievo dei difensori, secondo i quali il loro assistito nella trasmissione ha esercitato il diritto di difesa.
Però, l'esercizio di tale diritto - in concreto - non viene in considerazione in questa sede soltanto perché tutti gli atti che ne sono effettiva espressione già sono stati giudicati coperti dalla garanzia costituzionale sancita dall'articolo 68 Cost., prevalente perché più favorevole all'interessato.
Non può invece rientrare nell'esercizio di tale diritto l'invettiva di cui si tratta, la quale non ha alcun contenuto argomentativo idoneo a dimostrare l'infondatezza delle accuse mosse all'On. DELL'UTRI. [...].
Viceversa, nei confronti degli indagati On. Marcello DELL'UTRI e On. Vittorio SGARBI la richiesta di archiviazione - con esclusivo riferimento alle espressioni indicate sub a) ed e) - non può essere accolta; non apparendo necessario alcun approfondimento investigativo, gli atti vanno restituiti al pubblico ministero, che dovrà formulare l'imputazione entro dieci giorni dalla ricezione del presente provvedimento».
Si sono voluti riportare integralmente ampi tratti della decisione del GIP, sia perché essa contiene alcune interessanti riflessioni sull'istituto dell'insindacabilità parlamentare che torneranno utili anche per l'interpretazione dell'articolo 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003 recentemente entrata in vigore; sia perché essa ha ridotto drasticamente l'oggetto dell'esame della Giunta. Questa infatti, a seguito dell'archiviazione parziale, si è trovata a potersi e a doversi pronunciare solo sui capi d'imputazione di cui alle lettere a) per Dell'Utri ed e) per Sgarbi, giacché per gli altri è venuta meno la materia per una decisione della Camera.
Al riguardo alcuni componenti la Giunta hanno ritenuto di doversi appiattire sulle conclusioni del magistrato e quindi di pronunciarsi per la sindacabilità. A parere della maggioranza invece sia l'affermazione di una pretesa equivalenza dell'antimafia con la mafia che quella relativa all'episodio del suicidio di Lombardini possono tranquillamente essere ricondotti all'alveo dell'insindacabilità. È chiaro infatti che - con riguardo alla frase contestata al senatore Dell'Utri - l'analogia «antimafia-mafia» è stato un mero artifizio retorico-argomentativo, il quale, non solo trova un illustre precedente storico nella famosa invettiva di Sciascia sui c.d. professionisti dell'antimafia, ma si cala nello stesso contesto dialettico delle altre affermazioni dell'onorevole Dell'Utri che pure il GIP ha ritenuto scriminate. Quanto invece alla frase del deputato Sgarbi, non si può fare a meno di ricordare che lo stesso Sgarbi, nell'estate del 1998, presentò un'interrogazione proprio sull'episodio relativo al giudice Lombardini (cfr. l'atto n. 3-02843 - XIII legislatura, che per comodità qui si allega in copia). Tanto ciò è vero che per un processo penale a Bologna, in cui lo Sgarbi era chiamato a rispondere per affermazioni analoghe sul suicidio del magistrato sardo, la Giunta all'unanimità ha concordato per l'insindacabilità (doc. IV-quater n. 73) e l'Assemblea della Camera ha approvato la proposta il 27 maggio 2003.
Per tali motivi, a maggioranza, la Giunta ha deliberato - con due distinte votazioni - nel senso che i fatti per i quali è in corso il procedimento concernono opinioni espresse da membri del Parlamento nell'esercizio delle loro funzioni.
Sergio COLA, relatore
Allegato
ogni membro del Parlamento ha il dovere di rappresentare la Nazione e di esercitare le sue funzioni senza vincolo di mandato;
secondo dell'interrogante, fino a che non emergano prove contrarie, può ritenersi che la terribile morte del dottor Luigi Lombardini, procuratore della Repubblica circondariale di Cagliari, possa essere stata causata dalle modalità persecutorie con cui il suo interrogatorio è stato condotto per oltre sei ore da cinque funzionari dell'ufficio del pubblico ministero presso il tribunale di Palermo, Gian Carlo Caselli, Vittorio Aliquò, Giovanni Di Leo, Antonio Ingroia e Lia Sava, e dalle modalità della perquisizione condotta nel suo ufficio all'interno del palazzo di giustizia di Cagliari, avviata senza alcun riguardo per il naturale stato di stress creato, con sei ore di interrogatorio, in un magistrato di 63 anni, anche duramente provato dalla diffusione, da parte di Caselli di dichiarazioni sulla asserita esistenza «non di teoremi ma elementi concreti» (La Stampa, 12 agosto 1998, p. 3), con ciò creando nel dottor Lombardini la sensazione che, comunque, la sua protesta di innocenza sarebbe stata inutile;
nelle modalità di conduzione dell'interrogatorio e di avvio della perquisizione secondo l'interrogante potrebbe pertanto ravvisarsi la fattispecie, prevista dall'articolo 580 del codice penale, del «...determina(re) altri al suicidio o rafforza(re) l'altrui proposito di suicidio, ovvero ..agevola(rne) in qualche modo l'esecuzione..» (in tale caso il codice penale prevede una pena da cinque a dodici anni e l'arresto, in flagranza, è obbligatorio);
nella migliore delle ipotesi, comunque, Caselli e gli altri secondo l'interrogante potrebbero aver materializzato i comportamenti previsti dall'articolo 613 del codice penale, in base al quale è punito con la reclusione fino a cinque anni «chiunque.. con qualsiasi... mezzo pone una persona... in stato di incapacità di intendere e di volere...» con ciò provocandone il suicidio;
per le ragioni esposte, l'interrogante ritiene che i cinque funzionari dovrebbero essere immediatamente sospesi dal servizio, dallo stipendio e dalla funzione, onde evitare che possano essere nuovamente utilizzati metodi secondo l'interrogante persecutori e che le prove relative alla morte del dottor Lombardini possano subire un inquinamento, cosa che l'interrogante ritiene possibile dati i poteri dei magistrati sulla polizia giudiziaria e i loro collegamenti anche con forze politiche (dimostrati dal recente «indottrinamento» di ben trentasei membri del Parlamento operato da Caselli);
l'interrogante ritiene altresì che le autorità competenti dovrebbero emettere immediatamente un provvedimento di cattura contro i cinque funzionari, in modo che gli stessi vengano immediatamente e separatamente interrogati sull'accaduto e, in particolare, su chi, per quali ragioni, con quali finalità (evidentemente estranee alla corretta amministrazione della giustizia), abbia deciso per l'interrogatorio e per la perquisizione e abbia fatto ventilare la possibilità di «arresto per la mancata collaborazione» (tema da sempre pubblicizzato dalla cultura «inquisitoria» di Caselli e degli altri magistrati), con ciò creando il clima terrorizzante che secondo l'interrogante potrebbe aver causato la morte di Lombardini;
le immagini di Caselli che incede nei corridoi del palazzo di giustizia di Cagliari, circondato da una scorta di pretoriani, secondo l'interrogante riproducono in maniera inquietante, visivamente, quelle contenute nella trasposizione cinematografica del romanzo «Il nome della rosa», con l'arrivo dell'inquisitore non per far luce su qualcosa ma per provare sicuramente la colpa di chi ha individuato come vittima della sua azione -:
con quali mezzi, con quanti uomini di scorta, con quali modalità, quando, i cinque funzionari del pubblico ministero del tribunale di Palermo siano arrivati a Cagliari; se siano stati usati mezzi militari o dell'amministrazione dello Stato, da chi eventualmente autorizzati al trasporto di un numero di funzionari spropositato per un banale adempimento istruttorio, fra l'altro legalmente differibile a dopo il 15 settembre per la sospensione dei termini e delle attività processuali, in questo periodo, in assenza di detenuti; quali siano le ragioni di un simile «spiegamento di forze» che, da solo, produce un effetto terrorizzante sui cittadini i quali, anche se inquisiti, sono sempre assistiti da una presunzione di innocenza costituzionalmente garantita;
se non intenda intraprendere immediatamente una iniziativa di tipo disciplinare in relazione a quanto sopra esposto, in particolare perché sia disposta l'immediata sospensione dal servizio, dallo stipendio e dalla funzione di Caselli, Aliquò, Di Leo, Ingroia e Sava;
se non si ritenga di dover verificare, al fine di eventuali ulteriori iniziative di competenza, le ragioni per le quali non si è proceduto, e da parte di chi, all'immediato arresto dopo la perpetrazione da parte di Caselli e dei suoi collaboratori dei fatti descritti;
quali iniziative o provvedimenti di competenza si intendano adottare per garantire che in futuro simili fatti non si debbano più ripetere.(3-02843)